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Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine - Fonte: New Tuscia |
L’attentato di via Rasella, e la strage delle Fosse Ardeatine
che ne fu la conseguenza, posero allora alla coscienza civile, e lo
pongono tuttora allo storico, il problema d’un giudizio sulla
legittimità morale dell’attentato, sulla ammissibilità della
rappresaglia, sulla responsabilità personale di chi volle l’attentato e
di chi volle la rappresaglia. L’attacco al reparto tedesco che ogni
pomeriggio, puntualmente, percorreva la via Rasella, una parallela di
via Tritone in pieno centro di Roma,
era stato preparato da un GAP comunista con scrupolosa cura, e con un
controllo minuzioso dei tempi. L’incarico di collocare le due bombe -
l’una dodici chili di tritolo, l’altra sei chili - fu affidato a Rosario
Bentivegna, studente in medicina, che sarebbe stato aiutato, al momento
della fuga, da Carla Capponi. Erano entrambi giovani ma sperimentati
gappisti, cimentatisi in imprese contro il cinema Barberini, e contro
Regina Coeli. In una via laterale si sarebbero appostati altri
partigiani, tra essi Franco Calamandrei, pronti a segnalare a Bentivegna
il sopraggiungere della colonna di soldati e a sparare contro i
tedeschi dopo lo scoppio per accrescere il panico. Bentivegna si
travestì da spazzino, pose su un carretto due bidoni con l’esplosivo, e
rimase in attesa.
Quel giorno i tedeschi erano in ritardo. Attesi per le 15, fecero udire
il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Calamandrei si tolse il
cappello (era il segnale convenuto), Bentivegna accese la miccia e si
allontanò verso via Quattro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi,
che lo coprì con un impermeabile. Quella che stava marciando era la lla
compagnia del terzo battaglione del Polizei Regiment Bozen,
territoriali altoatesini che, troppo anziani per essere mandati al
fronte, erano stati destinati al servizio d’ordine in città.
L’esplosione fu apocalittica, e seguita da raffiche di mitra. Il leader
comunista Giorgio Amendola discuteva in quel momento con De Gasperi, in
un edificio non lontano. A De Gasperi, che si domandava cosa potesse
essere quella esplosione, Amendola rispose asciutto «deve essere una
delle nostre» e l’altro, con un blando sorriso: «Dev’essere così. Voi
una ne pensate e mille ne fate». Poi ripresero a occuparsi della crisi
del CLN, con Bonomi che minacciava di dimettersi per i contrasti che lo
dilaniavano.
Gli ordigni esplosivi fecero strage. Trentadue militari tedeschi
rimasero sul terreno insieme a un bambino e a sei civili italiani, che
per fatalità erano in quei pressi (il comando partigiano affermò poi che
i civili erano stati vittime della sparatoria forsennata cui i tedeschi
si erano abbandonati, nella prima reazione all’attentato). Il decesso
d’un ferito portò poi il totale delle vittime tedesche a 33.
Sopraggiunsero in breve il comandante militare di Roma generale
Maeltzer, il colonnello Dollmann e il console Moellhausen. Congestionato
per l’emozione, e anche perché veniva da un lungo e copioso pranzo
all’Hotel Excelsior, Maeltzer urlava, gli occhi pieni di lacrime, e
inveiva contro Moellhausen e la sua politica «morbida». Hitler,
avvertito al suo Quartier generale (era malandato in salute, e pochi
giorni prima aveva dovuto ordinare l’occupazione dell’Ungheria per
timore di un «tradimento all’italiana» dell’ammiraglio Horthy), dispose
che fosse raso al suolo un intero quartiere, e che venissero passati per
le armi cinquanta italiani per ogni morto tedesco. Kesselring, in
ispezione al fronte, era introvabile, ma quando tornò ritenne eccessiva
la misura della rappresaglia. Vi fu una sorta di patteggiamento tra
Kappler - il maggiore delle SS cui sarebbe toccato il compito di trovare
gli ostaggi da sacrificare - Kesselring e il Quartier generale del
Fùhrer, e la proporzione di dieci a uno fu accettata, e ritenuta da
Kesselring equa, tanto che alle 7 del giorno successivo ripartì per il
fronte. Dollmann a sua volta andò a visitare padre Pfeiffer, che aveva
accesso al Papa e lo pregò di intervenire perché si preparava qualcosa
di grave. Dal Vaticano fu fatta una telefonata all’ambasciata tedesca,
per sapere se fossero in vista esecuzioni, e la risposta fu evasiva. La
Santa Sede stava portando a conclusione la trattativa con i tedeschi per
la proclamazione di Roma città aperta, e non aveva interesse a rompere i
ponti.
Kappler si mise al lavoro, quella sera stessa, per compilare l’elenco delle vittime; e Moellhausen (l’episodio è riportato in Roma 1944
di Raleigh Trevelyan) lo trovò che accarezzava un cane ammalato mentre
allineava i nomi. Anche includendo tutti gli ebrei disponibili, all’alba
Kappler aveva non più di 223 nomi (su quattro soltanto era già stata
pronunciata una condanna a morte). Chiese aiuto al questore Caruso e a
Koch, che interpellarono Buffarini Guidi, ministro dell’Interno di Salò,
casualmente a Roma e alloggiato nell’Hotel Excelsior. Il ministro,
svegliato di soprassalto e ansante, assentì. «Sì sì dateglieli sennò
chissà cosa potrebbe succedere.» Ma anche con l’aiuto di Caruso la lista
rimaneva incompleta, e così ci si rivolse a Celeste di Porto perché
procurasse altri ebrei. L’orribile «pieno» fu così raggiunto (anzi, come
si vide poi, risultò sovrabbondante).
Per la legge di guerra il dubbio «onore» di sterminare gli ostaggi
sarebbe toccato al battaglione Bozen, ma il maggiore che lo comandava,
Dobrich, rifiutò perché «i miei uomini sono vecchi, alcuni molto
religiosi, altri pieni di superstizioni». Lincarico passò alle SS di
Kappler. Fu superato anche un problema di macabra logistica. Dove
ammassare tanti corpi? Un ufficiale del genio suggerì delle cave di
pozzolana sulla via Ardeatina, da lui visitate alla ricerca di rifugi
antiaerei. Eseguita l’operazione, l’ingresso sarebbe stato fatto
saltare, trasformando le cave in una fossa comune.
Cinque alla volta, i prigionieri tratti da via Tasso e da Regina Coeli –
molti convinti che li si stesse avviando al lavoro forzato in Germania –
furono fatti entrare e finiti con colpi alla nuca. Gli ufficiali erano
tenuti a dare il buon esempio sparando anch’essi, e Kappler rincuorò i
carnefici, alcuni dei quali assaliti da nausea e disgusto, facendo fuoco
personalmente e distribuendo cognac in abbondanza. Alle otto di sera –
24 marzo – tutto era finito. 335 corpi – 5 in più di quelli che la
proporzione di dieci a uno avrebbe sia pure crudelmente legittimato –
erano accatastati nelle cave. Caddero alle Fosse Ardeatine, con un gran numero di ebrei,
alcune tra le più luminose figure della Resistenza: il colonnello
Montezemolo, il generale Simoni, il generale Fenulli già vice comandante
della divisione Ariete, i comunisti Valerio Fiorentini e Gioacchino
Gesmundo, gli azionisti Armando Bussi e Pilo Albertelli, il colonnello
dei carabinieri Frignani, alcuni giovanissimi, quasi adolescenti. Il 25
marzo i quotidiani pubblicarono un comunicato che parlava della «vile
imboscata» ordita da «comunisti badogliani» e annunciava la
rappresaglia, «già eseguita». Quando si seppe cos’era avvenuto Carla
Capponi provò secondo quanto essa stessa ha detto «un’angoscia, una
disperazione terribile» e Bentivegna fu assalito «da ira dolore sdegno
per la vigliaccheria di una rappresaglia simile». Capi ed esecutori
materiali già capivano che l’immane tragedia non sarebbe stata
addebitata ai soli tedeschi, e Amendola scrisse, in tono di
autogiustificazione: «Noi partigiani combattenti avevamo il dovere di
non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la
morte di tanti innocenti… Avevamo solo un dovere: continuare la lotta».
Ma EOsservatore Romano, pur nel suo linguaggio circospetto, ricordò le
oltre trecento «persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti
all’arresto». Il che non piacque né ai tedeschi né ai gappisti.
Due fatti sono certi: il primo è che non vi fu alcun invito delle
autorità tedesche perché gli autori materiali dell’attentato si
costituissero. La ritorsione terribile fu ordinata a tambur battente, e
attuata in segreto. Il secondo è che i gappisti non potevano pensare che
la strage, progettata ed eseguita mentre si negoziava per proclamare
Roma città aperta, e rivolta contro un reparto non impegnato nei
combattimenti, restasse senza conseguenze per gli sventurati, ebrei e
non ebrei, che erano in mani naziste e fasciste. Sul piano militare,
l’azione avrebbe potuto avere un significato, sia pure simbolico – era
chiaro che Roma sarebbe stata liberata entro breve termine – solo se si
fosse collegata a una insurrezione cittadina. Roma non prese le armi, né
allora né quando le truppe alleate furono a distanza di pochi
chilometri. Le divisioni di Kesselring poterono ripiegare in ordine. I
morti delle Ardeatine erano stati sacrificati alla ragione politica, al
proposito di dimostrare, per fini appunto politici, che i tedeschi se ne
andavano non soltanto perché incalzati dagli anglo-americani, ma perché
scacciati dalla popolazione. Questo scopo fallì. In un libro (Achtung
Banditeti!) pubblicato di recente Bentivegna ha rivendicato la
legittimità, anche morale, dell’attentato, aggiungendo: «E probabile che
di fronte alla sconvolgente minaccia di quel delitto (la rappresaglia,
N.d.A.) qualcuno di noi, o forse tutti, avremmo preferito morire al
posto dei martiri delle Ardeatine. È veramente diffìcile dire dopo se ci
saremmo spontaneamente presentati ove ce ne fosse stata offerta prima
l’opportunità».
Indro Montanelli - Mario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983
Nell’Italia della guerra civile, un episodio in particolare accese le
discussioni sulla legittimità dell’uso della violenza da parte dei
resistenti: la strage delle Fosse Ardeatine, dove furono fucilati 335
ostaggi come rappresaglia a un attentato partigiano che aveva provocato
33 morti e decine di feriti tra le file del SS Polizei Regiment Bozen
(Bolzano).
Nelle fila dei resistenti, si aprirono subito intense discussioni sulle
ragioni dell’attentato e fece esplodere i dissidi all’interno del CLN. I
partiti che lo componevano avevano infatti concezioni differenti della
lotta armata. Ad ogni buon conto, i comunisti decisero di assumersi
tutta la responsabilità dell’azione. Un comunicato pubblicato il 30
marzo sull’Unità clandestina ribadiva con durezza: «Contro il nemico che
occupa il nostro suolo, saccheggia i nostri beni, provoca la
distruzione delle nostre città […] affama i nostri bambini, razzia i
nostri lavoratori, tortura, uccide, massacra, uno solo è il dovere di
tutti gli italiani: colpirlo, senza esitazione, in ogni momento, dove si
trovi, negli uomini e nelle cose ]…]. Le azioni dei GAP [Gruppi
d’azione patriottica] saranno sviluppate fino all’insurrezione armata
nazionale per la cacciata dei tedeschi dall’Italia, la distruzione del
fascismo, la conquista dell’indipendenza e della libertà.» <30
In effetti, la strategia comunista metteva consapevolmente nel conto le
rappresaglie naziste contro la popolazione civile, anzi, individuava
proprio in esse un efficace strumento per accrescere l’ostilità degli
italiani nei confronti dell’occupante.
La strategia comunista era stata peraltro già chiarita qualche mese
prima da Luigi Longo, comandante delle Brigate Garibaldi. «Il criterio
se il nemico con le sue rappresaglie e la sua reazione ci potrà portare
colpi ancora più duri, non può essere preso in considerazione: è
l’argomento di cui si servono gli attendisti, ed è sbagliato, non
perché, caso per caso, il loro calcolo non possa corrispondere a verità,
anzi in astratto il loro calcolo è sempre giusto, perché è evidente che
se il nemico vuole, caso per caso ci può sempre infliggere più perdite
di quante noi ne possiamo infliggere a lui. Ma il fatto è che la
convenienza o meno della lotta… si deve valutare sempre e solo nel
quadro generale politico e militare della lotta contro il nazismo e il
fascismo: il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi
fucilati, ma si devono considerare tutte le misure di sicurezza che il
nemico deve prendere, tutta l’atmosfera di diffidenza e di paura che
questo crea nelle file nemiche, lo spirito di lotta che queste azioni
partigiane esaltano nelle masse nazionali.» <31
Se il partigiano Franco Calamandrei aveva scritto nel suo diario del
«senso di sovrumana fatica all’idea di poter mettere in moto il popolo.
Una secolare inerzia che stenta a riscuotersi… una gigantesca ruota
arrugginita» <32, acuire lo scontro avrebbe inoltre significato,
nell’ottica comunista, mobilitare energie popolari fino a quel momento
restate inattive.
Si presentava dunque come impossibile da sciogliere il dilemma tra la
volontà di non mostrare alcun cedimento di fronte al nemico e il
desiderio di non provocare vittime innocenti. Quest’ambiguità, che il
leader del Partito d’azione Ferruccio Parri sintetizzò come «un non
risolto e forse non solvibile problema di responsabilità» <33,
accompagnò la vita di gran parte delle formazioni combattenti
antifasciste.
[NOTE]
30 Cfr F. Malgeri, La Chiesa di fronte alla RSI, in La Repubblica Sociale Italiana, pp. 296-297.
31 Lettera di L. Longo al CLN di Roma, 8 gennaio 1944, cit. in Idem, I
centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1973,
pp. 295 ss.
32 F. Calamandrei, La vita indivisibile, cit., p. 131.
33 Cit. in C. Pavone, Una guerra civile, cit., p. 475.
Angelo Ventrone, «Italia 1943-1945: le ragioni della violenza», Amnis, 30 gennaio 2015
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Roma, 7 dicembre 1951. Bentivegna viene arrestato per “blocco stradale” a seguito di una manifestazione di protesta contro la visita di Dwight Eisenhower in Italia - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit. infra |
<1 «Di una egual luce cristiana risplendono le fronti dei martiri di Belfiore e delle Fosse Ardeatine».
Con queste parole il ministro della Guerra, Alessandro Casati, apriva il
suo discorso al Vittoriano per la Giornata del soldato e del
partigiano, inaugurata il 18 febbraio 1945 <2.
Su quello stesso colle del Campidoglio che già «una sera dei primi del
marzo 1849» aveva visto «entrare per l’antica porta, nella città del suo
sogno, Giuseppe Mazzini» <3, la strage delle Fosse Ardeatine, uno
dei maggiori crimini di guerra di tutta l’Europa occidentale, compiuta a
Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe occupanti tedesche, trovava pieno
spazio nella grande tradizione commemorativa dei caduti di tutte le
guerre d’Italia <4.
Il riconoscimento dei nuovi patrioti, «figli in armi» cui il popolo
italiano aveva scelto di affidare «la tutela della propria indipendenza e
dignità» <5, era del resto garantito dal conferimento della medaglia
d’oro alla bandiera del Cvl, benedetta con rito cattolico da un
cappellano partigiano, proprio sulla scalinata del Campidoglio e portata
dinanzi al sacello del Milite Ignoto da Arrigo Boldrini, comandante
della XXVIII brigata Garibaldi «Mario Gordini».
Il «tacito e solenne patto tra le Forze armate, cui - si diceva -
infondono vita nuova e sangue nuovo gli eroici partigiani», assumeva
così una funzione pedagogica essenziale: quella di reintegrare
l’esperienza della guerra irregolare partigiana nel quadro della più
rispettabile tradizione bellica nazional-popolare garibaldina e
mazziniana, risollevando nel contempo il prestigio delle forze armate
italiane in Europa, per mostrare l’estraneità dell’Italia alla guerra
fascista e al nazionalismo di regime.
Non è un caso che nel suo discorso d’apertura alla cerimonia, il
presidente del Consiglio dei ministri Ivanoe Bonomi avesse colto
l’occasione per ricordare quanto l’Italia fosse stato il «primo paese
d’Europa che in piena occupazione tedesca aveva avuto il coraggio morale
e fisico di ribellarsi apertamente all’oppressore nazista», già
acerrimo nemico risorgimentale, e quanto gli italiani potessero
dimostrare, a testa alta, la loro estraneità al regime di Mussolini.
Dall’8 settembre 1943 ad oggi – aveva detto – una massa imponente di
fatti, una successione ininterrotta di eroismi, una serie di sacrifici e
di martiri, attestano che l’Italia, appena sciolta dai durissimi
vincoli che le impedivano ogni movimento, ha ritrovato subito la sua
antica anima e ha operato secondo la sua antica tradizione. È questa una
prova […] che la guerra impostaci dal fascismo non era radicata nel
cuore del popolo, talché, appena questo cuore ha potuto battere
liberamente secondo le sue inclinazioni, il popolo, in tutti i suoi
strati, si è trovato accanto al nemico di ieri e contro coloro che si
voleva coattivamente fossero i suoi Alleati […]. Una tradizione di
martirio e di sacrificio si è riaperta in Italia per affermare che quel
meraviglioso Risorgimento italiano […] non è ancora chiuso e rinverdisce
e fiorisce nel nuovo clima eroico della Nazione <6.
L’evento promosso dal ministro dell’Italia occupata Mauro Scoccimarro
nell’anniversario del 18 febbraio 1861, a ricordo della prima seduta del
Parlamento nazionale, riunito a Torino dopo l’Unità d’Italia,
festeggiava così la fine di quel «vizio d’origine» dello Stato,
derivante dal fatto d’essersi costituito al di fuori di una reale
mobilitazione e partecipazione delle masse popolari. Per questo la
rinascita del paese non poteva che essere simboleggiata da quei
partigiani che, «in una sfida superba al secolare nemico, dall’esempio
dei martiri e degli eroi del passato», avevano tratto «incitamento per
vincere e morire, innalzando nella lotta la bandiera del Risorgimento»
<7.
[…] Al di là dell’esaltazione dei patrioti del nuovo Risorgimento, le
diverse interpretazioni dell’esperienza resistenziale portavano alla
luce una «memoria divisa» in antitesi coi miti proposti dai partiti
politici antifascisti e con l’immagine onorevole del combattente in
armi.
Pur in debito coi partigiani per aver permesso all’Italia di poter
«rientrare a testa alta nel consorzio delle libere e civili Nazioni», e
riscattare «il suo buon nome dalla ignominia del ventennio fascista e
soprattutto dalla vergogna della guerra a fianco della Germania nazista»
<24, certamente non si poteva negare che una parte del paese avesse
difficoltà a riconoscersi nel carattere «rivoluzionario» della guerra
partigiana e a condividere la scelta della lotta armata contro il
fascismo internazionale.
Il giudizio negativo sulla guerra di guerriglia, giudicata come
irregolare e il concetto stesso di violenza illegittima in rapporto ai
movimenti di resistenza, non faceva altro che dimostrare quanto il paese
faticasse a riconoscersi in una guerra combattuta per libera scelta in
base all’«etica della convinzione» che aveva spinto i partigiani ad
agire secondo una scelta dettata dalla coscienza e non sulla base
«dell’impunità garantita ai militari che, invece, avevano operato nel
monopolio della violenza legale esercitata dallo Stato» <25.
La memoria conflittuale nata attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e
all’azione partigiana di via Rasella del 23 marzo 1944 può essere
considerata il massimo esempio di questa contro-narrazione.
Il processo per l’azione partigiana messa a punto dai Gap centrali, che
nell’anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento avevano
ucciso in via Rasella 33 soldati altoatesini dell’XI compagnia del III
Battaglione SS-PolizeiRegiment Bozen, contribuì a cementare
nell’opinione pubblica proprio l’errato senso comune
dell’irresponsabilità dei partigiani.
Sobillati da una martellante campagna di stampa incentrata sulla
condanna morale dei «colpevoli sfuggiti all’arresto» <26 – come
«l’Osservatore Romano» definì i gappisti in un articolo apparso il 26
marzo 1944, appena due giorni dopo la strage – nel 1949 cinque familiari
delle vittime delle strage avrebbero intentato causa civile per
risarcimento danni proprio contro i partigiani, ritenuti responsabili
della reazione tedesca, sia pure in via indiretta, per non essersi
«presentati» al Comando tedesco di Roma, nonostante l’affissione di
manifesti nazisti che, si riteneva, avevano invitato gli «attentatori» a
costituirsi.
Complementare a questa teoria era invece l’esaltazione dell’olocausto di
altri eroi nazionali come il vicebrigadiere dei carabinieri Salvo
D’Acquisto, medaglia d’oro al valor militare, fucilato dalle SS il 22
settembre 1943 a Torre in Pietra di Palidoro. Il gesto del «purissimo
eroe», autoaccusatosi di un delitto mai commesso per salvare la vita a
22 ostaggi rastrellati dai nazisti a seguito dell’esplosione di una mina
in una caserma tedesca, divenne il Leitmotiv della retorica
antiresistenziale degli anni Cinquanta; il simbolo di una
contro-narrazione dei fatti basata sulla mancata condivisione delle
motivazioni etico-politiche che avevano ispirato la resistenza armata
dei Gap.
[…] Il significato di queste morti creava così una sorta di contro
narrazione mitica dei fatti legati alla «rappresaglia delle Cave
Ardeatine», definitivamente consacrata durante il processo celebrato nel
1948 dal Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS
Herbert Kappler, condannato all’ergastolo per l’eccidio del 24 marzo. Fu
in quell’occasione che si contestò a Rosario Bentivegna, il gappista
travestito da spazzino che aveva acceso la miccia dell’esplosivo in via
Rasella, di non aver «preso in considerazione [il fatto ] di
consegnar[s]i alle autorità tedesche» <29. Eppure era stato proprio
Kappler a dichiarare, dal banco degli imputati, di non aver voluto
avvertire nessuno
dell’imminente strage nel timore di una reazione dei partigiani <30.
Ma al di là del falso mito del Befehlsnotstand, dell’obbligo assoluto
per i militari della Wehrmacht e delle SS d’obbedire a qualsiasi ordine
superiore, pena la condanna a morte, per Kappler e gli alti comandi
dell’esercito tedesco occupante, combattere le formazioni partigiane tra
il 1943 e il 1945, aveva in realtà significato condurre una guerra
terroristica di tipo preventivo e intimidatorio, fatta di ritorsioni
contro la popolazione civile al puro scopo di spezzare il legame tra la
Resistenza e gli abitanti di un territorio. Una strategia che aveva
agito per mezzo del terrorismo diffuso, in nome della tattica meno
dispendiosa e più efficace per assicurarsi il controllo militare di un
territorio: non riuscendo a stanare le formazioni partigiane dalla
clandestinità e a sconfiggerle impegnandosi con esse in uno scontro
bellico regolare, seppur alla «macchia», la scelta era caduta sulla
ritorsione contro i civili, al fine di colpire l’habitat e attraverso di
esso di eliminare tutte le condizioni che avevano reso possibile
l’operatività e la sopravvivenza delle brigate partigiane <31.
Era questa la logica che nel marzo del 1944 aveva ispirato la decisione
di massacrare 335 uomini, in assoluto silenzio e in meno di 24 ore, nel
fondo di alcune cave di pozzolana abbandonate lungo la via Ardeatina.
Nonostante ciò, i temi del martirio cristiano e dell’olocausto per la
patria, tornavano in auge alla vigilia del processo che nel 1996, a più
di cinquant’anni di distanza dai fatti, avrebbe condannato all’ergastolo
l’ex capitano delle SS Eric Priebke per il massacro delle Ardeatine.
Incurante del fatto che Priebke fosse giudicato per crimini di guerra, e
non per aver eseguito una legittima rappresaglia, il senso comune sui
«fatti di Via Rasella» rimaneva ancorato alla retorica del «dovere
d’obbedienza agli ordini superiori», sebbene nessuna legge avesse mai
vincolato i membri dell’esercito tedesco a commettere massacri, secondo
quanto previsto dall’art. 47 del codice penale militare di guerra
tedesco <32. […]
[NOTE]
1 Questo saggio è la rielaborazione di alcuni capitoli della mia tesi di
laurea discussa con Vittorio Vidotto nell’anno accademico 2001-2002, Le
Fosse Ardeatine: dal massacro al mausoleo (1944-1996). La tesi ha vinto
la V edizione del Premio Pier Paolo D’Attorre, indetto dalla Fondazione
«Casa di Oriani» di Ravenna nel maggio 2004.
2 Le celebrazioni erano state precedute dalla Settimana del partigiano,
un evento organizzato a Modena, nel novembre 1944, per la raccolta
d’indumenti, viveri, pacchi dono e medicinali a favore di tutti i
«volontari della libertà» che continuavano a combattere a Nord. Cfr. il
telegramma del ministro dell’Italia occupata, Mauro Scoccimarro, al
Comitato centrale di liberazione nazionale, 30 gennaio 1945, in Archivio
centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Fondo CCLN, b. 1, fasc. 5. Una
generica descrizione della cerimonia è riportata anche in G. Schwarz,
La guerra non più nobile. Trasformazioni del lutto e destrutturazione
del mito della bella morte nell’Italia postfascista, in La morte per la
Patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, a
cura di O. Janz e L. Klinkhammer, Donzelli, Roma 2008, pp. 213-214.
3 Discorso di Alessandro Casati in 18 febbraio 1945. Giornata del
partigiano e del soldato, Ministero dell’Italia occupata, Roma 1945, p.
7.
4 Mi permetto di rinviare al mio saggio Il mito del secondo Risorgimento
nazionale. Retorica e legittimità della resistenza nel linguaggio
politico istituzionale: il caso delle Fosse Ardeatine, in «Annali della
Fondazione L. Einaudi», XXXVII, 2003, pp. 199-258.
5 Cfr. supra, nota 3.
6 Lettera di Bonomi al Ccln, 28 dicembre 1944, in ACS, Fondo CCLN, b. 1, fasc. 7.
7 Decreto legislativo luogotenenziale 15 febbraio 1945, in Medaglie
d’oro al valor militare, Gruppo medaglie d’oro al valor militare in
Italia, vol. I, Tipografia Imperiale, Roma 1965, p. 98. Il Cvl venne
riconosciuto come parte delle Forze armate dello Stato solo con legge 21
marzo 1958, n. 285.
24 Manifesto del Ccln per la Giornata del partigiano e del soldato, 12 febbraio 1945, in ACS, Fondo CCLN, b. 1, f. 5.
25 C. Pavone, Priebke e il massacro delle Ardeatine, l’Unità/IRSIFAR, Roma 1996, p. 43.
26 Cfr. Parole chiare per i romani, in «l’Osservatore Romano», 26 marzo 1944.
27 Rievocazione del sacrificio del vicebrigadiere dei carabinieri
medaglia d’oro al V. M. Salvo D’Acquisto, Palidoro, 24 maggio 1963, in
ANFIM, Dal XIX anniversario dell’eccidio Ardeatino (24 marzo 1963) al
XLV anniversario della Vittoria (4 novembre 1963), Ufficio stampa ANFIM,
Roma 1963, p. 82.
28 Cfr. la relazione per il monumento da eseguirsi al cimitero del Verano, in ACS, PCM (1951-1954), f. 11772, cat. 14.5.
29 R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, con M. Ponzani, Einaudi, Torino 2011, p. 254.
30 Su queste motivazioni il colonnello delle SS sarebbe tornato alla
vigilia della sua fuga dal carcere militare del Celio, nel 1977. Cfr.
Herbert Kappler nove mesi contro Roma. Il famigerato capo delle SS ha
scritto le sue memorie, Biblioteca dell’Istituto storico Germanico di
Roma (DHI-Rom), Fondo Susmel B: S. x. 7. 9. 4.
31 Fu la stessa strategia applicata in altre zone d’Italia come
l’Appennino bolognese, nei pressi di Monte Sole, in un massacro che
costò la vita a quasi ottocento persone, uccise in oltre cento diverse
località distribuite sul territorio. Cfr. L. Baldissara, P. Pezzino, Il
massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna 2009.
32 Cfr. G. Schreiber, Processo Priebke dall’8/5 al 16/7/96 - STATO
Maggiore Esercito, in Archivio audiovisivo ANFIM. Cfr. anche L.M.
Baiada, Da Via Rasella a Kabul, in «Il Ponte», LXVI, 5, maggio 2010, pp.
48-55.
Michela Ponzani, Per l’onore d’Italia, per l’unità
del popolo. Il mausoleo delle Fosse Ardeatine e la memoria della
Resistenza nell’Italia repubblicana, Academia.edu
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Carla Capponi in visita alle Fosse Ardeatine - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit. infra |
La memoria conflittuale nata attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e
all’azione di via Rasella del 23 marzo 1944 può essere considerata il
massimo esempio di questa contro-narrazione. Ricordando quell’azione di
guerra, molti anni dopo nel corso di un’intervista, Maria Teresa Regard
torna a rivendicare con orgoglio l’operatività militare delle formazioni
partigiane gappiste a sostegno dello sforzo bellico degli alleati, che
«avevano bisogno di avere delle azioni forti a Roma» e le «sollecitavano
[…] per sostenere l’insurrezione della città» <56.
Contro ogni distorsione della verità Rosario Bentivegna, Carla Capponi,
Franco Calamandrei e altri combattenti che prendono parte a quell’azione
di guerra, si sono del resto battuti fino alla fine, nel corso di una
lunga battaglia per stabilire la verità, contrastando ogni volta le
tante polemiche incentrate sul criterio dell’irresponsabilità dei
partigiani, accusati di non essersi costituiti ai nazisti per evitare la
rappresaglia delle Ardeatine.
“Assassini”, “vigliacchi”, “terroristi”, “stragisti”, “combattenti
illegittimi”, “Banditen”: utilizzando questa terminologia nel definire i
membri dei Gap, l’azione di via Rasella è presentata come un atto
isolato e sconsiderato; un atto compiuto da giovani irresponsabili che
in quegli anni hanno avuto voglia di giocare alla guerra, in una Roma
“città aperta” pacificata dall’intervento di Papa Pacelli; un “gesto”
inutile perché compiuto «quando ormai era certo che Roma sarebbe stata
liberata di lì a poco» <57 dagli alleati.
[NOTE]
56 Intervista di Maria Teresa Regard ad Alessandro Portelli, 20 aprile
1998, in ASSR, Fondo famiglia Calamandrei Regard, serie 2 Resistenza,
s.serie 2, b. 3, fasc. 4.
57 Rievocazione del sacrificio del vicebrigadiere dei carabinieri
medaglia d’oro al V. M. Salvo D’Acquisto, Palidoro, 24 maggio 1963, in
ANFIM, Dal XIX anniversario dell’eccidio Ardeatino (24 marzo 1963) al
XLV anniversario della Vittoria (4 novembre 1963), Roma, Ufficio stampa
ANFIM, 1963, p. 82.
Michela Ponzani, Una legittimità contestata: il caso “via Rasella”
in Scegliere la disobbedienza. La dimensione esistenziale
dell’antifascismo nelle memorie di Rosario Bentivegna e Carla Capponi.
Introduzione agli inventari dei fondi Bentivegna e Capponi, Senato della
Repubblica, 2016