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lunedì 28 febbraio 2022

Adriano Olivetti decise di sostenere l’attività degli alleati


Quando appena giunti ad Ivrea ci si imbatte nei tratti di via Jervis si affronta, in tutta la sua completezza, il peculiare significato del concetto olivettiano, inteso in senso umano ed aziendale.
All’antica fabbrica di mattoni rossi si affianca, senza soluzione di continuità, la moderna e avvenieristica struttura che ha reso famosa e riconoscibile nel mondo l’azienda di produzione di macchine da scrivere. L’antico e il moderno, l’origine e il futuro, sono elementi che nella parabola olivettiana sovente, si incontrano quali momenti di raffronto e di sapiente ed equilibrata compresenza. L’essenza di questo continua “tradizione innovatrice” è racchiusa nel rapporto tra i principali attori di una famiglia in grado di caratterizzare le vicende sociali del Piemonte, dell’Italia e del panorama internazionale. Olivetti padre, Camillo ed Olivetti figlio Adriano furono protagonisti di un rapporto al contempo rigido e pieno di elementi positivi. La vicenda comunitaria non nasce nel 1947, con la fondazione del Movimento Comunità, essa ha origini più lontane e rappresenta solo uno dei numerosi punti di approdo che padre e figlio seppero tramandarsi nel corso degli anni. La famiglia Olivetti, capace di alimentare un flusso costante di idee e di proposizioni iniziò a conferire una determinata importanza al proprio nome operando all’interno di un ambito territoriale ben definito tra il nord del Piemonte e la Valle d’Aosta, il Canavese, e più dettagliatamente nel comprensorio della città di Ivrea. Tale luogo verrà richiamato molteplici volte durante la narrazione, e non potrebbe essere altrimenti data l’importanza strategica che la cittadina ha garantito al progetto “comunitario”. Ivrea o Ivreja, come amavano ed amano definirla nel dialetto locale gli autoctoni, è un centro cittadino situato a cinquantacinque chilometri da Torino ed è considerata la capitale storico-geografica del Canavese. Ai tempi della nascita di Camillo Olivetti era il capoluogo dell’omonimo circondario, uno dei cinque in cui era divisa la provincia di Torino. Durante il regime fascista, precisamente dal 1927 al 1945 Ivrea divenne invece punto di riferimento e centro nevralgico dell’esperienza della neo-costituita provincia di Aosta.
Al fine di apprezzare con maggiore completezza gli intenti e le finalità del progetto politico posto in essere dal Movimento Comunità, risulta imprescindibile affrontare, seppur in maniera breve, il percorso antecedente la formazione dei tratti essenziali di quella esperienza.
Samuel David Camillo, per tutti Camillo Olivetti <1, il padre di Adriano nacque il 13 Agosto del 1868 ad Ivrea. Non ebbe la fortuna di poter conoscere a fondo suo padre, Salvador Benedetto, in quanto egli morì un anno dopo la sua nascita.
La madre di Camillo, Elvira Sacerdoti, di origini modenesi, apparteneva ad una famiglia di banchieri che aveva sostenuto finanziariamente l’impresa dei Savoia per l’unificazione italiana. Ella decise di far crescere Camillo in collegio. Tale scelta fece maturare in lui un sentimento di distacco dal tipico clima familiare e, soprattutto, di avversità nei confronti del sistema scolastico-collegiale. Questi sintoni si sarebbero in seguito palesati nell’impostazione dei metodi educativi impartiti da Camillo ai suoi figli.
Camillo Olivetti maturando consapevolezza della propria indole, decise di intraprendere lo studio scientifico scegliendo la facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali della scuola di applicazione tecnica di Torino (che a partire dal 1906, sarebbe stato denominato “Politecnico”) dove avrebbe conseguito il titolo di Ingegnere industriale. Comprese, sin da allora, come la conoscenza della lingua inglese fosse importante e, per tale ragione, decise di accettare il periodo di apprendistato che gli fu offerto da un’azienda del Regno Unito. Fu tale esperienza che gli spalancò le porte per giungere ad un’altra importante milestone che avrebbe segnato la sua vita. Il suo professore universitario di riferimento Galileo Ferraris, scopritore del campo magnetico rotante e ideatore del motore elettrico a corrente alternata, lo invitò ad accompagnarlo al Congresso dell’elettricità che si sarebbe svolto all’esposizione universale di Chicago nell’Illinois, in qualità di traduttore. Camillo, rimasto affascinato dal sistema statunitense e dalla sua avanguardia in campo scientifico, decise di rimanere negli U.S.A. dove divenne, per un breve periodo, dai primi giorni del novembre del 1893 ai primi giorni dell’aprile del 1894, assistente alla cattedra di ingegneria elettrica alla Stanford University in California a Palo Alto, proprio laddove si sarebbe sviluppata, nei decenni successivi, la “Silicon Valley”. Nel 1894, all’apice del suo apprendimento e delle potenzialità della sua carriera accademica, fu pervaso da un senso di patriottismo e decise di tornare in Italia. Da questa scelta nacque, l’anno successivo, l’edificio di mattoni rossi, primo tassello di una scala esponenziale di successi, originariamente immaginato quale fabbrica di strumenti di misurazione elettrica.
Nel 1907 l’estro di Camillo elaborò l’ipotesi di avviare la produzione di macchine da scrivere e fu così che, a partire dal 22 ottobre del 1908, giorno nel quale viene realizzata la prima macchina da scrivere a marchio Olivetti, prese avvio una produzione capace di raggiungere vette mondiali. Camillo non è stato però solo un ingegnere, uno studioso e un dirigente d’azienda. Difatti, colui che veniva definito uomo burbero ed austero, tipicamente ottocentesco nei modi e nelle forme ma che, in realtà, era incredibilmente svincolato dai tradizionalismi e dalle consuetudini del suo tempo <2, coltivò anche una forte passione per la politica.
Questo aspetto, unitamente a molti altri, seppur in taluni casi con differenti sfaccettature, avrebbe caratterizzato anche il percorso del figlio Adriano. Camillo era un socialista convinto: avverso ad ogni tipo di ingiustizia, e strenuo difensore di un rapporto paritario e solidale tra gli uomini. Quest’ultimo aspetto, in particolare, era il movente del particolarissimo rapporto che egli aveva con i lavoratori della sua azienda per i quali riusciva ad essere, contemporaneamente, maestro, amico e punto di riferimento. Amava inoltre conoscere ogni sfaccettatura delle vite dei suoi dipendenti. Epica è la vicenda di Domenico Burzio. Operaio, figlio di operaio, nato nel 1876 che la tenacia, la caparbietà e lo studio costante delle lezioni impartite da Camillo, che formò in proprio tutti i suoi operatori, divenne il primo direttore tecnico/capo-officina della Olivetti, nonché prezioso e fidatissimo amico e consigliere di Camillo. Questo atteggiamento garantì a Camillo Olivetti una notevole considerazione ed un profondo rispetto da parte di tutti, caratteristiche che assolutamente non si potevano ricondurre al suo ruolo di datore di lavoro.
Camillo fece seguire all’originaria passione anche un diretto attivismo in campo politico promuovendo un settimanale chiamato «Azione Riformista», dai chiari ideali e propositi socialisti. Inoltre decise di candidarsi alle elezioni del consiglio comunale di Ivrea, nelle tornate del 1894 e del 1904, venendo eletto in entrambe le occasioni. Singolare fu il caso della prima elezione, quella del 1894. Subito dopo essere eletto, Camillo decise di dimettersi in quanto, a detta sua, su di lui non confluirono voti esclusivamente di matrice socialista. Va sottolineata anche l’esperienza di «Tempi Nuovi», quotidiano che si mise in luce per l’azione di contrasto agli ideali autoritari del fascismo. Evidentemente l’azione fu considerata troppo spavalda al punto tale da essere oggetto di una spedizione punitiva da parte di squadre fasciste. Ed è proprio nel tentativo di fuga dalle ritorsioni dell’esperienza finale del fascismo mussoliniano, la Repubblica Sociale Italiana, che il 4 dicembre del 1943 le già precarie condizioni fisiche di Camillo si aggravarono ulteriormente portandolo al decesso. Per comprendere ancor meglio chi fosse stato Camillo Olivetti e cosa avesse significato per la sua comunità e quanto per essa si era immolato riportiamo una precisa e al contempo profonda descrizione sugli attimi conclusivi della sua esistenza.
"Il giorno in cui fu trasportato al cimitero pioveva; ma da Ivrea, dai borghi vicini, dai vari luoghi del canavese si erano arrampicati su per la serra, fino a Biella, i suoi operai, i suoi fedeli. Erano arrivati con ogni mezzo, i più in bicicletta, con gran fatica e grande rischio. I tedeschi già davano la caccia ai partigiani, razziavano uomini, minacciavano intere popolazioni. Il piccolo cimitero israelitico di Biella poteva diventare un luogo di massacro, il recarvisi una sfida temeraria; ma esso si popolò, quel giorno, di uomini silenziosi, a capo scoperto, sui cui volti la pioggia cancellava inutilmente le lacrime" <3.
L’uomo che si è fatto da sé <4, nonostante l’appartenenza al ceto benestante, è sempre rimasto dalla parte dei più deboli partecipando finanche ai moti del pane di Milano del 1898. Il suo lascito più grande però rimarrà, indubbiamente, quell’edifico di mattoni rossi che, negli anni a seguire, avrebbe dato vita ad una delle più grandi esperienze industriali italiane ed internazionali. Per Adriano il padre Camillo ha rappresentato un punto di riferimento importante, un maestro di vita, e il primo alimentatore della formulazione del pensiero comunitario. Adriano Olivetti <5 nacque ad Ivrea l’11 aprile 1901, all’interno di una combinazione di risvolti ed ideali in un duplice vortice di suggestioni ed esperienze che però non diventeranno mai dogmi: l’ebraismo socialista del padre ed il cristianesimo protestante valdese della madre Luisa Revel. Camillo le chiese di sposarla dopo averla vista per appena due volte.
Camillo, sulla base della sua educazione troppo severa, scelse per i figli un percorso che consentì loro di rimanere “creativi” il più possibile e contemporaneamente lontani dalla mondanità. Difatti decise di avviarli alla formazione scolastica primaria solo all’età di 8 anni e con lezioni impartite dalla madre che aveva il diploma di maestra. Il primo test nei confronti di Adriano, quello che oggi chiameremmo probing o colpo di sonda, Camillo decise di farlo nel 1914 quando portò in azienda per alcune settimana un appena tredicenne Adriano. Il rifiuto da parte del giovane Adriano fu netto e totale, quell’esperienza si sarebbe rivelata un fallimento tanto da portarlo a scrivere alcuni anni dopo
"Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna. Passavo davanti al muro di mattoni rossi della fabbrica vergognandomi della mia libertà di studente, per simpatia e timore di quelli che ogni giorno, senza stancarsi, vi lavoravano". <6
Era quindi maturata in lui la volontà di discostarsi dalle orme del padre.
In realtà, quella esperienza, si sarebbe rivelata di prioritaria importanza in quanto Adriano avrebbe compreso successivamente quanto fosse importante, al fine di espletare incarichi di livello superiore, conoscere la meticolosità del lavoro manuale dell’operatore di produzione. Ed in effetti tale insegnamento, una volta raggiunti i vertici dell’azienda, sarebbe stato implementato come vera e propria politica di inserimento lavorativo per i nuovi assunti, anche per i neo laureati. Così testimoniava Francesco Novara che incontrando Olivetti nell’estate del 1955 riceveva una proposta interessante
"Se si assumono tutti o quasi tutti laureati per il livello direttivo, e diplomati per l’intermedio, si hanno in azienda tre strati, tre mondi di provenienza sociale diversa e con mentalità diversa: questo creerebbe barriere alla comunicazione e alla comprensione. E alla cultura dell’impresa sono necessarie tutte le forme di esperienza. Quindi si deve promuovere quanto possibile dall’interno e dall’esterno assumere principalmente d’avanguardia […] se lei accetta di collaborare con noi sarebbe necessario, poiché oggi stiamo sviluppando soprattutto gli stabilimenti che lei, come tutti i laureati, cominci svolgendo un lavoro operaio, perché la vita di lavoro in fabbrica la si conosce solo facendone esperienza diretta". <7
Adriano, unitamente alla coltivazione della sua passione nei confronti del giornalismo, che lo portò a collaborare con diverse riviste del Canavese, studiava presso la facoltà di Ingegneria meccanica e chimica industriale al politecnico di Torino. Terminati gli studi nel 1924 e dopo un iniziale apprendistato in fabbrica, Camillo organizzò per il figlio un soggiorno studio negli U.S.A. al fine di consentirgli di apprendere al meglio la lingua inglese e le tecniche industriali più avanzate.
Adriano, durante la permanenza negli Stati Uniti, rimase colpito dalle teorie di Ford e queste, insieme all’influenza del pensiero di Gobetti, gli diedero al suo ritorno in Italia, nel gennaio del 1926, la volontà di riavvicinarsi all’azienda di famiglia per realizzarne una nuova concezione. Camillo, non appena Adriano rientrò dagli U.S.A. decise di presentare il figlio a tutti i dipendenti dell’azienda nel “Salone dei duemila”. Quel gesto sancì ufficialmente l’inizio della carriera gestionale di Adriano.
In breve tempo la Olivetti di Ivrea avrebbe visto nascere, dentro di sé, l’organizzazione scientifica del lavoro, tipica delle teorie tayloriste, che portò l’azienda ad essere tra i pionieri dell’implementazione di alcuni settori chiave dell’economia industriale attuale come, ad esempio, la divisione tempi e metodi, la gestione delle risorse umane, la sociologia industriale e la sezione ricerca e sviluppo. Adriano attuò la sua svolta a partire dal 1927 basandola sul calcolo fondamentale che aveva formulato e, nel quale, si enunciava che il rendimento di ogni operaio poteva essere superiore di oltre un terzo rispetto alle valutazioni standard mediante una migliore organizzazione della produzione.
«Prima di essere una istituzione teorica, la Comunità fu vita» <8 e se il primo tassello di questa importante costruzione che fu la comunità olivettiana fu la fabbrica, esso fu certamente un modello esemplare. Adriano comprese che il fine di un’azienda non poteva e non doveva limitarsi al mero profitto economico bensì il dovere di un’azienda, degna di tale definizione, doveva estendere i propri confini alla realtà territoriale nella quale persisteva e, soprattutto, rivolgersi alla società civile ivi presente.
La creazione degli asili nido aziendali e delle mense, l’introduzione di un servizio autobus per trasportare i dipendenti dai paesi limitrofi ad Ivrea, l’organizzazione delle colonie estive, la realizzazione delle casse mutue e delle residenze per i lavoratori, sono solo alcuni esempi della concezione aziendale marchiata Olivetti. Un concept incredibilmente innovativo per quel periodo storico e che, ancora oggi, viene raramente messo in atto, a causa della esasperata corsa ai tagli ai bilanci delle aziende del settore privato, derivanti dalle crisi economico finanziare susseguitesi negli anni recenti e dalla volontà di generare, costantemente, esclusivamente maggiori profitti.
Al tal scopo va menzionato l’esempio della fondazione dedicata a Domenico Burzio, destinata a potenziare l’assistenza diretta a favore dei dipendenti e, come disse Camillo Olivetti «a garantire all’operaio una sicurezza sociale al di là del limite delle assicurazioni, in Italia ancor troppo ristretto» <9.
Quando, nel 1922, il già precario sistema politico liberal-democratico italiano vennero venne decisamente messo in crisi dall’avvento al potere di Mussolini e del fascismo, Adriano aveva soli ventuno anni. E’, probabilmente, proprio la sua giovane età, con le relative percezioni sensoriali maggiormente instabili, a portare Olivetti ad avere un rapporto col regime mussoliniano che si può definire quantomeno controverso. Durante i primi anni del regime, nonostante tale rapporto non si sia mai palesato in maniera netta, vi fu un atteggiamento di prudenza da parte di Adriano che, certamente, non voleva significare chiusura. Quando però, il 10 giugno del 1924, il regime commissionò il rapimento e l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti anche Olivetti iniziò ad avvertire la portata ed il pericolo dell’ideal-tipo professato dal Partito Nazionale Fascista. La vera svolta nei rapporti con il fascismo viene confermata però da un altro episodio che passerà alla storia: la fuga di Filippo Turati dalle milizie del regime. Adriano Olivetti si ritrovò coinvolto nell’episodio visti i suoi forti legami con la famiglia Levi. Difatti, dal 1923 al 1924, durante il servizio militare ebbe modo di consolidare un’amicizia che sarebbe poi perdurata negli anni a venire con il compagno di studi universitari Carlo Levi. Successivamente Adriano avrebbe preso in sposa, come prima moglie, Paola Levi sorella di Carlo, di cui diventò quindi anche cognato. Il 2 dicembre del 1926 scattò l’operazione. Fu proprio Adriano Olivetti, in accordo con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini a portare Turati presso la prima tappa del percorso, ossia la casa della famiglia Levi a Torino. Tale vicenda viene anche descritta da Natalie Ginzburg, sorella di Gino e Paola Levi, in un tratto di Lessico Famigliare:
"[…] aveva gli occhi spaventati (Adriano), risoluti e allegri; gli vidi, due o tre volte nella vita quegli occhi. Erano gli occhi che aveva quando aiutava una persona a scappare, quando c’era un pericolo e qualcuno da portare in salvo" <10.
Successivamente, sia il matrimonio con Paola che insofferente al provincialismo piemontese lo convinse a spostarsi a Milano dove rimasero dal 1931 al 1934, sia la contemporanea assunzione di sempre maggiori responsabilità all’interno dell’azienda, raggiunta con la nomina a direttore generale, avrebbero portato Adriano ad una distensione dei rapporti con il sistema mussoliniano, fino ad arrivare, nel 1933, alla richiesta ed ottenimento, il 31 luglio <11, della tessera per l’adesione formale al P.N.F.
Già dopo pochi mesi i fiduciari del regime descrivevano, in un promemoria indirizzato alla direzione centrale, la particolare situazione della famiglia Olivetti legata al mondo ebraico per parentato e, in particolare, della posizione di Adriano nei confronti del fascismo:
"Sebbene di recente iscritto al Partito, l’Adriano Olivetti non sembra abbia una adeguata comprensione del movimento fascista e dimostri molto attaccamento al Regime. Si ha piuttosto l’impressione che egli abbia chiesta la iscrizione per evidenti ragioni di opportunità, avendo un’azienda che ha necessità di essere tutelata e sostenuta dal governo". <12
Oltre alle evidenti convenienze che poteva ottenere per la sua azienda, il tesseramento fu in parte dovuto all’incontro con gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, corrispondenti diretti di Le Corbusier in Italia e punta più avanzata del Razionalismo, stile architettonico che anche il regime aveva deciso di detenere, quantomeno inizialmente, come dottrina ufficiale. La notoria passione per il design, l’architettura moderna e la pianificazione urbanistica, fu proprio in quegli anni che vide la luce il “Piano Territoriale della Valle d’Aosta, 1933-1937”, portarono Adriano a sostenere la figura di Mussolini, tanto da richiedere più volte un incontro privato.
Una situazione, quella di Olivetti della quale Sergio Ristuccia prova a dare una definizione probabilmente molto vicina alla realtà
"Si può anche supporre che Olivetti sia caduto nell’illusione degli intellettuali fascisti di sinistra, nella specie degli architetti e cultori di urbanistica che pensavano di poter contare su talune iniziali propensioni del fascismo verso l’architettura razionalista moderna e verso una nuova cultura delle città" <13.
L’incontro con il duce finalmente avvenne nel maggio del 1936. Durante l’udienza concessa, Mussolini, poco attento e molto restio all’ascolto delle proposte olivettiane, deluse in toto le aspettative dell’imprenditore di Ivrea. A rimarcare ciò, sarebbe arrivata di lì a poco la scelta del regime di passare dall’impostazione razionalista al recupero della maestosità dell’architettura classica, con l’intento di garantire il necessario sfarzo al ricostituito impero d’Italia. Si avviava una nuova fase di allontanamento tra Olivetti e le tesi del fascismo. Tuttavia, un altro episodio poco noto, ma che ebbe un diffuso impatto mediatico quando fu reso noto, vide Olivetti accostato al regime noto che vede. Durante le trattative per la formazione del governo Fanfani II, nell’estate del 1958, «Il secolo d’Italia» <14, giornale vicino alla destra nazionale, criticò le scelte assunte da Olivetti. Nella critica venne svelato, con tanto di prove fotografiche, la notizia di un incontro presso l’azienda di Ivrea tra Olivetti e i fiduciari locali del duce. Olivetti venne definito camerata, «la camicia nera del governo Fanfani», ma la cosa che più impressionò fu proprio l’immagine che ritraeva l’episodio. Durante la visita del segretario federale torinese agli stabilimenti, avvenuta nel 1941, Adriano Olivetti indossava la divisa nera del regime <15. Questo accaduto non è stato sino ad ora riportato dalla storiografia olivettiana e si configura come un altro tassello del particolare rapporto tra l’uomo di Ivrea e la dittatura mussoliniana. Si può ipotizzare che la divisa militare fu indossata con lo scopo di accogliere i visitatori e di accaparrarsene una benevola fiducia. Certo l’impatto con l’immagine di Olivetti è abbastanza forte ma altrettanto forte sarebbe stata la ritrosia dell’uomo di Ivrea nell’opporsi alla limitazione della democrazia imposta durante il ventennio di dominio del partito fascista.
Adriano, compresa la brutalità delle forze dell’Asse durante il secondo conflitto mondiale, disgustato dalla politica opprimente del regime, decise di sostenere l’attività degli alleati, esponendosi in talune circostanze, a situazioni ad elevato rischio. E’ tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 1943 che, in Svizzera, prese i primi contatti con l’Office of Strategic Services il servizio segreto statunitense, la futura C.I.A. Olivetti si presentò all’incontro come referente di quattro gruppi di opposizione antifascista e richiese delucidazioni in merito al trattamento che gli Alleati avrebbero riservato all’Italia. Successivamente Adriano avrebbe conosciuto il coordinatore dell’O.S.S., di istanza a Berna Allen Dulles, il fratello di John Foster Dulles che, successivamente, sarebbe divenuto segretario di stato americano.
[NOTE]
1 Per una biografia completa di Camillo Olivetti si veda LAURA CURINO, GABRIELE VACIS, Camillo Olivetti alle radici di un sogno, Ipoc editore, Milano, 2015.
2 Cfr. CHIARA RICCIARDELLI, Olivetti una storia, un sogno ancora da scrivere. La sociologia del lavoro nell’esperienza italiana, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 14.
3 Estratto da una lettera di LIBERO BIGIARETTI in BRUNO CAIZZI, Gli Olivetti, Utet, Torino, 1962, pp. 54-57.
4 VALERIO OCHETTO, Adriano Olivetti. La biografia, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013, p. 18.
5 Per un approfondimento sulla vita di Adriano Olivetti si veda la biografia di Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, cit.
6 Estratto di una lettera di Adriano Olivetti in V. OCHETTO, Adriano Olivetti. La biografia, cit., p. 26.
7 FRANCESCO NOVARA, Un lavoro a misura d’uomo, in (a cura di) STEFANO SEMPLICI, Un’azienda e un’utopia. Adriano Olivetti 1945 - 1960, Il Mulino, Bologna, 2001 pp. 75-76.
8 ADRIANO OLIVETTI, Città dell’Uomo, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p. XXVI.
9 A. OLIVETTI, in (a cura di) ALBERTO SAIBENE, Il mondo che nasce. Dieci scritti per la cultura, la politica, la società, Comunità editrice, Roma-Ivrea, 2014, p. 13.
10 NATALIE GINZBURG, Lessico famigliare, Einaudi, Milano, 1963, p.75.
11 Nota fiduciaria siglata 711, cioè redatta da Pieri Novelli Adelina, Cfr. MAURO CANALI, Le spie del regime, Il Mulino, Bologna, 2004. Archivio Centrale dello Stato, Roma, d’ora in poi ACS, Fondo Ministero dell’Interno, direzione generale di pubblica sicurezza (1861-1981), divisione polizia politica, fascicoli personali, b. 916, fasc. Ing. Adriano Olivetti.
12 Ibidem.
13 SERGIO RISTUCCIA, Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti, politico e teorico della politica, Marsilio editore, Venezia, 2009, p. 225.
14 La camicia nera del governo Fanfani, Il secolo d’Italia, n. 160, 1958, p.1. Archivio Fondazione Adriano Olivetti, Roma, d’ora in avanti AFAO, Fondo Massimo Fichera, articoli, 1958, b. 2.
15 Ibidem.
Giuseppe Iglieri, Il Movimento Comunità. Il partito di Adriano Olivetti, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno accademico 2016-2017

domenica 27 febbraio 2022

Come i volantini, le riviste erano distribuite davanti ai cancelli delle fabbriche


Gli anni Sessanta furono marcati in Italia dalla nascita di numerose esperienze editoriali che denotavano la necessità di creare nuove forme di espressione. Oltre alle iniziative più prettamente culturali e letterarie come, per esempio, il «Menabò» o il «Politecnico», che pure non tralasciavano la dimensione politica dell'attività intellettuale, il moltiplicarsi delle riviste politiche appare come uno dei tratti caratteristici di questo periodo. Possiamo ricondurre queste esperienze al genere della «controinformazione» che è stato in particolare analizzato da Aldo Giannuli <408 o da Umberto Eco e Patrizia Violi <409. Dopo aver cercato di distinguere «stampa alternativa» e «controinformazione» <410, Eco e Violi riconducono quest'ultima a una definizione più generica ossia «l'uso dell'informazione per fini contestativi o rivoluzionari» <411. Per quanto riguarda le origini di questo fenomeno, Giannuli ricorda che "la «controinformazione militante» dell'estrema sinistra sorge dal confluire di diverse esperienze culturali come il giornalismo politico di denuncia di origine francese (dal quale si mutua il metodo basato sulla interpretazione politica come chiave interpretativa dominante), il giornalismo investigativo di provenienza anglo-americana (dal quale vengono riprese le tecniche), l'uso politico dell'inchiesta sociologica (dalla quale derivano tanto il particolare uso
dell'intervista, quanto l'utilizzo delle metodologie quantitative oltre, ovviamente al tentativo di collegare la chiave di interpretazione politica all'attenzione per le evoluzioni sociali), la «guerriglia semiologica» (cui si debbono le peculiari tecniche comunicative)". <412
Per Giannuli, la controinformazione si sarebbe sviluppata soprattutto con le contro-inchieste legate alle stragi <413 mentre Eco e Violi, sebbene sostengano che «la controinformazione in Italia nasce con le prime lotte studentesche contro l'autoritarismo accademico e l'organizzazione burocratica del sapere nell'università» <414, affermano in seguito che: "[…] la complessa esperienza della contestazione studentesca non nasce dal nulla: essa ha i suoi fondamenti storici e per certi aspetti le sue matrici teoriche nel ripensamento critico condotto da sociologi e studiosi del movimento operaio intorno agli anni Sessanta, la cui elaborazione dà luogo, nel settembre 1961, alla rivista «Quaderni rossi» diretta da Raniero Panzieri. <415
Per i due autori, la rivista operaista rappresenterebbe quindi soprattutto una premessa storica e teorica della controinformazione mentre si potrebbe invece considerare che entrasse a pieno titolo in questa categoria in quanto si costituì partendo dalla necessità di creare uno spazio di espressione autonomo dal movimento operaio ufficiale. Per Eco e Violi, questa progressiva autonomizzazione della parola antagonista rappresenta infatti una delle caratteristiche della controinformazione che si sviluppò: "al di fuori e indipendentemente dai partiti tradizionali della classe operaia (e talvolta anche in polemica con essi), basandosi su un nuovo tipo di rapporto politico, su differenti strutture
organizzative, e in definitiva su un nuovo concetto dell'informazione politica, che implica per ciò stesso una nuova politica dell'informazione, o se si preferisce una nuova politica in generale". <416
Anche le nostre riviste si inserivano in questa tipologia di comunicazione basata sull'intreccio tra «ricerca autonoma delle informazioni» e «rilettura e reinterpretazionedei dati forniti dalla “informazione ufficiale”» <417 assumendo pertanto una funzione documentaria e informativa che le poneva in contrapposizione con gli organi ufficiali.
Questa funzione emerge in particolare negli articoli di cronaca e quelli dedicati alle specifiche situazioni di fabbrica i cui dati, provenendo dalle testimonianze degli operai e dalle analisi dei membri della redazione, davano ai lettori una conoscenza più ampia di quello che succedeva sul proprio luogo di lavoro e in altri contesti, offrendo anche loro gli strumenti per interpretare questi fatti.
Si considerava, in effetti, che i media tradizionali, o tacevano queste informazioni o ne davano notizie deformate, valutazioni che comparivano anche negli articoli dedicati alla situazione internazionale.
Troviamo pertanto nelle pagine delle riviste numerose critiche agli organi di stampa ufficiali. «Il Potere operaio» pisano, in un articolo dedicato alla rivoluzione culturale cinese, afferma per esempio che «le informazioni che tanto gli organi padronali (RAI-TV, Nazione, Corriere della Sera ecc.) che i giornali dei partiti operai (Unità, Mondo Nuovo) danno dei fatti cinesi contribuiscono a confondere le idee» <418.
In modo molto simile, anche «Potere operaio» veneto-emiliano si attribuiva il compito di ristabilire una forma di «verità» su quello che succedeva in Cina: "Dopo la volgare campagna di sistematiche distorsioni della verità, che ha visto in prima fila l'Unità nel tentativo d'impedire ogni riflessione obiettiva sui fatti cinesi, noi pensiamo che il primo dovere di ogni militante rivoluzionario è quello di stabilire i fatti e di portarli a conoscenza di tutti: è ciò che ci impegniamo a fare con tutti i mezzi a nostra disposizione". <419
Questa funzione di diffusione dell'informazione, presentata come «il primo dovere di ogni militante rivoluzionario», conferisce alla rivista un ruolo centrale nella lotta politica.
Vengono anche contestate le «interpretazioni tendenziose della stampa borghese e qu[e]lle reticenti della stampa ufficiale di sinistra» <420 a proposito delle mobilitazioni polacche e cecoslovacche, così come il fatto che: "del Vietnam si parla ora il meno possibile. Se la pace domina le prime pagine dei giornali, non c'è posto in esse per questa «guerra» scomoda: e il Vietnam è scomparso anche dalle prime pagine dell'Unità". <421
Venivano così sistematicamente equiparati gli organi di stampa «padronali» con quelli del movimento operaio ufficiale, procedimento che permetteva per altro di identificare un nemico comune. A proposito delle lotte alla Fiat di Torino della primavera del 1968, «Il Potere operaio» pisano affermava infatti che "si è scatenato […] tutto un fronte che univa i padroni alla «sinistra»: mentre la Stampa - che è il giornale di Agnelli - si scagliava contro i «teppisti filocinesi», l'Unità dedicava un corsivo polemico al «Potere operaio», attribuendo anche essa la durezza della lotta ai «provocatori esterni», e denunciando la presenza di compagni «venuti da Pisa» (figuriamoci che scandalo!). Ancora una volta, l'incapacità di accettare la giustezza della lotta operaia, in tutte le sue forme, e la paura di perdere voti, univa il PCI alla canea dei servi dei padroni. È una storia che si ripete ormai continuamente. Ma questa volta il gioco è stato scoperto. Tutti i giornali, i manifesti, i volantini, i telegiornali di questo mondo non basterebbero a convincere le migliaia di operai Fiat, che la lotta l'hanno fatta e guidata in prima persona, che essa è stata il frutto di «elementi estranei»". <422
«La Classe» adottò un dispositivo diverso per mostrare i limiti della stampa ufficiale: in una rubrica intitolata «Lo dicono loro» che appare sull'undicesimo e il dodicesimo numero <423, si accostavano su una stessa pagina brani tratti da giornali nazionali e internazionali senza commentarli il che conferiva un'apparente oggettività alla trasmissione dell'informazione. La redazione veneto-emiliana proponeva di rispondere alla diffusione di «notizie false e tendenziose» non soltanto con il giornale ma con mezzi più radicali: "All'opera di distorsione e di mistificazione che sempre più andrà accentuandosi, da parte del padrone e dei suoi sicofanti, attraverso la stampa, gli strumenti di manipolazione dell'opinione pubblica, va opposta la rappresaglia più precisa, la lotta rivoluzionaria per la verità, il sabotaggio di massa". <424
Con l'utilizzo dei termini «rappresaglia» e «sabotaggio», l'autore sembra iscriversi nella tradizione partigiana ed esprime inoltre la necessità di un passaggio all'azione. Questa funzione informativa sembra pertanto rispondere all'obiettivo di «educare» le masse attraverso un processo di presa di coscienza, obiettivo più volte ribadito negli articoli.
Per il "Potere operaio" pisano infatti, bisogna che «i lavoratori prendano chiara coscienza della propria situazione di sfruttati e maturino una coscienza di classe anticapitalistica» <425 e così «quello che conta è subordinare ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, ogni obiettivo alla crescita generale della coscienza operaia» <426. Anche per il gruppo veneto-emiliano serve trasformare le lotte «in spinta politica cosciente» <427.
Vediamo quindi come, strettamente collegata a questo scopo informativo o controinformativo, appare una seconda funzione ricoperta dalle riviste ossia quella di mobilitare i propri lettori. Attraverso la denuncia delle ingiustizie subite dagli operai e l'utilizzo di strategie discorsive che analizzeremo più dettagliatamente in seguito, queste riviste appaiono come uno strumento privilegiato di sensibilizzazione degli individui.
Contrariamente a «Quaderni rossi» o a «Classe operaia», che per il loro formato, per i loro contenuti e per il modo in cui erano distribuite - nelle edicole - erano prevalentemente indirizzati ad un lettorato “intellettuale” e pertanto poco utili a mobilitare le masse, le nostre tre riviste ricoprivano un ruolo di spicco nel «repertorio dell'azione collettiva» dei gruppi.
Questa funzione può essere ricondotta al carattere ibrido di queste riviste. La loro dimensione informativa e di cronaca le apparentava ai giornali di fabbrica <428, espressione diretta delle rivendicazioni degli operai, mentre gli articoli di analisi politica erano più vicini alla tradizione operaista di «Quaderni rossi» e di «Classe operaia».
Alcune caratteristiche linguistiche e il modo in cui venivano distribuite ricordavano invece i volantini, altro mezzo di comunicazione molto utilizzato dai gruppi operaisti. In effetti, come i volantini, le riviste erano distribuite davanti ai cancelli delle fabbriche e permettevano quindi un contatto diretto tra i membri del gruppo e gli operai. Per Eco e Violi, in questo modo, «emittente e destinatario si trovano a contatto diretto, possono interagire l'un l'altro». Così, la distribuzione dei volantini e delle riviste «si trasforma proprio in una discussione, […] serve come pretesto per aprire un discorso in cui entrano in gioco variabili che non riguardano più direttamente solo il testo
distribuito» <429.
La testimonianza di Augusto Finzi, che si sarebbe poi unito al gruppo, permette di capire come avveniva questa mobilitazione: "Già nel 1966 alle porte delle fabbriche di Marghera c'era un primo gruppo di strane persone - noi operai le guardavamo con un po' di curiosità e un po' di sospetto - che ci offrivano stampati con su scritte strategie politiche, critiche ai partiti della sinistra, necessità di rivedere la nostra condizione e di riprendere delle attività di lotta. Fu lì che conobbi gli attivisti del foglio «Potere operaio veneto-emiliano», tra cui Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo e Guido Bianchini. Ci invitavano a ragionare e a discutere delle posizioni del sindacato e dei partiti della sinistra nei confronti della condizione operaia". <430
Anche Italo Sbrogiò sottolinea l'importanza di questo mezzo di diffusione del discorso dei gruppi: «Fu così che iniziammo a sentire le parole potere operaio e a pensare che dovevamo averlo questo potere, che era giusto che fossimo noi ad averlo» <431.
Da queste testimonianze appare quindi la potenza performativa del discorso dei gruppi, gli effetti di mobilitazione che ebbero sui loro lettori e interlocutori.
Infine, la rivista sembra ricoprire anche una funzione organizzativa che è assolutamente centrale nell'economia delle mobilitazioni sociali. Questa funzione si dispiegava in due direzione: organizzare le lotte ossia pianificarle, e organizzarsi cioè strutturare il gruppo. La rivista permetteva infatti, come abbiamo visto, di indicare delle parole d'ordine, di esprimere delle rivendicazioni che sarebbero state poi in seguito scandite durante le manifestazioni, discusse con sindacati e padroni e intorno alle quali si creava consenso. Offriva inoltre degli esempi, dei modelli di lotta le cui forme potevano essere imitate, trasmesse ad altri contesti.
 

Archivio Marco Pezzi

[NOTE]
408 GIANNULI Aldo, Relazione di consulenza tecnica per la Procura della Repubblica di Brescia, procedimento penale n.91/97 mod.21, n.42, incarico del 23 marzo 2001 (Controinformazione); GIANNULI Aldo, Bombe a inchiostro, Milano, Bur, 2008.
409 ECO Umberto, VIOLI Patrizia, La controinformazione, in CASTRONOVO Valerio, TRANFAGLIA Nicola, La stampa italiana del neocapitalismo, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 99-169.
410 «La loro distinzione è data da un rapporto diverso che essa intrattengono coi canali della comunicazione di massa: l'informazione alternativa non ne crea di nuovi, ma utilizza quelli già a disposizione, alterandone però i contenuti, modificando i messaggi e il loro portato ideologico; la controinformazione invece si caratterizza come tale per l'impiego di mezzi specifici differenti e normalmente trascurati dalla comunicazione ufficiale. Naturalmente anch'essa, in ultima istanza, contribuisce ad una modificazione di contenuti, ma la sua attenzione è principalmente diretta ai codici del destinatario e alla sua ricezione del messaggio». ECO, VIOLI, La controinformazione, cit., p.99.
411 ECO, VIOLI, La controinformazione, cit., p.103.
412 GIANNULI, Relazione di consulenza, cit., p.27.
413 Sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 uscì il 13 giugno 1970 il libro La strage di Stato del giornalista Marco Ligini e dell'avvocato Edoardo Di Giovanni. Nel 1970 e nel 1971, «Lotta continua» dedicò vari articoli di contro-inchiesta sulla morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli. Nel 1971 si formò il «Soccorso Rosso - Comitato Nazionale di Lotta contro la Strage di Stato in appoggio a Valpreda ed ai suoi compagni». Sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974: LEGA Achille, SANTERINI Giorgio, Strage a Brescia, potere a Roma. Trame nere e trame bianche, Milan, Mazzotta, 1976
414 ECO, VIOLI, La controinformazione, p.107.
415 ECO, VIOLI, La controinformazione, cit., p.108.
416 ECO, VIOLI, La controinformazione, cit., p.102.
417 GIANNULI, Relazione di consulenza, cit., pp.26-27.
418 A proposito della rivoluzione culturale cinese, «Il Potere operaio», 30 marzo 1967, p.2.
419 Sulle decisioni dell'ultimo C.C. Del P.C.I. Riformisti in Italia rivoluzionari all'estero? No alla conferenza contro il Partito Comunista Cinese, «Potere operaio», n.unico, 20 marzo 1967, p.3.
420 Ribellione e lotta di classe nell'Europa orientale, “«Il Potere operaio», n.11, 15 aprile 1968, p.3.
421 Contro l'imperialismo e contro il padrone: una sola e continua lotta di classe operaia, «Potere operaio», n.2, 20 giugno 1967, p.3.
422 Lo sciopero alla FIAT di Torino, «Il Potere operaio», n.11, 15 aprile 1968, p.1.
423 Lo dicono loro, «La Classe», n.11, 12/19 luglio 1969, p.14; Lo dicono loro, «La Classe», n.12, 19/26 luglio 1969, p.14.
424 Intervento di massa contro il padrone contro il suo stato contro il riformismo, «Potere operaio», n.9, 10 maggio 1968, p.1.
425 Trasformazione del sindacato e lotte operaie in Italia, «Il Potere operaio», n.13, 11 giugno 1968, p.2.
426 Il problema del potere, «Il Potere operaio», n.19, luglio 1969, p.3.
427 Operai comunisti organizziamo la lotta contro il riformismo, «Potere operaio», n.2, 20 giugno 1967, p.1.
428 Sui giornali di fabbrica si veda ECO, VIOLI, La controinformazione, cit.,pp.113-114.
429 ECO, VIOLI, La controinformazione, cit., p.144.
430 GRANDI Aldo, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere operaio, Torino, Einaudi, 2003, p.31.
431 GRANDI, La generazione degli anni perduti, idem.
 

Archivio Marco Pezzi

Marie Thirion
, Le fabbriche della rivoluzione: discorsi e rappresentazioni del potere operaio nelle riviste di Pisa, Marghera e Torino, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Université Grenoble Alpes, Anno Accademico 2016/2017


sabato 26 febbraio 2022

Essere a Sleep No More senza maschera è come essere nudi in mezzo a Times Square...



Mentre Felix Barrett parla del suo pubblico come l’epicentro, il punto su cui converge tutta l’opera, il mondo accademico mostra come il concetto proposto dal regista sia in realtà ben piu complesso. Il potere di questo nuovo spettatore, un po’ prosumer e un po’ neoliberale, appare qui meno potente, soprattutto soggetto a molteplici pressioni.
Le molteplici interpretazioni differiscono fra loro, a volte in maniera sostanziale, ma la questione, che si può sintetizzare nella gestione della relazione con lo spettatore, è cruciale per l’identità stessa della performance. Per queste ragioni, è stata portata avanti una ricerca qualitativa direttamente sul pubblico della performance; l’obiettivo era quello di comprendere l’allineamento tra le intenzioni di Barrett, le interpretazioni della performance proposte dalla letteratura in analisi e la reale esperienza proposta da "Sleep No More" ai suoi spettatori.
Per la ricerca sono stati formati due gruppi di spettatori: “pubblico regolare” e “pubblico informato”. Le interviste e il focus group che hanno seguito avevano, per entrambi i gruppi, una struttura aperta che, in manieara flessibile, ha seguito le indicazioni della Oral History Association <132.
Il primo gruppo era composto da dieci spettatori individuati casualmente, “at random”, tra il pubblico che aveva assistito a diverse performance di "Sleep No More": i dieci partecipanti sono stati reclutati attraverso il passaparola e la pubblicazione di annunci su Social Media e blog, l'unico limite posto alla partecipazione era l’aver acquistato il biglietto in maniera indipendente, senza alcuna pressione o incentivo legato alla ricerca stessa. I partecipanti sono poi stati intervistati individualmente, o in gruppo laddove avessero visitato la performance insieme <133. La ricerca con il secondo gruppo, invece, è stata portata avanti in collaborazione con The Initiative for the Study and Practice of Organized Creativity and Culture at Columbia University (ISPOCC) <134, potevano far parte parte del gruppo del “pubblico informato” sia i membri di ISPOCC che gli ospiti, per lo più ricercatori in visita. Questo secondo gruppo doveva assistere ad una presentazione-lezione sulla performance in esame, visitare "Sleep No More" e successivamente partecipare a un focus group e/o interviste individuali. L'obiettivo era poter confrontare l’esperienza di un “pubblico regolare” con quella di un pubblico in qualche modo “educato alla performance” che, per utilizzare i termini di White, passava da un participatory drama a un’audience participation; il secondo gruppo, inoltre, era composto da ricercatori consapevoli dei meccanismi di coercizione coinvolti nella performance. La presentazione era divisa in tre parti che coprivano rispettivamente gli aspetti artistici (la trama, la compagnia teatrale, i performer, la scenografia), l’organizzazione dell’evento (la società di produzione, la location, il marketing, etc), e l’esperienza della performance (i meccanismi di gestione del pubblico, i superfan, etc).
All’inizio e alla fine dell’incontro sono state poste alcune domande generali <135 per poter raccogliere informazioni sulla conoscenza e un eventuale giudizio riguardo del fenomeno. È emerso che tutti avevano una conoscenza, anche solo approssimativa, di "Sleep No More"; inoltre, quattro persone avevano pensato o pensavano di andare, ma avevano rinunciato o non avevano ancora deciso quando, cinque lo avevano già visitato e due di loro più di una volta (tre e quattro volte). Nessuno aveva la dimensione dell’investimento finanziario e logistico necessario alla realizzazione della performance, ma i due ricercatori che l’avevano visitata più di una volta erano a conoscenza dell’eco mediatico, dei blog, e dei cosiddetti “superfan”. Le domande e le osservazioni da parte del gruppo, invece, erano aperte durante tutta la presentazione che si concludeva con una serie di indicazioni pratiche per coloro che avrebbero visitato "Sleep No More". Cinque dei tredici ricercatori presenti alla presentazione hanno poi partecipato alla seconda parte del lavoro <136: tre ricercatori sono andati in gruppo, mentre le altre due da sole o con un gruppo di amici esterno alla ricerca. Ognuno ha indagato lo spazio e la performance secondo le proprie attitudini e interessi: una ricercatrice si è concentrata sullo spazio, costruendosi una mappatura mentale dell’hotel; un’altra ha cercato in tutti i modi di capire cosa la spingesse nelle sue scelte, cercando di andare “contro” di esse; un terzo si è focalizzato sul rapporto con i performer, avendo imparato dalle precedenti visite e dalla presentazione che non esisteva una sola trama e che non era possibile seguire un solo performer per tutta la sera, si è dedicato alla ricerca delle esperienze individuali, in particolare a quella che si svolge al sesto piano; gli ultimi due, invece, si sono focalizzati sulla costruzione di una propria esperienza scegliendo di volta in volta di seguire un personaggio, esplorare lo spazio, procedere con gli altri spettatori o andare invece nella direzione opposta.
Ai partecipanti sono poi state poste poche sintetiche domande a risposta aperta legate ai tre argomenti chiave della performance: la libertà di movimento, il ruolo della maschera, la relazione con i performer.
Il ruolo della maschera.
La maschera ha un peso importante nell'esperienza "Sleep No More" e gli intervistati hanno evidenziato come l'essere mascherati permettesse loro di restare in anonimato, dando loro la possibilità di non essere individuati come "lo spettatore", ma solo come uno spettatore tra i tanti. Alcuni di loro si sentivano alleggeriti da questo status e più liberi di esplorare ed eventualmente partecipare.
Uno spettatore ha spiegato come indossare la maschera non lo costringesse a mostrare determinate emozioni o apprezzamento nei confronti della performance. A teatro, mi ha riferito, percepiva le aspettative del gruppo perché tutti sanno quando si deve applaudire, ridere, alzarsi etc; con la maschera, invece, si sentiva libero di apprezzare o meno ciò che voleva e quando voleva. Nessuno lo avrebbe saputo e/o giudicato. Secondo altri intervistati, invece, la maschera aveva un ruolo scenografico perché creava una massa di "fantasmi mascherati", gli altri spettatori, che giravano per i corridoi, accerchiavano i performer, riempivano le stanze. La maschera aveva poi aiutato una spettatrice a orientarsi: il fatto che avesse un "naso" cosi pronunciato le aveva permesso di capire dove gli altri stessero guardavano, capendo così in quale direzione andare o guardare. La maschera non sembrava creare nessuna forma di distanza, emotiva o intellettuale, tra lo spettatore e i performer.
Tutti i ricercatori avevano riflettuto sulla differenza dell'esperire la performance con o senza maschera e ritenevano che, ipoteticamente, questo “filtro” potesse in effetti influire nel coinvolgimento emotivo con le vicende narrate; tuttavia, solo uno di loro aveva potuto togliere la maschera grazie alle esperienze individuali, gli altri si erano abituati alla nuova condizione e non potevano affermare di aver percepito alcuna distanza.
Gli unici a notare immediatamente la differenza tra le due possibilità erano dunque solo coloro che durante la performance avevano avuto modo di essere coinvolti nell'esperienza individuale, unica occasione in cui è permesso mostrare il volto. A quel punto, mi è stato riportato, l’essere improvvisamente riconoscibili risulta scioccante e provoca confusione e imbarazzo nello spettatore: "essere a Sleep No More senza maschera - mi ha riferito uno spettatore - è come essere nudi in mezzo a Times Square... peggio... in chiesa". <137
L’incidenza di questa sensazione sulla partecipazione dello spettatore alla performance appare chiara quando si affronta la relazione tra spettatori e performer.
La relazione con i performer.
Come avviene per la maschera, dunque, anche la relazione con il performer è più evidente quando ci si confronta con chi ha avuto modo di provare l'esperienza individuale. Un ricercatore ha riferito che, durante una coreografia, la performer lo aveva chiaramente fissato dritto negli occhi per qualche secondo e la cosa lo aveva profondamente toccato. Per la prima volta si era reso conto che nessuno dei performer lo aveva mai guardato, e questo lo aveva fatto
sentire fino a quel momento quasi invisibile; improvvisamente, però, nell’arco di pochi secondi, la performer lo aveva fatto passare dal non esistere all’esistere e questo lo aveva scioccato. Non importa se le esperienze individuali sono solo fugaci, come nell’esempio riportato, o durare un’intera visita al sesto piano, è il momento in cui si viene "scelti" che modifica drasticamente l’esperienza. Lo spettatore coinvolto in un one-on-one è tuttavia frastornato e raramente prima di essere re-immesso nella folla ha modo di elaborare ciò che sta avvenendo e reagire in maniera più complessa. La maggioranza dei visitatori risponde a monosillabi e spesso non ricorda chiaramente cosa gli è stato detto e come ha risposto; solo chi ha avuto più volte modo di trovarsi in un one-on-one è in grado di partecipare più attivamente alla conversazione con il performer, che resta comunque molto basilare. Nessuno aveva cercato di turbare l'atmosfera preimpostata dell'esperienza individuale, per esempio lasciando la stanza o allontanandosi prima del tempo, toccando oggetti che non erano stati proposti dai performer, esprimendo disaccordo o cercando di prendere il controllo della conversazione, rendendo l’incidente di Lady Macbeth un’esperienza unica non analizzabile in pieno.
Un ricercatore è riuscito a visitare il sesto piano, ma si è rifiutato di descriverlo nei dettagli perché questo mi avrebbe rovinato l’esperienza <138; in cambio, mi ha dato le indicazioni per “fare in modo” che questo avvenisse <139. Ha spiegato questa sua scelta ripetendo più volte come il valore dell’esperienza individuale non sia nell’esperienza di per sé, ma nel privilegio di essere “scelto” e nell’eccitazione di affrontare un “mistero”. Considerando il forte e diffuso desiderio tra chi lo aveva provato di essere coinvolti nuovamente in un'esperienza one-on-one, ho chiesto se avrebbero considerato l’idea di pagare un sovrapprezzo per poter accedere a spazi o scene non visibili al resto del pubblico. La risposta è stata negativa. Uno spettatore, in particolare, ha detto che alzare il prezzo per migliorare l'esperienza era comprensibile, ma pagare per le esperienze individuali avrebbe rimosso la soddisfazione dell’essere scelti tra la folla. La possibilità di accedere ad alcune esperienze solo attraverso il pagamento era percepito come una sorta di tradimento da parte della compagnia, la rottura di un accordo.
Due ricercatori, infine, si sono distinti per la loro capacità di operare scelte estremamente razionali, andando in direzione opposta all’idea di un’eperienza viscerale come descritta dalla Machon. Uno dei due ha scelto in base alle richieste poste durante la presentazione della ricerca, seguendo diligentemente le indicazioni; ha inoltre sottolineando di non aver trovato la performance particolarmente interessante di per sé, ma solo come oggetto di ricerca. Il secondo, invece, ha pianificato la sua visita in base alla condizione della performance: per esempio ha metodicamente evitato di seguire la folla nella seconda ora perché si trattava del momento di maggiore affluenza di pubblico. Durante la seconda ora della performance, mi faceva notare, tutti coloro che hanno prenotato sono ormai entrati, ma pochissimi sono quelli che hanno già deciso di andare via; questo rende più difficile il vedere le performance e quasi impossibile l’essere scelti per le esperienze individuali. Nel suo caso era la maschera ad avere il ruolo più viscerale: l’essere mascherato gli dava infatti la libertà di fare cose che non avrebbe azzardato altrimenti.
In questo stato di presenza/assenza che ricorda quella del "fantasma" della recensioni di Silvestre poteva, per esempio, avvicinarsi al performer per vedere cosa avesse nel piatto, aprire i cassetti nelle stanze, fissare qualcuno a lungo, tutte azioni che non avrebbe considerato se fosse stato a volto scoperto.
 



[NOTE]
132 Si sono seguite le indicazioni per le interviste, in particolar modo l'approccio dell'intervistatore, senza tuttavia voler produrre materiale utilizzabile per un archivio di Oral History. http://www.oralhistory.org/about/principlesand-practices/
133 Quattro degli intervistati erano parte di due coppie che hanno visitato "Sleep No More" insieme (due persone per sera).
134 ISPOCC è un gruppo di studio della Business School della Columbia University formato da ricercatori provenienti da diversi percorsi accademici, tra questi sociologia, marketing, economia e arti visive; l’obiettivo del gruppo è di studiare qualunque forma di creatività organizzata attraverso presentazioni e/o collaborazioni legate a “case-study”. La collaborazione con questa ricerca era parte delle attività annuali del gruppo.
135 Per esempio: se avevano sentito parlare della performance e come ne erano venuti a conoscenza, se avevano intenzione di visitarla, se l’avevano già visitata (e quante volte), cosa ne pensavano, etc.
136 dieci dei tredici partecipanti alla classe avevano dato la loro disponibilità, ma solo cinque sono riusciti a visitare la performance nell’arco temporale imposto.
137 Da un'intervista di uno "spettatore regolare"
138 A nulla sono valse le mie insistenze e la garanzia che non avrei più visitato la performance.
139 Non ho potuto verificare le indicazioni ricevute perché dopo l’intervista non sono tornata a "Sleep No More".
 




Diana Del Monte
, Momenti di teatro performativo tra Italia e Stati Uniti: Motus, Punchdrunk, Robert Wilson, Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore Milano, Anno Accademico 2016/2017

giovedì 24 febbraio 2022

I soldati sovietici si abbandonarono ad atrocità dettate dall’odio e fomentate dalla propaganda martellante di quei mesi



Nella sua rapida avanzata nei territori dell’Europa orientale, l’Armata Rossa si rese responsabile di gravi crimini che portarono ad ingenti perdite tra la popolazione civile. In questo contesto di terrore, caratterizzato da bombardamenti a bassa quota, fucilazioni, saccheggi ed incendi, si inserirono gli stupri di massa. <86
Con il rovesciamento della sorte del conflitto, la violenza sessuale iniziato dai nazisti con l’Operazione Barbarossa, si ritorse contro la popolazione tedesca, in particolare contro le Frau tedesche. La furia sovietica trovò sfogo sulle donne di pressoché tutti i villaggi dei territori orientali. Per tali donne l’arrivo dei sovietici significò l’inizio della più grande tragedia: molte di loro non riuscirono a sfuggire alle violenze sessuali degli uomini sovietici che perpetrarono gli stupri pubblicamente e ripetutamente, causando in molti casi la morte delle vittime. Attraverso l’oltraggio dei cadaveri, l’Armata Rossa non mostrò solamente il disprezzo per le donne <87, ma trovò anche il mezzo affrancarsi dallo stereotipo nazista di subuomo. La violenza si configurò quindi come una prova di forza e di virilità per i soldati dell’Armata Rossa.
È possibile comprendere l’estensione e la sistematicità di tale fenomeno solo se si tiene in considerazione il carattere totale di questa guerra iniziata da Hitler. Per giungere alla distruzione del virus nazista e per affermare il trionfo della giustizia <88 gli uomini di Stalin non distinsero tra bersagli militari e civili: tutti i tedeschi furono considerati complici e responsabili del conflitto condotto in Unione Sovietica. Anche la sofferenza personale fu un elemento essenziale nel comportamento degli uomini sovietici: dopo lunghi anni al fronte gli uomini non riuscirono più a vedere tracce di umanità nelle vittime. L’idea a cui si abituarono fu che la vittima meritasse tale dolore. Il desiderio di infliggere del male fu inoltre alimentato dalla propaganda e la rivista umoristica Krokodil che dipinse le donne tedesche come avide sostenitrici del nazismo, colpevoli quanto gli uomini di quella guerra di annientamento. In generale tutta la stampa sovietica diffuse l’idea che i tedeschi, e conseguentemente anche le donne, avessero dovuto pagare per il male inflitto al popolo sovietico. Gli stupri di massa possono essere quindi inseriti all’interno di un processo personale, oltre che culturale, di desiderio di rivalsa.
Ciò che emerge dai racconti delle donne, vastamente registrati nel fondo documentaristico Ost-dokumentation presso il ministero federale tedesco per i rifugiati, è un periodo completamente pervaso dalla violenza, dalla paura e dall’angoscia.
«[…]Poi arrivarono i russi che mi illuminarono con una torcia e mi dissero: “Donna, adesso riceverai un posto in cui stare”. Il posto in cui sarei rimasta era un rifugio anti-aereo. All’interno vi era un tavolo. Nella notte arrivarono i russi, uno dopo l’altro e mi stuprarono. A quel punto è come essere morti. L’intero corpo è in preda ai crampi. Si prova repulsione. Sì, repulsione. Non potrei esprimerlo in altro modo. Tutto questo fu contro la nostra volontà. Eravamo considerate prede facili [Freiwild]. Non posso dire quanti uomini ci fossero- dieci, quindici. In ogni caso andò avanti e avanti. Ve n’erano così tanti, uno dopo l’altro. Uno di loro, ricordo, mi voleva ma poi mi disse: “ Quanti compagni sono stati qui? Si rivesta”» <89
2.1 La fase iniziale degli stupri
Secondo la versione ufficiale nazista il 21 ottobre 1944 i sovietici entrarono nel villaggio di Nemmersdorf, una piccola cittadina di 650 abitanti circa che fu riconquistata dai tedeschi due giorni dopo e che si rese nota per le atrocità che la popolazione si trovò a subire. Secondo alcune fonti, i soldati sovietici avrebbero stuprato, mutilato e crocefisso le donne del luogo. <90 Il Dr. Amberger, luogotenente del secondo reggimento di riserva «Herman Göring», giunto sul luogo per la resistenza, raccontò:
«Decine di corpi giacevano nei cortili di case private, tutti civili, che ovviamente non erano stati catturati in un fuoco incrociato, ma erano stati intenzionalmente assassinati. Ho visto in mezzo a loro donne che, dallo stato e la posizione dei loro vestiti , avevano certamente subito violenze sessuali, e poi uccise da un colpo alla base del cranio. In alcuni casi i loro figli allo stesso modo assassinati giacevano accanto a loro.» <91
Joseph Goebbels reagì prontamente a quest’episodio, sembrava fosse ciò di cui avesse bisogno per smuovere le acque ed infondere una nuova forza nel Reich. Egli elevò il caso di Nemmersdorf e ne fece un caso propagandistico, il simbolo della fase finale della guerra. <92 Secondo un’annotazione del 26 ottobre sul suo diario, egli attestò:
«[…] Sono delitti in effetti terribili. Li userò come spunto per una grande campagna di informazione destinata alla stampa, affinché anche gli ultimi, ingenui osservatori della nostra epoca si convincano di che cosa il popolo tedesco deve aspettarsi qualora i bolscevichi dovessero realmente impadronirsi del Reich.» <93
Tra le diverse ipotesi finora avanzate, quella più sostenuta è che Göbbels approfittò di questo momento per alimentare la resistenza dei propri uomini e per tale motivo mise in atto una distorsione degli avvenimenti. Nell’archivio federale sono conservati i negativi delle foto scattate a Nemmersdorf ed è evidente che i corpi sono stati spostati ed allineati. Sembra che la volontà di rappresentate le donne con le gonne sollevate, senza intimo e con i genitali insanguinati sia stata una scelta deliberata del regime. <94 Rimane dunque il dubbio se ciò che è stato raccontato sia verità o frutto della propaganda nazista. <95
Se gli avvenimenti di Nemmersdorf rimangono ancora oggi dubbi, è possibile riscontrare quelle che furono le conseguenze dell’occupazione sovietica tra il 29 gennaio e il 19 febbraio nella cittadina di Metgethen, un sobborgo della città di Königsberg, capoluogo della Prussia Orientale. Horst A. il quale all’epoca era un autista per il primo distaccamento di riserva dei servizi segreti a Königsberg, racconta:
«Quando abbiamo raggiunto Metgethen, ci siamo confrontati con una vista raccapricciante:[…] alcune donne avevano i loro seni recisi, in alcuni giardini c’erano donne con addosso pochi stracci appese a testa in giù. In una casa ci siamo imbattuti in una donna di 63 anni, ancora in vita. Piangeva, ci ha detto che era stata violentata da 12 o 15 russi. Giaceva sul pavimento coperto di sangue. La figlia di questa signora era fuggita nella foresta nelle vicinanze, ma il suo bambino di appena un anno era stato rapito dai russi. Per le strade di Metgethen, e anche presso la stazione ferroviaria, abbiamo trovato circa 15 carrozzine , qualcuna rovesciata , tutte vuote. Abbiamo concluso che questo significava i russi avevano anche rapito questi bambini.» <97
Un prigioniero di guerra britannico, che all’arrivo dell’Armata Rossa si trovò in un campo di prigionia in Pomerania, descrisse in una lettera rivolta alle autorità statunitensi quanto si stava verificando in quei giorni:
«Nel territorio del nostro campo di internamento[…] i soldati rossi hanno violentato sistematicamente, nelle prime settimane dopo la conquista, tutte le donne e tutte le ragazze fra i dodici e i sessant’anni. Suona esagerato, ma è la verità. Le uniche a salvarsi sono state quelle ragazze che sono riuscite a nascondersi nei boschi o che hanno avuto sufficiente presenza di spirito per fingersi di essere malate di tifo, differite o altre malattie contagiose. In preda all’ebrezza della vittoria, e spesso pieni del vino che avevano trovato nelle cantine dei ricchi possedenti della Pomerania, i rossi hanno perquisito ogni casa in cerca di donne, le hanno terrorizzate con le pistole e i mitra, e le hanno trascinate nei loro carri armati o autocarri. I padri e i mariti che hanno tentato di difendere le loro donne sono stati uccisi, e sono state assassinate anche le ragazze che hanno opposto resistenza.» <98
È possibile tentare di periodizzare questo flusso di violenza in due fasi <99: la prima fase fu dinamica, legata all’avanzata sovietica e alla conquista delle città tedesche. Interessò principalmente i territori della Prussia orientale, Slesia e Pomerania tra il gennaio e il febbraio del 1945. Fu un momento in cui la violenza si verificò in forma indiscriminata e brutale; coinvolse donne di ogni età, dalle più piccole alle più anziane e colpì addirittura le più deboli, come le donne ammalate o disabili.
«Mia mamma e mia zia avevano più di cinquant’anni, ed entrambe furono stuprate da giovani soldati russi.» <100
«Quando si trattava di stupro, l’età delle donne non veniva presa in considerazione. Mia madre, che a quel tempo aveva cinquantaquattro anni, non fu risparmiata. Mi è noto anche il caso di una anziana signora che aveva 85 anni e che da due anni era costretta a letto alla quale non fu risparmiata la violenza sessuale. […] non sappiamo se i russi l’abbiano uccisa o se sia morta di fame» <101
Non ci fu un limite nemmeno nel numero delle volte ed in alcuni casi le donne furono violentate fino alla morte.
«[…] Quando tornammo a casa Giese alle tre del mattino, udimmo un vagito dal seminterrato: la signora Giese con le sue quattro figlie e la signora v. Sydow con sua figlia, tutte impiccate nel seminterrato. In mezzo a loro c’era un soldato che russava. Le donne però non erano state uccise per impiccagione, ma erano state precedentemente stuprate e maltrattate, ebbene, si trattava di omicidi sessuali.» <102
I soldati si abbandonarono ad atrocità dettate dall’odio e fomentate dalla propaganda martellante di quei mesi.
La violenza ebbe spesso un carattere pubblico, si presentò come un momento di umiliazione, non solo per la donna in sé, ma anche per i familiari e passanti che si trovarono ad assistere a tali scene. Se le donne o i loro cari avessero opposto resistenza sarebbero stati uccisi sul posto ed i loro corpi esposti pubblicamente. <103
«Donne di età compresa tra 60 e 65 anni e bambine di 12 anni furono violentate dai russi. Contro le donne che opposero resistenza fu usata la forza. La donna veniva tenuta ferma da due russi mentre il terzo la stuprava. Le ragazze che anche in tal caso non si concessero, furono spietatamente uccise o appese per le gambe in modo da tenerle a testa in giù fin quando perirono nella sofferenza. Nel caso in cui l’introduzione del membro maschile non fosse stata possibile, l’organo sessuale femminile veniva reciso e le donne furono lasciate morire dissanguate.» <104
«Avevano violentato l’anziana nonna Hopp, la quale era rilegata ormai a letto, la lasciarono poi nella lavanderia. Il mattino seguente era morta. I russi presero poi un cadavere che legarono ad una carrozza che guidarono per la città. Doveva fungere da monito: coloro che si fossero opposti non avrebbero avuto una sorte migliore. Sul nostro volto si leggeva la paura. Per permettere ai russi di entrare liberamente nell’abitazione, ci fu negato il permesso di chiudere a chiave la porta di casa durante la notte. Vennero quasi ogni sera e anche durante la notte. Spesso, se ci eravamo appena addormentate, tamburellavano sulla finestra. Poco dopo si trovavano di fronte al nostro letto. Non appena bussarono alla finestra ebbi i crampi e persi i sensi. Mia mamma mi prese tra le braccia e mi scosse. I miei occhi si girarono e il mio corpo intero iniziò a tremare. I miei denti battevano e dalla mia bocca fuoriusciva schiuma come un animale rabbioso. Non ricordo quanto sia durato quest’episodio. Mi aggrappai a mia mamma ed ero spaventata a morte. Non la aiutò. Notte dopo notte mia mamma dovette recarsi nel fienile. Avrei potuto urlare quanto volevo… Avevo smesso di essere una bambina.[…] Avevo paura, solo paura. Da quel momento in poi non ebbi più il sorriso di una bambina felice.» <105
I cadaveri violati furono poi abbandonati sulla strada o nelle piazze dei villaggi con le gonne sollevate, il ventre squartato ed i seni recisi: fu un messaggio di odio dei vincitori sui vinti oltre che un messaggio di monito ed ogni tentativo di offrire loro una degna sepoltura fu fermato dalle autorità.
Secondo alcune testimonianze lo stupro delle donne fu un ordine preciso di Stalin, tuttavia non sono stati ritrovati volantini che lo certifichino. Ciò che è sicuro è che il leader sovietico fosse a conoscenza di quanto stava accadendo in quel momento nei territori liberati <106, tuttavia il suo obbiettivo era quello di giungere quanto prima al cuore del Reich. Pare infatti che Stalin, in un colloquio con Milovan Djilas in merito agli stupri avvenuti nei territori del nord della Jugoslavia abbia così affermato:
«Possibile che Djilas, che pure è uno scrittore, non abbia esperienza delle sofferenze umane e del cuore umano? Possibile che non riesca a comprendere un soldato che, dopo aver percorso migliaia di chilometri fra il sangue, il fuoco e la morte, se la spassa con una donna o si appropria di qualche bagatella?» <107 <108
Le realtà sgradevoli della fase finale della guerra traspaiono anche nei seguenti testi tratti da alcune lettere sequestrate al servizio postale di campo dell’Armata Rossa:
«E adesso ci prendiamo la nostra rivincita sui tedeschi per tutti i loro atti deplorevoli commessi contro di noi. Noi siamo autorizzati a fare quello che ci pare con i furfanti tedeschi. »
« Le madri tedesche devono rimpiangere il giorno in cui hanno dato alla luce un figlio. Che le madri tedesche ora sentono gli orrori della guerra in prima persona. Devono sperimentare su loro stesse quello che hanno causato agli altri. »
«Ci sono solo vecchi e bambini in Germania, pochissime ragazze. Noi li uccidiamo comunque.»
«Ora ci stiamo imbattendo nei civili tedeschi, e i nostri soldati stanno facendo buon uso delle donne tedesche »
«Ci sono un sacco di donne in tutto, ma non capiscono una parola di russo. Ma questo è anche meglio, perché non bisogna conversare. Basta puntare il Nagan [fucile] e gridare, 'Sdraiati! 'Poi fai quello che devi fare e te ne vai. »
«Siamo nel cuore della Prussia orientale dove stiamo dando la caccia ai Prussiani […]. I nostri ragazzi hanno già provato tutte le donne tedesche.» <109
Nel tentativo di spiegare le ragioni che portarono l’Armata Rossa agli stupri, la storiografia ha tenuto in considerazione anche altri elementi oltre al desiderio di rivalsa. Ad esempio Schnetzer notò che anche il livello d’istruzione e di educazione personale ebbe un peso nell’azione sovietica: i più istruiti mostrarono vergogna per ciò che i propri compatrioti misero in atto durante la liberazione e l’occupazione. <110
Non mancò chi si oppose a tali atrocità: Aleksandr Solzhenitsyn, allora un giovane capitano dell’Armata Rossa descrisse l’entrata del suo reggimento della Prussia orientale ad inizio gennaio:
«Per tre settimane la guerra si condusse sul suolo tedesco a tutti noi eravamo a conoscenza del fatto che se le donne erano tedesche avremmo potuto stuprarle e ucciderle.» <111
e ancora:
«Höringstrasse 22. Nessun incendio ancora, però devastazioni, saccheggi. Attraverso la parete, attutito, un gemito: trovo la madre ancora viva. Quanti le sono piombati addosso sul materasso? Una compagnia? Un plotone? Che importa! La figlia, una bambina ancora, uccisa. Il tutto all’insegna della semplice parola d’ordine: Non dimenticare niente! Non perdonare niente! Sangue per sangue!... E dente per dente. Quelle che erano ancora vergini diventano donne, e le donne…cadaveri presto. Già annebbiata, gli occhi che sanguinano, lei implora “Uccidimi, soldato!” Non vedete gli sguardi turbati? Sono anch’io uno di loro.» <112
Solzhenitsyn si oppose alle violenze indiscriminate nei confronti dei civili ma proprio per questo fu imprigionato e successivamente esiliato dalla Russia. La stessa sorte toccò anche a Lev Kopelev, autore comunista che si trovò a combattere nell’Armata Rossa, accusato di simpatizzare con il nemico per le sue critiche al comportamento degli uomini dell’Armata Rossa nella guerra in Prussia orientale. I testimoni di tali atrocità furono presto emarginati e messi a tacere. <113
 



[NOTE]
86 Brigitte U. Neary, Recognition Stigma,op.cit.
87 Susan Brownmiller, Contro la nostra volontà, op.cit, p.13.
88 G. Ranzato, Guerra totale e Nemico totale, in Marcello Flores, Storia, Verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano, 2001, p. 70.
89 Intervista a Hanna Seddig in http://www.liveleak.com/view?i=756_1300383585
90 Bernhard Fisch, Nemmersdorf, op.cit.,p. 41. Vedi anche http://win.storiain.net/arret/num201/artic4.asp
91 Testimonianza originale trovata nell’Achivio Federale Tedesco, Ost-Dok. 2, Nr. 13, pp. 9-10, cit. in Alfred Maurice de Zayas, A Terrible Revenge, op.cit.,p. 36.
92 Bernhard Fisch, Nemmersdorf, op.cit.,p.19. Questa tesi è sostenuta anche da Rudolf Grenz, uno studioso che nel 1971 affermò di essere venuto a contatto nel 1945 con un volantino nazista che incitava alla rabbia per gli avvenimenti della cittadina prussiana. Del volantino nazista dà conferma anche la giornalista Ulla Lachauer la quale trovò questo volantino il 13 ottobre 1992 in un edificio a Tilsit.
93 Guido Knopp, Tedeschi in fuga, op. cit., p. 42.
94 Bernhard Fisch, Nemmersdorf, op.cit.,pp.132-134.
95 ivi,p.41. L’irruzione sovietica nei territori tedeschi fu largamente trattata nel Reich e con la fine del secondo conflitto mondiale molteplici autori hanno tentato di ricostruire gli avvenimenti senza tuttavia giungere ad una verità assoluta.
96 https://mcexcorcism.wordpress.com/2011/01/03/nemmersdorf-1944/
97 Ost-Dok. 2/20, p. 8., in in Alfred Maurice de Zayas, A Terrible Revenge, op.cit.,p.39.
98 Guido Knopp, Tedeschi in fuga, op.cit.,pp.261-262.
99 Antony Beevor, Berlino 1945, op.cit., pp. 355-356.
100 Renate Hoffmann in Johannes Steinhoff, Peter Pechel, Dennis E. Showalter, Helmut D. Schmidt, Dennis Showalter, Voices From The Third Reich: An Oral History, Da Capo Press, 1994, p. 459.
101 Testimonianza di ohanna Pallentien di Lo wenhagen in Prussia orientale in Ostdeutscher Literaturkreis (Hg.). Flucht - Vertreibung - Verschleppung - Deportation - Zwangsumsiedlung. Sonderausgabe der Jahresschrift Mitte und Ost. Bd. 6/7.1997, S. 96 f. http://www.germanvictims.com/wp-content/uploads/2015/08/behandlung-der-deutschen-bevoelkerung-bei-und-nach-kriegsende7.pdf
102 Margret Boveri, Tage des berlebens: Berlin 1945. Munchen, 1968, p. 106.
103 Matteo Ermacora, Freiwilde/ Prede facili, cit., p. 122.
104 Testimonianza di Adolf Ogait da Ackmenischken, Kreis Elchniederung (Prussia Orientale). In: Ahrens, Wilfried. Verbrechen an Deutschen. Rosenheim 1983, p. 80.
105 Rinklin Erna: Mama, as ollen diese M nner?: Kriegsende in Ostdeutschland. Mu nchen 1999, p. 87.
106 Antony Beevor, The Guardian, They raped every single woman from 8 to 80, 1 maggio 2002
107 Ingrid Schmidt-Harzbach, Eine Woche im April, Berlin 1945, Vergewaltigungen als Massenschicksal, in in Helke Sanders, Barbara Johr, Befreier und Befreite, Krieg, Vergewaltigungen, Kinder, Fischer Taschenbuch Verlag, Fraconforte, 1995, p.34.
108 Susan Brownmiller, Contro la nostra volontà, op.cit., p. 82.
109 German Federal Archives/Military Archive, Record Group H3/665 in Alfred Maurice de Zayas, A Terrible Revenge, op.cit., pp. 46-47.
110 Hoover Institution Archive (HIA) , Max Schnetzer. Tagebuch , pp. 156-157 in Norman Naimark, The Russian in Germany, A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1949, Cambridge, Massachusetts e Londra, Harvard University Press, 1995, p.111.
111 Aleksandr Solzhenitsyn, The Gulag Archipelago ,New York, 1974, p. 21 in in Alfred Maurice de Zayas, op. cit., p. 47.
112 Guido Knopp, op.cit., p. 262.
113 Catherine Merridale, I Soldati di Stalin, op.cit., p. 297. Anche Anonima incontra chi non condivide questo tipo di scelte. «In tono cattedratico Andrei dice che disapprova «cose del genere», e intanto evita imbarazzato di guardarmi; nella donna lui vede la compagna, non il corpo» in Anonima, Una donna a Berlino, Diario aprile-giugno 1945, Einaudi, Torino, 2004 pp. 77-78.



Rosaria La Iosa, Il volto nascosto del Secondo Conflitto Mondiale: gli stupri di massa sovietici in Germania nella storiografia, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

martedì 22 febbraio 2022

I francesi di Tunisia sono oggi estremamente sospettosi e sensibili


In effetti, la situazione nel corso del 1954 si modificava rapidamente e, se nel luglio il Console Marchiori confidava ancora di «poter continuare a tenere la collettività in equilibrio tra arabi e francesi», <30 in breve sui rappresentanti italiani aumentarono le pressioni da ambo le parti: nell’ottobre si cominciò a verificare «una precisa discriminazione a favore dei nostri connazionali da parte dei terroristi nazionalisti tunisini (fellaga)» <31 e da parte tunisina, in via riservata, ci venne manifestato «il desiderio di valersi di esperti italiani, specialmente economico-finanziari e giuridici, per assistere la loro legazione nel corso dei negoziati con la Francia»; <32 contemporaneamente, Prato riconosceva che «da parte francese ci si è dimostrati in questi ultimi giorni particolarmente premurosi nei nostri confronti. Il Capo di Gabinetto diplomatico ha detto a Marchiori che a Parigi si avrebbe l’intenzione di fare qualcosa per gli italiani e che alla Residenza e al Quai si è entrati nell’ordine di idee di prendere in considerazione la richiesta, avanzata da Marchiori da oltre un anno, di abolire l’obbligo, tuttora in vigore per gli italiani, del visto di entrata e di uscita in Tunisia. Seydoux ha anche promesso di riesaminare le richieste di Marchiori concernenti il problema dei disoccupati (circa 3 mila), quella degli espulsi (circa 4 mila), la ricostituzione delle varie associazioni tradizionali italiane, una più larga introduzione della nostra stampa. È evidente che tutto ciò sia da porsi in relazione alle sempre maggiori difficoltà che i francesi devono fronteggiare con i tunisini». <33 Nel secondo semestre del 1954, in effetti, la posizione assunta dal nuovo Résidant Général, Boyer de Latour, nei confronti della collettività italiana, al Console d’Italia «sembra più comprensiva di quella dei suoi predecessori: essa è soprattutto meno sciovinista e più inquadrata in una moderna visione atlantica ed europeistica dei problemi politici». <34
Le condizioni della comunità italiana in Tunisia, in ogni caso, erano nel 1954 ancora lontane da una sistemazione definitiva. Come evidenzia il resoconto delle riunioni ministeriali sul tema del 6 e del 9 novembre di quell’anno, «esistono ancora diversi resti di quella bardatura di complessi psicologici, divieti, limitazioni, cattive abitudini in sede amministrativa, ecc. ecc. in senso anti-italiano, che furono il prodotto della reazione francese contro di noi nel periodo immediatamente successivo alla “liberazione”». <35 In virtù dei nuovi rapporti stabilitisi con i francesi, quindi, proprio nel 1954 le rivendicazioni italiane si fecero insistenti: un primo ambito di confronto fra Italia e Francia era quello propriamente politico, incentrato sul problema dell’incidenza dell’autonomia tunisina sullo statuto degli italiani, a fronte dell’assenza di una convenzione di stabilimento italiana per la Tunisia; sul piano locale, invece, le richieste della collettività italiana si legavano al permanere di questioni di carattere amministrativo, come ad esempio il recupero dei beni italiani sequestrati o la rinascita della vita associativa italiana; ovviamente, ulteriori contrasti fra Francia e Italia nascevano sul piano economico (che verrà qui affrontato a parte), mentre il quarto ambito di scontro era quello culturale, con il tentativo italiano di mantenere un ruolo attivo in questo settore della vita della colonia francese.
Sul piano politico, dunque, si susseguivano gli approcci diplomatici nei confronti dei francesi, al fine di manifestare «la opportunità reciproca di una Convenzione che, assicurando agli italiani un trattamento analogo a quello che sarà riservato ai francesi, varrà anche a consolidare ed incoraggiare una sempre più stretta ed operante solidarietà della numerosa collettività italiana in Tunisia con i francesi». <36 In sostanza, l’azione italiana tentava di orientare l’opinione pubblica francese verso «l’idea che francesi ed italiani abbiano legato le loro sorti in Tunisia per la buona e la cattiva ventura (vale a dire nel linguaggio locale per la conservazione del dominio francese a Tunisi)» <37 e in cambio sperava di ottenere vantaggi in alcuni settori significativi: nel dicembre 1954, infatti, Marchiori esplicitò che «le questioni che a questo riguardo sembrerebbero più suscettibili di interessarci agli effetti della nostra collettività sono tre: la questione della nazionalità delle nuove generazioni; la questione della giurisdizione; la questione della libera disponibilità dei beni e delle persone». <38
In merito al problema della nazionalità, il Console aveva già riferito in un lungo rapporto dell’ottobre, evidenziando tre esiti possibili e indagandone i vantaggi: Marchiori si chiedeva, infatti, «che cosa in questo campo sarebbe per noi preferibile? a) che le cose restino come sono, e cioè che, attraverso le naturalizzazioni francesi e l’applicazione dello “jus loci” in favore della cittadinanza francese, continui il processo di francesizzazione della nostra collettività? b) che naturalizzazioni e “jus loci” giochino a favore della cittadinanza tunisina? c) che si ritorni all’applicazione dello “jus sanguinis”, lasciando invece per la naturalizzazione la facoltà a coloro che vogliono perdere la cittadinanza italiana di optare per la cittadinanza francese, oppure per la cittadinanza tunisina, oppure ancora per l’una e per l’altra? […] Per parte mia, lasciando da parte ogni considerazione di carattere sentimentale e patriottico, osservo: - la soluzione a) ha il grave difetto che gli italiani, divenendo francesi, in cambio degli indiscutibilmente grossi vantaggi materiali che in un primo momento ne avrebbero, verrebbero a correre tutti i rischi e pericoli che l’essere francese qui sempre più comporta, mentre restando italiani, per quanto male le cose possano andare per tutti gli europei in genere, non avrebbero torto di sperare in un futuro, comunque, più benigno; - la soluzione b) comporta tutte le ovvie, gravi incognite insite nell’esistenza di una collettività europea e cristiana in un paese arabo e musulmano; - la soluzione c), oltre che per via d’esclusione delle altre due, anche per essa stessa, sarebbe evidentemente la preferibile». <39 Nel dicembre, però, il Console comunicava al MAE (Ministero degli Affari Esteri) di aver riscontrato negli interlocutori «la solita estrema reticenza, già sperimentata in questa materia anche in passato, nonché un certo malcelato imbarazzo. Ne arguirei che la partita non sia stata ancora definitivamente giocata e che essa desti tuttora molte apprensioni. Ho, comunque, netta l’impressione che i francesi intendano sempre fare ogni possibile sforzo per mantenere in questo campo lo status quo: ciò che significa applicazione dello jus loci a favore della cittadinanza francese». <40
«Per ovvi motivi, mentre per la questione della nazionalità, tra francesi e tunisini, i più ricettivi, anzi i soli ricettivi, delle nostre eventuali osservazioni e richieste dovrebbero essere i tunisini, per la questione della giurisdizione, che, in sostanza sarebbe da noi posta per scarsa fiducia nei tribunali tunisini, è invece soltanto ai francesi a cui dovremmo rivolgerci». <41 Infatti, in base alle Convenzioni ormai decadute del 1896, in Tunisia era prevista la competenza esclusiva dei tribunali francesi nel caso in cui una delle due parti o entrambe fossero europee; con le trattative per l’autonomia, però, da parte italiana si temeva che si volesse ridurre la competenza francese nei confronti degli europei non francesi, fra cui gli italiani. Per Marchiori, però, «non è ammissibile che nel campo giurisdizionale ci sia riservato un trattamento di disparità a nostro svantaggio e che per noi non ci si preoccupi, o ci si preoccupi meno che per i francesi, di lasciarci esposti alle incognite della giurisdizione tunisina, quasi che i nostri interessi di europei fossero meno meritevoli di garanzia e di difesa di quelli di altri europei». <42
Infine, riguardo alla libera disponibilità dei beni e delle persone e a tutta quella serie di “desiderata” italiani che si legavano allo «smantellamento totale degli ultimi postumi di una situazione ormai superata» <43 e che andavano dalla richiesta della facoltà associativa <44 all’ammissione della stampa italiana, <45 dalla libertà di esercizio delle professioni liberali alla possibilità di assunzione degli stranieri nei pubblichi impieghi, <46 dalla riduzione delle formalità per l’acquisto di beni già oggetto di misure di liquidazione alle facilitazioni nel recupero dei beni requisiti, per il Console è evidente che «l’incalzare della minaccia nazionalistica, oltre all’azione del tempo, non può, in definitiva, non influire su queste autorità francesi nel senso di far loro considerare l’opportunità e politicità dell’azione nei nostri confronti di provvedimenti distensivi e liberali, in modo da migliorare il trattamento riservato a quella che costituisce ben la terza parte di tutta la comunità europea della Tunisia. Ed è lecito ritenere che in questo particolare momento non abbiano mancato di agire in tal senso, sia la prospettiva di quella contrazione dell’imperio e controllo della Francia su questo paese che, ove venga effettivamente realizzata, dovrebbe comportare l’autonomia interna, sia le preoccupanti incognite del futuro, ove l’accordo su tale autonomia potesse non essere raggiunto». <47
Più complessa, invece, risultava la questione relativa all’autonomia intellettuale della collettività italiana: l’attività culturale italiana, infatti, era palesemente orientata al mantenimento del carattere di italianità della collettività e, in quanto tale, era stata in passato fortemente avversata dai francesi; l’evoluzione in corso fra 1954 e 1955, invece, è ben evidenziata da un telespresso di Marchiori del dicembre 1954, con cui il Console ricordava che «fino ad alcuni mesi fa, il problema quasi non si è posto, perché, come è noto, non era ancora il caso, data la nota situazione psicologica di questi ambienti francesi – o più precisamente di queste autorità francesi – nei nostri confronti, di iniziare in questo campo una nostra azione sistematica. In passato ci si è limitati ad incoraggiare, od organizzare, la rappresentazione di spettacoli teatrali e cinematografici italiani, si è tenuta qualche conferenza di argomento italiano, si sono organizzate mostre di pittori, ecc. Tutte manifestazioni saltuarie, promosse di quando in quando, allorché si presentava la favorevole occasione per farlo e che non ci sono costate nulla o ci sono state finanziate volta per volta. Ma ora, che si ha ragione di ritenere che i locali complessi francesi antitaliani siano per lo meno diminuiti e che più agevolmente che negli anni scorsi possiamo tentare di combatterli, che la nota evoluzione della situazione politica tunisina induce, sebbene obtorto collo, questi francesi ad avere maggiori riguardi nei confronti di questa nostra collettività […] mi permetto rappresentare la necessità che codesto Ministero voglia provvedere a stanziare, a partire dall’anno finanziario in corso, un congruo fondo per un’attività culturale italiana in Tunisia». <48
Con l’inizio della “nuova fase” distensiva, la prima richiesta del Console in ambito culturale fu, in realtà, relativamente modesta: si trattava dell’invio di libri da Roma per la creazione di una biblioteca italiana presso il Consolato, <49 dove aveva sede la nuova Società culturale italo-francese (un ente misto, nato per compensare l’irrinunciabile soppressione della Società Dante Alighieri, che «aveva svolto a Tunisi un’attività così smaccatamente politica che oggi anche i più favorevoli agli italiani lo ricordano semplicemente come uno strumento di vivace propaganda antifrancese e non ne vogliono neppure sentir parlare» <50). Quanto alla più spinosa questione delle scuole italiane in Tunisia (dopo l’occupazione da parte delle forze armate francesi, erano state tutte chiuse, gli insegnanti espulsi e gli immobili requisiti), <51 ancora nel 1954, in Tunisia «non solo non esistono scuole italiane di nessun genere, ma l’interdizione dell’insegnamento della lingua italiana e di qualsiasi attività scolastica di carattere italiano (l’insegnamento facoltativo dell’italiano in alcune scuole francesi è più che altro simbolico) è in cima ai pensieri di queste autorità francesi» <52 e il Console sottolineava come fosse stato «sempre ben chiaro che non era neppure il caso di parlarne coi francesi. Non solo non ne sarebbe uscito nulla, ma li avremmo inaspriti e resi più sospettosi e difficili per tante altre questioni di fondamentale importanza, ai fini della normalizzazione dell’esistenza di questa nostra tartassatissima comunità». <53
In tutti questi ambiti si stava verificando, in sostanza, una, sia pur lentissima, evoluzione positiva, ma, allo stesso tempo, con l’avanzare delle trattative franco-tunisine, in una situazione via via più tesa, la presunta neutralità della collettività italiana tendeva a complicare i rapporti e a porre la collettività italiana in una posizione sempre più scomoda: se la Francia aveva ipotizzato di utilizzarli per far fronte comune contro il movimento tunisino, «gli italiani di Tunisia si sottrassero a tale disegno […]. Per un verso ottennero così “di essere rispettati” dai nazionalisti tunisini, mentre per l’altro i francesi non potevano che essere “seccatissimi di quella specie di tacita intesa italo-araba”».54 Il Console Marchiori, ad esempio, riferiva che, dall’inizio del 1954, era aumentato «il numero delle segnalazioni - anzi lagnanze - che provengono al Consolato da vari nostri connazionali in tema di pressioni su di loro esercitate da autorità e organizzazioni francesi per associarli ai residenti francesi e - dicono gli italiani - comprometterli in senso anti-arabo». <55 Al contrario, secondo il Console, la campagna della Reggenza per gli arruolamenti nelle Unità territoriali (impiegate per prevenire le azioni dei fellaga nelle campagne tunisine) era stata, per quanto riguarda gli italiani, «un fiasco completo. […] Anche per quanto concerne la distribuzione delle armi alle fattorie non mi risulta che ci sia stato nessun italiano che le abbia cercate. E mi risulta, invece, che quando sono state offerte moltissimi hanno cercato di rifiutarle», <56 nonostante la minaccia di venir considerati come “persone d’accordo con gli arabi” e nonostante il «timore di qualche brutto scherzo da parte del terrorismo francese». <57 Rischi che suggerivano anche di evitare «sia dalla Radio che dalla Stampa ogni accenno all’argomento degli arruolamenti di italiani in Tunisia nelle unità territoriali colà create per fronteggiare l’attività terroristica dei fellaga, come pure quella della distribuzione di armi in aziende agricole italiane»; <58 come veniva prontamente comunicato all’Ufficio stampa del MAE, «l’aggravamento della situazione politica in Tunisia mette infatti i nostri connazionali in una situazione particolarmente delicata, e deve essere pertanto evitato con la massima cura ogni notizia ed ogni commento che sarebbero suscettibili di interpretazioni sfavorevoli nei loro confronti». <59 Il governo di Roma, in effetti, tramite i suoi responsabili, «non si nasconde i pericoli della situazione derivanti non solo dal terrorismo arabo, ma anche, e forse anche di più, da quello francese che potrebbe scatenarsi a danno degli italiani al primo accenno di collaborazionismo italo-arabo». <60
Secondo Marchiori, in sostanza, la situazione degli italiani «in relazione agli avvenimenti in corso, può così riassumersi: - i nazionalisti tunisini, tanto fellaga, quanto terroristi, hanno finora chiaramente dimostrato di voler rispettare gli italiani e per ora i nostri connazionali non hanno sofferto che qualche taglieggiamento […]; - gli italiani fanno tutto il loro possibile per mantenere gli arabi in buone disposizioni, ma naturalmente sono costretti a barcamenarsi con i francesi e spesso devono cedere nei loro confronti; - i francesi sono seccatissimi di questa specie di tacita intesa italo-araba e della conseguente neutralità degli italiani e danno l’impressione, se non proprio di cercare di comprometterli, di voler facilitare quando se ne presenta l’occasione, tutto ciò che potrebbe portarli ad entrare nella diatriba». <61 In tale contesto, secondo Marchiori, ogni passo ufficiale del Consolato era da escludere, in quanto «non solo avrebbe poco effetto ma rischierebbe di compromettere gravemente le invero molto buone relazioni che - non senza talvolta una certa fatica da parte nostra - riusciamo a mantenere con la Residenza e con le altre autorità francesi» <62 e grazie alle quali, proprio nel 1954, erano stati ottenuti, come si è visto, alcuni progressivi miglioramenti (fra cui, ad esempio, anche la costituzione di una Camera di Commercio per gli Scambi con l’Italia e la concessione dell’autorizzazione di pesca a venti pescherecci italiani, su cui si tornerà più avanti); le iniziative del Console, di conseguenza, si limitavano in tal frangente al carattere ufficioso e procedevano con massima cautela, dato che, secondo Marchiori, «i francesi di Tunisia sono oggi estremamente sospettosi e sensibili; e - diciamolo pure francamente - più la situazione peggiora, più sembrano aver perso il senso dell’equilibrio». <63
[NOTE]
30 Appunto segreto della DGAP - Uff. III del 26/7/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 990 Tunisia 1954 f. 6/1 Condizione degli italiani in Tunisia - Relazioni Trimestrali.
31 Appunto della DGAP - Uff. III del 11/6/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 990 Tunisia 1954 f. 6/1 Condizione degli italiani in Tunisia - Relazioni Trimestrali.
32 Appunto della DGAP - Uff. III “Tunisia” del 19/10/1954, cit.
33 Appunto della DGAP - Uff. III “Tunisia” del 19/10/1954, cit.
34 Tel.sso 19255/3026 dal Primo Vice Console, Salvatore Porcari Li Destri, al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Relazione trimestrale (luglio-agosto-settembre 1954): situazione interna ed internazionale della Tunisia” del 26/10/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 990 f. 6 Condizione degli italiani in Tunisia - Documenti diplomatici, sf. 1 Situazione politica in Tunisia - Rapporti trimestrali. Cfr. anche il tel.sso 18172/2944 dal Console generale a Tunisi, Carlo Marchiori, al MAE e all’Ambasciata di Parigi “Situazione politica tunisina: conversazioni con il nuovo Ministro Delegato presso la Residenza generale ed il capo del Gabinetto diplomatico - Collettività italiana” del 2/10/1954 e il f. segreto 18638 da Marchiori a Quaroni del 13/10/1954 (entrambi in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1110 Tunisia 1956 f. 17/3 Status degli italiani in Tunisia).
35 Appunto di Marchiori “Riunioni ministeriali del 6 e del 9 novembre 1954: Collettività italiana di Tunisia” del 10/11/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1110 Tunisia 1956 f. 17/3 Status italiani in Tunisia. Ad esempio, secondo Marchiori, «è così che ancora oggi v’è qualche migliaio di italiani tuttora espulsi per motivi politici; che per entrare ed uscire dalla Tunisia gli italiani devono procurarsi un visto francese, che nei migliori dei casi si fa attendere 15 giorni; che la stampa italiana – stampa indipendente, beninteso - non entra che in minima parte nel territorio della Reggenza; che la costituzione di associazioni tra gli italiani (per es. una sezione della Lega navale italiana) è sempre fortemente ostacolata dalla necessità di ottenere il prescritto permesso dell’autorità di polizia, che assai spesso si fa attendere all’infinito».
36 MAE, “Tunisia: Statuto della collettività italiana in Tunisia (con particolare riguardo alle conversazioni franco-tunisine)” s.d., in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1041 Tunisia 1955 f. 17 Aspetto italiano 1954-55.
37 Tel.sso riservato 1051/99 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “L’articolo de Il Messaggero sulla Tunisia e le reazioni locali” del 16/1/1952, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 861 Tunisia 1952 f. 10 Questioni concernenti i cittadini italiani sf. 10/1 Collettività italiana in Tunisia.
38 Tel.sso 24810/5228 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Incidenze dell’autonomia interna sugli italiani di Tunisia” del 16/12/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 990 Tunisia 1954 f. 6/1 Copie.
39 Appunto segreto “Eventuali incidenze dell’autonomia interna sugli italiani di Tunisia” del 20/10/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1110 Tunisia 1956 f. 17/3 Status degli italiani in Tunisia.
40 Tel.sso 24810/5228 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Incidenze dell’autonomia interna sugli italiani di Tunisia” del 16/12/1954, cit.
41 Appunto segreto “Eventuali incidenze dell’autonomia interna sugli italiani di Tunisia” del 20/10/1954, cit.
42 Ibidem.
43 Appunto di Marchiori “Riunioni ministeriali del 6 e del 9 novembre 1954: Collettività italiana di Tunisia” del 10/11/1954, cit.
44 Cfr. sf. Facoltà associativa italiani di Tunisia, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1041 Tunisia 1955 f. 10/1.
45 Cfr. il sf. Ingresso Stampa italiana in Tunisia, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1041 Tunisia 1955 f. 10/1.
46 Cfr., solo a titolo esemplificativo, la lettera n. 15917 presumibilmente di Marchiori a Guglielmo Pizzirani, Segretario dell’Ambasciata d’Italia a Parigi, del 1/9/1954 in merito all’esercizio in Tunisia delle professioni di medico, dentista, levatrice, veterinario, infermiere, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1110 Tunisia 1956 f. 17/3 Status italiani in Tunisia.
47 Tel.sso 18987/3006 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Situazione collettività italiana: nostri desiderata e recenti promesse da parte della Residenza di ulteriori miglioramenti alle sue condizioni” del 20/10/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1110 Tunisia 1956 f. 17/3 Status degli italiani in Tunisia.
48 Tel.sso 23028/4263 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Finanziamento attività culturale in Tunisia” del 3/12/1954, in ADMAE DGAP 50-57 b. 1113 f. 23 Scuole-Istituti-Relaz. Culturali.
49 Marchiori fornisce anche interessanti suggerimenti sui libri da inviare: oltre alle principali opere della nostra letteratura e a spartiti musicali, oltre a testi che incentivino il turismo verso l’Italia (e in particolare verso la Sicilia), il Console fa domanda per ottenere «una opportunamente selezionata raccolta di pubblicazioni sugli avvenimenti italiani degli ultimi decenni con riguardo anche all’ultima guerra e curando altresì di avere qualche libro serio e non artefatto che contribuisca a ristabilire la verità, nonostante la sconfitta, sulle virtù militari del nostro soldato, tanto denigrato da certa letteratura di guerra straniera»; inoltre, richiede «opere sull’apporto degli italiani alla scoperta e alla valorizzazione economica del continente africano, sui nostri contatti col Nordafrica, con il mondo arabo, col Medio Oriente» e, per quanto concerne i libri di storia, sottolinea che «sarebbe particolarmente gradito ricevere qualche buona opera di Storia Romana (Hartmann e Kromayer Momsen) e per quanto concerne la Storia italiana “La storia del Risorgimento” di Omodeo e “La storia d’Italia” e “L’Europa del XIX secolo” di Croce» (Tel.sso 23028/4263 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Finanziamento attività culturale in Tunisia” del 3/12/1954, cit.).
50 Tel.sso 20618/2857 da Prato al MAE “Situazione italiana a Tunisi” del 26/11/1952, cit.
51 Per un interessante confronto con la situazione delle scuole italiane in Tunisia nell’anteguerra si veda Romain H. Rainero, Presenza culturale e scuole italiane in Tunisia negli anni ‘30, in Jean Baptiste Duroselle e Romain H. Rainero, Il vincolo culturale tra Italia e Francia negli anni Trenta e Quaranta, Franco Angeli, Milano, 1986.
52 Appunto del Consolato Generale di Tunisi “Scuole italiane in Tunisia” s.d., in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1113 Tunisia 1956 f. 23 Scuole-Istituzioni-Relaz. Culturali.
53 “Stralcio di lettera del Console Generale in Tunisi” del 2/12/1955, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1113 Tunisia 1956 f. 23 Scuole-Istituzioni-Relaz. Culturali.
54 Antonio Maria Morone, Fratture post-coloniali, cit., p. 43.
55 Tel.sso 13515/2377 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Aspetto italiano attuale situazione tunisina” del 20/7/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1110 Tunisia 1956 f. 17/3 Status degli italiani in Tunisia.
56 Ibidem. In realtà, è impossibile stabilire il numero degli italiani arruolatisi più o meno volontariamente; Marchiori nel giugno del 1954 considera la cifra di 2.000 come una “forte esagerazione”, ma si preoccupa di una voce «secondo la quale sarebbe partito per le zone d’operazione un gruppo di 300 volontari italiani. Questa notizia è più attendibile (sebbene anche il numero di 300 mi sembri elevato). I nostri volontari sarebbero soprattutto dei giovani in gran parte disoccupati» (Lettera da Marchiori a Giustiniani del 16/6/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 990 f. 6 Condizione degli italiani in Tunisia, sf. 3 Rapporti con l’Italia).
57 Ibidem. Cfr. anche la lettera manoscritta inviata da Marchiori a Gasperini del 31/7/1954 sulla questione dell’engagement volontaire, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 990 f. 6/1 Condizione degli italiani in Tunisia – Documenti diplomatici, sf. Copie.
58 Appunto per l’Ufficio stampa di De Strobel del 5/6/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 990 f. 6/1 Condizione degli italiani in Tunisia - Documenti diplomatici, sf. Copie.
59 Ibidem.
60 Appunto segreto della DGAP - Uff. III (probabilmente Gasperini) del 26/7/1954, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 1110 Tunisia 1956 f. 17/3 Status degli italiani in Tunisia.
61 Tel.sso 13515/2377 da Marchiori al MAE e all’Ambasciata d’Italia a Parigi “Aspetto italiano attuale situazione tunisina” del 20/7/1954, cit.
62 Ibidem.
63 Ibidem.
Ilaria Cansella, Il ritorno dell'Italia in Africa. Affari e cooperazione fra anni Cinquanta e Sessanta, Tesi di dottorato, Università di Siena 1240, Anno Accademico 2017-2018