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lunedì 31 gennaio 2022

In Italia, quindi, i primi approcci con il giallo avvennero attraverso le traduzioni di opere straniere


Quando una legge fascista impose la presenza del 20% d’autori italiani in qualsiasi collana di letteratura, scegliendo chi dovesse confrontarsi con Wallace e Van Dine, nel 1931 Mondadori scelse Varaldo, che non poteva certo esser indifferente a una tipologia di romanzo che reinventava la tradizione dell’avventura e riformulava le tecniche dell’intrattenimento, un’opportunità per gli scrittori e una delizia per i lettori. Mondadori già nel novembre 1929 gli chiese qualche riga promozionale sulla letteratura poliziesca e sulla neonata collana «gialla», sicuro che lui, a differenza d’altri, non ne fosse «dispregiatore», ma anzi particolarmente predisposto come «i letterati inglesi che fanno le migliori feste a Wallace» <9.
L’ammiratore però divenne presto autore e uscì "Il sette bello", che nell’aprile del 1931 inaugurò la tradizione del «giallo» all’italiana, e che oggi sarebbe ancora godibile (qualcuno lo riprendesse in mano) <10. La narrazione in prima persona, come da tradizione anglosassone, è qui riproposta cinque volte con i diversi punti di vista dei protagonisti: centrale (anche perché terzo) è quello del commissario Ascanio Bonichi, prima Giovanni Révere, studente per comodità, che apre il romanzo, e Maddalena Terzi, studentessa di medicina detta “Maud”, poi altri due giovani come il bersagliere Biondo Biondi e il pittore Giacomo Serra.
Ispirato probabilmente da un personaggio realmente esistito, un funzionario della stazione di Ventimiglia che col suo arrivo rese più sicuro quel caotico crocevia, Ascanio Bonichi, il primo detective italiano, baffuto e bonario, è decisamente differente dal Philo Vance di Van Dine, che è quasi un dandy, cultore dell’arte e studioso di psicologia, un Superuomo (Van Dine era un appassionato di Nietzsche), mentre il personaggio di Varaldo non ha doti particolari, è nei fatti un uomo medio. Decisamente differente anche dal Mr. Reader di Wallace, un investigatore trasandato abbastanza criminale per riuscire a interpretare e prevedere le mosse dei veri criminali, mentre Bonichi non ha la ben che minima dannazione e s’ispira piuttosto a un altro illustre detective, non nascondendo la propria «passione per Sherlock Holmes e i travestimenti classici di quel pioniere della deduzione» (Varaldo 1936a: 108).
Andrea Camilleri in qualche occasione ha confessato come senta “un vago odore” di "Pasticciaccio" davanti alle pagine dedicate a Bonichi, ma qui, forse per fortuna, non si ha lo spazio per districare una matassa tanto intricata e delicata anche se la mescolanza di codici linguistici (raffinato e romanesco, specialistico e popolare, francese e dialetto) darebbe qualche conforto in più al confronto fra due romanzieri così sproporzionatamente diversi come Varaldo e Gadda che solo scriverli sulla stessa riga fa tremare i polsi.
[NOTE]
9 Lettera di Arnoldo Mondadori ad Alessandro Varaldo del 10 novembre 1929 (FAAM).
10 Il romanzo nel giro di un decennio sparì dalla circolazione, vi tornò nel 1977 nei “GIM” Mondadori e nel 2006 con un’edizione a cura di Francesco De Nicola per De Ferrari.
Alessandro Ferraro, Muy señor nuestro Alessandro Varaldo. La ricognizione nel mondo spagnolo e portoghese per riscoprire un autore italiano di successo ma dimenticato, Cuadernos de Filología Italiana, 2012, vol. 19

Il caso del giallo italiano presenta sin dagli esordi delle caratteristiche originali, riconducibili in primo luogo ad un diverso sviluppo dell'assetto politico ed economico sociale della nazione rispetto al mondo anglosassone. Innanzitutto lo sviluppo industriale tardivo e geograficamente disomogeneo dell'Italia che ha naturalmente ritardato il costituirsi di una classe borghese come in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, principale fruitrice della letteratura d'intrattenimento <58. Dal punto di vista strettamente culturale e letterario, sono ormai riconosciuti come deterrenti per lo sviluppo di una letteratura rappresentativa delle esigenze e dei gusti del popolo il peso della tradizione umanistica e l‘incapacità di dialogo tra classe intellettuale e popolare. Probabilmente però la scarsa divulgazione che conobbe il giallo in Italia all'inizio del '900 è imputabile allo stigma di inferiorità letteraria con cui veniva liquidato il genere, condizione che spinse per molto tempo, dagli anni '30 ai '70, al fenomeno del "giallo di contrabbando" <59. Con questa espressione si intende che i giallisti italiani preferivano pubblicare con pseudonimi stranieri, per una sorta di vergogna sociale data dal basso prestigio letterario di cui godeva il genere e, di conseguenza, per concedersi una maggiore libertà espressiva.
Tuttavia vanno ricordate, dalla seconda metà del Novecento, le eccezioni rappresentate da scrittori colti formatisi nell'epoca fascista, come Gadda e Sciascia. Mentre però Sciascia svilupperà la linea del poliziesco come forma stabile dei suoi romanzi, Gadda sceglie di cimentarsi col genere in un'opera che resterà incompiuta, "Quer pasticciaccio brutto di via Merulana" (1957). È chiaro in questo caso, però, che l'autore utilizza gli strumenti del giallo per giungere ad una narrazione complessa, consapevole che l'orizzonte ludico e d'intrattenimento non è l'unico possibile per il genere <60, così come avverrà successivamente anche per Sciascia.
Il pregiudizio sull'inferiorità letteraria del genere non era condiviso solo in Italia ma trovava diversi baluardi anche in autori e intellettuali stranieri; R.A. Freeman, ad esempio, non nascondeva il proprio disprezzo definendo il poliziesco "un prodotto di scrittori rozzi e assolutamente incompetenti, destinato a fattorini, commesse e, insomma, a un pubblico privo di cultura e di gusto letterario" <61.
In Italia, quindi, i primi approcci con il giallo avvennero attraverso le traduzioni di opere straniere ed è importante sottolineare come il poliziesco, in questa fase, rappresentasse una delle poche finestre attraverso cui mantenere contatti con le culture straniere. Un ruolo importante, nella fase precedente all'immissione dei romanzi nel mercato editoriale, fu svolta dalla collana "Il romanzo mensile" pubblicata sul "Corriere della Sera". Le pubblicazioni della collana, che si svolsero dal 1908 al 1945, permisero la diffusione delle opere di Poe e Doyle. La prima volta invece che venne pubblicato un poliziesco in Italia fu nel 1929 con "La strana morte del signor Benson" di S.S. Van Dine, inaugurando un‘apposita collana Mondadori, i Libri Gialli. Il giallo delle copertine giunse per estensione a definire tutto il genere. Il successo del romanzo di Van Dine fu replicato nelle pubblicazioni che seguirono nel giro di un anno, quali "La fine dei Greene" sempre di Van Dine, "Il castigo della spia" di E. Wallace, "La casa della freccia" di A.W. Mason e "La dama di compagnia" di M.A. Belloc Lowndes, toccando le vette delle 40000 copie vendute. La riuscita della collana fu dovuta in particolar modo alla qualità delle traduzioni, così come suggerito ad Arnoldo Mondadori da Luca Montano, curatore ed ideatore della collana, che lamentava le ragioni della scarsa diffusione del romanzo in Italia proprio nelle cattive traduzioni <62.
Sarebbe azzardato e parziale ritenere che nel poliziesco si annidassero elementi di resistenza alla politica culturale di regime, ma indubbiamente servì a introdurre ossigeno in un ambiente culturale doppiamente appesantito da formule e stilemi datati e dalle direttive di regime. È interessante notare anche come il fenomeno del giallo abbia inaugurato più in generale i meccanismi della letteratura di consumo, tra cui la pubblicità e l'attenzione alla confezione editoriale. E infatti, la necessità di arrivare ad un pubblico di lettori più trasversale e ampio rese indispensabile un nuovo tipo di comunicazione, meno letterario, più improntato all‘effetto che alla descrizione <63.
Bisognerà aspettare qualche anno, il 1931, per la pubblicazione di un giallo scritto da un autore nazionale, Alessandro Varaldo che si fa pioniere del genere italiano con "Il sette bello" nella collana "Gialli Italiani" Mondadori. Indubbiamente influiscono sulla nascita del giallo nazionale le politiche fasciste e le direttive del Minculpop (Ministero della Cultura Popolare) che impongono la presenza di almeno il 20% di titoli italiani sui prodotti di diffusione editoriale: provvedimento preso per evitare che un'eccessiva inclinazione esterofila potesse oscurare la risorse intellettuali della nazione.
A tal proposito è d'interesse vedere che la collana fu sottoposta a restrizione e censura, con il ritiro dal mercato di diverse copie, nel 1941, adducendo a pretesto proprio considerazioni di ordine morale: il casus belli venne fornito da una rapina ai danni di una cameriera commesso da una banda di giovani. Trattandosi di incensurati, sicuramente dilettanti del crimine, l'architettura del crimine sembrò suggerita dalla trama di qualche racconto poliziesco <64. Quest'episodio, sicuramente marginale e pretestuoso, ha una certa rilevanza se osservato sotto la prospettiva della relazione tra racconto del crimine e realtà. Quella che oggi appare come un'ingenuità, la credenza di un influsso diretto tra libro e conseguenze sociali, mostra quanto la subordinazione della cultura ai principi della morale e dell‘educazione ribaltasse i termini della questione: ossia della scrittura come espressione del contesto sociale e politico e non viceversa <65.
L'applicazione del principio autarchico alla dimensione culturale produce in qualche modo una forzatura, per cui il genere in Italia registra una nascita artificiale <66. La lettura del poliziesco italiano data da Guagnini sottolinea che la genesi del giallo non rispose principalmente ad esigenze culturali e orizzonti d‘attesa dei fruitori, ma fu il risultato di un esperimento nato principalmente per il desiderio di colmare una lacuna editoriale che avrebbe permesso di competere con le culture europee (Inghilterra, Francia) e americana. È interessante notare un duplice atteggiamento che il fascismo mostrò nei confronti del giallo, perché se da una parte ne favorì la diffusione e dall‘altra lo tenne sempre sotto sorveglianza, intercettandone una potenziale minaccia per l'ordine pubblico. L'ambiguità di posizione assunta dal fascismo può essere ricondotta a quella natura duplice, rivoluzionaria e conservatrice <67 che se da una parte guardava alla modernità e al nuovo, dall'altra richiedeva la subordinazione del contenuto artistico all'ideologia del regime. Per tali ragioni il poliziesco trovava sì spazio, perché rappresentante del nuovo, ma allo stesso tempo paventava il rischio di mettere in discussione le istituzioni e l'autorità. Il terreno liminare in cui si trovava il giallo e i vari momenti in cui si incrinarono le simpatie del fascismo viene ben sintetizzato dall'anamnesi del periodo che riporta in un articolo della Repubblica Alberto Tedeschi, direttore all‘epoca della collana dei Gialli Mondadori. L'autore riporta che fino a quando sussisteva nei romanzi la netta separazione tra bene e male non vi furono difficoltà con il regime, ma i problemi sopraggiunsero in un secondo momento: «Le limitazioni vennero dopo. Un giorno arrivò l'ordine di non parlare di suicidi. […] Così per amore del Giallo, quando capitava l'occasione mi mettevo al tavolino e trasformavo i suicidi in incidenti stradali o in accidentali cadute, dalla finestra. […] Poi a un dato momento, diede nell'occhio che alcuni romanzi polizieschi, specialmente americani, presentavano criminali di origine italiana […] Il regime intervenne una terza volta, in nome della cultura nazionale, imponendo la pubblicazione di un Giallo italiano almeno ogni quattro o cinque stranieri <68».
Elementi come la mancanza di discernimento certo tra bene e male, la ridicolizzazione della polizia a favore dell'investigazione privata, il pessimismo di fondo che anticipa le tematiche noir già nel primo ventennio del '900, remavano contro lo spirito del regime, allungando delle ombre proprio laddove il fascismo propagandava rigore e autorevolezza.
La parabola dei Gialli Mondadori viene arrestata definitivamente nel 1943, in pieno conflitto, per poi riprendere nel 1946 con la collana Libri Gialli Nuova serie.
[NOTE]
58 È interessante comparare questo dato con quello del livello di alfabetizzazione in Italia che verso la metà dell'800 è tra i più bassi d'Europa e nettamente inferiore ai Paesi più avanzati del Nord Europa. La mancanza di scolarizzazione, quindi di persone in grado di leggere, comprova quindi la presenza di un largo strato popolare e la quasi inesistenza della classe borghese (anche qui, tuttavia va fatta distinzione tra Italia Settentrionale e Meridione dove gli analfabeti rappresentano quasi il 90% della popolazione totale). Cfr. Paolo Russo, L'educazione permanente nell'era della globalizzazione, Franco Angeli, Milano, 2001.
59 Loriano Machiavelli, Trieste 1985: dagli anni '30 ad oggi, in Il Giallo degli anni Trenta, Edizioni LINT, Trieste, 1988, p. 219.
60 L‘incompletezza dell‘opera è da addurre proprio alla crescente complicazione della struttura iniziale che finisce per aggrovigliarsi in nodi che in ultimo l'autore non riesce a sciogliere. La complicazione è parallela alla complessità della materia, in cui convergono molti più risvolti, come quella del matricidio, rispetto a un giallo classico. Cfr. V. Spinazzola, Misteri d'autore, Aragno, Torino 2010.
61 Citazione tratta da L'esordio dei Gialli Mondadori. Da fortunata scelta editoriale all'esplosione di un genere letterario, a cura di E. D'Alessio, http://www.oblique.it/images/formazione/dispense/esordio-giallimondadori.pdf.
62 Lettera di L. Montano a A. Mondadori, Verona, 25 settembre 1929 (Afaam, Fondo Arnoldo, busta 70), consultabile su www.anteremedizioni.it/files/Montano-Mondadori.pdf
63 È celebre, ad esempio, lo slogan sulle copertine Mondadori, "Questo libro non vi lascerà dormire", che calcando sull‘aspetto adrenalinico delle storie, promette di solleticare la fantasia del lettore.
64 L. Rambelli, Storia del giallo italiano, op. cit.
65 Vedremo nel prossimo capitolo come nella letteratura, e nella cultura, contemporanea prevalga invece un approccio ermeneutico alla realtà e come sia il romanzo ad assorbire la lingua e la forma della realtà.
66 Elvio Guagnini, “L'importazione di un genere” in Note novecentesche, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1979, p. 230.
67 Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2011, p.92.
68 Alberto Tedeschi, Ma il vero colpevole sono io, La Repubblica, 1 aprile, 1979.
Lucia Faienza, Il paradigma poliziesco nel romanzo di non-fiction: continuità stilistiche, tematiche e narrative, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2017

sabato 29 gennaio 2022

Ma il Rosselli, organizzatore animoso di espatri altrui, al suo espatrio non ci pensava


Diffusasi anche a Genova la notizia che Benito Mussolini, in visita [n.d.r.: 31 ottobre 1926] a Bologna, aveva miracolosamente evitato il colpo di pistola di un attentatore, il sedicenne Anteo Zamboni, immediatamente linciato dalla folla inferocita, le squadre fasciste si riversarono nelle strade prendendo di mira i simboli dell’opposizione politica cittadina, prima tra tutte la redazione del «Lavoro», messa a ferro e fuoco e teatro di scontri che avrebbero lasciato sul terreno tre morti (un carabiniere e due fascisti). È significativo notare che al divampare del tumulto - lo avrebbe ricordato lo stesso Ansaldo in un puntuale passaggio delle sue memorie <43 -, non furono estranei moventi di natura prettamente personale, se è vero che la devastazione delle rotative del giornale, tra l’altro prive della necessaria tutela assicurativa per ragioni di eccessiva parsimonia amministrativa, fu capeggiata dai redattori del rivale «Giornale di Genova», ansiosi di liberarsi della sua ingombrante concorrenza commerciale.
Rientrato [n.d.r.: a Genova] da Alessandria in treno e recatosi alla biblioteca della Società di Letture e Conversazioni Scientifiche, Giovanni Ansaldo, che pure al «Lavoro» era ufficialmente sprovvisto di un impiego già da un anno esatto, riceveva la notizia delle agitazioni in salita Di Negro e, vista la concitazione del momento e l’inarrestabile foga con la quale gli squadristi si stavano scagliando anche verso le abitazioni delle personalità più vicine ai movimenti antifascisti, decideva con Tito Rosina di allontanarsi dal centro a bordo di un taxi, per passare la notte nella casa di campagna dell’amico, nell’immediato entroterra, e ripartire in treno per Milano la mattina del 1° novembre.
Ospitato nel capoluogo lombardo dai cugini Vismara, Ansaldo, allarmato dalle notizie provenienti da Genova, dove la sua casa aveva ricevuto la poco gradita visita di una squadra fascista che aveva rovistato tra le sue carte senza però abbandonarsi a più gravi devastazioni, contattò rapidamente le personalità dell’antifascismo militante con le quali era da tempo in stretti rapporti epistolari in virtù della comune partecipazione ai movimenti intellettuali e politici che avevano fino a quel momento avversato il regime. Fu in particolare la casa di Carlo Rosselli e della sua giovane sposa inglese Marion Cave, all’ultimo piano di via Borghetto 5, divenuta uno dei centri di maggiore fermento nell’organizzazione degli espatri degli uomini più esposti al pericolo di rappresaglie o dell’arresto, a costituire il più concreto punto di riferimento nell’elaborazione del suo piano di fuga, mirato a raggiungere Parigi e svolgere nella capitale francese la sua attività di giornalista, evitando però di prendere parte alla lotta antifascista promossa dai fuorusciti.
Il rapporto con i fratelli Rosselli, e in particolare con Carlo più che con il meno intransigente Nello, assassinati a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno 1937, meriterebbe senza dubbio una trattazione più approfondita, tanto questo pare segnare in maniera incontrovertibile e con tappe ben riconoscibili il percorso di Ansaldo dall’antifascismo al fascismo, in direzione antitetica rispetto all’evoluzione osservata nel binomio Ansaldo-Prezzolini. Conosciuto a Roma nel 1924 e ritrovato a Genova nel biennio 1925-1926, all’epoca del suo incarico di insegnamento in Economia aziendale presso la Scuola Superiore di Commercio, Carlo Rosselli sarebbe diventato per Ansaldo, una volta penetrato a fondo nella conoscenza dell’uomo nel periodo della “clandestinità” e nelle vicissitudini successive nel carcere di Como, il vero paradigma delle tare dell’antifascismo militante <44. Già dalla lettura delle memorie, redatte al suo ritorno a Genova, traspare infatti un giudizio di fondo che, premessa la stima per il suo rigore ideologico e morale, riconosce in Rosselli il prototipo psicologico di un contegno troppo incline all’arrivismo e al fanatismo, davvero poco conciliabile con la sua concezione della vita politica: "Chiesi al Rosselli perché non espatriava anche lui. Ma il Rosselli, organizzatore animoso di espatri altrui, non ci pensava. Egli, finché era possibile, diceva, voleva restare in Italia; restare, per organizzare qualcosa, per resistere ancora, per mantenere contatti dall’interno coll’estero, eccetera. Il Rosselli, in realtà, guidato dal suo istinto politico, aveva molto bene compreso che il fuoriuscitismo era un «ramo secco», e che ogni fuoruscito sarebbe stato un uomo politicamente morto; perciò egli non intendeva minimamente fuoruscire, e preferiva vessazioni e confino, in Italia; e d’altra parte, incitava quanta più gente poteva ad espatriare, un po’ per accrescere lo scandalo pubblico, la rabbia dei potenti, la esasperazione generale, e un po’ - diciamo tutto - per levarsi di torno concorrenti o predecessori, pesi morti della politica di opposizione, com’egli la intendeva" <45.
L’attesa, consumata con ansia crescente, fu premiata solo alla fine del mese di novembre, vista la priorità pretesa dalla fuga di Claudio Treves e Giuseppe Saragat, che il 20 novembre partirono alla volta di Lugano, e soprattutto dal tentativo di far espatriare Filippo Turati, allontanato dalla sua casa di Piazza Duomo il 24 novembre (la celebre fuga in motoscafo da Savona verso le coste della Corsica, effettuata con il contributo di Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini - per citare solo i nomi più noti - si sarebbe svolta dopo diverse peripezie soltanto il 12 dicembre): la mattina di domenica 28 novembre insieme a Carlo Silvestri, giornalista del «Corriere della Sera» parimenti intenzionato a espatriare, e sotto la guida di Riccardo Bauer, Ansaldo fu trasportato a bordo di un’auto in direzione di Como, dove, attraverso la Val d’Intelvi, avrebbe dovuto attraversare la frontiera e prendere la via della Svizzera. Vittime di una soffiata, fermati a un posto di blocco della polizia stradale nei pressi di Argegno, i fuggiaschi subirono un breve interrogatorio e furono immediatamente tradotti nel carcere «San Donnino» di Como, dove Ansaldo e Bauer sarebbero rimasti fino alla concessione della libertà provvisoria il 9 aprile 1927.
Riassaporata dopo alcuni mesi una libertà destinata a rivelarsi solo momentanea, Ansaldo si precipitò a Genova per curare con maggiore tranquillità la propria difesa giudiziaria affidata alla tutela dell’avvocato Pier Francesco Erizzo, che qualche mese più tardi avrebbe assistito gli imputati del processo di Savona. Ma fece appena in tempo a ricevere, il 28 aprile, l’offerta di Lodovico Calda - il quale, dopo mesi di lunghe ed estenuanti trattative, rientrava da un recente colloquio con Mussolini con in tasca la possibilità di riprendere le sospese pubblicazioni del «Lavoro» a partire dal 5 maggio 1927 <46 - di tornare in salita Di Negro, che il 1° maggio la condanna al confino già piombava sul suo capo. Dopo una notte trascorsa nella Torre di Palazzo Ducale e un paio di settimane passate nel carcere di Marassi, Ansaldo fu spedito nell’isola di Lipari con la previsione di trascorrervi i successivi cinque anni della sua vita.
Partito da Genova il 18 maggio e giunto sull’isola siciliana dopo tre giorni e una breve sosta nel carcere di Milazzo, Ansaldo si ambientò subito a Lipari dove, adeguandosi alla convivenza con un campionario di casi umani diversissimi tra loro, ritrovò o conobbe per la prima volta molti oppositori del regime, raramente provenienti dalle file dell’intellettualità borghese, più spesso militanti di livello intermedio dei partiti socialista e comunista: osservandoli da vicino, e notando come, accanto a rari esempi di specchiata moralità, molti di questi si distinguessero per la stessa ignoranza, la stessa grettezza che caratterizzava le esibizioni dei fascisti conosciuti dall’altra parte della barricata, cominciò a covare un crescente fastidio per la compagnia in cui si era cacciato <47.
Tuttavia, al di là di questa repulsione epidermica, fu un lungo periodo di riflessione personale a indurre Ansaldo a disconoscere le ragioni della lotta antifascista e rientrare nei ranghi dell’ordine borghese al quale peraltro non aveva mai smesso di ispirare le proprie azioni. La consolazione di nuove ed entusiasmanti letture, avidamente compulsate nel corso dell’estate, rese certamente più tollerabile la permanenza al confino, ma non gli impedì di tentare tutti i possibili passi per arrivare alla revoca di un provvedimento che, a conti fatti, lo costringeva a espiare per un ideale in cui non era più disposto a credere. Attraverso il suo legale e grazie al costante supporto delle sorelle, Ansaldo cercò di perorare la sua causa presso le gerarchie e finì per stendere una vera e propria retractatio della sua condotta anteriore al 1926, promettendo quel deciso mutamento di indirizzo che, dentro di sé, aveva ormai già maturato.
Nel ricorso stilato in data 9 giugno 1927, a completamento di quello da poco presentato dal suo avvocato e indirizzato alla Commissione Centrale per le Assegnazioni al Confino presso il Ministero dell’Interno, Ansaldo cercava anzitutto di presentare in una chiave del tutto slegata dall’azione diretta dei partiti politici la sua precedente attività pubblicistica al «Lavoro» e alla «Stampa», motivando il suo allontanamento da Genova con il timore di possibili violenze; richiamando l’attenzione della commissione sulle nobili ascendenze del suo cognome, il giornalista si impegnava formalmente con le autorità sulla sua condotta futura: "Prima di chiudere questo mio ricorso, mi siano consentite due precise considerazioni. E cioè: la prima, che io sottoscritto, riconoscendo il Fascismo come fatto compiuto, assumo impegno di non combatterlo più in alcun modo, anzi di non occuparmi più affatto di politica, come ho esposto aver già fatto negli ultimi due anni; la seconda, che mi obbligo a non tentare in alcun modo di uscire dal Regno, senza permesso dell’autorità. Queste due dichiarazioni non sono frutto di un calcolo recente, fatto per l’opportunità del presente ricorso; ma sono le conseguenze, da me facilmente accettate, di quanto ho esposto fin qui" <48.
Trascorsi poco più di due mesi dal suo arrivo sull’isola, il 10 agosto 1927 Ansaldo lasciava Lipari con in tasca il provvedimento di libertà condizionale; il 5 agosto (ma Ansaldo avrebbe ricevuto la relativa notifica soltanto il 7 settembre, a soli due giorni dall’apertura presso il Tribunale di Savona del processo per l’espatrio di Turati), il Tribunale di Como aveva predisposto la sua assoluzione dall’accusa di tentato espatrio clandestino politico per «mancanza del tentativo». Tra i numerosi interessamenti, millantati o effettivamente esercitati, che portarono a una così repentina archiviazione del suo caso, Ansaldo individuerà l’intervento decisivo nel meno altisonante tra quelli possibili: pare infatti che il ruolo di deus ex machina fosse da attribuire a un suo vecchio amico e compagno di università, Mario Bassanelli, un gerarca fascista di sottordine originario della provincia di Bergamo, che aveva chiesto la sua liberazione a Giacomo Suardo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e al Ministero dell’Interno, e suo diretto superiore nel partito, in cambio di alcuni servigi prestati in favore della causa del regime.
Le vicissitudini posteriori al rientro a Genova restano forse una delle zone d’ombra più difficili da illuminare nella biografia di Ansaldo, specialmente se si voglia prendere in esame il suo caso sotto il profilo prettamente bibliografico. Di certo, al suo ritorno da Lipari egli trovava un panorama giornalistico completamente rivoluzionato rispetto a quando, poco meno di un anno prima, lo aveva abbandonato. Riportato in vita il 5 maggio 1927, anche «Il Lavoro» era stato costretto a inserirsi nell’alveo della politica governativa, esordendo con un articolo programmatico steso da Giuseppe Canepa, nel quale, pur riconoscendo il ruolo peculiare del quotidiano genovese tra gli organi di stampa nazionali, si prendeva atto, analogamente a quanto avrebbe fatto qualche mese dopo Ansaldo nel suo ricorso, della definitiva vittoria del regime fascista e dell’annientamento di ogni forma di opposizione <49.
Difficile per Calda, che pure avrebbe ottenuto già nel 1929 il reinserimento di Ansaldo nell’Albo dei giornalisti <50, tentare di riportare in redazione un elemento reduce dal confino e strenuo avversario del regime fino a tutto il 1925; per l’ex redattore capo, invece, nonostante i rapporti non più idilliaci con molti dei dirigenti del suo vecchio giornale, «Il Lavoro» doveva comunque apparire una soluzione quasi obbligata, dopo che anche «La Stampa», con la cessione della proprietà editoriale da Alfredo Frassati a Giovanni Agnelli e l’assunzione alla direzione di Andrea Torre, poteva considerarsi, seppur su posizioni non estremistiche, un giornale compiutamente “fascistizzato”.
Prima di riprendere il proprio posto nel quotidiano che lo aveva visto affacciarsi al giornalismo nel 1919, Ansaldo approfittò del periodo di inattività seguito al ritorno a casa per fissare la sua esperienza personale in un manoscritto, aperto dal titolo "Memorie del periodo di mia vita comprendente il soggiorno a Milano, la prigione e il confino (31 ottobre 1926-8 settembre 1927)", che soltanto molti decenni più tardi avrebbe conosciuto la pubblicazione a cura di Marcello Staglieno e con il titolo "L’antifascista riluttante. Memorie dal carcere e dal confino": nella precisa ricostruzione condotta dallo studioso si ipotizza che la stesura del testo sia stata infatti portata a termine tra il settembre 1927 e l’aprile 1928. Meno agevole appare ristabilire con esattezza le effettive modalità del suo rientro in redazione: sebbene siano individuabili diversi articoli di carattere storico e culturale pubblicati tra la fine del 1927 e l’inizio del 1928 che lascerebbero pensare al caratteristico stile di Ansaldo, si può far risalire con un certo margine di sicurezza la costante ripresa dell’apparizione dei suoi scritti sul «Lavoro» al 24 giugno 1928, data in cui si pubblicano due anonimi ritratti - quello del capo della frazione socialdemocratica del Reichstag Hermann Müller e quello del poeta tedesco Stefan George - inseriti all’interno della rubrica "Figure del giorno", che da quel momento in poi divenne la sede privilegiata dei testi redatti dal giornalista.
Si tratta perlopiù di brevissime note, quasi mai superiori alla mezza colonna, nelle quali erano tratteggiati i profili biografici di personalità del mondo politico, nella stragrande maggioranza dei casi straniere, salite agli onori delle cronache nei più recenti avvenimenti di attualità. Considerata indubbia la paternità della rubrica, tutti gli scritti inseriti al suo interno a partire da questa data, seppure mai firmati o siglati, sono stati annoverati nella presente bibliografia, fatto salvo per quelli, rari, esplicitamente redatti da altri e riconoscibili per le sigle che vi appaiono in calce. Per quanto concerne i contenuti, la rubrica si discostava di rado da una linea meramente didascalica, e il suo valore è percepibile soprattutto nell’elevato grado di conoscenza del panorama giornalistico internazionale che ne traspare: erano infatti gli organi della stampa estera, che Ansaldo sfogliava con curiosità e profitto grazie alla sua perfetta conoscenza del tedesco, del francese e dell’inglese, a fornire ininterrotti spunti di riflessione, mentre l’elaborazione dei dati biografici veniva sorretta dall’inesauribile serbatoio di notizie scaturito dai cassetti di un aggiornatissimo schedario. Apparentemente meno caratterizzate dall’impronta stilistica del giornalista rispetto ad altre rubriche successive, le "Figure del giorno" che valga la pena di ricordare non paiono moltissime, ad eccezione di quella dedicata a Lando Ferretti <51, una delle prime circostanze in cui Ansaldo si espone nell’aperto elogio di un gerarca in occasione della sua nomina a capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, e, sul versante letterario, di quella pubblicata a soli cinque giorni dalla morte di Italo Svevo, che nel catalogo allestito in occasione di una mostra dedicata allo scrittore triestino inaugurata a Firenze presso Palazzo Strozzi il 3 febbraio 1979, venne improvvidamente attribuita nientemeno che a Eugenio Montale <52.
Bisognerà attendere il giorno del decimo anniversario della vittoria nella Prima guerra mondiale, il 4 novembre 1928, per vedere la «Stella Nera» di Ansaldo risplendere anche sulle pagine del «Lavoro» - perché la primissima adozione di quell’inconfondibile marchio tipografico risaliva alla collaborazione con «La Stampa» -, dalle cui colonne si sarebbe affermata fino a diventare il simbolo di un appuntamento pressoché quotidiano per i lettori del giornale genovese. In "L’annuncio sul mare", per certi versi così simile agli scritti “marinari” pubblicati sul giornale di Alfredo Frassati in memoria del padre nel 1926, si nota, tuttavia, una profonda mutazione di senso nell’impostazione ideologica dell’articolo: il motivo degli emigranti in cerca di fortuna negli Stati Uniti non corrisponde più a una parallela denigrazione dell’ingratitudine del paese di origine, ma si fonde con l’orgoglio, da cui gli occupanti della nave di ogni estrazione sociale si sentono pervasi al momento dell’annuncio radiofonico della vittoria, di appartenere alla nazione che ha appena sconfitto l’impero austroungarico <53.
La maggiore condiscendenza verso la retorica bellica del regime, impensabile negli anni precedenti al confino, si sarebbe da quel momento in poi progressivamente accentuata, venendo a costituire uno dei cardini del pensiero di Ansaldo negli anni Trenta.
[NOTE]
43 L’antifascista riluttante, cit., pp. 254-255.
44 Spostandoci poco oltre il discrimine cronologico della prigionia e del confino, con il quale entrambi, seppur in diversa misura, dovettero fare i conti, troviamo un primo punto di attrito già a partire dall’opportunità per Ansaldo di tornare a scrivere sul «Lavoro»: «Ho sentito dire che forse con l’anno nuovo ti rileggeremo in Terza pagina, argomento letterario. Lasciami credere che la voce non sia esatta e che invece Tu sia ben radicato nel proposito comasco: silenzio per un biennio. Non riesco a immaginare quali possano essere stati gli argomenti da indurti a un tale capovolgimento. […] Per lettera e con così monche informazioni non si può evidentemente discutere. Si può solo permettersi di dire in anticipo la propria impressione nella speranza - vorrei dire la certezza - che l’interessato si convinca che viene da un sincerissimo amico che ha lungamente riflettuto sulla questione. Oggi non ci sono garanzie che tengano. Rientrati con tutti gli onori a bandiera spiegata c’è da vedersi licenziati come serve al primo incidente! E allora la liquidazione è melanconica e umiliante. Ti offendi se ti chiedo a nomi di molti che Ti vogliono bene di ripensarci ancora?» (lettera di Carlo Rosselli a Ansaldo del 20 dicembre 1927, parzialmente riprodotta in Marcello Staglieno, Un conservatore tra fascismo e antifascismo, cit., p. 90, nota 144). Ansaldo non solo ignorerà il suggerimento di Rosselli - che pur ben conoscendo le peculiarità dell’antifascismo del giornalista genovese gli aveva prospettato, durante la comune permanenza nel carcere di Como, l’impossibilità di mutare la sua posizione politica nei confronti del fascismo data la sua ormai conclamata compromissione -, ma si avvicinerà sempre di più alle posizioni del regime giungendo alla fine del 1935 ad appoggiare apertamente la guerra etiopica: Rosselli, in risposta a un passaggio dell’articolo "Il sinedrio e l’Italia" apparso sul «Lavoro» il 15 settembre 1935, gli avrebbe allora indirizzato una nota anonima significativamente intitolata "Osceno Ansaldo" (in «Giustizia e Libertà», II, 38, 20 settembre 1935, p. 1), nella quale la figura del vecchio compagno di militanza, un anno esatto prima dell’assunzione della direzione del «Telegrafo», era assurta a simbolo dell’abiezione morale della borghesia italiana. Poca commozione mostrò Ansaldo nel commentare
l’assassinio dei fratelli Carlo e Nello, al quale probabilmente non fu estraneo Galeazzo Ciano, redigendo un pezzo anonimo in cui attribuiva le responsabilità dell’accaduto a un regolamento di conti interno al gruppo dei fuorusciti ("Il fuoruscito Carlo Rosselli e suo fratello Nello trovati trucidati a pugnalate in un bosco dell’Orne", in «Il Telegrafo», LX, 139, 12 giugno 1937, p. 1). Nemmeno nel dopoguerra Ansaldo riuscì a liberarsi dell’ombra di Rosselli, fonte di un costante rovello morale, tanto da riferirsi a lui in più di una circostanza: ricordando la fuga di Turati da Milano ("Quando Turati partì", in «Il Tempo di Milano», III, 240, 10 ottobre 1948, p. 3), insisteva sul ruolo del militante antifascista e sulla sua ambizione nel portare a termine l’impresa per diventare il punto di riferimento dell’opposizione in Italia; due anni più tardi avrebbe attirato su di sé le ire di Amalia Rosselli, madre dei due fratelli, in seguito alla pubblicazione di un articolo nel quale esibiva un “blasfemo” paragone tra Carlo e l’amico di gioventù Jean Luchaire, giustiziato in Francia per collaborazionismo il 22 febbraio 1946 ("I fantasmi dei Luchaire", in «Il Tempo», VII, 26, 26 gennaio 1950, p. 3, ora, con lievi modifiche, in "Il mare e l’ulivo. Racconti dalla Toscana", prefazione di Giuseppe Marcenaro, Livorno, Debatte, 2010, pp. 61-65).
45 L’antifascista riluttante, cit., pp. 119-120.
46 Oggetto di ricostruzioni numerose e non del tutto omologhe, le trattative per il ritorno alle pubblicazioni del «Lavoro» si sono ammantate di mistero soprattutto in merito alle ragioni che spinsero Mussolini a concedere il suo consenso. Sul caso si è soffermato in particolar modo Umberto Vittorio Cavassa che, in due articoli pubblicati all’inizio del 1971, ha riprodotto alcune lettere del carteggio tra Calda e Mussolini (“Caro Mussolini…”, in «Il Secolo XIX», LXXXIV, 25, 30 gennaio 1971, p. 3; "E il duce obbediva", in «Il Secolo XIX», LXXXIV, 37, 13 febbraio 1971, p. 3). Paolo Murialdi (Col «Lavoro» Mussolini disse basta soltanto alla vigilia della guerra. Testimonianze inedite sulla cessione del quotidiano genovese ai sindacati fascisti, in «Problemi dell’informazione», XVII, 1, gennaio-marzo 1992, pp. 115-133), ha spiegato l’avvenimento facendo riferimento all’«opportunità di conservare buoni rapporti con quella frangia del sindacalismo riformista che non era del tutto ostile al fascismo e ai suoi disegni corporativi» e alla «battaglia interventista del 1915» che aveva visto il giornale di Canepa schierarsi sulle posizioni del «Popolo d’Italia» (p. 115). Così invece la racconta Ansaldo: «Calda solo, con tenacia e accortezza di cui non lo avrei ritenuto capace, si accinse all’opera, nientemeno, che di far risorgere il “Lavoro”. Come addentellato, egli si valse delle sue antiche relazioni amichevoli con Mussolini, risalenti all’epoca del crimine interventista, perpetrato in comune, e del fatto che mai, in cinque anni, egli aveva assunto un atteggiamento nemico ad personam. Andò a Roma e si accordò col Rigola e coi Confederali; da questi accordi doveva uscire, ed uscì, appunto la mozione dei Confederali, portata per un giorno al posto d’onore dai giornali del regime […]. Il Calda fu ricevuto due volte da Mussolini. Una, pochi giorni dopo l’attentato. In questo colloquio, le accoglienze furono dapprima violente, quasi; però fu data la promessa di lasciar ripubblicare il giornale. Nell’inverno, il Calda si dimenò più che poté a Roma, nelle anticamere dei ministeri, da Suardo, da Bocchini, tutto pieno di una vanità ben dissimulata sotto la schiettezza “operaistica”, per essere ricevuto così in altre sedi; intanto Bordiga, a Genova, cercava di rimettere insieme un “minimum” di tipografia, per poter
riprendere. Quando? La data era ancora incerta al mio ritorno a Genova. Verso la metà di aprile, Calda fu di nuovo ricevuto. L’esordio fu questo: “Ti ho promesso che il giornale uscirà, e mantengo la promessa”. Venuta la questione del “quando”, Mussolini decretò che il giornale sarebbe uscito dopo il suo discorso alla Camera; quel discorso che fu poi detto dell’Ascensione. […] Si parlò poi del programma e dell’azione del giornale. La “linea”, quella della mozione confederale; critica, anche, ma nel sistema del regime, accettato come presupposto» (L’antifascista riluttante, cit., p. 255).
47 Rimane celebre la breve descrizione del confino che Montanelli raccolse da Ansaldo e ricordò in occasione dell’articolo dedicato alla scomparsa del collega: «Era un martirio all’italiana, il confino. Vitto e alloggio gratis, e anche un piccolo stipendio per compensarci della fatica di parlar male del duce che non ce ne lesinava i pretesti. Io mi ci sarei trovato benissimo, se non fosse stato pieno di antifascisti. Li sopportai per alcuni mesi. Poi un giorno li adunai e gli dissi che, ora che li avevo conosciuti, non mi restava che rivolgere domanda di grazia al fascismo e mettermi ai suoi ordini» (Indro Montanelli, "Ricordo di Ansaldo", in «Corriere della Sera», XCIV, 203, 2 settembre 1969, p. 3).
48 L’antifascista riluttante, cit., p. 412.
49 È importante ricordare il passaggio delle memorie nel quale si espone la storia compositiva dell’editoriale di Canepa, un testo sul quale si sarebbe basata la futura condotta politica del «Lavoro»; la linea di compromesso con il regime che vi si tracciava, da quel momento in poi sotterraneamente combattuta dal direttore, sarà invece assunta e portata alle estreme conseguenze da Ansaldo: «Appena Calda ebbe fissati i “capisaldi” col principale, prese il treno e andò a Diano; e là espose il concluso a Canepa, e gli chiese a faccia franca di stendere l’articolo programmatico. E l’altro - a faccia ancor più franca di lui - gli stese il programma, currenti calamo; non solo, ma un altro articolo sul Cinque Maggio, che anch’esso uscì sul primo numero della nuova serie. Le bozze del programma scritto da Canepa furono poi sottoposte a revisione, in altissimo loco; furono dal “revisore supremo” corrette e modificate: dimodoché il “Lavoro”, nel primo numero, faceva le contorsioni sulla corda» (L’antifascista riluttante, cit., p. 257).
50 Il Regio Decreto n. 384 del 26 febbraio 1928 conteneva le norme per l’istituzione dell’albo professionale dei giornalisti, diviso in tre ordini (professionisti, praticanti e pubblicisti): non si poteva essere iscritti qualora si fosse ricevuta una condanna penale superiore a 5 anni; in caso di condanna inferiore l’iscrizione era a discrezione del comitato (in ogni caso era vietata l’iscrizione a chiunque avesse svolto un’attività contraria agli interessi della Nazione).
51 Lando Ferretti (rubrica "Figure del giorno"), in «Il Lavoro», XXVI, 215, 9 settembre 1928, p. 3.
52 Italo Svevo (rubrica "Figure del giorno"), in «Il Lavoro», XXVI, 222, 18 settembre 1928, p. 2. L’attribuzione dell’articolo a Montale nel catalogo della mostra fiorentina curato da Marco Marchi, trovò una pronta risposta in un articolo di Giorgio Zampa, "L’anonimo genovese", in «il Giornale nuovo», VI, 35, 11 febbraio 1979, p. 4, che ristabilì la paternità di Ansaldo testimoniando un certo disappunto del poeta per il fraintendimento (sulla vicenda si veda anche t.[ullio] ci.[cciarelli], "E Montale disse quell’articolo l’avrà scritto lei", in «Il Lavoro», LXXVII, 48, 27 febbraio 1979, p. 3, dove si ripubblica anche la puntata incriminata della rubrica "Figure del giorno"). È curioso notare come un altro degli equivoci che permangono nelle vicissitudini “postume” di un rapporto mai decollato (a partire da quando, nel 1925, Ansaldo cestinò la recensione redatta da Emilio Servadio alla raccolta d’esordio del poeta genovese che pure figurava tra i collaboratori della terza pagina del «Lavoro») riguarda il "Calendarietto", siglato Stella Nera [n.d..r.: vedere simbolo in calce a presente articolo], Due ombre, in «Il Lavoro», XXIX, 110, 9 maggio 1931, p. 3 (ora in "Vecchie zie e altri mostri", cit., pp. 385-388), dedicato a Remigio Zena e Giovanni Verga: il testo, infatti, è attribuito a Montale sia nella "Bibliografia montaliana" (Milano, Mondadori, 1977) di Laura Barile, sia in "Il secondo mestiere. Prose 1920-1979", a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, t. I, dove è ristampato alle pp. 440-443.
53 Stella Nera [n.d..r.: vedere simbolo in calce a presente articolo], "L’annuncio sul mare", in «Il Lavoro», XXVI, 263, 4 novembre 1928, pp. 1-2.
Diego Divano, Bibliografia degli scritti di Giovanni Ansaldo (1913-2012), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2010/2011


 

giovedì 27 gennaio 2022

Si assisteva spesso impotenti all'invio in Germania di centinaia di deportati


Rispetto a quanto afferma Renée Poznanski per il caso francese, in Italia non sembra si possa individuare una netta divisione tra i due ambiti d'azione da lei indicati: quello assistenziale e quello militare. Questi risultano intrecciati e quasi parte della stessa attività. Lo si è osservato già in alcune pagine della stampa clandestina, dove la scelta resistenziale era riconosciuta in chi imbracciava le armi e in chi aiutava ebrei e fuggiaschi a nascondersi e a evitare gli arresti.
E lo si riscontra anche a proposito dell'approccio che il movimento partigiano ha nei confronti delle più grandi strutture di concentramento nazifasciste. Il caso di Fossoli ben rappresenta quanto si sta dicendo e dimostra come l'interesse della Resistenza, dai vertici politici del CLNAI alle locali formazioni partigiane, si muovesse sia sul piano dell'aiuto agli internati nel campo (non solo ebrei, ovviamente) sia sulla prospettiva di organizzare operazioni militari verso quella struttura o che avessero in ogni modo lo scopo di agevolare la fuga dei deportati durante il loro viaggio di trasferimento. Nessuna delle due soluzioni escludeva l'altra: l'assistenza veniva portata avanti insieme ai progetti di intervento armato.
Leggendo le relazioni che i partigiani di zona scrivono sulla situazione del campo di Fossoli, si nota innanzitutto una conoscenza abbastanza approfondita di quella struttura: del suo funzionamento quotidiano; della divisione interna tra una parte sotto l'esclusiva gestione tedesca e una parte di gestione italiana; della tipologia degli internati, tra i quali numerosi ebrei destinati, come un gran numero di altri individui lì rinchiusi, alla deportazione in Germania; della repressione violenta al suo interno; delle modalità con le quali si approntava la partenza dei convogli di deportati <176. L'attenzione verso l’assistenza agli internati, sia per vie legali che clandestine, corrompendo ad esempio gli agenti di sorveglianza, si affianca al dibattito sulle possibilità di agire con la forza per liberare i detenuti, soprattutto coloro che erano destinati a imminente trasferimento <177. È un interesse, quello verso il campo di Fossoli, che coinvolge gruppi partigiani di differenti orientamenti politici, dalle Brigate Garibaldi alle formazioni del Partito d'Azione <178.
[...] Alcune di queste proposte, tuttavia, presupponevano il coinvolgimento di una tipologia di internati in grado di sfruttare determinate iniziative, preparati cioè a eventuali azioni rischiose come lo potevano essere ad esempio i prigionieri politici e gli antifascisti, già abituati alla vita clandestina e ai tentativi di fuga ed evasione da prigioni o carceri. La soluzione, più volte prospettata e in qualche caso messa in atto, di far trovare nei vagoni, grazie alla collaborazione dei ferrovieri, degli attrezzi utili ad agevolare la fuga dai treni in viaggio verso i lager, dipendeva dalla capacità dei deportati di saper poi sfruttare questi strumenti nei tempi e nei modi giusti <181. Una considerazione, questa, che va ad aggiungersi alle altre valutazioni, fatte di volta in volta, come ad esempio la possibile partecipazione e collaborazione della popolazione civile circostante il campo (che poteva accogliere e nascondere i fuggiaschi, oppure permettere di distrarre le autorità durante le fasi di carico dei treni). Nel mentre, si assisteva spesso impotenti all'invio in Germania di centinaia di deportati: «[...] un'altra partenza, e questa volta di ebrei (circa 750) ebbe luogo il lunedì, senza concorso di gente e senza che fosse possibile far qualcosa [...]» <182.
Le stesse dinamiche si riscontrano nell'attenzione che il movimento partigiano presta verso un altro campo di concentramento sorto in Italia, in realtà in territorio sotto diretta amministrazione tedesca: il lager di Bolzano-Gries, nella zona Prealpi (Alpenvorland) <183. Dopo l'estate del '44, questa struttura sostituì Fossoli come terminale dal quale far partire i convogli di deportati, ebrei compresi <184 . Come per Fossoli, fu organizzato un servizio clandestino di assistenza per gli internati, che contemplava anche la predisposizione di piani per la loro fuga ed era parallelo a un'organizzazione per così dire “ufficiosa” tollerata dalle autorità del campo (e dunque sorvegliata). Il servizio clandestino era sia “interno” alla struttura che “esterno” al campo, e a sua volta si distingueva in tre tipologie: assistenza da parte politica, del clero oppure spontanea, proveniente ad esempio dalle famiglie e dai parenti dei singoli internati. L'opera di soccorso in ambito politico era gestita dal CLN di Milano e diretta in loco da Ferdinando Visco Gilardi, detto “Giacomo”, con l'aiuto di Renato Serra, i quali iniziarono la loro attività all'apertura del lager fino al dicembre del '44 (quando l'intero CLN di Bolzano e lo stesso Gilardi subirono l'arresto). La struttura organizzativa ricalcava quella del CLN: al loro fianco operava tra gli altri Franca Turra mentre, all'interno del campo, i referenti erano Ada Buffulini, Armando Sacchetta e Laura Conti. La comunicazione con l'esterno passava attraverso gli internati adibiti quotidianamente ai lavori forzati fuori del campo. Oltre a quelli predisposti dai CLN, c'erano altri canali assistenziali portati avanti da brigate e gruppi autonomi di zona o organizzate intorno alla figura di parroci e sacerdoti.
Spesso queste reti si sovrapponevano ed erano motivo di scontro con il CLN, il quale rivendicava un controllo esclusivo su questo tipo di attività (anche per considerazioni di ordine economico legate alla gestione dei fondi e delle risorse a disposizione) <185. Grazie ai contatti con i partigiani e il CLN locale, Raffaele Jona riuscì ad estendere anche a Bolzano la sua rete di assistenza e di invio di pacchi a favore degli ebrei internati, già attiva in alcuni carceri del nord come Torino e Milano <186.
In una relazione di metà dicembre 1944 inviata al Servizio Assistenza del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà e compilata attraverso notizie fornite da un internato incognito, che dopo essere stato a San Vittore era stato trasferito in quel campo dal 24 ottobre al 13 novembre 1944, si parla anche degli internati di origini ebraiche: si riporta che sono contraddistinti da un triangolo giallo e sono «adibiti a lavori nell'interno del campo: sono destinati alla deportazione in campi per ebrei».
[...] Una breve riflessione va fatta anche per un altro importante campo di concentramento sorto in territorio italiano in quel periodo: la Risiera di San Sabba a Trieste. Questa struttura, come il lager di Bolzano, fu aperto in una zona sotto la diretta autorità tedesca, nella quale cioè l'amministrazione italiana era stata svuotata di qualsiasi potere: il Litorale Adriatico <190. L'ex stabilimento per la lavorazione del riso fu adibito dai nazisti a partire dall’inverno del 1943 come Polizeihaftlager, con lo scopo di rinchiudervi gli oppositori politici, i partigiani e i civili rastrellati dalla polizia tedesca, e come punto di partenza per la deportazione nei campi dell'Est Europa. La Risiera fu l'unico campo in Italia a disporre di un forno crematorio, che serviva alla liquidazione dei corpi dei detenuti uccisi al suo interno <191. Fu utilizzata dunque anche per rinchiudervi gli ebrei rastrellati nella regione e nel nord d'Italia, in attesa della loro deportazione ad Auschwitz. In base alla documentazione consultata, non risultano notizie riguardanti azioni della Resistenza nei confronti della Risiera, né reti assistenziali interne ed esterne come quelle presenti al campo di Bolzano. La studiosa Silva Bon afferma, in riferimento allo spoglio della stampa clandestina, che le forze locali della Resistenza non trattarono specificamente la questione ebraica né condannarono in maniera esplicita con articoli le violenze subite dagli ebrei in quel territorio: emergono soltanto accenni generali a ciò che stava accadendo, a testimonianza comunque dell'opposizione da parte dei partigiani alle forme di razzismo nazifascista <192. A proposito della Risiera di San Sabba, le uniche notizie di tentativi di salvataggio sono legate all'attività del vescovo di Trieste, monsignor Santin, il quale si adoperò presso le autorità tedesche per chiedere che venissero rilasciati alcuni internati (spesso sollecitato dai familiari del singolo arrestato). Si tratta dunque di azioni individuali e non organizzate <193. Va considerata del resto, la particolare situazione di quella zona, caratterizzata da uno stretto controllo da parte delle autorità del Reich e da pratiche repressive e persecutorie molto dure. Nonché bisogna valutare la complessità del locale movimento partigiano: sottoposto a violenta repressione, come detto, era inoltre diviso al suo interno a causa della questione del confine orientale e dei rapporti con i partigiani slavi <194. Un tema, quest'ultimo, che ha attirato nel tempo la maggiore attenzione degli storici <195.
A partire dall'autunno del 1944 l'approccio della Resistenza e del CLN alla questione cambia, anche a seguito dell'iniziativa presa dalle associazioni ebraiche di soccorso attive a livello internazionale e da quella presente in Italia, la Delasem. Le azioni di assistenza e di salvataggio fino a quel momento erano state frutto di iniziative quasi spontanee e, a quanto sembra, non di direttive generali: il più delle volte erano inserite nel complesso delle attività intese ad aiutare e liberare una tipologia più ampia di vittime della repressione nazifascista.
Dagli ultimi mesi del '44, invece, queste vennero ad assumere una forma più specifica ed esclusiva a favore proprio degli ebrei perseguitati.
Col passare dei mesi, l'attività del CLN si venne sempre più ad intrecciare con quella dei comitati di soccorso. Un primo “Comitato di soccorso per i deportati politici e razziali” nacque a Losanna nell'estate del 1944 per l'iniziativa soprattutto di emigrati politici in Svizzera e di ebrei provenienti dall'Italia. Si provò a far carico economico e politico del soccorso dei deportati e degli internati nei campi in Italia e nel Reich, rivolgendo un appello pubblico al Comitato Internazionale della Croce Rossa il 28 luglio 1944: in esso si presentava la situazione in Italia, si chiedeva di insistere presso le autorità nemiche per salvare e esonerare dalla deportazione i non abili al lavoro (bambini, vecchi, malati, donne) e di occuparsi maggiormente dell'assistenza di coloro che erano già internati. Tra gli obiettivi del Comitato vi erano dunque la sospensione delle deportazioni, la possibilità per i delegati della Croce Rossa di effettuare delle visite nei campi, l'autorizzazione per gli ebrei internati di emigrare in Palestina e il trasferimento immediato in Svizzera di coloro che non potevano lavorare (i costi dell'accoglienza sarebbero stati a spese del Comitato). Si provò anche a prendere contatti con il governo di Salò e con le autorità tedesche al fine di sospendere le deportazioni e trasferire sempre in Svizzera un certo numero di internati dal campo di concentramento di Bolzano. Tuttavia, a un anno dalla creazione di questo Comitato, gli stessi responsabili ammettevano che non erano stati raggiunti risultati soddisfacenti per varie cause, quale ad esempio l'opposizione del governo tedesco a qualsiasi trattativa o le evoluzioni degli ultimi mesi di guerra <196.
A favore degli ebrei perseguitati, soprattutto gli stranieri, aveva svolto la sua attività di soccorso la Delasem, la Delegazione assistenza emigranti dell'Unione delle Comunità israelitiche italiane, nata nel 1939 nell’Italia ancora non entrata in guerra con lo scopo di prestare aiuto agli ebrei stranieri scappati nella penisola per sfuggire alle persecuzioni in Germania e in Europa <197. Dopo l’8 settembre i suoi membri furono ricercati dalle autorità nazifasciste, ma questa associazione ebraica proseguì la sua opera in clandestinità, riuscendo a salvare la vita non solo di migliaia di ebrei stranieri, ma anche di non pochi ebrei italiani ridottisi in povertà a seguito del sequestro e della confisca da parte dello Stato dei loro beni <198.
[...] In una prima fase di attività i contatti con le formazioni partigiane furono, a quanto sembra, frutto di iniziative spontanee e individuali, mentre un considerevole sostegno fu trovato, anche per motivi di sicurezza, negli istituti religiosi cattolici, che ospitarono spesso e volentieri le sedi delle “cellule” clandestine della Delasem <204. Proprio individui non ebrei diventarono i principali referenti delle operazioni di salvataggio, in quanto coloro che appartenevano alla cosiddetta “razza” ebraica erano troppo esposti ai rischi: si pensi a padre Benoit a Roma il quale rivestì un ruolo di primo piano collaborando con il delegato Delasem, l'ebreo Settimio Sorani <205. Proprio quest'ultimo, in una nota scritta vent'anni più tardi, riconobbe l'opera svolta dal Vaticano, dalla Croce Rossa internazionale e da alcuni elementi delle autorità italiane, senza i quali non sarebbe stato possibile fare niente <206.
Una vera e propria formalizzazione dei rapporti di collaborazione con il CLN avvenne a partire dall'autunno 1944, a seguito della proposta avanzata da Valobra (sollecitato dalle associazioni ebraiche internazionali) di inserire esplicitamente anche l'assistenza e il salvataggio degli ebrei tra gli obiettivi della Resistenza: un lavoro che avrebbe beneficiato dei finanziamenti provenienti dal Joint <207.
[...] A partire dalla fine di novembre '44 cominciò dunque un intenso scambio di messaggi tra la Delegazione in Svizzera e il comando generale del CVL per discutere costantemente, tra le altre cose, anche dell'assistenza agli ebrei (in ogni Rapporto risultava adesso una voce riguardante tale questione): uno dei nodi fondamentali era quello relativo ai fondi a disposizione, dal momento che l’attività di ricerca di informazioni e di assistenza richiedeva uno sforzo economico specifico e ulteriore a quello già sostenuto per tutti coloro che risultavano bisognosi dell'opera di aiuto da parte del CLNAI.
[...] L'assistenza e il salvataggio degli ebrei furono quindi inseriti ufficialmente tra gli obiettivi della Resistenza grazie a una sollecitazione esterna: la questione ebraica assunse da questo momento in poi una specificità in ciò che concerne le iniziative concrete a favore degli ebrei.
Fino a quel momento, cioè, il movimento di Resistenza era consapevole del carattere razziale e quindi in qualche modo unico della persecuzione antiebraica, come confermano le prese di posizione e l'attività legislativa del CLNAI, ma non sembra avere una specifica ed esclusiva attenzione per gli ebrei nell'ambito dell'assistenza e del salvataggio. Al contrario di quello che avveniva ad esempio per i prigionieri politici, i quali avevano alle loro spalle l'interessamento diretto dei loro compagni di partito, gli ebrei erano parte di un gruppo che comprendeva tutte le vittime civili del nazifascismo, da assistere e aiutare di fronte alla repressione e alla violenza del nemico. Fanno eccezione le iniziative di singolo individui o gruppi partigiani, oppure l'attività delle reti di soccorso ebraico, che si appoggiavano, come abbiamo visto, anche alle locali formazioni armate.
Tutte le successive comunicazioni interne al CLN e quelle con le associazioni di assistenza ebraica sono dunque influenzate da questo cambiamento dell’autunno ‘44: per certi versi sembra aprirsi una progressiva distanza tra movimento di Resistenza ed organizzazioni ebraiche, quasi come se ognuno di questi due attori, ormai ufficialmente riconosciutisi, intendesse perseguire anche fini di parte.
[...] una significativa sintesi sull'attività, militare e non, delle formazioni partigiane a favore degli ebrei dopo l’8 settembre la si ritrova in un rapporto “confidenziale” datato 23 febbraio 1945 e firmato dal generale Bianchi, addetto militare del governo del Sud e responsabile dei rapporti tra governo italiano, Legazione italiana in Svizzera, Forze alleate e Resistenza (delegazione del CLNAI in Svizzera) <216. Questi riporta di aver ricevuto la visita, nel luglio 1944, di Vittorio Valobra, responsabile appunto della Delasem in Svizzera, e di Salvatore Donati, delegato della stessa associazione, nonché di un rappresentante del Congrès juif Mondial di Ginevra. Queste personalità avevano richiesto di far inserire tra gli obiettivi della Resistenza italiana anche la liberazione degli ebrei dai campi di concentramento e dai luoghi di detenzione <217. Il generale Bianchi, interessando il Comando supremo italiano per avere istruzioni, comunicava di aver risposto: «ho precisato che, ad ogni modo, le possibilità pratiche di aiuto come quelle richieste possono essere valutate solo dalle formazioni della resistenza responsabili in posto [...]» <218. Era qui ribadita in pieno l'importanza delle iniziative locali.
Il rapporto di Bianchi continuava con la citazione di una serie di messaggi scambiati con varie “formazioni patriottiche” dell'Italia del nord sulla possibilità di condurre azioni che portassero alla liberazione degli ebrei dai campi di concentramento. Le risposte che pervennero dalle varie regioni sono molto diverse l'una dall'altra e soprattutto rendono bene l'idea di come tutto dipendesse dalla situazione di guerra in ciascuna zona. Dal Veneto, ad esempio, fu riferito che il campo provinciale di Vò Vecchio era stato chiuso e che era impossibile per i partigiani attaccare un grande campo di concentramento creato in località Villafranca - viste anche le difficoltà di proteggere gli internati che fossero riusciti ad evadere. Questo campo non era un luogo di detenzione specifico per ebrei: in questo caso si vede come i partigiani continuino a ragionare a livello di assistenza generale a tutti coloro che sono nelle mani dei tedeschi. In Piemonte, secondo quanto comunicato al Bianchi nell'autunno '44, non esistevano campi. Interessante è la situazione che riguardava la Lombardia: anche qui si dice che non erano presenti campi (ottobre 1944), ma il «comando interessato informava di aver agevolato fino a quell'epoca in tutti i modi (ricovero, accompagnamento alla frontiera, passaggio di frontiera) a varie diecine [sic] di ebrei passati in Svizzera» <219. In Emilia Romagna, infine, le formazioni partigiane non avevano potuto attaccare il grande campo di Fossoli di Carpi, in quanto le bande erano tutte dislocate in montagna o in zone lontane <220.
A fine settembre, intanto, il Comando Supremo rispondeva al Bianchi che era già in atto la collaborazione tra le formazioni della Resistenza e gli ebrei del Nord e che comunque «verranno emanate disposizioni alle formazioni in questione per la liberazione di elementi ebraici dai campi di concentramento da effettuare subordinatamente alle esigenze delle varie zone ed alle situazioni particolari» <221. Tenendo cioè sempre presente le reali possibilità e le priorità della lotta in quel periodo di guerra partigiana.
Raccolte queste informazioni, il generale Bianchi concludeva la sua relazione riassumendo quanto era stato fatto. Dalle sue parole emerge ancora una volta l'importanza delle iniziative prese dal basso, dalle singole formazioni partigiane, senza che vi fossero cioè direttive specifiche dai vertici (almeno per la maggior parte del periodo di lotta preso in analisi): un'osservazione che conferma quanto detto finora, ovvero che il movimento di Resistenza inserì per molti mesi, almeno fino all'interessamento del Joint, il salvataggio degli ebrei e l'opera di assistenza a loro favore all'interno di una più generale attività destinata a una tipologia più ampia di vittime della repressione nazifascista.
[NOTE]
176 Archivio INSMLI, Fondo CLNAI, periodo clandestino, b. 3, fasc. 6 “Attività interna del Clnai (Pratiche segreteria)”, sottofasc. 12 “Fossoli”, “Situazione del campo di concentramento di Fossoli”, 15 giugno 1944.
177 Cfr. L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento cit., pp. 78-88.
178 C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena, 1940-1945, FrancoAngeli, Milano 1998, pp. 161-168.
181 «[...] Così stando le cose ritenni che l'unica cosa possibile da farsi fosse quella di mettere in condizione i detenuti di fuggire dal treno. Su questo punto avevo avuto la sera prima opportuni suggerimenti da Maurizio. Se non ché l'introduzione delle “seghette” nel campo, oltre alla difficoltà in sé della cosa, non era forse neppure consigliabile, soprattutto a causa della probabile esistenza di spie fra i detenuti e per l'impossibilità di sapere con certezza chi dei tremila detenuti sarebbe partito. Ritenni quindi meglio mettere le seghette nei vagoni stessi [...]», Ivi, “A Maurizio. 2° relazione”, 30 giugno 1944. La reale capacità da parte dei detenuti di sfruttare queste situazioni è confermata anche dalle parole di Massimo Ottolenghi, partigiano ebreo piemontese, durante un colloquio telefonico avuto con lui nel marzo del 2012. Egli ha raccontato la vicenda di un suo personale amico, arrestato con la madre e caricato dalle autorità nazifasciste su un treno diretto alla deportazione: durante il viaggio, alcuni detenuti erano riusciti ad agevolare una fuga grazie ad alcuni arnesi e ferri lasciati dai ferrovieri nei vagoni, ma lui non si mosse perché la madre non se la sentiva (o non era in grado) di fuggire.
182 Ivi, p. 3. A proposito delle fughe di ebrei durante il tragitto verso Auschwitz, si veda L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento cit., pp. 92-96.
183 Cfr. Istituto veneto per la storia della Resistenza, Tedeschi, partigiani e popolazioni nell’Alpenvorland (1943-1945). Atti del convegno di Belluno, 21-23 aprile 1983, Marsilio, Venezia 1984; L. Baratter, Le Dolomiti del Terzo
Reich, Mursia, Milano 2005; A. Di Michele, R. Taiani (a cura di), La zona d'operazione delle Prealpi nella seconda guerra mondiale, Fondazione Museo storico del Trentino, Trento 2009.
184 Cfr. C. Giacomozzi, L’ombra del buio: lager a Bolzano 1945-1995, Bolzano 1996; L. Happacher, Il Lager di Bolzano, Arti Grafiche Saturnia, Trento 1979.
185 Per una ricostruzione del servizio di assistenza al campo di Bolzano-Gries si veda: D. Venegoni, Uomini, donne e bambini nel lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7809 storie individuali, Mimesis, Milano 2004, pp. 388; 392-393; L. Happacher, Il Lager di Bolzano cit., pp. pp. 69-71; 73-84.
186 M. Sarfatti, Raffaele Jona ed il soccorso agli ebrei cit., pp. 55-74 (in particolare, pp. 71-72).
190 Cfr. G. Bresadola Banchelli, Politiche amministrative, strutture della repressione e propaganda nella zona d'operazione Litorale adriatico, in S. Bugiardini (a cura di), Violenza, tragedia e memoria della RSI, Carocci, Roma, 2006, pp. 249-275. Sulla zona d'occupazione del Litorale adriatico si veda ad esempio E. Collotti, Il litorale adriatico nel Nuovo Ordine Europeo, 1943-1945, Vangelista, Milano 1974; K. Stuhlpfarrer, Le zone d'operazione Prealpi e Litorale adriatico, 1943-1945, Libreria Adamo, Gorizia 1979.
191 E. Apih, Risiera di San Sabba. Guida alla Mostra storica, Comune di Trieste: Civici musei di storia e arte, Trieste 2000; M. Coslovich, I percorsi della sopravvivenza: storia e memoria della deportazione dall'Adriatisches Kustenland, Mursia, Milano 1994; F. Folkel, La Risiera di San Sabba, BUR, Milano 2000.
192 S. Bon, Gli ebrei a Trieste. 1930-1945 cit., p. 352.
193 Ivi, pp. 349-350.
194 È proprio dei partigiani sloveni l'unico documento che si è ritrovato sul tema: si tratta di un volantino di denuncia della Resistenza slovena (bilingue), pubblicato nel mese di agosto 1944 e dal titolo “Macello degli ebrei a Trieste”, all'interno del quale si trova una breve descrizione della sorte degli ebrei nella Risiera. Documento riprodotto in E. Apih, Risiera di San Sabba cit., p. 130.
195 Cfr. ad esempio R. Spazzali, … L'Italia chiamò. Resistenza politica e militare italiana a Trieste. 1943-1945, Editrice goriziana, Gorizia 2003; L. Felician, F. Forti, V. Leschi, S. Spadaro (a cura di), La Resistenza patriottica a Trieste 1943-1945, Editrice Goriziana, Gorizia 2009.
196 Si veda M. Sarfatti, Il “Comitato di soccorso per i deportati italiani politici e razziali” di Losanna (1944-1945), in “Ricerche storiche. Rivista quadrimestrale del Centro piombinese di Studi Storici”, v. IX, n. 2-3, maggio dicembre 1979, pp. 463-483. Tentativo citato anche in K. Voigt, Il rifugio precario cit., vol. II, pp. 459-461.
197 Sulla storia e l'attività della Delasem: S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia 1933-1941 cit.; S. Antonini, L'ultima diaspora. Soccorso ebraico cit.; Id., Delasem: storia della più grande organizzazione ebraica cit. Si veda anche M. Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista cit., pp. 295-308; K. Voigt, Il rifugio precario cit., vol. II, pp. 491-511. Per l'analisi di un caso locale, quello toscano, si veda F. Cavarocchi, L'organizzazione degli aiuti. Le reti ecclesiastiche e la DELASEM, in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana cit., vol. I, Carocci, Roma 2007, pp. 329-393. Sulla vicenda del salvataggio di ragazzi e bambini ebrei nascostisi in Italia da vari paesi europei, si veda K. Voigt, Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga 1940-1945, La Nuova Italia, Firenze 2002.
198 M. Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista cit., p. 302.
204 S. Zuccotti, Il Vaticano e l'olocausto in Italia, B. Mondadori, Milano 2001, pp. 265-299.
205 ACDJC, CDXLVI-7, Delasem, Dettagli sull’attività di assistenza agli ebrei nascosti a Roma 1943-1944, Relazione di padre Benoit, febbraio 1945. Su padre Benoit si vedano anche i recenti: S. Zuccotti, Pere Marie Benoit and Jewish rescue: how a French priest together with Jewish friends saved thousands during the Olocaust, Indiana University Press, Bloomington 2013; G. Cholvy, Marie-Benoit de Bourg d’Ire, 1895-1990: itineraire d’un fils de Saint Francois, juste des nations, Edition du Cerf, Paris 2010.
206 Ivi, CDLVII, Estratto di una nota di Settimio Sorani, ex direttore della Delasem a Roma inviata alla Signorina Eloisa Ravenna (Segretario del Centro di Documentazione ebraica) il 19 luglio 1966.
207 Cfr. Y. Bauer, American Jewry and the Olocaust. The American Jewish Joint Distribution Committee 1938-1945, 1981, p. 292. Si vedano anche O. Handlin, A continuing task. The American Jewish Joint Distribution Committee, 1964; Beith Hatefuzoth, The Nahum Goldmann Museum of Jewish Diaspora (a cura di), To Save the World. The American Jewish Joint Distribution Committee (AJJDC). 1914-1984, 1984.
216 Cfr. P. Secchia, F. Frassati, La Resistenza e gli Alleati cit., pp. 104-105 (nota 105).
217 ACDJC, Italie, CDLVII, “Confidenziale. Azione della resistenza italiana a favore degli elementi ebraici dei campi di concentramento”, 23 febbraio 1945. Pochi mesi dopo, nelle Note sulla riunione tenuta il 25 ottobre 1944 tra rappresentanti del CLNAI e rappresentanti inglesi in Lugano, al punto 11 si legge: «Da parte I. [inglese?] si richiedono informazioni sui campi di concentramento in Italia con specificazione della nazionalità dei detenuti, nomi comandanti e capi-campo, località ecc. Questi ultimi vengono forniti dai presenti in parte con riserva di avere dati precisi da Milano», in P. Secchia, F. Frassati, La Resistenza e gli alleati cit., pp. 102-107. Non è chiaro però se si riferisce alla possibile richiesta ricevuta dal generale Bianchi. Una dinamica simile interessò anche i comandi della Resistenza francese. Il 26 gennaio del 1944, il commissariato all'Interno di Algeri ricevette una richiesta da parte del Congresso ebraico mondiale, nella quale venivano poste alcune domande: se le organizzazioni della Resistenza francese potessero inviare periodicamente delle informazioni riguardo la situazione degli ebrei in Francia; potessero prendere in considerazione la possibilità di collaborare con questa organizzazione ebraica per far uscire gli ebrei dalla Francia oppure aiutarli a nascondersi; potessero facilitare l'esodo dei bambini ebrei, nonché tenere alto il morale delle persone che li nascondevano affinché, seppur minacciati, queste non li consegnassero ai tedeschi. Nello stesso periodo, il commissario agli Affari esteri ricevette un rapporto da un delegato del Congresso ebraico mondiale per la Spagna e il Portogallo (Isaac Weissman), datato novembre 1943, nel quale venivano descritti in maniera dettagliata gli arresti e le deportazioni di bambini ebrei dalla Francia dal mese di agosto 1942. Cfr. R. Poznanski, Propagandes et persécutions cit., pp. 15-17. Cfr. anche M. Baudrot, Le mouvement de Résistence devant la pérsécution des juifs cit., pp. 265-295.
218 ACDJC, Italie, CDLVII, “Confidenziale. Azione della resistenza italiana a favore degli elementi ebraici dei campi di concentramento”, 23 febbraio 1945, p. 1.
219 Ivi, p. 3.
220 Ibidem.
221 Ivi, p. 2. Si confronti la risposta italiana con quella che il comando francese di Algeri inviò al Congresso ebraico mondiale il 2 marzo 1944: «Le commissariat à l'Intérieur s'efforcera d'obtenir aussi fréquemment que possible des renseignements sur la situation des Israélites en France […] Les organisations de Résistance n'ont malhereusement pas les moyens pratiques d'assurer la sortie de France des Israélites. Les possibilités dans ce domaine sont, en effet, très limitées et sont, pour cette raison, forcément réservées pour le cas que justifient des motifs exceptionnels. Néanmoins, les services français ne perdent pas de vue la gravité du problème des enfants juifs. Des mots d'ordre sont donnés pour que la sécurité de ceux-ci soit assurée dans toute la mesure du possible», R. Poznanski, Propagandes et persécutions cit., pp. 15-16.
Matteo Stefanori, La Resistenza di fronte alla persecuzione degli ebrei in Italia (1943-1945), in Collana “Studi e ricerche della Fondazione CDEC”, Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Milano, 2015 

Anche la cultura o la posizione sociale sono ininfluenti al fine di comprendere la fisionomia del ‘salvatore’: ad assistere gli ebrei ci furono professori universitari così come analfabeti, capitani d’industria come Oskar Schlinder così come semplici muratori come Lorenzo Perrone, il salvatore di Primo Levi. Ci furono nobili come il Conte Alessandro Wiel e la moglie Luisa, ma anche bambinaie come Ida Brunelli, che alla morte della madre dei suoi protetti li difese come figli suoi (nonostante la ragazza avesse solo quindici anni) e lottò per trovare cibo sufficiente a sfamare quattro bocche in un momento storico in cui il cibo valeva più dell’oro.
Ci furono luminari come Carlo Angela (padre del famoso conduttore Piero Angela) direttore di una prestigiosa clinica psichiatrica, e contadini come Maria e Ciro Garibaldi, che salvarono nove membri di una famiglia ebrea nascondendoli in un rifiugio di montagna così impervio che solo i muli lo potevano raggiungere.
Ci furono partigiani eroici come Rinaldo Arnaldi e Lorenzo Spada, ma anche fascisti come i podestà Francesco Garofano e Ercole Piana.
Ci furono poi gesti di inventiva degni di un romanzo, in cui la stereotipata ‘arte dell’improvvisazione’ italica sembra avere davvero un fondo di verità: Fosco Annoni, militare di stanza a Leopoli, insieme ai suoi commilitoni salvò la giovane Klara Rosenfeld travestendola da soldato italiano (e poi affidandola alla sorella Tina). Giorgio Perlasca arrivò a fingersi diplomatico spagnolo per salvare più persone possibile. Gino Bartali approfittava dei suoi allenamenti estenuanti per trasportare da Assisi a Firenze documenti falsi per gli ebrei rifugiati nella regione. Vito Spingi nascose una famiglia di ebrei di dieci persone in un elegante appartamento romano, di proprietà di un fascista fuggito al Nord con Mussolini <227. Giorgio Nissim a Lucca e Luigi e Trento Brizi ad Assisi fabbricarono centinaia di carte di identità false, usando spesso carte di identità in bianco che venivano sottratte ad impiegati comunali particolarmente ‘distratti’ <228.
È esistita quindi una sorta di ‘propensione al bene’ che potremmo definire trasversale: capace di attraversare tutti i gruppi sociali, tutte le religioni e le ideologie politiche.
[NOTE]
227 Ironia della sorte: Spingi era un impiegato delle Ferrovie che era stato licenziato per attività antifasciste. Ormai sessantenne, aveva trovato come unico impiego quello di custode del palazzo in cui si trovava l’appartamento del fascista fuggito.
228 Tutti gli esempi sono tratti da Israel Gutman - Bracha Rivlin, (a cura di), I Giusti d’Italia, I non ebrei che salvarono gli ebrei, 1943-1945, Milano, Mondadori, 2006, p. 239.
Davide Spada Pianezzola, Le ragioni dei Giusti. Azioni, tecniche e motivazioni dei "Giusti" italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, 1941-1945, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2013-2014

sabato 22 gennaio 2022

Mi soccorse la mia amicizia con Bruno Zevi

Milton Gendel
Figura 1. Milton Gendel, Veduta dei Fori, Roma, 1950 - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 2. Milton Gendel, Autoritratto sulla via Appia, 1950 - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 11. Dall’album di Milton Gendel, Peggy Erskine, Silvio Radiconcini, Milton Gendel e Cipriana Scelba, 1952 ca., Archivio Gendel, Roma - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Tuttavia, come ho scritto nel primo capitolo, Gendel aveva vissuto nel clima culturale newyorkese dei primi anni ’40, e dunque la sua sensibilità visiva, nonostante fosse stata coltivata attraverso lo studio e la passione per l’arte ‘tradizionale’ - la pittura -, era comunque pervasa, anche suo malgrado, dalle influenze di cui abbiamo detto: in poche parole dalla presenza e dal ruolo fondamentale che l’immagine fotografica aveva assunto in America dall’inizio del ‘900. Perciò, nonostante nelle intenzioni l’uso della fotografia dovesse essere per lui, agli inizi del suo variegato percorso creativo, solo un sostegno per la scrittura, in realtà era già forse il suo mezzo espressivo privilegiato. L’Autoritratto sulla Appia Antica ad esempio , accattivante immagine scattata proprio nel 1950 - una sorta di ‘selfie’ ante litteram - , si può considerare un vero e proprio manifesto visivo di come Gendel pensava e agiva in quel Gendel in quest’immagine decide di autorappresentarsi come fotografo: tanto è vero che, nella sua lunga ombra che si proietta sul prato, sono visibili le braccia piegate nell’atto di reggere la macchina: naturalmente una Rolleiflex. Il mirino a ‘pozzetto’ di questo tipo di macchina fotografica obbliga il fotografo a quella precisa posizione. Inoltre, il punto di vista dello spettatore coincide con quella del fotografo che, col sole alle spalle, diventa un’ombra densa e scura. In questa coincidenza tra autore e spettatore Gendel crea una sorta di ambiguità e sceglie di rimanere anonimo, forse perché ancora non del tutto convinto della sua identità creativa. Sullo sfondo le vestigia della Roma antica. Ma non la Roma dei monumenti più celebri, bensì quella in rovina, quella dei reperti abbandonati, degli antichi fasti cancellati da secoli di incuria. Nulla di aulico dunque, una scenografia campestre spettatrice da secoli della grandezza e del declino della civiltà romana. Il paesaggio è vagamente ‘metafisico’ – ricorda quello di alcune foto siciliane70 – con rare nuvole, quasi disegnate nel cielo.
In questo contesto va inoltre ricordato l’interesse di Gendel per l’aspetto ‘documentario’ della fotografia. Gendel, da storico, era ben consapevole del continuo mutamento delle realtà urbane e sociali e dunque della necessità che la fotografia in qualche modo riuscisse a tramandare a memoria, fissando visivamente luoghi e situazioni, tutto ciò che in breve tempo avrebbe potuto scomparire per sempre, senza lasciare traccia di sé. Se non nella memoria di chi, quel mondo lo aveva vissuto.
Perciò anche se per certi versi l’atteggiamento di Gendel verso la fotografia è definibile come ‘dilettantesco’ nel senso migliore del termine, è pur vero che il suo lavoro si connotava di un carattere impegnato e serio, e si accompagnava alla sincera passione che l’artista metteva in ogni scatto. Il suo ‘occhio’ riusciva a cogliere e interpretare la realtà che lo circondava con inaspettata maestria.
[...] Ma chi era Cipriana Scelba? Figlia di Mario Scelba, Cipriana era allora presidente del Centro Studi americani di Roma, e, insieme al professor Charles Rufus Morey, (1977-1955, primo attaché culturale dell’Ambasciata Americana a Roma tra il 1945 e il ‘50 e direttore dell’American Academy in Rome) sarà una dei due principali artefici dell’introduzione di Gendel nel mondo intellettuale e artistico della capitale. La Scelba, che si prendeva cura di orientare i giovani borsisti che arrivavano dall’America, racconta in una sua ricostruzione di quegli anni:
“Le prime borse furono assegnate per l'anno accademico l949-50. A quei tempi, sia agli Italiani che agli Americani bisognava spiegare le usanze diverse dei due paesi".
E più avanti continua: “in primo luogo, questo periodo è stato quello della vera "scoperta dell'America" da parte degli Italiani e corrispondentemente della prima presa di contatto autentico da parte degli Americani con l'Italia, che fino ad allora ne conoscevano il passato artistico e culturale in genere (se universitari) o aspetti folcloristici se poco acculturati”.
Oltre ad aver costruito con intelligenza e dedizione la prima vera rete di scambi accademici tra l’Italia e gli Stati Uniti, merito della Scelba nei confronti di Gendel fu quello di avergli presentato l’architetto Bruno Zevi.
Leggiamo infatti ancora le sue parole:
“mi soccorse la mia amicizia con Bruno Zevi, laureato a Harvard con Gropius, ma ormai ristabilitosi in Italia con studio a Roma, che ben comprendeva le esigenze culturali e professionali di questi borsisti. Organizzò pertanto seminari settimanali in cui, oltre ad illustrare (in inglese, data la scarsa competenza linguistica degli interessati) le tendenze attuali dell’architettura italiana e i problemi urbanistici. stimolando, con la sua verve polemica, la partecipazione attiva dei borsisti, invitava noti architetti e urbanisti italiani a turno da tutta Italia, a presentare i loro progetti e le loro idee ai partecipanti, dedicandovi un’intera mattinata, cosa che sarebbe stata impossibile se ognuno dei borsisti si fosse recato a visitarli separatamente nei loro rispettivi studi. [sic!] Da questi contatti nacquero poi spontaneamente rapporti più stretti tra alcuni borsisti e alcuni dei professionisti incontrati al seminario.”
Zevi divenne subito un personaggio chiave nella vita del giovane e allora un po’ squattrinato Milton, fornendogli un’occasione di lavoro e dunque un valido motivo per rimanere a Roma: gli presentò l’industriale e ‘intellettuale’ Adriano Olivetti, di cui Gendel divenne consulente dal 1951.
Negli corso degli anni Zevi e Gendel, dopo i primi incontri, divennero buoni amici. Gendel, forse per migliorare il suo italiano, tradurrà in inglese il testo di Zevi Saper vedere l’architettura, presentato al pubblico americano con il titolo di Architecture as Space.
Nell’ambito di questo mio lavoro non potrò dedicare uno spazio specifico all’amicizia tra i due, ma vale la pena di ricordare comunque che alcune idee di Zevi ebbero senz’altro influenza sulla giovane mente di Gendel e contribuirono a formare la sua concezione e il suo gusto non solo nell’architettura intesa nella sua accezione di edificio, ma anche nell’invenzione e nelle soluzioni dell’organizzazione degli spazi interni.
[...] Dalle finestre dell’appartamento di via Monserrato, Gendel prese a scattare numerose fotografie (numeri d’archivio AA024 f/ab206 e f/ab207 ), sempre nella scia della sua prima fase sperimentale. Fotografie per lo più documentarie, brevi immagini, piccole scene di genere di una Roma scomparsa, istantanee degli amici che passavano a trovarlo. Foto che oggi, in ogni modo, sono diventate immagini espressive di una città e di uno stile del vivere che non esistono più.
[...] Si può senz’altro dire che Roma sia stata – tra il 1950 e il 1960 - una protagonista indiscussa del rinnovamento culturale italiano, molto più di altre città. In parte perché molti artisti e intellettuali convergevano nella capitale in cerca di più ampie possibilità di lavoro rispetto alla provincia, in parte perché numerosi stranieri e soprattutto americani non riuscivano a resistere al fascino antico e attuale insieme della città eterna.
Le ragioni di questa forza di attrazione ‘centripeta’ di Roma negli anni Cinquanta è stata indagata da molti studi e mostre, e non è questa la sede per un ulteriore approfondimento della questione.
Come Gendel costituì un punto di riferimento per gli artisti romani che guardavano con interesse all’astrattismo d’oltreoceano, così al tempo stesso lui era la persona a cui gli artisti americani che venivano a Roma, sia solo per un breve soggiorno, sia invece per rimanere più a lungo, si rivolgevano. Vediamo ora quali erano in particolare questi artisti e che rapporto ebbero con Gendel.
Oltre agli amici artisti italiani, Gendel veniva spesso contattato - ovviamente - anche dai suoi connazionali, artisti e intellettuali americani che arrivavano a Roma e cercavano degli agganci giusti nella capitale. Ironicamente Gendel li definiva ‘visiting firemen’ e molto spesso troviamo riferimenti alle loro visite nelle lettere alla madre. Oltre ai visitatori occasionali, c’erano poi quegli americani che, non potendo resistere all’attrazione verso Roma, avevano deciso di stabilirvisi. Così ad esempio, nel primissimo periodo romano, Gendel aveva ritrovato un amico newyorkese, il pittore italo-americano Conrad Marca-Relli <179 suo vicino di casa quando abitava al numero 4 di Fifth Avenue.
Marca-Relli, in origine pittore figurativo molto legato alla tradizione visiva italiana, aveva viaggiato in Italia già prima della guerra. Poi, nel 1948, dopo aver combattuto con l’esercito americano, si era stabilito a Roma e aveva preso in affitto uno studio in via Margutta, vicino a molti artisti, ma in particolare vicino ad un altro pittore italo americano, Nick Carone <180. Anche Carone era arrivato a Roma in quel giro di anni, e precisamente nel 1947, usufruendo, come Gendel, di una borsa di studio Fulbright.
In realtà Marca-Relli, avendo un temperamento piuttosto irrequieto, non rimase stabilmente nella capitale: nei ricordi di Gendel Conrad non si fermava mai a lungo da nessuna parte. In quei primi anni Cinquanta infatti Marca-Relli si divideva tra New York e Roma e lui stesso costituiva una sorta di ponte tra le due culture. Dipingeva e diffondeva tra gli artisti romani le sue idee sull’arte, - ancora in bilico tra figurazione e astrazione -, e i libri che poteva portare direttamente da New York. In quel suo pendolare tra le due capitali, di fatto Marca-Relli poteva attingere a due diversi repertori per i suoi dipinti: da un lato alla pittura figurativa del novecento italiano, dall’altra alle sperimentazioni del surrealismo astratto di Gorky e di Matta. Va ricordato infatti che la pittura di Marca-Relli, dopo un esordio figurativo debitore di certe ‘dimensioni metafisiche’, aveva preso alla fine degli anni Quaranta - direi inevitabilmente vista la situazione artistica americana - la via dell’astrazione, mutuandola da un surrealismo magico di derivazione francese e adattandola a nuove sperimentazioni formali. Le opere di questo periodo infatti, realizzate a Roma, destarono un certo interesse nel pubblico della capitale che poté vederle esposte nel 1948 e nel 1949 alla Galleria Il Cortile <181. Nella collezione di Gendel è conservata invece una piccola tela degli esordi: un paesaggio ‘sintetico’ del 1940 (fig.19), testimonianza della loro amicizia molto antica. Il paesaggio venne donato da Marca-Relli a Gendel quando ancora entrambi vivevano a New York.
Un altro artista americano che compare tra le foto di Gendel è Nicolas (detto Nick) Carone.
< 182 Carone, nato negli Stati Uniti ma evidentemente di origini italiane, decise già prima della guerra di venire a trascorrere a Roma un periodo di formazione, progetto che si realizzò per ovvie ragioni solo dopo il conflitto. Carone arrivò infatti nella capitale nel 1947 e vi rimase fino al 1951 lavorando e costruendo la propria formazione artistica attraverso l’incontro con artisti italiani e internazionali. Tuttavia, nonostante quel suo soggiorno italiano, durante il quale si era nutrito di esperienze molteplici, il suo lavoro appare oggi quasi dimenticato qui in Italia. Mi sembra perciò venuto il momento di un, sia pur breve, approfondimento della sua presenza a Roma, che ritengo possa avere un senso all’interno del mio lavoro e possa altresì andare a fornire un ulteriore tassello nella ricostruzione delle relazioni di scambio culturale tra Roma e New York. Come lui stesso racconta fu proprio a Roma, dove era arrivato sia come vincitore del Prix de Rome <183 sia con una borsa Fulbright, che comprese quale sarebbe stata la direzione futura del suo lavoro: tra i molti giovani artisti aveva infatti incontrato Sebastian Matta, che gli aprì gli occhi sulla vera natura del surrealismo, e che divenne suo grande amico.
L’artista cileno, abile e persuasivo conversatore, gli parlò a lungo e con entusiasmo di certi aspetti della poetica bretoniana - forse fino ad allora fraintesi da Carone -, e accese in lui una vera e propria passione per le scelte formali del surrealismo, per quella possibilità di ‘astrarre’ le forme dalla realtà inserendole in un contesto del tutto nuovo, un paradigma immaginario in cui fluttuavano entità ambivalenti tratte dal repertorio profondo e inesplorato della coscienza. A Roma ci fu così, per Carone, una sorta di illuminazione: nonostante egli avesse conosciuto i surrealisti a New York e avesse persino frequentato la galleria di Peggy Guggenheim, fu solo attraverso la lettura più libera e meno ortodossa del surrealismo offerta dal lavoro pittorico e dalle parole di Matta, che si aprirono per lui nuove possibilità creative ed espressive. Le influenze della personalità ‘inventiva’ - come lui stesso la definisce - , ed esuberante di Matta divennero così per Carone, dal quel momento in poi, essenziali sia nella pittura sia nella vita.
Matta in realtà si trovava a Roma un po’ per caso, essendo dovuto fuggire da New York in seguito al dramma di Gorky <184. Solo e amareggiato Matta cercava conforto e rifugio presso gli amici artisti e, alle volte, capitava che venisse ospitato nello studio di Carone, dove a lungo si intratteneva in conversazioni sulla pittura, catturando con il suo eloquio l’animo del giovane americano.
Gli anni romani furono dunque, per Carone, anni di lavoro intenso e forse tra i più creativi, come lui stesso ricorda. Ebbe anche diverse opportunità di esporre: nel 1949 alla Galleria Il Cortile, mentre l’anno prima aveva preso parte alla prima Quadriennale di Roma del dopoguerra, quella del 1948.
Nella lunga intervista riportata in appendice, il pittore italo-americano racconta inoltre di essere stato dirimpettaio di Pericle Fazzini, nello stabile di via Margutta; stabile nel quale soggiornò - durante l’estate del 1950 - anche Mark Rothko. Quell’edificio in via Margutta era di fatto luogo di vita e di incontro di molti artisti italiani e stranieri che crearono una vera e propria comunità di scambio culturale. Tanto è vero che, continuando nell’intervista, Carone racconta chi erano - dal suo punto di vista -, e cosa conoscevano dell’arte internazionale gli artisti romani di allora, naturalmente facendo riferimento ai suoi amici di via Margutta. Tutto sommato, dalle parole di Carone non appare un ritratto molto lusinghiero delle competenze dei nostri giovani artisti: davvero poco informati su quanto andava succedendo nel resto del mondo. Di fatto solo alcuni, come Dorazio e Perilli, avevano una vaga conoscenza dell’arte europea e, stando a quanto racconta Carone, lo stesso Afro prima del 1950 non conosceva nemmeno Mirò. Vera o falsa che sia questa affermazione, quello che è certo è che gli artisti romani - per le ragioni che ho espresso in precedenza - sembravano orientarsi essenzialmente verso il cubismo: guardavano soprattutto Picasso e Braque. Tralasciando altre esperienze visive come il surrealismo o l’astrattismo non-geometrico.
Probabilmente era proprio dagli artisti americani - che così numerosi sceglievano di venire nella loro città - che i giovani pittori italiani si aspettavano notizie e aggiornamenti su quanto stava avvenendo dall’altra parte dell’oceano. Soprattutto allora, quando cioè gli Stati Uniti stavano diventando, senza più nessun ostacolo, uno dei paesi leader del mondo anche nella cultura visiva. Scavalcando, come abbiamo già visto, Parigi e la Francia.
Si può affermare infine che, forse in modo del tutto inaspettato, oltre alla frequentazione degli artisti italiani, fu proprio a Roma che Carone si avvicinò con maggiore interesse anche agli artisti americani presenti nella capitale. Divenne amico di Marca-Relli, incontrò Mark Rothko (in viaggio a Roma per la luna di miele) e frequentò Philip Guston, in particolare. L’amicizia con questi artisti si traformò anche in affinità di intenti poetici e di esiti formali, tanto che, quando Carone tornò a New York nel 1951 partecipò con molti di loro alla leggendaria “Ninth Street Exhibition” (21 maggio -10 giugno 1951) organizzata da Leo Castelli nella Stable Gallery di Eleanor Ward: situata in un edificio in demolizione sulla Ninth Street per l’appunto. La mostra è divenuta celebre nella storia dell’arte perché considerata una sorta di spartiacque nella situazione artistica newyorkese dei primi anni Cinquanta. Una mostra che contribuì alla nascita della nuova avanguardia americana.
Un altro artista americano presente a Roma alla fine degli anni Quaranta era Philip Guston. Sappiamo infatti che Philip Guston soggiornò a Roma tra il 1948 e il 1949 come fellow - cioè vincitore del Rome Prize - dell’American Academy: all’epoca Guston era ancora un pittore figurativo e in Italia veniva soprattutto per guardare i maestri del passato. Il suo interesse per l’arte figurativa arrivava però anche al presente: Guston infatti era affascinato dalla pittura di Giorgio De Chirico, per il quale aveva una sorta di venerazione. Guston poi aveva conosciuto Marca-Relli in America durante i progetti realizzati per il WPA (Work Projects Administration) dal 1935 al ’39, ed è facile supporre perciò che, una volta a Roma l’ ‘amico Conrad’, lo coinvolgesse nelle sue frequentazioni e forse anche nelle sue convinzioni sulla pittura <185. Ospite dell’American Academy dal 1946 al 1949 era anche Salvatore Scarpitta, un pittore italo-americano che ricercava il suo linguaggio espressivo nelle forme astratte, e che era amico di molti artisti italiani.
[...] Se è vero che quegli anni furono fondanti per la costruzione di una pittura ‘esclusivamente’ americana, in grado di competere con la grande tradizione della pittura europea, tuttavia l’atmosfera che si respirava a New York non era priva di freddezza e di forti competizioni tra gli artisti. Per i protagonisti di quei momenti, il lato umano dei rapporti, delle relazioni sociali, e la facilità della vita bohèmien, cominciava a sgretolarsi, in favore del successo economico e della notorietà personale, successo che non a tutti arrideva. Ecco dunque perché Roma, come ho già scritto, poteva diventare attraente.
Altri protagonisti del mondo dell’arte internazionale passavano spesso per la ‘città eterna’ e vi soggiornavano: tra di loro il pittore americano Ad Reinhardt che vi trascorse alcuni giorni nell’agosto del 1957. Così scrive Milton alla madre “In the usual influx of summer visitors, Martin James and Ad Reinhardt were included. They brought me and some cigarettes, and we had dinner together in Piazza Navona <190. Ancora il poeta e mercante d’arte Stanley Moss, di cui farò cenno anche nei prossimi capitoli. Non ultimo il vecchio amico di Gendel a New York Friedrich Kiesler, lungamente citato in una lettera del 1 giugno 1961.
Per concludere ricordo anche la presenza del celeberrimo storico dell’arte e poeta inglese Sir Herbert Read <191, grande frequentatore di Roma , di cui Gendel fa un delizioso ritratto in un’altra lettera alla madre del 20 aprile 1955.
Herbert Read era anche molto amico di un’altra grande amica di Gendel: Peggy Guggenheim.
A lei e al suo rapporto con Gendel è dedicato il prossimo paragrafo.
 
Figura 19. Conrad Marca-Relli, Paesaggio, 1940 ca. - collezione Gendel, Roma - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 20. Nick Carone, Senza titolo 1948 - olio su lino - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 21. Milton Gendel, Gabriel Kohn, Nick Carone, Jean Purcell 1950 - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

[NOTE]
179 Conrad Marca-Relli (1913-2000). Per un approfondimento sulla vita e il lavoro di Marca-Relli vedi: catalogo mostra Conrad Marca Relli, Rotonda di via Besana, Bruno Alfieri Editore Milano 2008
180 Cfr. intervista a Nick Carone in Appendice
181 Cfr. David Anfam, Conrad Marca-Relli, Bruno Alfieri Editore, Milano (USA Antique Collectors's Club), 2008
182 Nicolas Carone (1917-2010). Per notizie complete su Carone vedi il sito web : http://www.nicolascaroneestate.org/
183 Carone aveva ottenuto il premio nel 1941 ma non poté venire a Roma a causa della guerra in “ Oral history interview with Nicholas Carone, 1968 May 11-17 - Oral Histories | Archives of American Art, Smithsonian Institution”. La parte della lunga intervista a Nick Carone che riguarda i suoi rapporti con gli artisti romani è riportata in Appendice.
184 Matta era stato grande amico di Gorky e per certi aspetti aveva influito sul suo modo di dipingere. Quando Gorky si suicidò nel 1948, di quel suicidio venne incolpato Matta, che aveva una relazione con sua moglie. Matta divenato così improvvisamente inviso alla comunità artistica newyorkse, si rifugiò in Italia. Ciononostante la pittura dei due artisti rimane indissolubilmente legata, per intenti e per esisti Così aveva scritto Emilio Villa si Matta nel 1961: “ Da New York nel 1948, venne in Italia. Come alone, portava con sé i frutti del suo misterioso, stupendo sodalizio con Gorky; voci di tumulti biografici, di vicissitudini e di ambienti a noi ignoti, e, una volta noti, rivelatori di vite già emblematiche; e, infine, un fantasma carico di ideografie estasiate, cocenti, pronto a offrire e accogliere stimolazioni egermi. Fu il mio primo incontro con la pittura americana, alla radice proprio; e un trasalimento”, in Emilio Villa, op.cit., 1970, p.37
185 Vedi catalogo mostra Philip Guston Roma, Museo Bilotti, Hatje Cantz Verlag, 2010
190 Da una lettera alla madre 12 agosto 1957, Archivio Gendel, Roma
191 Sir Herbert Read (1893-1968)
 

Barbara Drudi
, Milton Gendel. Un fotografo, critico d’arte e scrittore tra avanguardia e tradizione (1949-1962), Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2014