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giovedì 22 febbraio 2024

Il supporto americano a Pinochet


Il 16 settembre 1973 apparve sul Washington Post un articolo che accusò gli Stati Uniti di aver condotto una campagna di pressioni economiche contro il Cile, campagna che portò alla caduta di Allende. <266 Il Dipartimento di Stato elaborò un documento, che sottopose a Kissinger, nel quale fu respinta l’accusa del Washington Post. Innanzitutto il documento specificò come gli Stati Uniti non condussero una guerra economica contro il Cile ma che la difficile situazione economica del Cile fu la conseguenza di politiche economiche chiaramente errate. Non furono effettuati embarghi al commercio e il governo statunitense continuò ad erogare normalmente i piccoli prestiti bilaterali rimanenti. Nonostante il continuo desiderio di vedere il governo Allende crollare, il governo statunitense non intraprese alcuna azione contro il governo cileno che non può essere giustificata all’interno delle norme di diritto internazionale bancario o commerciale e non produsse alcuna politica con l’intento diretto di promuovere un colpo di Stato. <267 William J. Jorden del NSC specificò come le ulteriori richieste di prestiti da parte del Cile furono respinte per questioni economiche e non politiche; il Cile aveva contratto enormi debiti con gli Stati Uniti. <268 Invece, per quanto riguarda l’accusa dell’utilizzo di strumenti internazionali; ovvero la Banca Mondiale, la Banca Interamericana per lo Sviluppo e altre istituzioni bancarie; per indebolire l’economia cilena, il Dipartimento di Stato ritenne questa accusa palesemente falsa. 'The international institutions cited are independent bodies which have their own lending criteria and have sufficient experience in this field to formulate their own judgments'. <269
Possiamo dire però che le azioni economiche statunitensi crearono degli ostacoli al governo Allende anche se non ne furono la causa principale che portò al colpo di Stato.
Semmai, il colpo di Stato derivò da un generale accumulo di insoddisfazione e dalla percezione del caos presente nel Paese che spinsero i militari ad agire. <270
Certamente gli Stati Uniti contribuirono a creare quel caos finanziando i partiti d’opposizione, alcune organizzazioni private di destra e soprattutto sostenendo economicamente i maggiori scioperi che si tennero tra il 1972 e il 1973; primo fra tutti lo sciopero dei camionisti. Un ruolo rilevante lo ebbe l’American Institute for Free Labour Development (AIFLD). Il presidente della Sociedad Fomento Fabril, Orlando Saez, ricordò: ' Sono stati depositati dollari per noi in cinque conti che avevamo in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina '. <271 Molti di questi soldi molto probabilmente provenivano dagli Stati Uniti ma si cercò di nascondere il più possibile la fonte. A fine 1972, un gruppo di leader sindacali andarono in Virginia a seguire una sorta di addestramento “economico” presso l’AIFLD. Inoltre, ex capi di scioperi dei colletti bianchi frequentarono corsi di economia avanzata del lavoro presso un’università di Washington DC. Prats disse ad un giornalista che la IIT, società statunitense di telecomunicazioni, versò 400.000 dollari per lo sciopero dei propri lavoratori dopo un incontro con gli industriali cileni in Argentina. <272
Il Congresso americano, subito dopo il golpe, avviò un’indagine per fare chiarezza circa il coinvolgimento degli Stati Uniti negli avvenimenti Cile. Davanti alla sottocommissione della Camera per gli Affari Interamericani, l’assistente segretario di Stato per gli Affari Interamericani, Kubisch affermò esplicitamente che ' it is untrue to say that the United States Government was responsible either directly or indirectly for the overthrow of the Allende Regime'. <273
Alla domanda se il governo degli Stati Uniti aveva saputo qualcosa sul colpo di Stato o se erano state prese delle decisioni da parte del NSC in merito alla posizione degli Stati Uniti nel dare incoraggiamento o sostegno ai gruppi di opposizione, Kubisch rispose negativamente. ' In my judgment .., I think it would be a mistake to think that the United States did anything that had any kind of significant impact on what has happened in Chile. I do not exclude the possibility that there were some small program or activities that within the United States Government there was sponsorship of, but compared to what the situation was in Chile, compared to what has happened - and taken in the context of what has happened in Chile - I would say they were insignificant or nearly insignificant, what I know of them '. <274 ' Our policy in recent months was - as far as Chile was concerned—not to do anything to bring about the overthrow of Allende '. <275 Il vice segretario Shlaudeman aggiunse che ' Despite pressures to the contrary, the United States Government adhered to a policy of nonintervention in Chile’s internal affairs during the Allende period. That policy remains in force today'. <276 Politica confermata da vari documenti risalenti ai due anni precedenti al colpo di Stato tra cui il memorandum del vicedirettore per il Coordinamento, Ufficio di Intelligence e Ricerca, McAfee, inviato al direttore delle operazioni Gardner, in cui consigliò di “tenersi alla larga” da un colpo di Stato. <277
Prima della testimonianza davanti alla Camera, il 20 settembre, si svolse una riunione tra la CIA e l’ARA in cui il rappresentante della CIA, Philips, autorizzò Kubisch ad affermare che nessun elemento della CIA era stato coinvolto nel colpo di Stato e che nel caso in cui gli fosse stato chiesto delle attività della CIA, Kubish avrebbe dovuto riferire i suoi interrogatori all’Agenzia. <278 La CIA infatti fu l’autore e il maggior decisore delle attività attuate in Cile, con l’appoggio di Nixon e Kissinger. La CIA fu molto attenta nell’evitare l’apparenza di favorire un colpo di Stato tant’è che ebbe difficoltà nel prevedere i tempi e la natura del colpo di Stato. Sembrerebbe che un primo contatto diretto tra gli Stati Uniti e i golpisti si ebbe il 10 settembre 1973, quando la CIA riferì a Kissinger che un contatto nell’esercito cileno aveva incontrato un agente della CIA per comunicare agli Stati Uniti l’intenzione di compiere il colpo di Stato l’11 settembre. Inoltre, chiese se gli Stati Uniti fossero pronti a fornire sostegno al golpe. L’agente statunitense rispose che l’azione panificata contro il Presidente Allende fu un’operazione esclusivamente cilena. <279 Il direttore della Central Intelligence Agency, Colby rassicurò Kissinger che ' The Santiago Station would not be working directly with the armed forces in an attempt to bring about a coup nor would its support to the overall opposition forces have this as its objective '. <280 Kissinger non rispose a questo memorandum, probabilmente perché non ci fu il tempo sufficiente per una nuova direttiva prima dell’esecuzione del colpo di Stato. Kubisch, qualche giorno dopo il colpo, in un incontro tra l’ARA e la CIA, disse che ' all here were aware of the possibility but that it was not accurate to say that the Government had received a clear indication that a coup was about to be triggered '. <281 Riportò anche che il giorno dopo il colpo di Stato, un leader cileno, il cui nome non fu specificato, affermò all’Ambasciata statunitense in Cile che avevano specificamente deciso di nascondere le informazioni sulle tempistiche del colpo di Stato. Se fosse veritiera o meno la rivelazione di Kubisch non lo si può sapere e allo stesso modo, non si può escludere che Kissinger, informato sulla situazione in Cile, abbia preferito tenere all’oscuro l’intera amministrazione.
Interessante però è la trascrizione di una conversazione telefonica tra Kissinger e Nixon in cui emerge chiaramente come in realtà gli Stati Uniti contribuirono notevolmente alle dinamiche che portarono al colpo di Stato. Parlando proprio del rovesciamento del governo Allende, Nixon disse chiaramente ' our hand doesn’t show on this one though ' e Kissinger rispose ' We didn’t do it. I mean we helped them, created the conditions as great as possible '. <282 Alla luce di questa conversazione è difficile sostenere la tesi portata avanti da Kubish secondo la quale gli Stati Uniti non avevano avuto nulla a che fare con il colpo di Stato. Sicuramente sia per l’immagine interna degli Stati Uniti, sia per quella internazionale la soluzione più corretta fu quella di insabbiare le accuse e continuare a negare: ' I do want to give you this assurance: first, we did nothing to oppose the election of Mr. Allende in 1970 or to support his opponents in that election; second, we never - in any shape or form - supported any move at any time to overthrow the legal government of Chile. We did not encourage or back any coups '. <283
[NOTE]
266 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume E-16, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2015, document n°149, Memorandum from William J. Jorden of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger).
267 K. Gustafson, op.cit., p. 223.
268 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume E-16, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2015, document n°149, Memorandum from William J. Jorden of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger).
269 Ibidem.
270 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume XXI, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2014, document n°353, Minutes of a Meeting of the Washington Special Actions Group.
271 J. Haslam, op. cit., p 193.
272 Ibidem.
273 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume E-16, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2015, document n° 141, Excerpts from Testimony Before Congress by Assistant Secretary of State for Inter-American Affairs (Kubisch) and the Deputy Assistant Secretary of State for Inter-American Affairs (Shlaudeman).
274 Ivi, p. 730.
275 Ibidem.
276 Ivi, p.731.
277 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume XXI, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2014, document n° 344, Memorandum from the Deputy Director for Coordination, Bureau of Intelligence and Research (McAfee) to Director of Operations, Bureau of Intelligence and Research (Gardner).
278 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume XXI, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2014, document n° 362, Memorandum from the Director of Operations Policy, Bureau of Intelligence and Research (Gardner) to Deputy Director for Coordination, Bureau of Intelligence and Research (McAfee).
279 K. Gustafson, op.cit., p 222.
280 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume XXI, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2014, document n°342, Memorandum from Director of Central Intelligence Colby to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and the Assistant Secretary of State for Inter-American Affairs (Kubisch).
281 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume XXI, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2014, document n°354, Memorandum from the Deputy Director for Coordination, Bureau of Intelligence and Research (McAfee) to the Director of Operations Policy, Bureau of Intelligence and Research (Gardner).
282 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume XXI, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2014, document n° 357, Transcript of a Telephone Conversation Between the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) and President Nixon.
283 Foreign Relations of the United States, 1969-1976, Volume XXI, Chile 1969-1973, Washington, US Government printing office, 2014, document n° 356, Memorandum from William J. Jorden of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger).
Chiara Turconi, L'amministrazione Nixon e il Cile dall'elezione di Allende al colpo di stato militare (1970-1973), Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2022-2023

sabato 17 febbraio 2024

Tra i comandanti partigiani in provincia di Parma anche un pastore danese


Come si è detto nell’introduzione al presente capitolo, i Comandanti presi in esame sono frutto di una scelta, di alcuni capi, tra tutti coloro che parteciparono alla Resistenza parmense guidando un Brigata. Si tratta di una selezione che, inevitabilmente, ha escluso quei Comandanti che non sono stati esaminati in questo studio non per minor importanza, ma per ragioni principalmente di spazio e soprattutto di scarsità di documenti; fattore, quest’ ultimo, che ha impedito di rilevare le caratteristiche e le eventuali problematicità su di essi. Tra i capi la cui figura non è stata approfondita in questa tesi, è doveroso riportare i nomi di alcuni Comandanti, le cui persone, seppur poco emerse dalle fonti, hanno fornito un importante contributo alla causa patriottica.
È il caso ad esempio di Libero (Primo Brindani) che, come Giuseppe Del Nevo (Dragotte) e Alfredo Moglia (Bill), partecipò alla nascita della Resistenza nella Alta Val Taro, e ha poi guidato la I Julia dopo l’allontanamento del Dragotte. Come Libero, anche il nome di Camillo (Dario Giagnorio) è da ricordare; Camillo, dopo l’allontanamento di Dario (Luigi Marchini) assunse il Comando della 12a Garibaldi, denominata “Fermo Ognibene” e la guidò fino alla Liberazione. Figure significative per la Resistenza, furono anche William (Massimiliano Villa) e Max (Guido Bertolotti) che divennero comandanti, rispettivamente della 143a Brigata Garibaldi “Aldo” e della 143a “Franci”. Sul Comandante Max, Leonardo Tarantini, pochi giorni dopo la Liberazione di Parma, scrisse un rapporto sommario sull’attività del patriota Max, dove si legge: "Giovanissimo, fra i primi patrioti accorreva al richiamo della patria sui monti, iniziatore sagace del movimento di liberazione. […] con l’esempio personale e con grandissima audacia trascinava gli uomini in vari combattimenti, da cui usciva sempre vittorioso con pochissime perdite […] promosso sul campo comandante di Brigata per meriti di guerra, prendeva il comando della 143° Garibaldi “Franci” e la conduceva con brillanti azioni che culminarono con l’occupazione di un settore della città di Parma, dopo aver catturato numerosi prigionieri ed ingente quantità di materiale bellico". <535
Questo è il principale giudizio rinvenuto su Bertolotti Guido. Un ruolo molto importante nel movimento parmense, fu quello ricoperto dai fratelli Beretta, Guglielmo e Gino Cacchioli, che fondarono rispettivamente, la I e II Brigata Beretta, operanti nella zona di Albareto, comune della Val Taro; Guglielmo Cacchioli divenne in seguito Comandante della Divisione “Cisa”. Si tratta di una Divisione che, pur dipendendo formalmente dal Comando Unico, preservava il proprio carattere autonomo ed operava a cavallo della Cisa e la Liguria. Purtroppo tutta la documentazione relativa ai Beretta è in possesso di privati, non rintracciabili e non è presente nell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza di Parma.
È da nominare anche il Comandante della III Brigata Julia, Lauritzen Arendt; Paolo il Danese, così era il suo nome di battaglia, era un pastore che, arruolatosi nell’esercito, dalla Danimarca arrivò in Italia con il grado di Sottotenente. Le vicissitudini lo portarono poi a Parma e infine, sui monti. Sulla storia e la vita di Paolo Danese sono già stati pubblicati due volumi: il libro Paolo il Danese, un prete partigiano <536, scritto da Thomas Hardar e Paolo il Danese, cammina fratello cammina, scritto dai suoi famigliari, Paolo e Rosita Lauritzen. Questi e ad altri ancora, sono i nomi e gli esempi dei Comandanti senza i quali, la Resistenza Parmense avrebbe avuto, probabilmente, altre caratteristiche e altre memorie.
Le differenze e le caratteristiche
Tornando ai Comandanti esaminati nel capitolo, come si era detto nell’introduzione, essi sono stati scelti, perché lo studio del loro percorso come Comandanti della Resistenza, permette di cogliere diversi e frastagliati aspetti del movimento partigiano nel suo complesso, al fine di ricavare un quadro più completo della lotta di Liberazione condotta sui monti parmensi. Ogni capo, la cui figura è stata in questa sede approfondita, reca con sé alcune caratteristiche, di varia natura, che in parte lo differenziano, e in parte lo accomunano, agli altri Comandanti.
Zona territoriale
Partendo dai tratti che tra di loro si contraddistinguono, uno è senz’altro l’area territoriale in cui essi sono stanziati e che controllano. Ciascun Comandante infatti opera in una realtà geografica differente; l’insieme delle zone assegnate a questi Comandanti, ricopre la maggior parte del territorio in cui si è combattuta la Resistenza parmense. Come abbiamo visto, le Brigate di Dragotte e Bill appartengono alla Alta Val Taro. La formazione di Del Nevo è attiva nella zona limitrofa al comune di Borgotaro, vicino ad un’importante via di comunicazione: la linea ferroviaria che collega Parma e La Spezia; mentre la 32a Brigata di Bill (Alfredo Moglia), nata dal “Gruppo Penna” conduce le proprie azioni nelle prossimità del Monte Penna, un importante monte dalle cui pendici nascono i fiumi Ceno e Taro e si formano le rispettive valli. Dall’altra parte della Vallata, nella Val Ceno, sono stanziate la 31a Brigata guidata da Trasibulo (Ettore Cosenza) e poi da Annibale (Luigi Rastelli), il cui comune di riferimento è quello di Varano. Nella Alta Val Ceno, intorno al Comune di Bardi, opera la 135a Garibaldi “Mario Betti”, la formazione nata dall’allontanamento di Dario (Luigi Marchini) dalla 12a Brigata. Tutte queste Brigate appartengono alla zona Ovest del Passo della Cisa, e dipendono dal Comando Unico di Arta (Giacomo Ferrari) e Poe (Achille Pellizzari). Passando alla Zona Est della Cisa, le Brigate che operano sotto il Comando di Gloria (Paolo Ceschi) e Mauri (Primo Savani) sono la 143a Brigata, che sotto la guida di Nardo (Leonardo Tarantini) è stanziata nella Val D’Enza, al confine con la provincia di Reggio, e la 12a Brigata, che come si è visto, nell’settembre 1944 effettua un lungo e pericoloso spostamento dalla Val Ceno alla Val Parma, dove rimarrà operativa.
Appartenenza politica
Una seconda caratteristica che diversifica i Comandanti è la loro appartenenza politica. Su questo punto si può fare una distinzione tra chi appartiene esplicitamente ad un partito, tra chi invece è di posizione apolitica e quelli il cui credo politico è ambiguo. Dario e Annibale, appartengono alla prima categoria; entrambi infatti sono militanti del Partito Comunista. Se per Dario, il suo credo politico traspare meno nella sua attività di Comandante, nel caso di Annibale il suo legame con il Partito è molto evidente, dal momento che per tre volte, nell’aprile, nel settembre e nel dicembre 1944, è incaricato come responsabile politico dalla Federazione. Il Comandante Bill e il Capo Nardo, si sono dimostrati invece estranei dalle questioni politiche. Nel caso di Alfredo Moglia, come si è visto, viene più volte ribadita la sua apoliticità, ed egli stesso non assume una posizione precisa nel momento in cui, nel settembre del 1944, era in corso la questione sulla denominazione della Brigata. Anche se per Nardo non si può parlare pur non con sicurezza di apoliticità, alcuni fattori sembrerebbero dimostrarlo, quali la sua impostazione militaresca, e il fatto che non si faccia mai cenno ad una esplicita fede politica. Si può concludere che il suo ruolo di Comandante non fu influenzato da una manifesta appartenenza politica, lasciando probabilmente il suo credo politico alla sfera privata.
Infine, Trasibulo e Dragotte possono essere considerati una “via di mezzo”, dal momento in cui, durante la loro carriera di comandanti, sono partiti da una posizione di indifferenza, o aperto contrasto, verso il Partito Comunista, per poi verso la fine della guerra, avvicinarsene. Sebbene non fosse un “compagno” la presenza di Trasibulo alla guida della 31a Garibaldi era apprezzata dal Partito Comunista e verso la fine della guerra la posizione di Ettore Cosenza si approssima sempre più a quella del Partito, tanto da meditare di iscriversi, come si evince dalla lettera, già presa in esame, firmata dal suo commissario politico, il comunista Leris Luigi, alias Gracco. Meno certo è il passaggio di Dragotte da una posizione monarchica e badogliana ad una comunista, come affermato nel lavoro di Giacomo Vietti. Il dubbio nasce dal fatto che nessun documento fa cenno ad una vicinanza di Del Nevo con il pensiero Comunista; ne, d’altra parte, nessun documento pervenuto attesta l’effettiva o meno iscrizione di Cosenza e Del Nevo al partito.
[NOTE]
535 AISRECP, Fondo Lotta di liberazione, busta DI, fasc. RI d, f. 14.
536 Cfr. Paolo e Rosita Lauritzen, Paolo il Danese, cammina fratello… cammina,1943-1945, Mattioli 1885, Parma, 2015 e Thomas Harder, Paolo il Danese. Un prete partigiano, Mattioli 1885, Parma, 2016.
Costanza Guidetti, La struttura del comando nel movimento resistenziale a Parma, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2017-2018

venerdì 9 febbraio 2024

Le forze di intelligence in ambito militare lavoravano per mantenere l’Italia ancorata al blocco occidentale


Un testimone importante per ricostruire la rete di responsabilità statunitense è Carlo Digilio. Informatore dei servizi segreti statunitensi interni alla base Ftase di Verona, Digilio si era infiltrato nell'ambiente di On di Venezia al fine di riferire quali fossero le attività di tale area. In tale contesto egli aveva appreso e riferito importantissime notizie sugli attentati del 12 dicembre 1969. Dalle sue dichiarazioni sappiamo che David Carret, un ufficiale della Us Navy in servizio presso la suddetta base, era stato informato della strage imminente dallo stesso Digilio, e queste informazioni “erano risultate in perfetta corrispondenza con gli elementi che l’ufficiale andava ricevendo certamente dalla struttura centrale di On collocata a Roma” <838. Ecco quanto affermato da Digilio: “Confermo innanzitutto che Maggi mi parlò del fatto che vi sarebbero stati grossi attentati, che bisognava aspettarsi perquisizioni nel nostro ambito e che vi sarebbe probabilmente stata anche una grossa reazione da parte delle forze di sinistra. Di conseguenza i militanti conosciuti dalla Polizia dovevano liberarsi in fretta di ogni materiale compromettente che avevano in casa. Qualche giorno dopo, e quindi pochissimi giorni prima degli attentati, ebbi un incontro con il capitano Carret dinanzi al Palazzo Ducale. Era uno dei nostri incontri consuetudinari, che avvenivano ogni 15 giorni circa e in cui facevamo il punto della situazione. […] Io riferii a Carret quanto mi aveva detto Maggi, facendone anche il nome, e percepii che la struttura di Carret aveva già le antenne alzate e si aspettava qualcosa e del resto Carret stesso mi confermò che sapeva benissimo che la destra in quel periodo stava preparando qualcosa di grosso nella direzione di una presa di potere da parte delle forze militari. Carret mi chiese di raccogliere e riferire tutte le informazioni possibili in merito a quanto stava per avvenire” <839. Nel corso di un secondo incontro tra i due, verificatosi il giorno dell’Epifania del 1970, Digilio afferma di aver riferito al capitano gli altri particolari acquisiti “e in particolare che il dr. Maggi aveva consentito imprudentemente l'uso della sua autovettura e Carret mi disse che, nonostante non ci fosse stata quella sterzata a destra che si pensava [e cioè, il Presidente del consiglio non aveva dichiarato lo stato di emergenza e non si era adoperato per lo scioglimento delle Camere], la situazione era comunque sotto controllo e, nonostante la reazione delle sinistre, l'ambiente di Ordine Nuovo non sarebbe stato toccato dalle indagini” <840. Digilio afferma poi “Il capitano Carret mi confermò che quello era stato il progetto, ben visto anche dagli americani, e che era fallito per i tentennamenti di alcuni democristiani come Rumor. Mi spiegò anche che nei giorni successivi alla strage le navi militari sia italiane sia americane avevano avuto l'ordine di uscire dai porti perchè, in caso di manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti potevano essere più facilmente colpite. Anche con Sergio Minetto, a casa di Bruno Soffiati, vi furono da parte di quest'ultimo commenti simili prima ancora dei colloqui che ebbi con Carret” <841.
Sempre da dichiarazioni di personaggi implicati nell’eversione, in questo caso di Gian Adelio Maletti, possiamo raccogliere informazioni decisive sulle responsabilità dei servizi segreti dell’intellgence americana. Maletti ricorda di aver appreso, da un’informativa del centro di spionaggio di Trento, che l’esplosivo utilizzato a Piazza Fontana proveniva da un deposito militare statunitense. Nello specifico, era stato trasportato dalla Germania a bordo di un tir e, giusto a Mestre, era stato consegnato ad un esponente della cellula mestrina di On. Su questo punto la testimonianza di Maletti sembra corrispondere a quella di Digilio, che ricorda di aver visionato a Mestre delle cassette militari contenenti esplosivo con delle scritte in inglese all’interno di un portabagagliai. Maggi affermò di dover trasportare quelle cassette fino a Milano nei giorni successivi <842. Tornando invece alla testimonianza di Maletti, il generale non sapeva dire se l’esplosivo fosse stato consegnato direttamente dagli americani. Inoltre a tratti i suoi ricordi diventano offuscati. Su un aspetto, comunque, non sembrava nutrire dubbi, e cioè che: “gli americani (Cia e Counter intelligence corps, il servizio segreto dell’esercito) diedero la loro approvazione. Avevano grande disponibilità di materiali ed erano interessati a condurre un’operazione politica in un paese vicino […] avevano interesse a proteggere e foraggiare i gruppi estremisti […] Gli americani fornivano il materiale, ovvero l’esplosivo. Per il resto, c’era una sorta di laissez-faire, cioè un indirizzo generale, che poi veniva messo in pratica da gruppi italiani o internazionali”. Il generale si spinge ancora oltre arrivando a sostenere che: “il Presidente degli Stati Uniti aveva senz’altro conoscenza del fatto che la Cia stava lavorando in Italia. Forse, non sapeva dell’episodio in sé prima che questo si verificasse, ma può anche darsi” . Infine, Maletti afferma di essere convinto che “gli americani non volessero la strage, avvenuta invece “per caso, per disguido, per errato calcolo dei tempi. La banca era aperta, l’ora era sbagliata e le transazioni erano ancora in corso. La bomba, almeno nelle intenzioni, doveva essere quasi innocua. Non si trattò di un’azione militare, ma di una mossa psicologica, politica” <843. E’ sempre Maletti a parlare di un rapporto subalterno tra Servizio americano e quello italiano: “questo derivava dal fatto che da parte americana vi era una consistente iniezione di mezzi tecnici e non, al contrario, di informazioni. La collaborazione era più spesso unilaterale e il rapporto era, per lo meno nel periodo in cui sono stato a capo di quella branca, di scarsa fiducia nei nostri confronti e più che un rapporto era una decisa azione autonoma del Servizio americano in Italia, in appoggio alla loro politica e senza molto riguardo per quello che noi conoscevamo e sapevamo” <844.
Emerge quindi un quadro molto frastagliato e di complessa ricostruzione delle responsabilità statunitensi nella strage di Piazza Fontana. Da un lato, gli organi della diplomazia ufficiale statunitense tendevano a scartare la possibilità di una presa del potere da parte dei comunisti italiani almeno nei successivi due o tre anni, ma ritenevano necessario correggere la deriva a sinistra della politica italiana e influenzare le forze democratiche italiane attraverso misure tradizionali che consentissero di incrementare la fiducia della leadership italiana da parte dell’opinione pubblica e di sostenere i sindacati democratici <845. Al tempo stesso, le forze di intelligence in ambito militare lavoravano per mantenere l’Italia ancorata al blocco occidentale, attraverso modalità che andavano ben oltre il limite delle azioni rientranti nelle possibilità di un Servizio di Sicurezza di un Paese alleato, in quanto prevedevano l’appoggio materiale e logistico per la realizzazione di attentati e la strumentalizzazione di personaggi della destra eversiva implicati a vario titolo nelle stragi.
[NOTE]
838 Sentenza ordinanza del G.I. Guido Salvini, 1998, cit. p. 292; A. Giannuli, Il braccio della destra nera la mente della Cia e i Servizi a depistare, in “L’Unità”, 12 dicembre 2009.
839 Interrogatorio di Carlo Digilio, 5 marzo 1997, in Atti BS/fasc. D/c-2, pp. 252-255.
840 Ibidem.
841 Interrogatorio di Carlo Digilio, 21 febbraio 1997, in Atti BS/fasc. D/c-2, pp. 244-247.
842 Interrogatorio di Carlo Digilio, 16 maggio 1997, in Atti BS/fasc. D/c-2, pp. 301-307.
843 A. Sceresini, N. Palma, E. M. Scandaliato, Piazza Fontana. Noi sapevamo. Le verità del generale Maletti, Reggio Emilia, Aliberti, 2010, pp. 87-88, 98, 100-101. Su questi punti si veda anche: P. E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 380.
844 Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Audizione del Gen. Gian Adelio Maletti, 3 marzo 1997, disponibile al link: www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/maletti1.htm. 845 Nara, Nixon Presidential Materials, Nsc Files, Box 1248, Saunders Chron File, NSSM 90, Us Policy on Italy and the Northern Mediterranean National Security Study Memorandum 88, 12 febbraio 1970; Nara, Nixon Presidential Materials, Nsc Files, Nsc Institutional Files (H-Files), Box H–169, National Security Study Memoranda, NSSM 88, Response to National Security Study Memorandum 88, 11 giugno 1970; L. Cominelli, L’Italia sotto tutela, cit. pp. 68, 74.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

lunedì 5 febbraio 2024

L’alienazione artistica è sublimazione

Gaspare Caramello, Action Pixeling

La posizione di Marcuse nei confronti dell’Arte
L’interpretazione estetico-sociologica del Neomarxismo del Novecento trova nell’arte uno strumento di denuncia sociale, di emancipazione e promozione umana.
La posizione di Herbert Marcuse cambia nel corso della sua produzione filosofica; a partire dagli anni ’60, infatti, l’arte perde per lui la sua funzione di libertà.
Nel suo saggio "L’Uomo a una Dimensione" scrive:
“Nel rapporto con la realtà della vita quotidiana, l’alta cultura del passato era molte cose - opposizione e ornamento, grido e rassegnazione. Ma era anche una prefigurazione del regno della libertà, il rifiuto di comportarsi in un dato modo. Tale rifiuto può essere scartato senza un compenso che sembri dare più soddisfazione che non il rifiuto stesso. La conquista e l’unificazione degli opposti, che trova il suo coronamento ideologico nella trasformazione dell’alta cultura in cultura popolare, ha luogo su una base materiale di accresciuta soddisfazione. Questa è pure la base che permette di realizzare una travolgente desublimazione”.
L’opera, del 1964, denuncia la resa dell’artista a un ordine sociale che appare totalitario, che permea di sé ogni aspetto della vita dell'individuo che, soprattutto, ha inglobato anche una dimensione potenzialmente e tradizionalmente anti-sistema come l’arte.
Evoluzione del pensiero di Marcuse
In "Eros e civiltà" (1955), Marcuse sosteneva l’importanza e la valenza positiva del progresso tecnologico in grado di generare le premesse per una liberazione dall’obbligo del lavoro (l’automazione può ridurre il tempo e le energie dedicate al lavoro) e ritornare a liberare la propria libido verso il soddisfacimento del piacere e della felicità (in un lavoro gratificante, nelle attività sociali, nei rapporti interpersonali). L’Eros può spaziare liberamente dando vita a una società nuova dove la stessa sessualità sia liberata dalle restrizioni, dove viga un libero rapporto tra i sessi e l’arte possa essere creatività non alienata, la voce che non condanna, ma canta e intuisce un ordine senza repressione.
In "L’Uomo a una dimensione", Marcuse denuncia il carattere fondamentalmente repressivo della società industriale avanzata che appiattisce l'uomo in un’unica dimensione, quella di consumatore, euforico e ottuso:
“L’alienazione artistica è sublimazione. Essa crea immagini di condizioni irreconciliabili con il principio di realtà stabilito, le quali diventano tuttavia, come immagini culturali, non solo tollerabili, ma perfino edificanti e utili. Questo tipo di immagini va ora perdendo ogni validità. Il loro inserimento nella cucina, nell’ufficio, nella bottega; la loro trasmissione commerciale a fini economici come a fini di passatempo rappresentano, in un certo senso, una forma di desublimazione, la sostituzione di una gratificazione mediata con una immediata. Si tratta, però, di una desublimazione praticata da una ‘posizione di forza’ da parte della società la quale può permettersi di concedere più cose di un tempo perché i suoi interessi si son fusi con gli impulsi più intimi dei suoi cittadini e perché le gioie che essa concede promuovono la coesione e la contentezza sociali”.
La società tecnologica avanzata riduce tutto a sé, ogni dimensione altra è asservita al potere capitalistico e al consumo, la civiltà industriale sostituisce i veri bisogni umani con altri artificiali, i fini con i mezzi.
Nelle moderne democrazie occidentali i valori, che una volta erano propri di una parte della società (la classe borghese), si sono diffusi a tutti gli altri soggetti sociali, mantenendo così inalterato l'ordine esistente: è in questo quadro che Marcuse elabora il concetto di tolleranza repressiva, ovvero il momento nel quale la libertà va a coincidere col permissivismo.
L’Arte deve quindi ritrovare il suo aspetto rivoluzionario e farmi promotrice di un messaggio di liberazione delle coscienze.
 

Gaspare Caramello, No-War (Give Peace a Chance)

Gaspare Caramello, L’interpretazione sociologica dell’arte in Marcuse, gennaio 2024

domenica 4 febbraio 2024

La Milano del dopo armistizio si presenta come una città devastata dalle incursioni aeree


Attorno al giorno dell'armistizio una serie di nodi si intrecciano: una massiccia ondata di licenziamenti, iniziata ad agosto e che proseguirà fino a dicembre; il drastico aumento del costo della vita; i danni della guerra, soprattutto sul fronte abitativo. L'inizio dell'occupazione nazista e la proclamazione della Repubblica sociale, assieme al venir meno di fatto del governo badogliano (salvato unicamente dall'avanzata angloamericana da sud), accentuano, nel quadro di un nuovo scenario istituzionale e governativo, aspetti emersi nei mesi precedenti nel nord.
Così ci si presenta Milano nel primo mese di occupazione nazifascista: "Settembre 1943, gli stracci sono sempre i primi a volare. La Milano del dopo armistizio si presenta come una città devastata dalle incursioni aeree dell'agosto precedente. Degli oltre duecentomila abitanti rimasti senza tetto la maggior parte sono operai: alloggiavano in abitazioni malsane e carissime e ora, dopo che i bombardamenti alleati hanno infierito sui quartieri popolari di Porta Genova, Porta Ticinese, Porta Garibaldi e sull'area a nord dell'Arena, non hanno più nemmeno quelle. Diverso il discorso per i ceti abbienti, i quali, a quest'epoca, sono già sfollati trovando riparo nelle campagne e nelle valli lombarde. Le autorità municipali, di fronte a tale situazione, ventilano sì un progetto di accertamento e requisizione dei vani disponibili, ma basta il coro di proteste del sindacato proprietari di fabbricato perché tutto si areni e la proverbiale solidarietà meneghina, il “gran coeur de Milan”, si blocchi di fronte all'inviolabilità della proprietà privata. Adesso, dopo l'8 settembre, il problema degli alloggi è aggravato anche dalle requisizioni operate dai tedeschi. Trovare casa, anche un buco in cui accalcarsi, diventa impresa sempre più ardua, almeno per chi non possiede un reddito superiore. Non meno drammatica si presenta la situazione alimentare: le razioni assegnate a prezzi controllati - per ammissione degli stessi repubblichini - forniscono meno di un terzo del fabbisogno minimo. Il ricorso al mercato nero è, dunque, un fatto scontato e indispensabile, senonchè i prezzi vanno registrando un'impennata vertiginosa. <270
A questa situazione drammatica, si aggiungano: l'aumento senza precedenti del costo della vita, soprattutto sul capitolo alimentazione, e la mancanza di combustibile e legna da ardere per affrontare l'inverno alle porte <271. Va da sé che in questo contesto la difesa del posto di lavoro e del salario diventa ancora più centrale che nei mesi precedenti. Come già anticipato, una pesante crisi occupazionale interessa i lavoratori milanesi e della provincia: "Le cifre statistiche relative all'intera Italia settentrionale trovano conferma in ciò che accade nel capoluogo lombardo. Tra settembre e ottobre si scatena una massiccia ondata di licenziamenti: la Caproni (6.000 dipendenti) ne espelle 2.000, la Lagomarsino (4.000) ne caccia 3.000, la Brown Boveri 2.000 su un totale di 5.000, la Safar (3.000 dipendenti) ne allontana 1.500, la Olap 500, le Rubinetterie riunite 1.300, la Montecatini 700, la Rizzoli riduce il personale da 200 a 70 unità, la Magni chiude, l'Innocenti non licenzia ma sospende 1.500 lavoratori. A nessuno viene corrisposto il previsto pagamento del 75% del salario da parte della cassa integrazione e i licenziamenti sono accompagnati dalla contrazione delle ore lavorative e dal mancato rispetto di accordi aziendali […]" <272.
A questa offensiva padronale si aggiunge il doppio regime di occupazione nazista e collaborazionista interno che considera la produzione industriale terreno di disciplina militare e, di conseguenza, lo sciopero e l'agitazione sindacale un crimine, che dal giugno '44 può essere punito con la morte (sebbene i tedeschi per i primi mesi si mostreranno più disponibili a fare concessioni alle maestranze in un'ottica di pacificazione e in generale la situazione di guerra renderà gli operai sempre difficilmente sostituibili).
Al tempo stesso l'organizzazione comunista in fabbrica si presenta come piuttosto disgregata. La particolarità del tessuto industriale milanese, rispetto a quello di una città come Torino, è la maggiore diffusione ed estensione sul territorio: caratteristica che aveva già rivelato le difficoltà di coordinamento e mobilitazione in occasione degli scioperi di marzo e che ora, con la nuova situazione politica, mette in risalto i problemi organizzativi delle forze operaie. "Anche al 5° settore (zona Vittoria), che per numero e importanza delle sue fabbriche è secondo soltanto alla mitica Sesto San Giovanni, la situazione organizzativa si presenta grave: persi tutti i collegamenti con gli stabilimenti dopo il 9 settembre, se ne sono ora ristabiliti circa la metà ma - avverte un ignoto relatore - 'in alcuni di quelli collegati il contatto è soltanto per mezzo di un simpatizzante'. Completamente scollegati i maggiori complessi industriali come la Vanzetti, la Falk di Rogoredo, l'Ilva, le Smalterie, la Garelli e altri ancora, perduti i contatti con i licenziati e inesistenti o quasi quelli con i disoccupati, rimangono, unico e magro conforto, i ventiquattro membri (su 4.000 dipendenti) della cellula comunista alla Caproni di Taliedo". <273 Le uniche aziende in cui si registra una capacità di risposta ai licenziamenti sono la Magnaghi di Turro e la Breda della cittadella operaia di Sesto San Giovanni.
Questo quadro desolante si inserisce nel generale attendismo che caratterizza tutte le forze antifasciste (con la significativa eccezione dei socialisti di Basso proprio a Milano, che fin dal gennaio '43 avevano fondato il MUP - Movimento di unità proletaria). La dirigenza comunista, rappresentata nell'Italia occupata da Luigi Longo e da Pietro Secchia (quest'ultimo responsabile dell'organizzazione militare del Pci, esponente dell'ala operaista interna, destinato ad avere molto seguito a Milano), nonostante la oggettiva situazione di difficoltà, avvia una tenace e inizialmente solitaria riorganizzazione politico-militare-sindacale capace di tenere insieme città, fabbrica e montagna secondo una duplice tattica: lotta di massa e lotta armata. È qui che avviene il passaggio dalla parola d'ordine pre-armistizio della 'pace' a quella della 'lotta armata' contro l'occupante nazista e il governo-fantoccio di Salò.
"Mentre prima dell'8 settembre la parola d'ordine più generale era quella della pace, dopo diventa quella della lotta armata. A chi continua a richiedere 'pane, pace e libertà' si obietta: 'Bene per pane e libertà. Ma perché la pace? Bisogna dire: vogliamo la guerra di liberazione' ". <274
La lotta armata rappresenta un capitolo a parte, soprattutto per la sua novità come pratica conflittuale del movimento operaio e rivoluzionario (eccezion fatta per gli anarchici e la significativa esperienza delle guardie operaie e contadine durante il Biennio Rosso), quindi per il particolare significato che assume quando si innesta, come scelta consapevole e tattica di lotta da parte dei comunisti, sulla cultura conflittuale delle classi subalterne e nella politica del conflitto che esse portano avanti in questo periodo fino alla Liberazione. La affronteremo nel paragrafo successivo, per il momento ricordiamo che essa prende due principali forme: il partigianato di montagna delle Brigate Garibaldi (che assume carattere urbano dopo lo sciopero generale del marzo '44 e la fondazione delle SAP - Squadre di azione patriottica); il terrorismo urbano dei GAP - Gruppi di azione patriottica e, in parte, delle stesse SAP. In particolare l'azione di GAP e SAP vuole essere sempre collegata, a volte più idealmente che realmente, alla lotta di massa che in parallelo si cerca di sviluppare in fabbrica e poi nelle strade e nei quartieri popolari.
Riprendendo quindi il filo del discorso relativamente alla lotta di massa, possiamo comunque affermare che questa vive di caratteri spontanei e che le sono propri, ma che nel nuovo contesto dell'occupazione essa è suscitata soprattutto in prima battuta dalle azioni dei GAP e dalla promessa, in parte anche mito collettivo, delle squadre armate che avrebbero appunto dovuto difendere gli operai durante le mobilitazioni. La funzione dei due livelli di lotta e del contesto geografico in cui avvengono è nazionale: d'accordo con una cultura politica che attribuisce alla classe operaia il ruolo di soggetto rivoluzionario indiscusso dei moti di trasformazione sociale, è dalla capitale industriale e dalle altre città operaie che deve partire il moto insurrezionale dell'intero paese non ancora liberato.
Ma prima bisogna rompere quella cappa di indifferenza, timore, paura, inattività che sembra essere calata sulla città dopo l'8 settembre: "Accanto ad una Milano operaia che fa la fame, ne esiste anche un'altra: una Milano che sembra non voler pensare a quanto sta succedendo, una Milano che vuole stordirsi, che vuole o finge di illudersi che tutto stia tornando alla normalità. E i tedeschi, che di questa pseudonormalità hanno bisogno, ne incoraggiano gli aspetti più frivoli concedendo a tutto spiano autorizzazioni alla riapertura di cinema e teatri. I sette cinematografi rimasti aperti nei giorni dell'armistizio diventano ventotto alla fine di ottobre, più quattro teatri". <275
I GAP sono lo strumento che il Partito comunista organizza per rompere questa pseudonormalità: "La massa ha bisogno di guida e di organizzazione, ma soprattutto essa ha bisogno di esempi […] queste masse però sono passive, manca l'atmosfera di 'guerra', di lotta contro i tedeschi e i fascisti. Ed è questa atmosfera che bisogna creare con l'esempio dell'azione". <276
Le necessità della guerra di Liberazione si intrecciano dunque con la spontaneità di un conflitto sociale causato dall'asprezza delle condizioni di vita delle classi subalterne. Osserviamo ora più da vicino gli episodi conflittuali del ciclo che dall'autunno '43 si protrae in un crescendo fino allo sciopero generale del marzo '44: ci sono le agitazioni operaie del novembre 1943, sempre connesse ai licenziamenti e alle indennità da corrispondere ai lavoratori lasciati a casa, in particolare nelle fabbriche di Sesto San Giovanni e alla Magnaghi di Turro. Ma è soprattutto a dicembre che si verifica il cosiddetto 'grandioso sciopero dei sette giorni': la prima grande prova di forza organizzata da parte del Partito comunista, in questo momento l'unico che spinge per rompere l'attendismo sia della massa operaia (che faticosamente decide di appoggiare la lotta contro l'occupante, con tutti i rischi che ciò comporta), sia soprattutto del fronte antifascista. Da segnalare l'importante presenza e contributo socialista nel settore tranviario, dove appunto i sindacalisti erano di orientamento PSIUP. L'organo del PCI milanese, "La Fabbrica" (che nei primi numeri riporta il sottotitolo significativo di Giornale sindacale), lancia l'appello allo sciopero che riscuote un importante successo: "Dal 13 al 18 dicembre l'attività industriale è pressoché paralizzata, soprattutto nei primi quattro giorni di sciopero, durante i quali il movimento si estende a macchia d'olio coinvolgendo oltre 60 fabbriche per un totale di 150-160 mila operai. I primi segni di stanchezza si avvertono in seguito all'intervento tedesco che alterna le blandizie e le promesse di miglioramenti alimentari alle minacce e all'uso della repressione armata. Tuttavia la ripresa del lavoro, decisa dal Pci per lunedì 18, può avvenire senza che su di essa gravi un senso di sconfitta e di impotenza". <277
Una volta messa in moto la mobilitazione nelle aziende principali (Magnaghi, Ercole Marelli, Marelli Magneti, Olap, Pirelli e così via), anche gli stabilimenti più piccoli dichiarano lo sciopero. L'agitazione di carattere politico, antifascista e antinazista, è anticipata da un piano rivendicativo chiaro e forte: aumenti retributivi pari al 100%, aumento indennità giornaliera, premio di 500 lire al capofamiglia e 350 agli altri, miglioramento delle mense e degli spacci, liberazione dei detenuti politici, pagamento del 75% per i lavoratori sospesi. <278  Soprattutto, vero elemento di novità, gli operai rifiutano di incontrarsi con i tedeschi e la prefettura, ma vogliono trattare direttamente e solo con gli industriali: "Porre rivendicazioni relative al rapporto di lavoro e, in generale, alla vita in fabbrica implicava la necessità di individuare un interlocutore. Su questo terreno erano i fatti stessi a far riemergere il problema della coincidenza, o della dissociazione, delle tre figure del padrone, del fascista, del tedesco. Il secondo e il terzo erano dei nemici espliciti […] La figura del padrone era invece una figura ambigua". <279
L'azione di massa era stata accompagnata in questi due mesi, novembre e dicembre, dall'incalzare dell'iniziativa armata delle bande partigiane (non ancora un esercito) e dei GAP di città (lo vedremo fra poco); in particolare, il giorno stesso in cui si conclude lo 'sciopero dei sette giorni', il 18 dicembre, avviene l'attentato al commissario federale fascista Aldo Resega. È un atto importante che, unito al successo dello sciopero, aumenta sicuramente il morale operaio e dei partigiani. Al tempo stesso però emerge un carattere centrale della Resistenza milanese urbana: "Svincolare la classe operaia da un terreno di lotta i cui limiti siano marcati, da un lato, dallo scontro economico-rivendicativo in fabbrica e, dall'altro, da un impegno clandestino che rischia di essere mortificato in una attività esclusivamente assistenziale verso il nascente partigianato di montagna. La lezione dei fatti è, insomma, che il potenziamento della lotta in difesa degli interessi di vita e di lavoro delle masse, e il suo crescente e sempre più saldo collegamento con la guerra di liberazione nazionale, devono avvenire attraverso la partecipazione diretta e la conduzione in prima persona della lotta armata in città da parte della classe operaia". <280
E tuttavia la critica e l'autocritica della Federazione comunista milanese riguardo la necessità di costituire gruppi armati di difesa e nuclei partigiani in fabbrica non supererà i limiti della teoria. Questa è anche la principale problematica emersa nel grande sciopero generale del marzo 1944. Preceduto dalla crisi dei GAP a seguito della disastrosa scelta di compiere un attentato alla Casa del Fascio di Sesto San Giovanni (da dove proveniva la quasi totalità dei primi gappisti), che aveva portato all'arresto e alla morte di tutti i suoi membri; preparato e organizzato secondo linee confuse, tra lo sciopero politico-rivendicativo e quello insurrezionale, creando quindi un'aspettativa non chiara nella classe operaia: tutto ciò, al netto dell'indubbio successo politico e del primato storico europeo rappresentato dalla classe operaia milanese durante la Seconda guerra mondiale, porterà a un netto ripiegamento soprattutto a causa dell'assenza di strutture di autodifesa al momento della durissima repressione nazifascista.
[NOTE]
270 L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera, p. 13, Franco Angeli 1995
271 Il capitolo alimentazione del settembre 1943 registra un aumento di 50 punti rispetto ai 14 dell'anno precedente e quello del vestiario di 74 punti (contro gli 8 del '42); il capitolo riscaldamento, invece, segna un aumento di 84 punti.
272 L. Borgomaneri, op. cit., pp. 14-15
273 Ivi
274 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 338
275 L. Borgomaneri, op. cit., p. 32
276 R. Scappini (Giovanni), Considerazioni sulla situazione generale in Piemonte, in P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione cit. p. 120; citato in S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, p. 22, Einaudi 2014
277 L. Borgomaneri, op. cit., p. 18
278 Vedi L. Ganapini, op. cit., pp. 74-75
279 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 339
280 L. Borgomaneri, op. cit., p. 19
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017