Il progetto di legge democristiano rilevava l’esistenza di un potere occulto parallelo e concorrente con quello rappresentativo dell’ordine democratico e riteneva superfluo esaminare le diverse responsabilità. Era necessario invece ricostruire i tratti essenziali della Loggia [P2], delle sue regole e della metodologia di penetrazione nei gangli nevralgici dello Stato. Il progetto di legge comunista e socialista, oltrechè concordare sulle finalità del precedente progetto, proponeva di indagare a fondo sulla effettiva influenza della loggia sulle decisioni e sugli atti di governo, sulla complicità di esponenti politici, sulla mancata assunzione di provvedimenti disciplinari, anche in via cautelativa, di tutti i pubblici funzionari indiziati di appartenenza all’associazione segreta. Infine il disegno di legge presentato dai socialdemocratici ricordava che un serio adempimento dell’indagine, sebbene fosse opportuno per l’allarme che lo scandalo aveva creato nell’opinione pubblica, non doveva offrire il pretesto per accuse indiscriminate o per gettare dentro l’arena politica giudizi sommari che non avevano niente in comune con le esigenze di verità e giustizia.
La decisione unanime di adottare una procedura di urgenza per il trasferimento dalla sede referente alla sede legislativa delle quattro proposte aveva portato alla solerte convocazione della Commissione I Affari Costituzionali già l’11 giugno 1981, ossia la settimana successiva alla consegna dell’ultimo progetto di legge. Al fine di procedere più celermente alla stesura definitiva del testo da proporre al Senato, in questa sede venne stabilita la necessità di ricorrere alla nomina di un Comitato ristretto. <83
Al di là delle differenze terminologiche, emergeva dalla riunione la volontà delle parti politiche di determinare in modo condiviso l’ampiezza da dare all’inchiesta, in modo da evitare che la Commissione venisse limitata nei suoi lavori di indagine. All’interno del Comitato ristretto erano prevalse due tendenze. Da una parte vi era chi si abbandonava a declamazioni predicatorie e propagandistiche lanciando proclami contro il governo e la Dc: "Noi non possiamo sapere cosa intendesse tempo addietro il segretario della Democrazia Cristiana quando parlava di congiure massoniche contro il potere della Dc: ma pensiamo piuttosto che è tipico di un sistema di potere in crisi proiettare fuori di sè ombre e pericoli minacciosi al fine di rifiutare le proprie responsabilità della crisi per assicurarsi il diritto di gestirla in proprio. Ma è per queste considerazioni che riteniamo non procrastinabile questo impegno di chiarezza" <84.
Dall’altra parte, l’impostazione più tecnicistica e metodologica dei gruppi radicale e socialista, sottolineava le lacune oggettive dell’inchiesta che si andava costruendo. Nella lunga serie di articolati proposti, che dovevano rappresentare il perimetro normativo entro il quale la Commissione avrebbe indagato, veniva giudicato inadeguato soprattutto l’articolo che vietava di opporre il segreto di fronte a fatti eversivi dell’ordine costituzionale cosicchè tutte le audizioni, anche quelle ritenute degne di esserne coperte, sarebbero comunque state a disposizione dell’autorità giudiziaria. <85
Benchè il relatore democristiano Gitti tranquillizzasse il Comitato specificando che l’articolo rispondeva alla preoccupazione di operare entro un quadro di tutela costituzionale, su questo punto non ci sarebbe stata la convergenza dei gruppi radicale e socialista, che attraverso i loro rappresentanti (Mellini e Cicciomessere da una parte, Bassanini dall’altra) si sarebbero astenuti dal votarlo.
Il disegno di legge veniva portato così al vaglio del Senato ed esaminato dall’ Assemblea riunita nella seduta del 5 agosto 1981. Quel giorno al Senato presenziava anche il neo eletto Presidente del Consiglio Spadolini. Parallelamente all’approvazione dell’inchiesta parlamentare il Governo aveva infatti ultimato il provvedimento legislativo contro l’associazionismo segreto. Il disegno di legge era stato presentato al Senato il 25 luglio 1981, e doveva essere approvato quel giorno col titolo “Norme di attuazione dell’art. 18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento della associazione denominata P2”. La normativa proposta, di cui parleremo compiutamente più avanti, voleva punire i promotori di associazioni segrete con la reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici da uno a cinque anni. Inoltre chiunque avesse partecipato ad associazioni segrete sarebbe stato condannato fino a due anni e la condanna avrebbe comportato l'interdizione dai pubblici uffici per un anno. <86
L’intento era quello di stabilire una relazione virtuosa tra potere legislativo e potere esecutivo, mostrando come entrambi fossero in prima linea nel combattere velocemente l’associazionismo segreto, rendendo “l’aria della Repubblica irrespirabile per ogni tipo di intrigante fazioso che voglia tendere, mediante la creazione di centri di potere occulto, a svuotare di contenuto gli istituti della democrazia”. <87
Spadolini confermava di voler rispondere prontamente alle richieste provenienti dall’opinione pubblica, sempre più scossa dalle violenze di quell’estate del 1981. Pochi giorni prima Giuseppe Taliercio, dirigente dello stabilimento petrolchimico della Montedison di Marghera rapito dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1981, veniva trovato rinchiuso nel bagagliaio di una Fiat 128 a Venezia, con il corpo crivellato di colpi. La stessa sorte era toccata il 3 agosto all’operaio Roberto Peci, colpevole di essere fratello di un brigatista pentito. Nella spirale di una violenza sempre più incontrollata l’esecuzione era stata ripresa da una videocamera: undici colpi di arma da fuoco e il corpo abbandonato in un casolare alla periferia di Roma. <88
Davanti all’emergenza civile di un intero paese era comprensibile e persino scontato che la classe politica cercasse di porre rimedio ad uno scandalo come quello P2, così fortemente radicato in quel retroterra di affarismo eversivo che sembrava aver messo in sordina l’azione del potere politico tanto da farlo apparire certamente impotente, a tratti colluso.
Esisteva tuttavia un problema di raccordo tra i due provvedimenti che quel giorno il Senato si apprestava ad approvare. Se ogni inchiesta parlamentare aveva come obiettivo quello di fornire la necessaria coscienza su un fenomeno in vista di misure normative che ne impedissero il ritorno, quel giorno si chiedeva di votare nello stesso momento da una parte un decreto che sanzionava le associazioni segrete e dall’altra un progetto di inchiesta parlamentare su una associazione segreta. Sull’onda dell’emergenza, improvvisamente ansiosa di salire sopra il carro della politica operativa e decisionista, la classe politica italiana varava un provvedimento che puniva la Loggia P2 quando ancora doveva nascere la commissione che aveva il compito di capire cosa fosse questa Loggia. La velocità con cui i due progetti venivano presentati all’approvazione del Parlamento alimentava la sensazione che alcuni gruppi politici si muovessero istericamente sotto le frustate dell’opinione pubblica.
Sulla scorta di questo presupposto, la semplice definizione di “associazione segreta” era certamente avventurosa e incerta. Il termine stesso sfuggiva ancora persino ai più tenaci oppositori della Loggia P2 e non poteva essere altrimenti poichè l’inchiesta parlamentare chiamata a stabilire la natura e le finalità dell’associazione doveva ancora cominciare i suoi lavori.
L’incoerenza tra i due provvedimenti non era sfuggita neppure al futuro commissario Francesco De Cataldo: "Come si può ritenere di risolvere la questione, anche soltanto il problema della Loggia P2, attraverso questa normativa? Credo che tale normativa sia stata redatta apposta per consentire un’immediata eccezione di legittimità costituzionale davanti a qualsiasi magistrato della Repubblica con successivo inoltro alla Corte costituzionale, che non potrà che dichiararla illegittima in ogni sua parte. Questo è soltanto un modo di esibire una volontà che in effetti manca, la volontà principale, enunciata dal Presidente del Consiglio persino nelle sue dichiarazioni programmatiche" <89.
Di diverso avviso erano gli altri gruppi parlamentari. Essi giudicavano la legge applicativa dell’articolo 18 un provvedimento che andava a colmare un vuoto legislativo e dettava la linea su una materia altrimenti controversa se messa in mano a tribunali amministrativi o ad altre istanze giudiziarie. Un vuoto significativo, che avrebbe portato a decisioni separate e contraddittorie, aggiungendo ulteriore incertezza a vantaggio di coloro che volevano allentare le maglie della rete che la classe politica cercava di tendere, perchè i pesci grossi e piccoli potessero sfuggire più facilmente. <90
In coda alla discussione, la bozza di inchiesta parlamentare veniva ritrasmessa alla Camera con nuove modifiche. Mentre nella bozza primordiale la Commissione era stata autorizzata ad “accertare se e quali responsabilità [...]” dovessero ascriversi agli organi dello Stato, agli enti pubblici, e agli enti sottoposti al controllo statale, nella nuova versione approvata al Senato si parlava più cautamente di una indagine su “eventuali deviazioni dall’esercizio delle competenze istituzionali di organi dello Stato”.
L’emendamento approvato in Senato sottolineava la pericolosità racchiusa nella parola responsabilità e la sostituiva con deviazione, sottolineando che all’efficienza del potere delle strutture di controllo le istituzioni dovevano privilegiare la funzione garantista dello Stato. La priorità doveva essere quella di dichiarare la Loggia massonica P2 una associazione segreta e far scomparire dall’impegno parlamentare l’individuazione delle responsabilità, superato dalla preoccupazione di dare al paese un segnale di solerzia ma pur sempre nel rispetto dei canoni democratici.
Non trovavano corrispondenze le lamentele dei radicali secondo i quali l’inchiesta avrebbe dovuto formulare un giudizio chiaro sulle singole responsabilità, portare a misure disciplinari davanti ai collegi delle diverse amministrazioni, far capire non solo ai cittadini ma ai singoli partiti che gli iscritti, veri o presunti, erano i reali punti deboli della politica italiana: "Un’organizzazione criminale la si persegue per i reati che ha compiuto, negli uomini responsabili di quei reati; non c’è il problema di scioglierla. Proprio questa contraddizione non può sfuggire a nessun uomo di buonsenso. Questa contraddizione è stridente: si scioglie per poter meglio non perseguire, per meglio non poter andare al fondo della verità e della responsabilità. Verità e responsabilità che vanno oltre la loggia P2; non possono riguardare soltanto la loggia P2. C’è bisogno di un decreto di scioglimento della mafia, della camorra, delle brigate rosse? Davvero è necessario sciogliere per decreto un’associazione criminale?" <91.
Il testo votato al Senato veniva ritrasmesso alla Camera e infine approvato in via definitiva e senza modifiche nel mese di settembre.
[NOTE]
83 Camera dei Deputati, Commissione in sede legislativa, VIII Legisltura, Prima Commissione permanente “Affari Costituzionali - Organizzazione dello Stato - Regioni - Disciplina generale del rapporto di pubblico impiego”, 11 giugno 1981, “Bollettino delle Giunte e delle Commissioni”.
84 Francesco Loda, Senato della Repubblica, 303° seduta pubblica, VIII Legislatura, Resoconto stenografico della seduta antimeridiana di mercoledì 5 agosto 1981.
85 Art. 3 della legge istitutiva n. 527 del 23 settembre 1981: “La commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri dell'autorita' giudiziaria. Per quanto attiene al segreto di Stato si applicano le norme e le procedure di cui alla legge 24 ottobre 1977, n. 801. Non possono essere oggetto di segreto fatti eversivi dell'ordine costituzionale di cui si e' venuti a conoscenza per ragioni della propria professione, salvo per quanto riguarda il rapporto tra difensore e parte processuale nell'ambito del mandato. Non è opponibile il segreto d'ufficio. Parimenti non è opponibile il segreto bancario”.
86 Trasmesso alla Camera il 7 agosto fu approvato con modificazioni il 9 dicembre 1981. Trasmesso nuovamente al Senato il 10 dicembre 1981, venne approvato definitivamente il 21 gennaio 1982 e divenne legge il 25 gennaio 1982.
87 G. Spadolini, Senato della Repubblica, 304° seduta pubblica, VIII Legislatura, Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di mercoledì 5 agosto 1981.
88 Cfr. G. Guidelli, Storia di un sequestro mediatico, Urbino, Quattro Venti, 2005; per una ricostruzione generale dei legami reciproci di una parte della classe dirigente italiana, il terrorismo rosso e il terrorismo nero R. Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, Roma, Fazi, 2003; M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Venezia, Marsilio, 2010; G. Crainz, Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Roma, Donzelli Editore, 2012 e G. Crainz, Autobiografia di una repubblica: le radici dell’Italia attuale, Roma, Donzelli Editore, 2009; S. Colarizi (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.
89 Francesco De Cataldo, Senato della Repubblica, 347° seduta pubblica, VIII Legislatura, Resoconto stenografico della seduta antemeridiana di mercoledì 10 dicembre 1981.
90 Ibid., L. Anderlini, Sinistra indipendente.
91 Ibid., G. Spadaccia, Partito radicale.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro. Storia politica della Commissione d'inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2014-2015
sabato 21 dicembre 2024
Alla vigilia del varo della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2
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sabato 7 dicembre 2024
L’ombra scura del progetto del SIFAR ebbe un eco assordante al momento dello scoppio delle proteste del 1968
La crescita del Partito Comunista testimoniata dai risultati elettorali del 1963 apparve come un pericolo di fronte al quale non abbassare l’allerta. La paura dei conservatori, anche interni alla Dc, si fece sempre più forte di fronte alla progressiva avanzata della sinistra sia nei palazzi del potere con i socialisti tra i banchi del governo sia nelle piazze dove risuonavano forti gli slogan comunisti. La tensione esplose quando il braccio di ferro <122 tra Nenni e Moro innescò una crisi di governo. Dondi parla della mancata riforma urbanistica come casus belli tra Psi e Dc ma aggiunge alle cause anche che “il presidente Antonio Segni avversava il centro sinistra” <123 non permettendo di sopravvivere al primo esecutivo organico guidato da Moro. Lo stallo creatosi tra le forze della maggioranza aveva aperto al Quirinale l’ipotesi di un governo tecnico <124 ma la cosa che apparve una “anomalia nel cerimoniale” <125 e, al contempo, una “minacciosa esibizione di forza” <126 fu l’incontro tra il generale Giovanni De Lorenzo, che la Colarizi indica come l’ideatore del Piano Solo <127, e il Presidente della Repubblica Segni.
Il Piano Solo fu “elaborato e definito nell’ambito dell’Arma” <128 tant’è vero che “l’esecuzione avrebbe dovuto essere realizzata soltanto dai carabinieri” <129. La definizione di Piano Solo fu “del colonnello Luigi Bittoni (poi divenuto generale, inserito negli elenchi della P2) per minimizzare la portata a semplice piano di difesa delle aree vitali” <130. De Lorenzo aveva organizzato l’esecuzione nei minimi dettagli con la deportazione in Sardegna di 731 oppositori politici e l’occupazione di uffici governativi, delle radio, della Rai e delle sedi dei partiti di sinistra. Un’iniziativa avvallata dal presidente Segni il quale voleva, secondo Dondi “favorire le condizioni per formare una coalizione di centro-destra, senza disdegnare in prospettiva l’istituzione di una repubblica presidenziale” <131. Aldo Moro e Pietro Nenni avvertirono il peso della situazione e delle intimidazioni; una condizione che pesava sulle trattative per la formazione dell’esecutivo e che portò a varare un programma scarno dal punto di vista di riforme significative. L’incapacità del governo di portare alla luce del sole ciò che stava accadendo fu dettata dalla regia politica <132 che stava dietro il Piano.
Una regia politica da ricondurre non solo alla “relazione diretta tra il presidente della Repubblica e il capo del Sifar” <133 ma anche dalla solidità che la posizione di De Lorenzo poteva vantare per l’appoggio dell’allora titolare del dicastero della Difesa Giulio Andreotti e di un altro democristiano, Taviani, il quale era alla guida del Ministero degli Interni. Una relazione quella tra i tre che “nell’ambito degli apparati di sicurezza [costituiva] una sorta di vertice a tre” <134 conclude Dondi. Nel memoriale stilato da Moro, durante i giorni del suo rapimento, il leader democristiano rivelò il diretto coinvolgimento del Quirinale nel tentativo di golpe del 1964, parlando di una pesante interferenza <135 e spiegando che il tentativo messo in piedi da De Lorenzo non venne attuato solo perché “il Presidente Segni ottenne, come voleva, di frenare il corso del centrosinistra. L’apprestamento militare, caduto l’obbiettivo politico […], fu disdetto dallo stesso Capo dello Stato” <136.
Nenni parlò spesso del “tintinnar di sciabole” <137, che risuonava forte nei palazzi istituzionali di Roma, ma gli italiani ne vennero a conoscenza solo tre anni dopo nell’estate del 1964. Fu un’inchiesta dell’Espresso redatta da Lino Jannuzzi e Eugenio Scalfari a portare alla luce il progetto autoritario. I militari che vennero coinvolti nel Piano continuarono le loro carriere. De Lorenzo divenne addirittura deputato del Partito monarchico e altri, come il generale dell’Arma Palumbo, finirono “per operare nelle successive trame della strategia della tensione” <138.
L’ombra scura <139 che il progetto del SIFAR proiettò sul sistema democratico italiano ebbe un eco assordante al momento dello scoppio delle proteste del 1968, quando i fenomeni sociali e politici entrarono in una delle fasi più critiche della storia repubblicana. La presenza di forze sleali alla Repubblica “trova una spiegazione nella relativa fragilità dello Stato democratico italiano” <140 che era nato da un’esperienza dittatoriale la quale aveva lasciato in dote “un personale statale vagliato dal regime e di provata fede fascista” <141. Ciò non può che rafforzare la considerazione conclusiva di Dondi sul tentato colpo di stato: “in mancanza di un chiarimento sull’individuazione dei responsabili del Piano, la parte sana della democrazia italiana si autocondanna a vivere sotto la minaccia di un potere che non è in grado di dominare e con il quale deve continuamente misurarsi” <142.
Al fallimento del progetto di De Lorenzo seguì la formazione del secondo esecutivo del centrosinistra organico guidato da Moro al quale parteciparono Psi, Psdi e Pri e che avrebbe avuto una durata relativamente lunga che va dal 1964 al 1966. La direzione della Democrazia Cristiana pose due condizioni ai socialisti affinché il governo potesse prendere vita: la prima fu quella di non ostacolare il corretto funzionamento dell’economia di mercato e la seconda di allargare l’intesa con i socialisti anche a livello delle amministrazioni locali nelle quali ancora vi erano residui di alleanza tra Psi e Pci. Dalla partecipazione a questo secondo esecutivo Moro si astennero sia la corrente democristiana di Fanfani sia quella socialista di Lombardi e, oltre a quella delle destre, “scontata era l’opposizione del Pci” <143 per il quale il programma era troppo scarno.
A pochi mesi dal suo insediamento il nuovo esecutivo dovette affrontare le dimissioni di Segni (colpito da un ictus) e l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Non si giunse d’immediato ad un accordo il che, scrive Salvadori, “mise in luce i dissensi che travagliavano i partiti di centrosinistra ed i comunisti” <144. Il 28 dicembre 1964 venne eletto Giuseppe Saragat, che ricevette anche l’endorsement del Pci e di buona parte della Dc. Il governo, superata l’elezione del presidente della Repubblica, operò per affrontare la recessione economica che il paese stava attraversando ma nel farlo, scrive Salvadori, “scaricava i costi maggiori sulle masse lavoratrici e, subendo il condizionamento delle forti spinte conservatrici, accantonò programmazione e riforme incisive” <145. Anche all’interno dei partiti la nuova prospettiva del centro-sinistra aveva creato spaccature profonde: basti ricordare la corrente di Lombardi nel Psi piuttosto che quelle di Ingrao e di Amendola nel Pci, per non parlare poi dello complesso scacchiere interno alla Dc nella quale lo scontro tra “la fitta rete di clientele” <146, protetta dai conservatori del partito, e il progressismo riformistico <147, istanza della sinistra cattolica, creò non pochi problemi a Moro sia come segretario sia come Presidente del Consiglio.
Nel febbraio del 1966 Moro formò il suo terzo esecutivo, un quadripartito che avrebbe guidato le iniziative governative sino alla fine delle IV legislatura nel 1968. Salvadori sottolinea che “il bilancio - dell’azione di governo - mise in luce la mancanza di incisività del Centro-sinistra e la difficoltà a superare i continui contrasti tra l’ala più conservatrice della Dc e i socialisti” <148. Ad ogni modo alcune nuove leggi vennero approvate tra cui la riforma del
sistema pensionistico mentre rimase lettera morta <149 la riforma universitaria, invocata da molti giovani e incompiuti si rivelarono anche i progetti di riforma tributaria e del diritto di famiglia. Ma ancor più grave fu che le riforme approvate risultarono poco efficaci a causa della mancanza di strumenti tecnici, amministrativi e finanziari.
L’incapacità dei governi Moro di attuare un vero percorso riformistico condusse ad una contestazione politica non più solo interna ai partiti ma estesa anche all’intera cittadinanza, per la quale le mancate riforme divennero un peso insostenibile a fronte della fase di recessione dell’economia italiana. Alla crisi economica si sommava il mal contento delle masse giovanili che, propagatosi dalle università americane a quelle europee ed italiane, crebbe sempre più a fronte di vicende internazionali, come la guerra del Vietnam, tanto da costringere i governi di centro-sinistra ad esprimersi a favore di un onorevole disimpegno <150 degli Usa nel sud-est asiatico. Atteggiamento simile venne preso dalle istituzioni anche a seguito dello scoppio del conflitto tra Paesi arabi e Israele nel 1967.
Partito dall’Università di Berkeley, passato poi per Parigi, Roma, Berlino ed anche Praga il vento della contestazione <151 aveva portato nelle piazze studenti e avanguardie. La società era ormai in movimento da diversi anni e la classe politica italiana, con la scelta dell’apertura a sinistra, sembrava aver “percepito la portata di questa trasformazione […]. Ma la svolta è così accelerata da palesare l’affanno di tutti i partiti, della maggioranza e dell’opposizione” <152.
[NOTE]
122 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
123 M. DONDI, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Editori Laterza, Bari, 2015, p. 18.
124 Ibidem.
125 Ibidem.
126 Ibidem.
127 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
128 M. DONDI, op. cit., p. 18.
129 Ivi, p. 19.
130 V. ILARI, Il generale col monocolo. Giovanni De Lorenzo (1907-1973), Nuove Ricerche, Ancona, 1995, p. 212.
131 M. DONDI, op. cit., p. 19.
132 Ivi, p. 20.
133 V. ILARI, op. cit., p. 93.
134 M. DONDI, op. cit., p. 21.
135 M. DONDI, op. cit., p. 22.
136 Ibidem.
137 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
138 M. DONDI, op. cit., p. 23.
139 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
140 Ibidem.
141 Ibidem.
142 M. DONDI, op. cit., p. 23.
143 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
144 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
145 Ibidem.
146 Ivi, p. 395.
147 Ibidem.
148 Ivi, p. 400.
149 Ibidem.
150 Ibidem.
151 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 90.
152 Ibidem.
Marco Martino, Italia, Cile: destini politici e percorsi partitici alla base del Compromesso Storico tra PCI e DC, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2019-2020
Il Piano Solo fu “elaborato e definito nell’ambito dell’Arma” <128 tant’è vero che “l’esecuzione avrebbe dovuto essere realizzata soltanto dai carabinieri” <129. La definizione di Piano Solo fu “del colonnello Luigi Bittoni (poi divenuto generale, inserito negli elenchi della P2) per minimizzare la portata a semplice piano di difesa delle aree vitali” <130. De Lorenzo aveva organizzato l’esecuzione nei minimi dettagli con la deportazione in Sardegna di 731 oppositori politici e l’occupazione di uffici governativi, delle radio, della Rai e delle sedi dei partiti di sinistra. Un’iniziativa avvallata dal presidente Segni il quale voleva, secondo Dondi “favorire le condizioni per formare una coalizione di centro-destra, senza disdegnare in prospettiva l’istituzione di una repubblica presidenziale” <131. Aldo Moro e Pietro Nenni avvertirono il peso della situazione e delle intimidazioni; una condizione che pesava sulle trattative per la formazione dell’esecutivo e che portò a varare un programma scarno dal punto di vista di riforme significative. L’incapacità del governo di portare alla luce del sole ciò che stava accadendo fu dettata dalla regia politica <132 che stava dietro il Piano.
Una regia politica da ricondurre non solo alla “relazione diretta tra il presidente della Repubblica e il capo del Sifar” <133 ma anche dalla solidità che la posizione di De Lorenzo poteva vantare per l’appoggio dell’allora titolare del dicastero della Difesa Giulio Andreotti e di un altro democristiano, Taviani, il quale era alla guida del Ministero degli Interni. Una relazione quella tra i tre che “nell’ambito degli apparati di sicurezza [costituiva] una sorta di vertice a tre” <134 conclude Dondi. Nel memoriale stilato da Moro, durante i giorni del suo rapimento, il leader democristiano rivelò il diretto coinvolgimento del Quirinale nel tentativo di golpe del 1964, parlando di una pesante interferenza <135 e spiegando che il tentativo messo in piedi da De Lorenzo non venne attuato solo perché “il Presidente Segni ottenne, come voleva, di frenare il corso del centrosinistra. L’apprestamento militare, caduto l’obbiettivo politico […], fu disdetto dallo stesso Capo dello Stato” <136.
Nenni parlò spesso del “tintinnar di sciabole” <137, che risuonava forte nei palazzi istituzionali di Roma, ma gli italiani ne vennero a conoscenza solo tre anni dopo nell’estate del 1964. Fu un’inchiesta dell’Espresso redatta da Lino Jannuzzi e Eugenio Scalfari a portare alla luce il progetto autoritario. I militari che vennero coinvolti nel Piano continuarono le loro carriere. De Lorenzo divenne addirittura deputato del Partito monarchico e altri, come il generale dell’Arma Palumbo, finirono “per operare nelle successive trame della strategia della tensione” <138.
L’ombra scura <139 che il progetto del SIFAR proiettò sul sistema democratico italiano ebbe un eco assordante al momento dello scoppio delle proteste del 1968, quando i fenomeni sociali e politici entrarono in una delle fasi più critiche della storia repubblicana. La presenza di forze sleali alla Repubblica “trova una spiegazione nella relativa fragilità dello Stato democratico italiano” <140 che era nato da un’esperienza dittatoriale la quale aveva lasciato in dote “un personale statale vagliato dal regime e di provata fede fascista” <141. Ciò non può che rafforzare la considerazione conclusiva di Dondi sul tentato colpo di stato: “in mancanza di un chiarimento sull’individuazione dei responsabili del Piano, la parte sana della democrazia italiana si autocondanna a vivere sotto la minaccia di un potere che non è in grado di dominare e con il quale deve continuamente misurarsi” <142.
Al fallimento del progetto di De Lorenzo seguì la formazione del secondo esecutivo del centrosinistra organico guidato da Moro al quale parteciparono Psi, Psdi e Pri e che avrebbe avuto una durata relativamente lunga che va dal 1964 al 1966. La direzione della Democrazia Cristiana pose due condizioni ai socialisti affinché il governo potesse prendere vita: la prima fu quella di non ostacolare il corretto funzionamento dell’economia di mercato e la seconda di allargare l’intesa con i socialisti anche a livello delle amministrazioni locali nelle quali ancora vi erano residui di alleanza tra Psi e Pci. Dalla partecipazione a questo secondo esecutivo Moro si astennero sia la corrente democristiana di Fanfani sia quella socialista di Lombardi e, oltre a quella delle destre, “scontata era l’opposizione del Pci” <143 per il quale il programma era troppo scarno.
A pochi mesi dal suo insediamento il nuovo esecutivo dovette affrontare le dimissioni di Segni (colpito da un ictus) e l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Non si giunse d’immediato ad un accordo il che, scrive Salvadori, “mise in luce i dissensi che travagliavano i partiti di centrosinistra ed i comunisti” <144. Il 28 dicembre 1964 venne eletto Giuseppe Saragat, che ricevette anche l’endorsement del Pci e di buona parte della Dc. Il governo, superata l’elezione del presidente della Repubblica, operò per affrontare la recessione economica che il paese stava attraversando ma nel farlo, scrive Salvadori, “scaricava i costi maggiori sulle masse lavoratrici e, subendo il condizionamento delle forti spinte conservatrici, accantonò programmazione e riforme incisive” <145. Anche all’interno dei partiti la nuova prospettiva del centro-sinistra aveva creato spaccature profonde: basti ricordare la corrente di Lombardi nel Psi piuttosto che quelle di Ingrao e di Amendola nel Pci, per non parlare poi dello complesso scacchiere interno alla Dc nella quale lo scontro tra “la fitta rete di clientele” <146, protetta dai conservatori del partito, e il progressismo riformistico <147, istanza della sinistra cattolica, creò non pochi problemi a Moro sia come segretario sia come Presidente del Consiglio.
Nel febbraio del 1966 Moro formò il suo terzo esecutivo, un quadripartito che avrebbe guidato le iniziative governative sino alla fine delle IV legislatura nel 1968. Salvadori sottolinea che “il bilancio - dell’azione di governo - mise in luce la mancanza di incisività del Centro-sinistra e la difficoltà a superare i continui contrasti tra l’ala più conservatrice della Dc e i socialisti” <148. Ad ogni modo alcune nuove leggi vennero approvate tra cui la riforma del
sistema pensionistico mentre rimase lettera morta <149 la riforma universitaria, invocata da molti giovani e incompiuti si rivelarono anche i progetti di riforma tributaria e del diritto di famiglia. Ma ancor più grave fu che le riforme approvate risultarono poco efficaci a causa della mancanza di strumenti tecnici, amministrativi e finanziari.
L’incapacità dei governi Moro di attuare un vero percorso riformistico condusse ad una contestazione politica non più solo interna ai partiti ma estesa anche all’intera cittadinanza, per la quale le mancate riforme divennero un peso insostenibile a fronte della fase di recessione dell’economia italiana. Alla crisi economica si sommava il mal contento delle masse giovanili che, propagatosi dalle università americane a quelle europee ed italiane, crebbe sempre più a fronte di vicende internazionali, come la guerra del Vietnam, tanto da costringere i governi di centro-sinistra ad esprimersi a favore di un onorevole disimpegno <150 degli Usa nel sud-est asiatico. Atteggiamento simile venne preso dalle istituzioni anche a seguito dello scoppio del conflitto tra Paesi arabi e Israele nel 1967.
Partito dall’Università di Berkeley, passato poi per Parigi, Roma, Berlino ed anche Praga il vento della contestazione <151 aveva portato nelle piazze studenti e avanguardie. La società era ormai in movimento da diversi anni e la classe politica italiana, con la scelta dell’apertura a sinistra, sembrava aver “percepito la portata di questa trasformazione […]. Ma la svolta è così accelerata da palesare l’affanno di tutti i partiti, della maggioranza e dell’opposizione” <152.
[NOTE]
122 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
123 M. DONDI, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Editori Laterza, Bari, 2015, p. 18.
124 Ibidem.
125 Ibidem.
126 Ibidem.
127 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
128 M. DONDI, op. cit., p. 18.
129 Ivi, p. 19.
130 V. ILARI, Il generale col monocolo. Giovanni De Lorenzo (1907-1973), Nuove Ricerche, Ancona, 1995, p. 212.
131 M. DONDI, op. cit., p. 19.
132 Ivi, p. 20.
133 V. ILARI, op. cit., p. 93.
134 M. DONDI, op. cit., p. 21.
135 M. DONDI, op. cit., p. 22.
136 Ibidem.
137 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
138 M. DONDI, op. cit., p. 23.
139 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
140 Ibidem.
141 Ibidem.
142 M. DONDI, op. cit., p. 23.
143 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
144 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
145 Ibidem.
146 Ivi, p. 395.
147 Ibidem.
148 Ivi, p. 400.
149 Ibidem.
150 Ibidem.
151 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 90.
152 Ibidem.
Marco Martino, Italia, Cile: destini politici e percorsi partitici alla base del Compromesso Storico tra PCI e DC, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2019-2020
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