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lunedì 1 dicembre 2025

In Abruzzo era convinzione generale che gli Alleati sarebbero arrivati a breve


La Resistenza abruzzese si distinse da quella di altre regioni per la notevole vicinanza del fronte, che la tagliava in due: molti si unirono ai movimenti resistenziali, nell’immediatezza dell’armistizio, nella convinzione che l’arrivo degli Alleati fosse imminente, trasformandosi poi l’entusiasmo in una grave delusione dinanzi alle prime sconfitte. Tale prossimità inoltre, come ha giustamente osservato Costantino Felice, <83 aveva due conseguenze fondamentali, che influenzarono l’andamento dei combattimenti. Vi fu un condizionamento costante da parte degli Alleati, che dunque dettavano e stabilivano compiti, ruoli e fisionomia delle formazioni partigiane. Mancò inoltre un elemento invece chiave nella lotta partigiana generale, indispensabile per renderla una lotta matura: la consapevolezza della lunga durata. La mancanza di trasparenza e di informazioni dai vertici dei comandi al sud faceva sì che le formazioni partigiane stesse fossero sostanzialmente inadeguate ed impreparate: in Abruzzo era convinzione generale che gli Alleati sarebbero arrivati a breve, ci si trovò dunque ad affrontare il rigidissimo inverno senza la benché minima consapevolezza e preparazione. Nelle zone settentrionali della penisola i partigiani, non potendo contare sulla vicinanza delle truppe alleate, dovevano cercare sostegno e riparo presso i civili; in Abruzzo e nelle altre zone vicine al fronte invece i rapporti si capovolgevano, ma questo a scapito della propria indipendenza. Dunque la vicinanza al fronte e alle truppe alleate era un’arma a doppio taglio, che non mancò di far sentire benefici e conseguenze negative durante tutto il conflitto.
Quali erano i compiti e gli obiettivi delle truppe partigiane abruzzesi? Erano ben precisi: consistevano nel "supporto informativo, pattugliamento, soccorso e assistenza ai soldati sbandati. Al di là di questo utilizzo marginale e provvisorio il comando inglese inizialmente non concede quasi nulla". <84 Un’ulteriore descrizione proviene anche da Domenico Troilo, vicecomandante della Brigata Maiella. Tra lui ed Ettore Troilo, l’avvocato socialista che darà vita alla formazione partigiana e di cui sarà il vice, nonostante l’omonimia non vi erano rapporti di parentela. Militare alla guida di una banda che poi confluirà nella Maiella, il 4 dicembre del 1943 vide morire la madre a Gessopalena (in provincia di Chieti), per mano di una divisione della Wehrmacht. Qui fornisce un quadro delle azioni partigiane e della loro organizzazione: "Insieme ai contadini ci si cominciò ad organizzare, nel senso che mettemmo su delle pattuglie, per controllare la zona e prevenire i movimenti tedeschi. Intanto arrivarono gli inglesi […] All’inizio fornivamo le informazioni di cui entravamo in possesso. Gli inglesi ci utilizzavano per questo. Poi arrivò un ufficiale dell’Intelligence service, un certo Lamb […] Fu lui a farci dare armi tedesche (il nostro primo armamento), ma sempre per svolgere il lavoro di pattugliamento. Gli inglesi avevano tutti gli interessi a disporre di questa gente che girava e che dava loro anche una certa sicurezza, perché in caso di scontro il primo impatto si aveva con noi, per cui loro avevano la possibilità di organizzarsi". <85
Gli alleati, pur estremamente diffidenti e a volte persino ostili nelle fasi iniziali, si trovarono nella condizione di dover utilizzare gli italiani come "forza-cuscinetto per evitare l’impatto diretto delle truppe regolari con i tedeschi": <86 essi dovevano farli uscire allo scoperto, provocandoli e costringendoli ad abbandonare le proprie fortificazioni. In Abruzzo dunque le bande erano "piccoli nuclei che con incessante stillicidio di colpi di mano […] molestavano senza tregua il nemico" <87 e la stessa Brigata Maiella fu usata, soprattutto inizialmente, per questo scopo. Inoltre la collaborazione con gli italiani era necessaria ai fini di una migliore conoscenza dell’aspro e difficile territorio abruzzese, soprattutto con la stagione invernale ormai alle porte. Si trattava di territori selvaggi, dove le già spesso precarie vie di comunicazione erano messe a dura prova o rese impraticabili dalle nevi, le piogge, il fango, la piena dei torrenti, che impedivano anche un efficace collegamento fra le varie bande. A tale proposito Giorgio Amendola notava come nel territorio abruzzese il movimento partigiano non superasse la "fase elementare della formazione di piccole bande" in cui prevaleva "la direzione militare di elementi che si [dichiarano] apolitici e autonomi". <88
La diffidenza alleata andava ad unirsi dunque all’incapacità delle bande partigiane di organizzarsi e pensarsi in maniera autonoma; ogni gruppo si pensava e costituiva in nome di un imminente arrivo inglese. <89 Tutto ciò ostacolò seriamente la nascita di capi partigiani in grado di prendere in mano e guidare le forze resistenziali presenti e ostacolò il riconoscimento stesso del movimento.
Due furono gli eventi fondamentali del movimento partigiano abruzzese, oltre alla nascita della Brigata Maiella: la battaglia di Bosco Martese e la rivolta di Lanciano.
Ferruccio Parri, comandante nazionale dei partigiani e presidente del Consiglio dei Ministri, definiva Bosco Martese la “prima battaglia nostra in campo aperto”. <90 La sua straordinaria importanza consiste nell’esser stato uno dei pochi casi in cui i tedeschi furono sconfitti dalle forze resistenziali e nell’aver costituito una sintesi perfetta di quella comunione d’intenti così multiforme e variegata, volta a liberare il nostro paese e l’Europa intera dal nazifascismo. Vi presero parte infatti civili, spinti da curiosità e voglia di combattere il nemico, antifascisti, soldati e prigionieri stranieri di varie nazionalità fuggiti dai campi d’internamento, tra cui molti slavi (importantissimi questi ultimi nel suggerire la dispersione in piccoli gruppi dopo l’urto con i tedeschi). Un ruolo chiave nella nascita di questo gruppo così eterogeneo lo svolse il Comitato insurrezionale costituitosi a Teramo subito dopo l’armistizio, fondato dal medico antifascista Mario Capuani. Egli raccolse intorno a sé molti antifascisti teramani, tra cui i più attivi risultarono i comunisti e gli azionisti. Altra componente importante fu quella militare. In particolar modo è doveroso ricordare che il merito della decisione di salire in montagna fu del capitano d’artiglieria Giovanni Lorenzini; egli non obbedì alle decisioni dei suoi superiori, che prevedevano di non opporre resistenza ai tedeschi, e iniziò a trasportare quanto più materiale possibile nella località prescelta. 
In un articolo su “Il Centro” Costantino Di Sante ha ricostruito le fasi di questa battaglia, analizzandone le peculiarità. <91 Il 25 settembre 1943 una banda partigiana appena formatasi, in una località sui monti della Laga chiamata Ceppo, a circa 40 km da Teramo, sostenne durissimi scontri contro un reparto corazzato della Wehrmacht, composto da circa 30 camion, costringendolo alla ritirata. La battaglia iniziò alle 12:30 e si protrasse per molte ore. Secondo alcune relazioni partigiane, furono almeno 50 i tedeschi uccisi, 5 camion e 2 autovetture distrutti. I tedeschi si ritirarono, uccidendo per vendetta cinque ostaggi; nei giorni successivi, uccisero per rappresaglia 3 carabinieri, un militare e Mario Capuani. Il giorno dopo la battaglia i tedeschi tornarono con numerosi rinforzi e sconfissero i partigiani che poi si divisero in più gruppi, disperdendosi nei boschi circostanti, dando vita alla lotta di Liberazione che nel Teramano si protrasse per nove mesi. Per Roberto Battaglia Bosco Martese fu un esordio clamoroso per il movimento partigiano italiano: esso ebbe un "carattere militare evoluto, quel carattere che la Resistenza acquisterà nel suo complesso solo nella piena fase della sua maturità" e, ancora, questa battaglia fu un "fenomeno forse unico in tutto il corso della Resistenza italiana, questo dell’emigrazione compatta della parte più attiva di un’intera popolazione in montagna". <92
Diverse furono le polemiche nel dopoguerra, volte ad evidenziare presunti errori ed atti di codardia da parte degli ufficiali (non dimentichiamo l’acredine e la diffidenza che a lungo caratterizzerà i rapporti con questi, visti spesso come responsabili delle sofferenze patite dai soldati durante la guerra). Lo stesso Battaglia, notoriamente di sinistra, non ha mai voluto riconoscere il ruolo dei militari nella Resistenza italiana, che invece annovera esempi importantissimi come Cefalonia o come la collaborazione con i civili nella battaglia di Porta S. Paolo. Egli ha un atteggiamento piuttosto ambiguo verso il mondo militare. Da un lato non è disposto a riconoscere il ruolo di tale componente nella lotta resistenziale, dall’altro sottovaluta e sottostima la percentuale dei militari che scelsero la strada del collaborazionismo con Salò e con i tedeschi.
Queste polemiche, vere o false che siano, non possono oscurare la straordinaria importanza che Bosco Martese riveste nel panorama della Resistenza nazionale.
[NOTE]
83 C. Felice, Dalla Maiella alle Alpi, cit., p. 330
84 Ibidem, p. 333
85 C. Felice, La Resistenza in Abruzzo dalla voce di alcuni protagonisti, in Rassfr, 1987, p. 30
86 C. Felice, Dalla Maiella alle Alpi, cit., p. 331
87 P. Secchia - F. Frassati, Storia della resistenza. La guerra di liberazione in Italia. 1943-45, Roma, Editori Riuniti, 1980, II, p. 523
88 G. Amendola, Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 247
89 C. Felice, Dalla Maiella alle Alpi, cit., p. 336
90 La resistenza nel Teramano, Teramo, Casa della cultura Carlo Levi, 1975, p. 51
91 C. Di Sante, Un giorno di fuoco: Settanta anni fa Bosco Martese, http://ilcentro.gelocal.it, 24 settembre 2013
92 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1964, p. 118
Maria Carla Di Giovacchino, La Banda Palombaro nella Resistenza abruzzese, Tesi di laurea, Università degli Studi "G. D'Annunzio" Chieti - Pescara, Anno Accademico 2015-2016

venerdì 21 novembre 2025

Nel 1984 il Sismi negò all'allora Presidente del Consiglio Craxi l'esistenza del Piano Demagnetize


L'anno 1947 fu l'anno della frattura. Nel mondo, fra est e ovest, la divisione divenne esplicita. Fu la guerra fredda. E' importante il sostantivo (guerra), lo è anche l'aggettivo (fredda), che esprime cioè il proposito di evitare la catastrofe. La guerra fredda penetrò come attore in visione di ogni luogo. In Italia essa sembrò condizionare tutto, a partire dall'evento politico più riconoscibile: la crisi del maggio con la fine del governo di unità nazionale e della solidarietà antifascista. Come riferimenti «esterni» della rottura avevamo un simbolo americano, l'annuncio del piano di ricostruzione ERP (piano Marshall) e un simbolo sovietico, il Cominform, l'unità internazionale dei partiti comunisti (2).
Al momento delle elezioni del 1948 gli Stati Uniti si impegnarono a tutti i livelli, con una propaganda massiccia a forti tinte anticomuniste. William Colby, che fu capo della CIA dal 1973 al 1976, riferendosi al 1948, scrive: "la possibilità di una presa del potere comunista in ltalia - come risultato elettorale - aveva preoccupato molto gli ambienti politici di Washington prima delle elezioni italiane del 1948. Anzi, era soprattutto questa paura a portare alla creazione dell'Office Coordination, che dava alla CIA la possibilità di intraprendere operazioni politiche, propagandistiche e paramilitari segrete" (3).
Si può dire che il '48 sia la data di inizio per l'Italia di quella "guerra politica segreta" (4) che si combatte con operazioni 'coperte' della CIA e con l'utilizzo dei fondi segreti e delle azioni "non documentabili". L'importanza che rivestono documenti del National Security Council sta nel fatto che delineano uno scenario abbastanza significativo: in previsione di una possibile invasione dell'Italia da parte di forze militari provenienti dall'Europa Orientale, o nell'ipotesi che una parte dell'Italia cadesse sotto la dominazione comunista in seguito ad una insurrezione armata o ad altre iniziative illegali, il governo degli Stati Uniti predispose un piano articolato in sette punti, il cui ultimo paragrafo prevedeva di "dispiegare forze in Sicilia o in Sardegna, o in entrambe, con il consenso dei governo italiano legale e, dopo la consultazione con gli inglesi, in forze sufficienti ad occupare queste isole contro l'opposizione comunista indigena non appena la posizione dei comunisti in Italia indichi che un governo illegale dominato dai comunisti controlla tutta la penisola italiana" (5). Si rileva la preoccupazione che gli interessi degli Stati Uniti nell'area del Mediterraneo potessero essere seriamente minacciati dalla possibilità che il Fronte Popolare arrivasse al governo.
Un quadro d'insieme emerge con sufficiente chiarezza, malgrado il persistere di marginali zone grigie, la cui ricostruzione storica non è allo stato ancora possibile. Tuttavia, proprio tenendo presente la cornice della "guerra fredda", si possono trarre alcune considerazioni in riferimento al tema della ricerca:
a) le vicende più recenti relative alla strategia della tensione e delle stragi nel nostro Paese, vanno inquadrate nello scenario successivo alla seconda guerra mondiale;
b) in particolare, è la situazione di sovranità limitata che si instaura nei paesi del blocco occidentale ad offrire una chiave di lettura indispensabile per dissipare le ombre più fitte.
E' pur vero che c'era e c'è uno Stato di diritto, una democrazia pluralista e nello stesso tempo uno scontro sociale e politico; ma vi era un limite invalicabile e ufficialmente non scritto e cioè l'impossibilità di mutare gli assetti politici realizzati nei paesi della sfera di influenza. Ha scritto, tracciando un problematico bilancio di quegli anni, Angelo Panebianco: "Quella che è finita con la sconfitta (dissoluzione) dei blocco sovietico è stata a tutti gli effetti una guerra. Una guerra mai passata dal "freddo" al caldo [...] Ma comunque una guerra. Brutta, sporca e cattiva. Come tutte le guerre.[...]. L'identificazione tra nemico interno e nemico esterno, vera architrave della Guerra Fredda, metteva le democrazie occidentali, proprio perché democrazie, di fronte a contraddizioni insanabili, ossia apriva varchi all'illegalità in nome della sicurezza. [...]. L'identificazione tra nemico esterno e nemico interno e, per essa, la contraddizione fra esigenze di legalità ed esigenze di sicurezza assumeva forme esasperate quali non si riscontrano negli altri paesi occidentali (con l'eccezione, in certe fasi, della Francia). E' in quel vizio di origine la radice di tutte le deviazioni (dalla legalità) degli anni 60 e '70" (6). Panebianco afferma che in quella fase storica il "dilemma insolubile" delle democrazie ha contribuito a fare dei governanti occidentali dei "Giano bifronte", "servi di due padroni", sottoposti al doppio vincolo di dover rispettare le leggi interne e, contemporaneamente assicurare la sicurezza nazionale. "Nessuno può eludere il dilemma [...] Una zona grigia nella quale i confini tra ciò che è legale, semi-legale e illegale sono sempre più sfumati" (7). Ci fu in quegli anni nel nostro paese una "guerra" non dichiarata, a bassa intensità militare ma ad alta valenza politica che fu "combattuta" nella nostra società a partire dalla fine degli anni '40 e, con graduazioni e modificazioni anche sostanziali, almeno fino all'inizio degli anni '70, quando l'evoluzione del quadro internazionale fece perdere gran parte del retroterra internazionale che la aveva motivata. E non per ultimo, strumentalizzazioni personali e politiche, a fini interni, che potessero "giustificarla".
Nel volume sulla storia dei servizi segreti "Il lato oscuro del potere" Giuseppe De Lutiis offre una valida documentazione, finora inedita, sulla guerra psicologica che governi occidentali conducevano contro il comunismo, in particolar modo in Italia e in Francia dove più forte era la presenza dei partiti comunisti occidentali. A questi due Paesi è rivolta l'attenzione del NSC, la struttura precedentemente citata, che coordina l'attività dì "contenimento" del comunismo varata dal Presidente Harry Truman nel 1948 e concretizzata poi nel Piano Demagnetize. Ufficialmente ignoto alle massime autorità del nostro governo, il Piano Demagnetize, come appunto dice il nome, prevedeva di "smagnetizzare", cioè di
depotenziare le capacità organizzative dei partiti comunisti francese e italiano. Nel 1984 il Sismi negò all'allora Presidente del Consiglio Craxi l'esistenza di questo piano "e di altri che ponessero nostri servizi in posizione di subordinazione di altri", malgrado interi passi del documento fossero stati già pubblicati da alcuni studiosi (8). Non si ha la certezza che il testo del Piano Demagnetize (9), conosciuto e acquisito dalla Commissione Stragi, sia completo, ma negli archivi della "Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi", vi sono documenti, elaborati in data 13 novembre 1951 dalla Commissione "C" del Psycological Strategy Board, commissione composta da rappresentanti del Dipartimento di Stato, del Dipartimento alla difesa e della CIA, incaricati di perfezionare piani per la "discriminazione politica che il governo De Gasperi avrebbe dovuto condurre contro i cittadini iscritti al PCI" (10). Gli "specialisti Usa" chiedevano al Governo italiano di screditare i comunisti allontanandoli dalle cariche amministrative pubbliche, in sostanza "licenziare la manodopera comunista, e prosciugare le fonti di reddito in Italia del Partito Comunista" (11).
C'è quindi la presenza indiscutibile di un 'made in Usa' nelle vicende storico-politiche del nostro Stato; una sorta di lente d'ingrandimento sopra la classe dirigente italiana, che ne condiziona, ma quasi mai passivamente (12) l'azione. Sulla base dei documenti raccolti, alcuni inediti, altri ampiamente censurati, Perrone delinea un quadro articolato e concreto del ruolo italiano, un 'made in ltaly', nell'opera di 'smagnetizzazíone', sempre sotto ìl controllo e la supervisione della Casa Bianca. Così, per esempio, rispondono dal Dipartimento di Stato a un'esplicita richiesta del Presidente del Consiglio De Gasperi che si informava su un possibile intervento armato delle forze militari statunitensi per 'quietare' una eventuale sommossa delle forze comuniste: "il nostro appoggio non contemplerebbe, RIPETO NON, l'assistenza delle forze armate degli Stati Uniti" (13).
Nei documenti americani l'elemento prioritario è che l'Italia fosse un Paese a "rischio dei comunisti". Per la conferma di questa tesi, non eccessivamente gradita agli ambienti politici italiani, basta far riferimento alle dichiarazioni di Paolo Emilio Taviani (14), a proposito dell'ingresso italiano nella Nato: "Gli Americani non ci volevano nel Patto. Fummo noi DC da un lato e i repubblicani dall'altro che insistemmo per essere inclusi" (15). 
Sul rapporto Stati Uniti-Italia in riferimento al problema del comunismo la documentazione degli archivi statunitensi è ormai da anni al vaglio degli storici. E proprio sulla base di questi documenti si può arrivare alla conclusione che la vita politica italiana è stata segnata dalla "guerra politica segreta, combattuta tra lo Stato e alcuni suoi cittadini in nome della frattura ideologica tra Est e Ovest [...] Gli eventi sanguinosi, le stragi e fondamentalmente tutte le principali espressioni della devianza del potere (servizi deviati, poteri occulti, finanza corsara) non avrebbero potuto ripetersi se non fossero stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con tutta probabilità, il mantenimento del nostro Paese nel campo dell'Alleanza Atlantica" (16).
[NOTE]
(2) V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, pag. 220-221.
(3) W. Colby, La mia vita nella CIA, Mursia, Milano 1981, pag. 82.
(4) Il termine compare per la prima volta in un memorandum del 3 Giugno del 1948 del NSC (National Security Council).
(5) Direttiva del National Security Council 1, 2, 10 febbraio 1948. Foreign Relations, 1948 vol III, pag. 769.
(6) A. Panebianco, Logica della democrazia e ragion di Stato: il dilemma insolubile, in "Corriere della Sera", 21 febbraio 1991.
(7) Ibidem.
(10) Il documento viene citato per la prima volta in Commissione Stragi, resoconti stenografici delle sedute, X leg., vol.VII, p. 363,365.
(11) P. Cucchiarelli & A. Giannuli, Lo Stato parallelo, Gamberetti, Roma 1997, pag. 34
(12) Come emerge dal lavoro di Nico Perrone, De Gasperi e l'America, un dominio pieno e incontrollato, edito nel 1995.
(13) N. Perrone, De Gasperi... cit. Intanto le direttive del 13 Novembre 1951 trovarono applicazione nelle disposizioni dell'allora Ministro della Difesa Pacciardi. Infatti i licenziamenti non colpiscono solo i lavoratori comunisti del porto di Livorno, ma anche quelli degli impianti che costruiscono le turbine Fiat e la stessa azienda torinese manda a casa 400 attivisti del PCI.
(14) E' ministro della Difesa nel IX° Gov. ital., 1953, coalizione DC, PRI.
(15) N. Perrone. De Gasperi... cit., p.175
(16) G.I. G. Salvini, Sentenza-ordinanza in Archivio Commissione Stragi (d'ora in poi CSA), 1995: Gli ordini, contrordini e le coperture che scattarono in tutta ltalia.
Lorenzo Pinto, Le "stragi impunite". Nuovi materiali documentari per una ricerca sulla strategia della tensione, Tesi di laurea, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno accademico 1996-1997

domenica 9 novembre 2025

Venne deliberata anche l'unione della CGL di Napoli con quella di Bari


La "liberazione" nel sud Italia arrivò prima che nel nord del paese. Nel breve intervallo che intercorse tra la caduta del fascismo e l'occupazione alleata, nel meridione non sorse un movimento di resistenza ai tedeschi organizzato come invece avvenne nel nord Italia. Ci fu una immediata ed esplosiva reazione popolare che si espresse in mille episodi di opposizione e di protesta contro ciò che restava dell'apparato fascista e contro i nazisti, che furono scacciati dalla massa popolare, spesso, prima dell'arrivo delle truppe angloamericane (Napoli resta l'episodio più significativo della vitalità e dell'energia delle masse meridionali). La rabbia popolare, alimentata dalla delusione delle aspettative riposte nei "liberatori", sfociò nella protesta contro le condizioni di vita che subivano un ulteriore peggioramento all'indomani della liberazione. <1
La reazione del governo Badoglio fu la repressione poliziesca dei movimenti, con l'uccisione ed il ferimento di numerosi proletari. Gli alleati esercitavano un forte controllo sulla popolazione, dove essi non erano presenti, si faceva sentire, opprimente, il potere del governo Badoglio, intenzionato a restaurare la situazione politica e sociale prefascista. Le condizioni di questa parte dell'Italia risentivano dell'arretratezza economica e sociale che aveva caratterizzato la regione, fin dall'unificazione del paese, quale risvolto necessario allo sviluppo del capitalismo italiano. Ai fermenti sociali del proletariato meridionale faceva riscontro la fioritura di gruppi politici di sinistra. I militanti che avevano subito la repressione fascista, una volta rientrati nei loro paesi, avevano ripreso i contatti tra di loro, mantenendo in vita dei piccoli nuclei politici, anche prima della caduta del fascismo. Accanto ai seguaci del PCI, "comunisti ufficiali, cioè fedeli alla linea del centro del partito" <2, quali Vincenzo La Rocca, nella zona del nolano, Corrado Graziadei nel casertano, per citarne alcuni, che facevano capo ad Eugenio Reale - che dirigeva il movimento anche dal carcere di Civitavecchia - e a Clemente Maglietta - poi emigrato e combattente in Spagna, - operavano altri gruppi. Un nucleo composto da Mario Palermo, Vincenzo Ingangi e Eugenio Mancini era ritenuto trotzkista dai comunisti ufficiali, perché aveva espresso delle riserve sulla politica di Stalin. <3 In seguito, attorno a Ludovico Tarsia e Ugo Arcuno si riunì un certo numero di intellettuali su posizioni "bordighiane", ma che parteciparono alla ricostituzione della Federazione campana del PCI nel 1943, come pure "bordighiani" si definivano molti operai di Barra e di Pozzuoli e alcune cellule di marittimi del porto di Napoli. <4
Il sud era isolato dalla vita politica del resto del paese e dagli sviluppi che l'evolvere della situazione imprimeva alle svolte organizzative e politiche dei partiti antifascisti. Lontano dalle mediazioni che la lotta unitaria contro il fascismo imponeva alle organizzazioni socialiste tradizionali, nel meridione, l'impatto crudo con la realtà della"liberazione", dell'oppressione esercitate dagli alleati e dal governo Badoglio sulla popolazione alimentava un radicalismo che si espresse nella costituzione di gruppi politici e sindacali su una genuina e immediata spinta classista.
Nel novembre 1943, in un convegno sindacale tenuto a Napoli venne ricostituita la Camera del Lavoro di Napoli e il Segretariato Meridionale della CGL, le cui basi erano già state gettate in un precedente incontro ad ottobre. Venne eletto un comitato direttivo provvisorio nel quale erano rappresentate le forze politiche antifasciste - Gallo e Iorio per il PCI, Bosso e Di Bartolomeo per il PSIUP, Arminio e Gentile per il PdA, Enrico Russo, Segretario Generale meridionale e Iorio, Segretario della CdL di Napoli. 
Enrico Russo aveva militato da lungo tempo nella Sinistra Comunista. Nato a Napoli nel 1895, nel 1910 si era iscritto al Circolo giovanile socialista "Pietro Casilli" e l'anno successivo al PSI. Operaio metallurgico al Silurificio, nel 1917 divenne segretario della FIOM di Napoli. La sua adesione al PCd'I avvenne nel 1924, dopo aver fatto parte della corrente terzinternazionalista del PSI, non concordando con Bordiga sulla scissione dal partito. Si distinse per la sua attività sindacale nella CdL di Napoli e nella CGL campana, fu in prima fila nell'organizzazione dello sciopero generale contro il carovita a Napoli nel 1925. Nel 1927 emigrò in Francia, dove fu membro del CC del PCI. Nel 1928, Russo presentò al Congresso dei Gruppi Comunisti Italiani di Parigi delle controtesi ispirate alla piattaforma dell'Opposizione di Sinistra del Partito Bolscevico. Nonostante l'intervento massiccio dei massimi esponenti del Partito francese, tra i quali Thorez e Vaillant-Couturier, il Congresso approvò a maggioranza le controtesi di Russo. L'esecutivo dell'Internazionale dichiarò non validi i deliberati del Congresso e convocò un nuovo congresso al quale inviò quale suo delegato Dimitrov. Anche al nuovo congresso le controtesi di Russo ebbero la maggioranza. In seguito a ciò l'Esecutivo della internazionale deliberò lo scioglimento dei gruppi comunisti italiani della regione parigina. <5 In seguito, Russo prese contatti con l'Opposizione di Sinistra Internazionale e con la Frazione di Sinistra, scrivendo anche sulle pubblicazioni della Sinistra Comunista, Prometeo e Bilan. Si trasferì in Belgio, al momento della guerra di Spagna prese parte alla "minoranza" della Frazione che auspicava l'intervento nella guerra civile a fianco dei repubblicani. Organizzò la brigata "Lenin", aderente al POUM combattendo in Spagna. Rientrato in Francia, fu internato nel campo di concentramento di Saint-Ciprien e in seguito consegnato alle autorità fasciste. Confinato alle isole Tremiti fu liberato nel settembre 1943.
Riflettendo e riportando le istanze classiste del proletariato meridionale, la CGL entrava in pieno contrasto con la politica condotta dal PCI a livello nazionale. La pregiudiziale antimonarchica era un motivo fondamentale nella linea dei comunisti e non si ammettevano espedienti tattici di accordi politici con il governo Badoglio. Gli esponenti di spicco della CGL erano molto critici nei confronti del partito e l'impostazione che il rinato sindacato aveva avuto, sotto l'impulso dei movimenti di lotta gli fruttò una "rapida ed entusiasta affermazione (...). In poco più di un mese la CGL riuscì a porsi in posizione di assoluta preminenza nella vita sindacale e politica, preminenza che conservò per circa un anno, pur sotto l'incalzare di un aspra polemica, che dall'aprile '44 in poi divenne aperta rottura con il PCI". <6 I militanti del PCI che operavano nel napoletano, Eugenio Reale in particolare, si resero ben presto conto del pericolo che poteva costituire una forza sindacale autonoma dalle direttive del PCI e radicalizzata dalle spinte della base e cercarono di porre degli ostacoli all'attività della CGL. Questa fu l'origine della "scissione di Montesanto", la quale mise in luce le forze dell'opposizione di sinistra alla politica del PCI all'interno della CGL ed il peso notevole che essa aveva acquistato nella conduzione della lotta a fianco della classe operaia. Il 24 ottobre nella sede della Federazione napoletana della CGL, in via Salvatore Tommasi, doveva avere luogo la riunione di una commissione formata da Iorio, Mancini, Ingangi, Russo e Avieta, incaricati della preparazione di un'assemblea per le elezioni delle cariche e per esaminare le domande di iscrizione. Spano e Reale fecero chiudere la sede prevedendo di avere la minoranza. I militanti si recarono allora alla sede degli autoferrotranvieri a piazza Montesanto e decisero la scissione dalla minoranza. Il PCI attaccò con i metodi ben noti la maggioranza scissionista, ma organizzativamente essa non poteva godere di una autonomia sufficiente: la scissione rientrò dopo 45 giorni, il 12 dicembre. Questo non significò la ritrovata unità ideologica e politica e l'opposizione continuò, aspra, all'interno e contro la CGL.
In questo quadro va inserita la proposta, lanciata al I congresso del PCI delle province liberate (21 e 22 dicembre 1943), dalla Federazione Comunista di Napoli, di tenere un convegno sindacale a Bari per la costituzione di una nuova CGL. Il Convegno si tenne il 29 gennaio 1944, contemporaneamente al congresso dei CLN, ma si risolse in un fallimento. Le altre forze politiche, socialisti ed azionisti, ne denunciarono il carattere formale e l'inconsistenza politica, e l'iniziativa morì sul nascere. La CGL formatasi a Bari non fu tuttavia sciolta. La CGL conservò il proprio peso e l'importanza che aveva assunto si espresse chiaramente nel congresso tenuto a Salerno il 18, 19 e 20 febbraio 1944. Contemporaneamente uscì anche il primo numero del giornale della CGL Battaglie sindacali, <7 per la pubblicazione del quale si era dovuto duramente lottare contro il veto imposto dagli alleati alla pubblicazione (la CGL e la Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti italiani erano gli unici due gruppi di opposizione ai quali non era ancora consentita la pubblicazione dei giornali). Gli interventi di Russo, Villone e Di Bartolomeo al congresso sottolinearono il ruolo che essi attribuivano al sindacato, per l'unità di tutti i lavoratori in una lotta che doveva condurre all'eliminazione di ogni forma di sfruttamento. Veniva rigettata la partecipazione alla guerra nazionale al fianco delle altre forze borghesi. La presenza azionista influenzò il congresso, venne deliberata anche l'unione della CGL di Napoli con quella di Bari. Sulle conclusioni del congresso, dal quale le posizioni della Sinistra uscirono "annacquate", pesava anche l'atteggiamento di Russo verso il PCI, che egli credeva di poter ricondurre, dall'interno, su una linea rivoluzionaria. Gli scissionisti rientrati che non si adeguarono alla linea del PCI furono espulsi e le speranze di Russo e di altri militanti di poter incidere in qualche modo sulla politica del partito, si rivelarono vane. Le agitazioni che si verificarono nel marzo 1944 videro la CGL in prima fila, quale portavoce delle istanze della base contro il governo Badoglio. I partiti antifascisti cercarono di controllare la spinta popolare, ma a rendere vane tutte le proteste e i movimenti contro Badoglio arrivò, all'indomani del ristabilimento delle relazioni diplomatiche dell'Italia e dell'URSS, la "svolta" di Salerno. Togliatti, giunto a Napoli, cercò di condurre Russo sulle posizioni del PCI, ma inutilmente. <8 Da allora la CGL fu sistematicamente attaccata sulle pagine de L'Unità. Si preparava la sua liquidazione. La celebrazione del 1° maggio, tradizionalmente organizzata dagli organismi dei lavoratori, costituì un altro motivo di attrito. Il PCI voleva, insieme al PSIUP, organizzare la manifestazione, sostituendosi alla CGL. Si arrivò alla redazione di appelli distinti, quello dei partiti e quello della CGL, all'interno della stessa manifestazione. Contemporaneamente iniziava a funzionare un ufficio di consulenza sindacale, parallelo alla CGL, continuavano gli attacchi del PCI e cominciavano le prime espulsioni dal partito, legate alla polemica con la CGL. Con i patti di Roma nacque la CGIL, avvenimento del quale la CGL ebbe notizia dall'intervista di Di Vittorio pubblicata sul giornale Il Risorgimento. <9
La CGL denunciò la natura del nuovo sindacato, nato dall'accordo fra i partiti e non dalla spinta e dalla volontà della massa lavoratrice, ma le manovre della CGIL condussero nella confusione il gruppo dirigente del sindacato napoletano, che nell'agosto finì per aderire al nuovo sindacato. La formula usata fu quella di "adesione critica", ma ciò che in realtà avvenne fu la distruzione della CGL di Napoli.
[NOTE]
1 "Ma lo sbocco finale della Resistenza non corrisponde alle premesse gettate dall'insurrezione nazionale: poiché c'è ovunque l'occupazione angloamericana a smorzare l'impeto, a rendere difficile l'affermazione della volontà popolare." in R. BATTAGLIA, cit., p. 561. "Le masse credevano, dopo la liberazione, di poter cambiare i rapporti di forza tra le classi, anche se non pensavano a una soluzione a breve scadenza. Credevano nel PCI (soprattutto). Si ricreava la contraddizione fra mediazione e movimento, ma non tra le organizzazioni operaie, partiti, sindacati. L'epurazione ne fu un esempio.", in V. FOA, cit., p. 1817.
2 Rocco D'AMBRA, I gruppi antifascisti, in Pasquale SCHIANO, La Resistenza nel napoletano, Napoli, 1965.
3 Eugenio Mancini era nato nel 1881, suo fratello Pietro era deputato socialista. Nel 1923 rivestì la carica di segretario della frazione terzina. L'anno successivo passò al PCd'I. Nel 1928 fu arrestato, dal confino chiese la grazia, a differenza degli militanti del PCd'I. Durante le quattro le giornate di Napoli ebbe un ruolo di notevole importanza e fu tra i promotori della scissione di Montesanto.
Cfr. A. PEREGALLI, L'altra Resistenza..., cit., p. 27, nota 12.
4 P. SCHIANO, cit., p. 153.
5 Clara DE MARCO, La costituzione della confederazione generale del lavoro e la scissione di Montesanto 1943-1944, in Giovane Critica, 1971, p. 53, nota 27.
6 Ibid., p. 54.
7 Enrico Russo era il direttore e Libero Villone era il redattore capo.
8 C. DE MARCO, cit., pp. 69-70.
9 Il Risorgimento del 10 aprile 1944. Per una storia del giornale, definito "anche e soprattutto una creatura degli alleati", cfr. Patrizia SALVETTI, Il Risorgimento di Napoli (4 ottobre 1943-4 giugno 1944), in L'altro dopoguerra..., cit., pp. 493-505. "Non solo la CGIL fu creata per diretta iniziativa dei tre grandi partiti antifascisti di massa, ma è persino possibile cogliere nei suoi primi passi una pesante tutela dei sindacati "amici" - soprattutto angloamericani - che erano allora vere e proprie agenzie delle potenze per garantire anche a livello della società gli equilibri pattuiti in sede diplomatica.", in V. FOA, cit., p. 1815. "Storicamente, la formazione della CGIL unitaria a Roma fu il risultato di un accordo politico tra i partiti antifascisti, accordo che si innestò istituzionalmente sul tronco burocratico della nomina dei commissari sindacali avvenuta durante il governo Badoglio. Questa nomina era avvenuta nel chiaro intento di dare, attraverso l'istituzionalizzazione dell'apparato sindacale, uno strumento interno di controllo di freno delle masse." in A. PEPE., cit., p. 126.
Angela Ottaviani, La sinistra comunista dai Fronti Popolari alla Resistenza, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Anno Accademico 1990-1991

venerdì 31 ottobre 2025

Due giorni dopo, su richiesta della Luce, De Gasperi si presentò a Villa Taverna


Novembre e dicembre 1953 furono mesi decisivi per l’impostazione della strategia americana. Incrociando le risposte al questionario con alcuni memoranda, possiamo comprendere meglio le ragioni dell’atteggiamento verso l’Italia <144. Diversi protagonisti di quella stagione politica - Pacciardi, De Gasperi, Scelba e Covelli - fecero osservazioni più o meno condivise dall’ambasciatrice. Mentre i colloqui con l’esponente repubblicano e con l’ex ministro dell’Interno sono noti <145, quelli con De Gasperi e Covelli sono inediti. E permettono di avanzare nuove ipotesi sia sulla genesi dei timori dell’ambasciata che sulle continuità/discontinuità rispetto ai centri decisionali di Washington.
Randolfo Pacciardi, amico personale della Luce, giudicava aveva espresso forti critiche sull’operato di Pella e paventava spostamenti a destra del baricentro politico, che avrebbero, con ogni probabilità, fatto «crollare» la coalizione di centro. Per prevenire questa involuzione, suggeriva di puntare sul centrismo con una forte leadership e su una decisa politica a favore della Ced. In caso contrario, i comunisti avrebbero continuato il loro «subdolo gioco» per i successivi due anni. Un governo spostato sempre più a destra avrebbe senz’altro favorito questo processo. Compito dell’ambasciata, secondo l’esponente del Pri, era comunicare la delicata fase che stava attraversando l’Italia agli editori di tre importanti quotidiani: «Corriere della Sera», «Il Messaggero» e «Il Tempo». Così da sottolineare che «a causa della stupidità della destra», il Pci - in assenza di azioni rigorose - avrebbe conquistato il potere legalmente nell’arco di due anni. Altra priorità era la necessità di esporre il contesto a De Gasperi, che «con il suo prestigio e la sua influenza poteva fare molto per salvare la situazione». Infine, Pacciardi ricordava a Clare Boothe Luce che gli americani avevano erogato fin troppi soldi e che il problema dell’Italia non era economico ma politico. Gli italiani, cioè, dovevano smettere di chiedere soldi. E gli americani dovevano far capire che sarebbero andati avanti anche senza di loro. Più in generale, era indispensabile «risvegliare i leader politici dal loro letargo». A Pella - continuava Pacciardi - bisognava dire che, «in assenza dell’approvazione della Ced e di provvedimenti immediati contro il comunismo, tutti gli aiuti sarebbero stati tagliati, incluse le commesse off shore» <146.
Molte, se non tutte, le future azioni dell’ambasciata sarebbero andate proprio in questa direzione. La disponibilità nel seguire pedissequamente i consigli di Pacciardi - come era successo con Montanelli qualche mese prima - è un fatto che va ricordato per dare il giusto peso alle origini dell’interventismo dell’ambasciatrice. Origini che non trovano spiegazioni convincenti solo nella sua formazione personale, nel suo carattere irruento e, tantomeno, nella sua conversione religiosa, come spesso - riduttivamente - è stato fatto <147.
Due giorni dopo, su richiesta della Luce, De Gasperi si presentò a Villa Taverna. I temi affrontati nel lungo colloquio furono essenzialmente quelli proposti da Pacciardi. Su tutti, il crescente pericolo comunista e il risentimento dell’opinione pubblica americana per la «riluttanza, o incapacità» dell’Italia nel cooperare con gli Stati Uniti. Mrs. Luce non esitò a comunicare che gli Stati Uniti avrebbero potuto rivedere non solo gli aiuti economici ma anche l’intera strategia militare verso l’Italia. E di fronte all’avanzata della sinistra, suggeriva azioni - piuttosto generiche - per «distruggere l’apparato del Pci».
Anche De Gasperi - è bene sottolinearlo - temeva la possibilità che il Pci potesse prendere il potere legalmente: «la sinistra era contenta di contrastare qualsiasi progresso italiano nelle politiche filo-occidentali e avrebbe nascosto la sua forza crescente fino al 1955, quando sarebbe stata pronta a prendere definitivamente il potere». E giudicava la situazione «molto, molto pericolosa». La prova di questo - secondo l’ex presidente del Consiglio - era il fatto che avesse accettato di rimanere segretario del partito: la carica veniva percepita «un umiliante passo indietro» imposto dalle circostanze critiche. Il suo compito, «terribile e pesante», era quello di «sviluppare il morale, l’organizzazione e lo spirito battagliero della Dc» coi pochi fondi a disposizione del partito. Alle richieste di azioni dirette contro il Pci, obiettava la mancanza di soldi e di tempo, oltre che di una linea unitaria. Lo statista trentino, peraltro, temeva anche uno scivolamento verso destra. Eventualità che, fisiologicamente, avrebbe portato ad un rafforzamento della sinistra. Criticando la virata nazionalista dell’esecutivo Pella, De Gasperi insisteva sulla decisività della questione di Trieste. In caso di mancata soluzione, il governo avrebbe incontrato «il falso e stupido nazionalismo della destra e l’altrettanto falso, ma più furbo, nazionalismo della sinistra».
Clare Boothe Luce, infine, lo incalzava sulla necessità di coinvolgere e responsabilizzare gli industriali. Notava sconsolatamente che sarebbe stato difficile per gli Stati Uniti sostenere l’Italia se neanche i business men, che «avevano materialmente molto da perdere e beneficiavano più di tutti della coalizione centrista», si muovevano <148.
Da questo memorandum si evince che tra i due esisteva più di un punto di contatto <149. Ci riferiamo, in particolare, a Trieste e alle paure per l’avanzata dei socialcomunisti, manifestato per la prima volta nell’analisi della Luce di inizio novembre <150. Altro fattore degno di nota è che nella primavera del 1953, ricordava la Luce a Gruenther, <151 De Gasperi aveva sollecitato la Nato a considerare seriamente la minaccia del comunismo in Italia. In tale occasione, la ricerca della legittimazione dell’Alleanza atlantica poteva evitare le accuse «di attaccare partiti legali e fare una politica di parte». Ma non venne presa nessuna risoluzione a causa «dell’opposizione inglese, in accordo con noi [gli Usa]». Piuttosto delusa, l’ambasciatrice commentava amaramente: «se la Nato è soddisfatta di questo livello di infiltrazione comunista, perché dovremmo lamentarci noi, come ambasciata, della mancanza di forti misure contro il comunismo in politica interna?» <152.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, il primo impatto con Mario Scelba, a fine novembre 1953, fu disastroso. In una conversazione definita «inutile e sconcertante», Clare Luce apprendeva l’avversità del politico siciliano ad azioni dirette contro il comunismo e la sua «mancanza di convinzioni» a riguardo. Qualsiasi misura - anche in questo caso mai formalizzata chiaramente - era da lui ritenuta politicamente pericolosa e avrebbe potuto essere presa solo da un «governo di centro stabile e pronto ad un attacco totale». Scelba, secondo la Luce, appariva preoccupato solo di «sopravvivere, se necessario, in uno qualsiasi dei due campi» <153. Questo incontro rafforzò lo scetticismo nei confronti della Dc e della sua capacità di combattere il comunismo.
A differenza di Scelba, il segretario del Pnm Covelli non lesinò critiche feroci al partito di maggioranza relativa. In un memorandum dell’11 dicembre espose alla ricettiva ambasciatrice le sue preoccupazioni relative all’Italia, che «in assenza di provvedimenti decisi, rigorosi e unitari, avrebbe potuto essere il primo Stato dell’Europa occidentale a diventare comunista legalmente». Tra le altre cose sottolineava la necessità sia di sopprimere il commercio con i Paesi oltre-cortina, sia di combattere la «benevolenza» con cui la Dc aveva trattato il comunismo nei cinque anni passati <154.
Nelle ultime due settimane di dicembre, numerosi furono i contatti tra l’ambasciata e Washington con a tema l’Italia <155. Ne risultarono tre proposte, più o meno chiare. Innanzitutto, si invocava la riduzione degli investimenti per contenere il comunismo. L’invio di armi e mezzi, secondo questa lettura, avrebbe potuto essere utilizzato da un ipotetico regime non democratico contro gli stessi americani. Poi, seconda questione, esistevano «potenti individui, nell’industria e nel governo italiano» che, con il sostegno degli Usa, sarebbero stati pronti a mettere in atto azioni decisive contro il Pci. Non avrebbero fatto un passo senza la certezza degli aiuti dall’estero e arrivarono perfino a dubitare della sincera opposizione degli Usa al Pci. Alcuni di questi personaggi esprimevano una sorta di “oltranzismo atlantico” ben presente nella destra italiana. Infine, gli Stati Uniti dovevano «obbligare» gli italiani a rendersi conto da che parte stavano. In questo senso, la riduzione delle Osp o la minaccia della loro cancellazione, come auspicato da Pacciardi, suscitò la reazione del generale Stewart, che le ricordò la competenza del governo americano in materia <156. La Luce scrisse che i comunisti stavano esercitando «grande influenza, se non completo controllo di settori vitali per la nazione, come i mezzi di comunicazione, la stampa, i trasporti e le industrie». In forza di questo, l’Italia avrebbe avuto «grandi difficoltà a combattere dalla nostra parte» <157. In altre missive spedite al senatore Wiley e al Dipartimento della Difesa ritroviamo lo stesso tono allarmato per uno Stato che, in assenza di immediati quanto generici provvedimenti, stava lentamente scivolando nell’orbita sovietica. Confrontando tale corrispondenza con i memoranda dell’ambasciata, si nota una reiterazione - spesso tramite le stesse identiche parole - nel modo di esprimere l’avanzata della sinistra e di denunciare l’inettitudine della Democrazia cristiana. Insistere sui colloqui consente di cogliere una comunanza di idee, per certi versi sorprendente, tra l’ambasciatrice, De Gasperi, Pacciardi e Covelli. La paura che l’Italia diventasse comunista per vie legali e il conseguente approccio poco “morbido” verso il Pci non possono essere ricondotte solo a una «radicata convinzione ideologica» o a uno «strumento utilizzato consapevolmente allo scopo di tenere l’avversario sempre all’erta» <158. C’erano anche personalità politiche di primo piano, come risulta dalla documentazione d’archivio, fermamente convinte di questo. Vero è che all’esplicitazione del pericolo seguirono sempre indicazioni vaghe sia parte italiana che statunitense. Ma è doveroso ricordare il ruolo dei nostri politici nella condivisione - o nella critica, come nel caso di Scelba - dei timori della Luce. Diverse furono le reazioni dei centri decisionali Usa agli avvertimenti di Mrs. Luce. Casa Bianca e Dipartimento di Stato stavano elaborando una strategia simile con l’istituzione dell’Operations Coordinating Board in sostituzione del PSB, che aveva avuto il compito di attuare il piano Demagnetize-Clydesdale. Le differenze tra i due organi, escludendo una maggiore attenzione per l’europeismo dell’OCB, erano trascurabili. In sostanza, si trattava di un piano di “guerra psicologica” - il cui principale difetto rimaneva la vaghezza - in linea di continuità con quello formulato dall’amministrazione Truman <159. Dal Dipartimento della Difesa giungevano perplessità su una condotta troppo aggressiva in materia sindacale, in realtà più per ragioni di competenza - quindi di forma - che di sostanza. Nello stesso tempo, si ringraziava per aver suscitato un dibattito sulla Penisola. Emerse, comunque, la necessità di un viaggio chiarificatore di Mrs. Luce a Washington. Gli scenari prospettati dall’ambasciata furono, invece, in buona parte ridimensionati dalla sezione analitica della Cia, dove il personale era timoroso di una deriva autoritaria di destra più che di un takeover comunista. Che il consenso per socialisti e comunisti stesse crescendo era innegabile, ma non così tanto - secondo il direttore Allen Dulles - da pensare ad una conquista del potere tramite libere elezioni <160.
Il 1954, ormai alle porte, sarebbe stato un anno convulso e decisivo per il rapporto Stati Uniti-Italia. Convulso perché si alternarono nei primi mesi due governi che alimentarono i timori per la fragilità politico-istituzionale dell’Italia. In più, da parte americana si concretizzarono le pressioni sindacali abbozzate a fine ’53 e venne redatto il nuovo documento-quadro sulla politica da tenere nei confronti del nostro Paese. Non tardò, poi, a venire a galla quell’oltranzismo atlantico tutto italiano di cui si accennava. Un oltranzismo che in nome della solidarietà al blocco occidentale era pronto a mettere in discussione la democrazia.
Fu anche un anno decisivo, il 1954. Perché rivelò l’incontro-scontro tra la Luce e la destra in tutte le sue sfaccettature. Rivelò, cioè, la reale consistenza - in parlamento e nella società - di monarchici, missini e destra “impolitica”. Infine, amplificò i pregiudizi dell’ambasciatrice per l’Italia del tempo, sprofondata a suo parere in una sorta di limbo tra un passato fascista e un futuro comunista. E per il suo popolo, definito senza mezzi termini «incline all’autoritarismo».
[NOTE]
144 Per ammissione dell’ambasciatrice, gli ultimi due mesi del ’53 - e in particolare le ultime settimane - furono decisivi nel determinare un cambiamento di valutazione sul caso Italia, si veda M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., p. 196.
145 Del Pero ha reperito per primo il memorandum con Pacciardi, citato in M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., pp. 194 e 205. Quello con Scelba del 27 novembre è presente in NARA, RG 84, CBL, Box 4, f. Memoranda of conversations ’53 ed è stato integralmente pubblicato in FRUS, 1952-54, VI, pt. 2, pp. 1640-1642.
146 Memorandum of conversation, C.B. Luce, R. Pacciardi, November 19, 1953, NARA, RG 84, CBL, Box 4, f. Memoranda of conversations ’53, anche in RG 59, C-3, Box 4, 765.00/11-2753. Si veda M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., pp. 194-195.
147 Da qui la necessità di rivedere, o quanto meno di smussare, diversi giudizi della storiografia italiana: E. Di Nolfo, La Repubblica delle speranze e degli inganni, cit. p. 400; Id., Italia e Stati Uniti: un’alleanza diseguale, cit., p. 24; S. Colarizi, Storia del novecento italiano, cit., p. 344; S. Lupo, Partito e antipartito, cit. p. 106; L. Sebesta, L’Europa indifesa. Sistema di sicurezza atlantico e caso italiano, 1948-1955, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991, p. 213; M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica», cit., p. 985; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 16 n. Non molto convincenti sono poi i lavori agiografici: G. Giordano, Clare Boothe Luce, cit.; M. Parodi, Clare Boothe Luce. Storia di una donna speciale, cit.
148 Memorandum of conversation, C.B. Luce, A. De Gasperi, November 21, 1953, NARA, RG 84, CBL, Box 4, f. Memoranda of conversations ’53.
149 Di diverso avviso, ma senza citare il documento, sono A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana, cit., pp. 75-76 e M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., p. 197.
150 Estimate of italian situation, cit.
151 Supreme Allied Commander in Europe, ruolo ricoperto da Eisenhower nell’amministrazione Truman.
152 C.B. Luce to A. Gruenther (Supreme Allied Commander in Europe), December 11, 1953, DDEL, AG Papers, 1941-1983, Nato Series, Box 1, f. Top Secret correspondence (3). Disponibile, non interamente, in FRUS, 1952-54, VI, pt. 2, pp. 1642-1645. Sulla delusione della Luce per l’emarginazione politica di De Gasperi si veda E. Ortona, Anni d’America, cit., p. 55.
153 C.B. Luce to the Department of State, November 30, 1953, FRUS, 1952-1954, VI, pt. 2, pp. 1640-1642.
154 Memorandum of conversation, A. Covelli, E. Patrissi (Pnm), A. Gaetani (President Confederazione Italiana dell’Agricoltura), E. Stolfi (Pnm), G. Branca (Italian land-owner), E. Durbrow (Minister Counselor, Embassy), December 11, 1953, NARA, RG 59, C-3, Box 4.
155 Si vedano Conversation with the U.S. Ambassador to Italy, G. Stewart (Mayor General, U.S. Army) to Assistant Secretary of Defense, December 16, 1953; C.B. Luce to A. Gruenther (Supreme Allied Commander in Europe), December 11, 1953; A. Gruenther to C.B. Luce, December 18, 1953, DDEL, AG Papers, 1941-1983, Nato Series, Box 1, f. Top Secret correspondence (3); Memorandum of conversation between Secretary Nash and Major General Christensen, December 15, 1953, NARA, RG 59, Subject files of the Bureau of Intelligence and Research (Inr), 1945-1960, Lot File 58D776, Box 12, f. Italy; C.B. Luce to A. Wiley (Republican Senator), December 14, 1953, NARA, RG 84, CBL, Box 10, f. Correspondence and miscellaneous, 1953, citato in M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., p. 195.
156 Conversation with the U.S. Ambassador to Italy, cit. Stewart suggerì di incontrare Voorhees, direttore del programma Osp per l’Europa. L’incontro sarebbe avvenuto all’inizio del 1954. Sull’importanza delle commesse come strumento di pressione si veda la lettera della Luce al Dipartimento di Stato del 24 dicembre ’53, FRUS, 1952-54, VI, pt. 2, pp. 1647-1648. Per un inquadramento più generale in merito alle commesse americane in Italia si veda il lavoro di L. Sebesta, L’Europa indifesa, cit., pp. 206-230.
157 C.B. Luce to A. Gruenther (Supreme Allied Commander in Europe), cit.
158 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 20.
159 E. Ortona, Anni d’America, cit., p. 52; M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., pp. 207-209; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 18. Per il piano Demagnetize-Clydesdale si rimanda a M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica», cit. L’executive order 10483 del 2 settembre 1953 istituì l’OCB. I membri del Board erano: il sottosegretario di Stato, che rappresentava il Segretario di Stato, il vice segretario della Difesa, che rappresentava il Segretario alla Difesa, il direttore del Foa, il direttore della Cia e un rappresentante del Presidente da lui designato, si veda FRUS, 1952-54, II, pt. 2, p. 455.
160 Discussion at the 178th Meeting of the National Security Council, December 30, 1953, DDEL, AW File, NSC Series, Box 4, f. 178th Meeting of the NSC. La sottolineatura dell’orientamento liberal della Cia è merito di M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., p. 196.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009-2010 

venerdì 24 ottobre 2025

Il 9 luglio 1958 il governo Fanfani II (Dc, Psdi) ottiene la fiducia delle camere


Le elezioni tenutesi il 25 e 26 maggio 1958 determinano la seguente distribuzione dei seggi tra i principali partiti: per la Dc, 122 seggi al Senato e 273 alla Camera; per il Pci, 57 seggi al Senato e 140 alla Camera; per il Psi, 36 seggi al Senato e 84 alla Camera; per il Msi (presentatosi per il Senato con il Pnm, per la Camera da solo), 10 seggi al Senato e 24 alla Camera. Rispetto alle precedenti consultazioni, quindi, la Dc è in lieve aumento (dal 40,1 al 42,35% dei voti), il Pci rimane pressappoco allo stesso punto (dal 22,60 % al 22,68%), il Psi aumenta (dal 12,7% al 14,23%) <86.
Dimessosi Zoli, si tratta di individuare il tipo di coalizione governativa idonea ad ottenere la fiducia delle camere <87. Terminate le consultazioni, su cui si tornerà a breve per rendere conto di un’innovazione della prassi, Gronchi conferisce l’incarico a Fanfani. Le dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica dopo il conferimento dell’incarico denotano, come già avvenuto in occasione delle dimissioni di Zoli, una concezione anomala della funzione delle consultazioni: Gronchi, dopo aver sottolineato che il leader del partito che ha ottenuto la maggioranza dei voti in sede elettorale sembra essere il soggetto più idoneo a ottenere il consenso dell’Assemblea, precisa che “il Capo dello Stato ha, più che il diritto, il dovere di preoccuparsi che si creino le condizioni a che tale consenso si raggiunga nelle due Camere attorno al costituendo Ministero, sia in attuazione del programma, sia per lo stesso retto funzionamento dell’istituzione parlamentare”. Tale dichiarazione non è rimasta estranea a critiche, sia per la mancata menzione (successivamente fatta, sotto forma di precisazione) del ruolo delle consultazioni, e quindi dei partiti, nella scelta dell’incaricato, sia per l’importanza conferita dal Presidente della Repubblica all’individuazione di un incaricato - e di un Ministero - che sia in grado di attuare un programma politico in Parlamento. Questa considerazione, aggiunta alla dichiarazione di Fanfani, che subordina l’accettazione dell’incarico “all’attuazione di un programma di larga apertura sociale” da realizzarsi con le “collaborazioni necessarie”, delineerebbe un interessamento fin troppo marcato del Presidente della Repubblica al programma governativo <88. 
Il 9 luglio il governo Fanfani II (Dc, Psdi) ottiene la fiducia delle camere. In occasione del procedimento di formazione del governo Fanfani II si realizzano due innovazioni: una nella prassi delle consultazioni presidenziali, l’altra nella procedura formale di conferimento dell’incarico.
Per quanto riguarda la prassi delle consultazioni, Gronchi sente anche il presidente del CNEL, Meuccio Ruini. In un appunto Gronchi spiega che le consultazioni sono lo strumento volto a conoscere a tutto tondo i problemi politici ed economici del Paese, al fine di individuare quale sia “delle possibili maggioranze dello schieramento parlamentare” la più indicata per la soluzione dei problemi. Per questo motivo, usualmente vengono convocati i rappresentanti dei gruppi parlamentari, gli ex Presidenti della Repubblica e, purché rivestano la qualifica di parlamentari, gli ex presidenti delle camere e gli ex presidenti del Consiglio, ossia tutti soggetti appartenenti al circuito parlamentare, in quanto si presuppone che la carica di parlamentare conferisca alle suddette personalità i due requisiti necessari alla partecipazione alle consultazioni: l’esperienza e la conoscenza dei problemi da risolvere. Sulla base di queste considerazioni, Gronchi ritiene di poter rinvenire i due requisiti menzionati anche nella persona di Meuccio Ruini, in virtù della composizione e delle funzioni attribuite al CNEL dall’art. 99 Cost., nonché della precedente esperienza acquisita da Ruini quale presidente del Senato <89.
Per quanto concerne il conferimento dell’incarico, fino a questo momento la procedura seguita era la seguente: a) presentazione delle dimissioni del governo in forma orale al Capo dello Stato, il quale, sempre in forma orale, si riserva di accettarle o meno; b) consultazioni del Presidente della Repubblica e conferimento dell’incarico, in forma orale, a una personalità che si riserva di accettare o meno; c) accettazione dell’incarico (la non accettazione comporta il ritorno al punto b o la non accettazione delle dimissioni di cui al punto a); d) accettazione delle dimissioni del governo uscente; e) nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri. Come è noto, l’unico passaggio esplicitamente previsto in Costituzione, dall’art. 92, comma 2, è quello di cui al punto e). Per questo motivo, il procedimento è idoneo a mutare in relazione a prassi modificabili. Fino a questo momento, il procedimento esposto, svoltosi per intero in forma orale, si concludeva con l’emanazione di tre decreti: 1) un decreto, retrodatato, con il quale il Capo dello Stato accetta le dimissioni del governo; 2) un secondo decreto, retrodatato alla medesima data, contenente il conferimento dell’incarico; 3) un terzo decreto, datato al giorno effettivo di emanazione, recante la nomina del nuovo Presidente del Consiglio. Gronchi, in occasione della formazione del governo Fanfani II, opera invece una modifica di questa prassi: viene eliminato il decreto di conferimento dell’incarico (punto 2) e vengono emanati soltanto i decreti di accettazione delle dimissioni del governo uscente e di nomina del Presidente del Consiglio, peraltro non più retrodatati bensì recanti la data di effettiva emanazione. Tale modifica nella prassi del procedimento di formazione del governo, che, bisogna sottolineare, è solo di carattere formale, ha il pregio, come specificato da Gronchi, di rendere i decreti emanati “più rigorosamente aderenti alla reale cronologia dei fatti”. In tal modo, si evita, da un lato, la distorsione per cui l’incaricato che aveva accettato con riserva appariva essere, in virtù della retrodatazione, un incaricato già “giuridicamente perfetto”; dall’altro lato, l’eventualità che, nel caso di rinuncia dell’incarico (come si è verificato nel caso di Piccioni), si realizzasse un gap temporale tra il decreto di accettazione delle dimissioni e il decreto di conferimento dell’incarico <90. 
Il cambiamento non è tuttavia passato in sordina tra i costituzionalisti, che ne hanno evidenziato la portata giuridica: infatti, rimuovendo il decreto, si elimina l’unico documento che conferisca un valore giuridico al conferimento dell’incarico. L’intera procedura, dunque, si svolge sotto l’unica responsabilità (quanto meno, sotto un profilo formale) del Presidente della Repubblica. E’ stato sottolineato che il decreto, ancorché retrodatato, rendeva “impegnativo erga omnes” <91 l’atto di conferimento orale dell’incarico, vincolando il Presidente della Repubblica fin dal momento della sua adozione. Parte della dottrina, in particolare, rinveniva proprio nel conferimento dell’incarico il momento del “passaggio di consegne”, e delle relative responsabilità nella gestione del procedimento di formazione del governo, dal capo dello Stato al soggetto incaricato <92. L’eliminazione del decreto avrebbe, conseguentemente, privato il soggetto incaricato dell’autonomia che gli compete nella direzione delle proprie consultazioni e nella formazione della compagine ministeriale <93.
[NOTE]
86 Si ricorda che la legge truffa non opera in queste consultazioni: infatti è stata abrogata con legge 615/1954. Anche in questo caso il Senato viene sciolto anticipatamente. Per la distribuzione dei seggi cfr. ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 12. Cfr. anche G. Mammarella - P. Cacace, op. cit., p. 97.
87 Sulla prassi delle dimissioni dovute dopo le consultazioni elettorali, cfr. L. Elia, Carattere delle dimissioni del Governo Zoli, in L. Elia - M. Bon Valsassina, a cura di, Crisi governative dal giugno 1958 al maggio 1960, in Giurisprudenza costituzionale, anno V, n. 1/1960, Milano, Giuffrè, p. 369, nota 1. Per quanto riguarda gli umori dei partiti dopo la tornata elettorale, il Consiglio nazionale della Dc vorrebbe costituire un governo con Psdi e Pri; il Psi vorrebbe fare un governo di coalizione con la Dc e l’appoggio del Pri, mentre dichiara la propria intenzione a collocarsi all’opposizione rispetto a una compagine bipartita Dc-Psdi e ribadisce il proprio distacco dal Pci; il Pri dichiara di essere pronto ad astenersi nel caso di presentazione alle camere di un governo bipartito Dc-Psdi; il Pci vorrebbe unire le forze in uno schieramento composto da Psi, Psdi e Pri; il Pli vorrebbe formare un governo con Psdi e Pri; il Pnm assume un atteggiamento possibilista nei confronti di ogni governo, nella misura in cui il programma sia gradito al partito; infine, il Msi si dichiara avverso a qualsivoglia apertura a sinistra (cfr. ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 12).
88 Per le dichiarazioni, e il relativo commento, cfr. A.A., Gronchi affida l’incarico a Fanfani e illustra i principi a cui si è ispirato, in Corriere della Sera del 26 giugno 1958, in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 12. Sul mancato gradimento del governo Fanfani da parte del Presidente della Repubblica, cfr. P. Guzzanti, op. cit., p. 99.
89 Il problema della consultazione del presidente del CNEL sorge soltanto adesso, in quanto l’organo viene istituito nel 1957. L’appunto di Gronchi è consultabile in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 12.
90 La spiegazione delle dichiarazioni di Gronchi è fornita dall’Ansa, in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 12. Sulla nuova prassi di conferimento dell’incarico, cfr. L. Elia, La nuova prassi in ordine alle modalità dell’incarico di formare il Governo, in L. Elia - M. Bon Valsassina, op. cit., pp. 370-371. Si ricorda che, nella stessa occasione, Gronchi mette in rilievo la necessità che in Parlamento si discuta della natura e dei limiti della collaborazione del Capo dello Stato nel procedimento di formazione del governo, con particolare riferimento alla fase delle consultazioni (cfr. Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, Servizio archivio storico, documentazione e biblioteca, Discorsi e messaggi del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, Quaderni di documentazione, n. 11, Roma, 2009, p. 218).
91 A. Baldassarre - C. Mezzanotte, op. cit., p. 94.
92 Cfr. L. Elia, Appunti sulla formazione del governo, in Giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1957, pp. 1193 ss. L’autore parla di “doppia situazione di vincolo” creata dal conferimento dell’incarico. Per il Presidente della Repubblica l’incarico si traduce infatti in una pre-costituzione del dovere, in caso di esito positivo delle indagini svolte dall’incaricato, di formulare i decreti di nomina. L’incaricato, d’altro canto, si obbliga a concludere la missione affidatagli. In questa fase, continua Elia, l’incarico deve considerarsi libero e autonomo nella scelta dei componenti del ministero, dovendosi escludere un’interferenza ad opera del Capo dello Stato, nonché qualsivoglia veto o imposizione da parte dei gruppi parlamentari. Interventi di questo genere determinerebbero “una menomazione della figura giuridica dell’incaricato, che è il solo abilitato, costituzionalmente, alla designazione dei membri del ministero” (L. Elia, ivi, p. 1195).
93 Di questo avviso appaiono A. Baldassarre - C. Mezzanotte, op. cit., p. 95, che ravvisano nella modifica della prassi in questione il tentativo di “sbarazzarsi di un accidente formale che deponeva più nel senso della completa autonomia del presidente del Consiglio incaricato che in quello del diritto-dovere, rivendicato da Gronchi, di collaborare alla formazione del governo”. Altri, d’altro canto, hanno messo in luce che questa modifica avrebbe avuto il pregio di semplificare e rendere maggiormente trasparente la procedura (cfr. Franco Bozzini, Logica innovazione, in Corriere della Sera del 24 giugno 1958, in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 12).
Elena Pattaro, I "governi del Presidente", Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2015 

mercoledì 15 ottobre 2025

I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese


Tuttavia, nonostante questo tratto «militare» della resistenza piemontese, la prima formazione che troviamo costituita e stanziata fin dal 12 settembre 1943 fra Valle Gesso e Valle Stura è Italia Libera, composta da una dozzina di civili, azionisti, capeggiati da Duccio Galimberti. Anche loro iniziano la loro avventura partigiana dopo essersi rivolti ad alcuni ufficiali effettivi, e di fronte al rifiuto di guidare la spedizione si pongono come primo obiettivo di organizzarsi solidamente e adeguatamente alla vita in montagna, costituendo il primo nucleo di quelle che saranno le divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese. 
Nel torinese ebbero immediato successo le iniziative del tenente Pompeo Colajanni (Barbato) <89 con un’ottantina di ex militari quasi tutti di origine meridionale. In val Chisone si insediò la banda Sestriere, composta esclusivamente di militari o graduati del corpo degli alpini, comandati dal sergente Maggiorino Marcellin (Bluter) <90. In Valsesia, spostandosi verso la parte orientale della regione, Cino Moscatelli <91 con un gruppo di ventidue ribelli costituì il primo nucleo delle future formazioni garibaldine della zona, mentre e nella val d’Ossola spicca tra i primi organizzatori Filippo Beltrami <92, che trasforma gli sbandati della zona in una formazione efficiente.
Gli sbandati della IV Armata si concentrano invece nella zona di Boves, presso Cuneo; spesso sono ancora in divisa. Fra loro troviamo un buon numero di ufficiali effettivi, si favoleggia di un imminente sbarco alleato in Liguria e di divisioni alpine ancora intatte e attestate sui monti; ma il 19 settembre di fronte all’attacco tedesco ogni illusione svanisce, la resistenza resta affidata a un pugno di uomini capeggiati da pochi ufficiali subalterni, tra cui si distingue il sergente Ignazio Vian <93; i tedeschi, sorpresi dal contrattacco, sfogano la loro rabbia sulla popolazione di Boves, incendiando l’intero paese e uccidendo 24 persone. 
Questa prima fase si può definire «ribellistica», e consiste in un periodo di assestamento e di chiarificazione che perdura fino al dicembre del 1943, favorita dall’inerzia delle truppe nazifasciste. La reazione contro i primi nuclei partigiani è infatti particolarmente lenta, nella convinzione che si sarebbe dileguata ben presto «questa assurda velleità di voler combattere senza armi e senza mezzi contro il più potente esercito del mondo» <94. Questi primi sparuti gruppi di resistenti «in divisa» invece diedero origine alle prime formazioni autonome piemontesi, subendo massicce operazioni di rastrellamento tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1944: i tedeschi miravano infatti «a ripulire dai partigiani le vallate piemontesi» <95, segno che erano diventata una minaccia da neutralizzare. 
I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese, basate su forme elementari di resistenza delle bande, abbarbicate sulle posizioni di montagna e incapaci di manovra. Pareva impossibile dare vita a un esercito partigiano, ritenendo necessario limitarsi a un’opera organizzativa dei suoi quadri futuri e sciogliendo momentaneamente le formazioni e privilegiando la guerriglia con piccole squadre di sabotatori. 
Questa tesi venne esposta nel convegno di Valle Pesio, alla fine di gennaio: "Là un ufficiale che era stato fra i più brillanti esponenti della banda di Boves sosteneva che, visti i risultati del primo esperimento, bisognava abbandonare l’idea di costruire o mantenere delle formazioni numerose, composte in prevalenza da «uomini»: secondo lui la miglior cosa sarebbe stata formare dei piccoli nuclei di sabotatori e di terroristi, composti esclusivamente di ufficiali, con al massimo qualche uomo per i bassi servizi. Questa idea (condivisa del resto da molti anche altrove, specie fra i «militari») trovò largo seguito fra i presenti al convegno, ma i politici la contrastarono decisamente: la guerra partigiana doveva essere la guerra del popolo italiano; per quanto possibile  essa doveva essere impostata e mantenuta su basi e in termini tali da interessare e coinvolgere il maggior numero di persone". <96 
I primi difficoltosi passi nella guerra di liberazione evidenziano una prima differenziazione nel fronte dei «ribelli»: da una parte vi sono gli ufficiali effettivi che pur avendo intrapreso la guerriglia continuavano ad essere legati a una concezione legalitaria della guerra, convinti che occorresse affrontare la problematica della preparazione delle «reclute» <97 nella convinzione che ogni azione, se poteva ottenere risultati bellici irrisori, rischiava soprattutto di mettere a repentaglio la sicurezza delle popolazioni. Dall’altra parte invece vi era l’ala politica dei sostenitori della «guerra per bande», dei ribelli il cui nome «corrisponde alla realtà di fatto, indica la funzione ancora polemica o di eversione violenta di ogni struttura tradizionale che i primi partigiani si sono assunta» <98. 
La primavera del 1944 portò con sé anche una nuova consapevolezza da parte nemica: la ribellione andava stroncata sul nascere con un’offensiva a vasto raggio, caratterizzata dal contemporaneo sfondamento frontale e dall’aggiramento sulle ali, al fine di non lasciare scampo all’avversario. Al 7 marzo l’operazione investì le valli di Lanzo, al 13 si spostò in Val Casotto, successivamente in Val Varaita. Nella Val Casotto, dove era stata adottata la tattica della difesa rigida frontale, i volontari subirono un rovescio senza precedenti, perdendo i due terzi degli uomini, e solo una esigua schiera di superstiti al comando del capitano Enrico Martini (Mauri) riuscì a rompere l’accerchiamento e a riparare nelle Langhe. In Val Varaita e in Val di Lanzo le perdite furono minori, ma le bande uscirono dagli scontri disarticolate e scosse.
Nonostante la «batosta» primaverile, l’attività di organizzazione andava via via migliorando, le formazioni e le bande andavano adottando strutture di comando più vicine a quella profilata dal Comitato, pur mantenendo alcuni caratteri originali. Il Comitato Militare gettò le basi, tra il gennaio e il marzo del 1944, del Corpo dei Volontari della Libertà piemontese, nonostante si profilasse all’orizzonte una ulteriore battuta di arresto per l’attività cospirativa: la mattina del 1 aprile il comitato doveva riunirsi nella sacrestia del Duomo di Torino, ma forze imponenti di polizia e di agenti circondarono i dintorni e i cospiratori furono fermati uno ad uno. A seguito di un processo la cui sentenza era evidentemente già scritta la mattina del 5 aprile otto membri del Comitato vennero fucilati, e con la loro morte segnarono la dispersione di un patrimonio di contatti e piani intessuti in quei mesi.
Tuttavia il movimento partigiano si riprese prontamente, il comitato fu ricostituito, anche se ritoccato sulla base della rappresentanza delle varie correnti politiche <99, ereditando dal comitato del generale Perotti una situazione di maggiore concordia e unità d'intenti.
Nonostante colonne di migliaia di uomini avessero battuto le valli alpine e martellato le formazioni garibaldine e Giustizia e Libertà del cuneese non le avevano fiaccate; le bande della Val di Lanzo, temporaneamente ricacciate in alto, ritornavano ad assalire convogli e presidi nemici; quelle delle valli Pellice e Chisone e del Biellese si ingrossavano spostandosi verso la pianura; i volontari di Mauri operavano e crescevano nelle Langhe; in valle Maira, valle Stura e val di Gesso le formazioni GL avevano resistito asserragliate sulle cime tra Italia e Francia.
Stava spuntando «l’estate partigiana», e la caduta di Roma diede un’ulteriore accelerazione al processo di espansione delle formazioni partigiane e all’evolversi dell’organizzazione militare dei resistenti dell’Alta Italia. Il 25 luglio il CLNRP emanò le norme sulla «Costituzione e funzionamento dei Comitati di Liberazione Nazionale periferici» <100, che se da una parte testimoniano come la fase ribellistica e spontanea si fosse esaurita, dall’altra inquadrano chiaramente le necessità organizzative, strutturali e disciplinari della guerra di liberazione. Le disposizioni erano caratterizzate dal desiderio di capillarità dell’organizzazione: vi sono indicazioni per la costituzione di comitati provinciali, cittadini, rionali, nonché per la costituzione di comitati di lavoratori nelle fabbriche e negli uffici pubblici; si propone la nomina di Prefetti e Commissari di polizia, e la costituzione di Giunte e Assemblee Popolari che eleggano sindaci e Assemblee Popolari comunali. Il CLN della Regione Piemonte si era mosso dal piano puramente morale fino ad esercitare una vera e propria funzione di governo, proponendosi di svuotare dall’interno le istituzioni repubblichine, minandone ulteriormente le già fragili fondamenta.
[NOTE]
89 Pompeo Colajanni, comandante Nicola Barbato 1906-1987. Già negli anni Venti, giovane comunista, si adoperò per la costituzione di un fronte unitario antifascista del quale facevano parte giovani repubblicani, socialisti, anarchici e comunisti e che per quest’attività subì arresti e perquisizioni. Ufficiale di complemento di cavalleria durante la seconda guerra mondiale, subito dopo l’8 settembre del 1943 organizzò in Val Po, presso Borgo San Dalmazzo, con i suoi soldati, altri ufficiali e civili, una delle prime bande partigiane (il distaccamento garibaldino "Pisacane"), da cui si sarebbero poi sviluppate, brigate, divisioni e raggruppamenti di divisioni. Il nome di "Barbato", divenuto comandante della VIII Zona (Monferrato) e vicecomandante del Comando militare regionale piemontese, divenne presto leggendario per le imprese delle formazioni al suo comando e per la competenza militare. Nell’approssimarsi dell’insurrezione generale ebbe il compito di investire e liberare Torino, coordinando le formazioni Garibaldi, GL, Matteotti e Autonome. Il mattino del 28 aprile Torino era completamente liberata e Colajanni veniva designato vicequestore. Pochi mesi dopo "Barbato" era sottosegretario alla Difesa nel governo Parri e lo fu anche nel primo governo De Gasperi. Sino alla sua scomparsa Colajanni non cessò mai l’attività politica: consultore nazionale, membro della Camera dei deputati, membro del Comitato centrale del PCI, deputato regionale in Sicilia, vice presidente dell’Assemblea siciliana, segretario delle federazioni comuniste di Enna e di Palermo, consigliere nazionale dell’ANPI, attivo nel Consiglio nazionale della pace. 
90 Maggiorino Marcellin, nato a Pragelato (Torino) il 16 luglio 1914, deceduto a Sestriere (Torino) nel 2001, maestro di sci, Medaglia d’argento al valor militare. Di umili origini - montanari poverissimi, padre di antica militanza socialista - aveva dovuto emigrare in Francia durante il regime fascista, dovendo presto abbandonare la scuola per cogliere le occasioni d’occupazione che gli si offrivano. Allorché i suoi tornarono in Italia, Maggiorino trovò prima lavoro negli alberghi del Sestriere poi, quando nella località turistica si costituì la scuola di sci che sarebbe diventata famosa, divenne maestro di sci. Questo non gli impedì di tornare spesso, clandestinamente, in Francia, dove - a Cannes e a Lione - aveva mantenuto contatti con i circoli degli emigrati antifascisti. Al ritorno da uno di questi viaggi, Marcellin fu arrestato e, per evitare guai maggiori, si risolse ad arruolarsi negli Alpini. Tra richiami e punizioni per le sue posizioni antifasciste riuscì, soprattutto per la sua abilità di sciatore, a diventare sottufficiale. Partecipò con il 3° Alpini alle operazioni belliche in Francia e in Grecia. Rimpatriato per una ferita, Marcellin fu denunciato e arrestato per propaganda antifascista. Non fu processato perché intervennero i suoi superiori, che non volevano privarsi di un sergente maggiore così bravo a insegnare a sciare agli alpini. Sopraggiunto l’armistizio, Marcellin, diventato "Bluter", riuscì subito a raccogliere nuclei partigiani locali e poi a svilupparli, dando vita alla I Divisione autonoma "Val Chisone". Questa sarebbe poi diventata, al comando di "Bluter", la 44a Divisione Alpina Autonoma "Adolfo Serafino”. Ferito due volte in scontri con i nazifascisti, "Bluter" è stato decorato, oltre che con la Medaglia d’argento, anche della Bronze Star alleata. Dopo la Liberazione ha continuato, per molti anni, a fare il maestro di sci al Sestriere. 
91 Vincenzo Moscatelli (Cino) nacque a Novara il 3 febbraio 1908. Comunista e antifascista, continuò la sua attività nel partito durante il regime. Il 26 luglio 1943, giorno successivo alla caduta del fascismo, improvvisò a Borgosesia una manifestazione popolare e, nei quarantacinque giorni del governo Badoglio, riprese a dirigere il movimento antifascista in Valsesia, ristabilendo i contatti con le fila dell'organizzazione. Dopo l'8 settembre fu tra i promotori del Comitato valsesiano di Resistenza (il futuro Cln) e svolse subito, impegnando tutti i suoi risparmi, un'intensa attività per l'organizzazione degli sbandati e della guerriglia, contro le forze che la Repubblica di Salò andava riorganizzando, a fianco dell'esercito di occupazione. Per i meriti acquisiti nella lotta partigiana, Moscatelli fu congedato con il grado di tenente colonnello e gli vennero conferite la medaglia d'argento al valor militare e due croci al merito di guerra. Dopo la Liberazione venne designato sindaco di Novara dal Cln. In seguito, dopo essere stato membro della Consulta nazionale, che doveva preparare l'elezione dell'Assemblea Costituente, e fu parlamentare in più occasioni. Morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Per la biografia completa si veda il sito web dell’Istituto per la Storia della Resistenza di Biella e Vercelli, www.storia900bivc.it 
92 Filippo Beltrami, nato a Cireggio (Novara) nel 1908, caduto a Megolo (Novara) il 13 febbraio 1944,  architetto, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria. Il primo riconoscimento, in qualche modo   ufficiale, dell’esistenza nell’Italia occupata di un movimento partigiano, che preoccupava i nazifascisti, è comparso il 29 dicembre 1943 su La Stampa. In un articolo intitolato "I cavalieri della macchia" firmato da Concetto Pettinato, sul giornale torinese si ironizzava a proposito di un "artista lombardo" e di sua moglie, scorrazzanti in Val d'Ossola. Quell’"artista lombardo" era Filippo Beltrami, che sarebbe morto in combattimento un mese e mezzo dopo, cadendo con altri dodici compagni, tra i quali Gianni Citterio, Antonio Di Dio e Gaspare Pajetta. All’epoca capitano d’artiglieria, l’8 settembre del 1943 Beltrami si era trasferito, con moglie e figli, da Milano a Cireggio, in una villa di famiglia. Noto nella zona per le sue idee antifasciste, l’architetto fu ben presto avvicinato da alcuni giovani comunisti che, con un gruppetto di militari sbandati, avevano costituito una formazione partigiana sopra Quarna. Gli offrirono di comandare la piccola banda e il capitano accettò. A dicembre il gruppo contava già oltre duecento effettivi le cui azioni, come dimostrò indirettamente l’articolo su La Stampa, cominciarono a diventare un serio problema per le forze d’occupazione. Per questa ragione il Comando tedesco di stanza a Meina, approfittando del fatto che, nel corso delle ultime azioni, i partigiani di Beltrami erano stati duramente provati, decise di proporgli una sorta di salvacondotto per sgombrare dalla zona. Un colloquio tra il comandante partigiano e quello tedesco, Simon, si concluse con una frase di Beltrami, sferzante come quelle della lettera cheaveva spedito a Pettinato dopo la pubblicazione dell’articolo: "…qui siamo a casa nostra, siete voi che dovete andarvene". Il giorno dopo l’incontro, i tedeschi attaccarono di sorpresa e con forze soverchianti la base partigiana di Megolo, che fu occupata soltanto quando i partigiani di Beltrami caddero ad uno ad uno o finirono le munizioni.
93 Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca. Raccolti attorno a sé circa 150 uomini, ne assunse il comando costituendo una delle prime formazioni partigiane e, contrariamente ad altri gruppi che avevano scelto di attendere, cominciò subito la guerriglia. Il 19 settembre la formazione di Vian venne duramente impegnata in combattimento dalle SS del maggiore Joachim Peiper, che avrebbe poi perpetrato la strage di Boves (uccisi 32 paesani inermi e incolpevoli, rase al suolo 44 case, nonostante Peiper si fosse impegnato a non effettuare rappresaglie dopo la restituzione di due SS catturate dai partigiani). Per oltre dodici ore i patrioti resistettero all’attacco nemico, condotto con l’appoggio dell’artiglieria. Mentre Boves bruciava e vi veniva commesso l’eccidio, Vian raggiunse la Val Corvaglia. Alla sua banda affluirono altri volontari, così da raggiungere la forza di una Brigata che continuò, senza tregua, la guerriglia. Nel marzo del 1944, i partigiani di Vian si unirono alle formazioni di Martini "Mauri" e il giovane tenente assunse la responsabilità di comandante in seconda del 1° Gruppo Divisioni alpine degli "Autonomi". In missione a Torino, il 19 aprile del 1944, il comandante partigiano cadde in mano dei nazifascisti. Venne ripetutamente torturato perché rivelasse nomi e luoghi della Resistenza, ma non cedette. Nel timore di non poter più resistere, dopo settimane di torture, si svenò nel carcere. Fu curato e tre mesi dopo l’arresto, quando a malapena riusciva a reggersi in piedi, i nazifascisti lo impiccarono a un albero nel centro di Torino. 
94 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 190.
95 Ibid, pp.204-205.
96 D. L. BIANCO, Venti mesi di guerra partigiana nel cuneese, Cuneo, Panfilo, 1946, p. 63.
97 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana,  cit., p. 190. Questo tratto è comune alla preoccupazione che sembra emergere dalla bozza dell’ordine scritto dal comandante Malerba in merito all’arruolamento, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Resistenza, fasc. 10.
98 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana,  cit, p. 188.       
99 Facevano parte del ricostituito Comitato militare il maggiore Gonella e Carlo Marsaglia per il PLI, Maurizio Fracassi per la DC, Pittavino per il PSI, Galimberti per il Pd’A, Pratolongo per il PCI. Inoltre vi erano, in qualità di consulenti militari, il generale Alessandro Trabucchi (Alessandri), il generale Carlo Drago (Nito), il maggiore Creonti  e il colonnello Contini (Elle). Cfr M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, cit., p. 100. 
100 Il testo completo è riportato in Bollettino ufficiale degli Atti del CLN. Giunta Regionale di Governo del Piemonte, decreto n. 7 del 25 luglio 1944, pp.6-9, citato in M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale,  cit., p. 129.

Lodovico Como, Dall'Italia all'Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009-2010

giovedì 9 ottobre 2025

Facce scure in casa socialista


Le ultime ore di campagna elettorale [elezioni politiche del 1976] scivolano veloci anche a Via del Corso [sede centrale del PSI]. Una campagna elettorale particolarmente difficile, spiega Bettino Craxi, «schiacciati come siamo dai due maggiori partiti del Paese e decisi invece a difendere questa nostra posizione autonoma che non si rassegna ad essere ausiliaria né della Dc né del Pci» <334. Francesco De Martino forse non coglie il fatto che la ribadita autonomia dal Pci, pronunciata apertamente dal suo vice a Via del Corso, rischia di trasformarsi agli occhi dell’elettorato «in un pericoloso ritorno al frontismo, anche se nel nuovo scenario del compromesso storico» <335. Rispetto agli anni del Patto d’Azione, però, oggi il Psi è «l’ago della bilancia in quanto non possibile alcuna soluzione di governo senza i socialisti, tenuto conto dei rapporti di forza che ci sono in Italia» <336. E così, rispondendo ai giornalisti che lo incalzano in televisione, il segretario socialista spiega: «la politica di centro-sinistra per noi è finita e nessuno può illudersi che sarà ripresa dopo le elezioni, qualunque sia il risultato del voto. Pensiamo che sia nell’interesse del sistema democratico in Italia, in particolare nell’attuale momento, associare alla responsabilità della maggioranza governativa il Pci. Di conseguenza, ovviamente, non riteniamo possibili per noi altre soluzioni di governo che siano al di fuori di questa visione» <337.
Volendo sintetizzare, non sfugge che negli ultimi mesi i socialisti hanno parlato di rapporto preferenziale con la Dc, di fine del centro-sinistra, di alternativa, di governo delle sinistre, di governo di emergenza e, ultimo in ordine di tempo, addirittura di monocolore socialista. Una girandola, una sovrapposizione di formule e di proposte politiche che non fa che trasformare la campagna del Psi in una «propaganda scandita da slogan indecifrabili» <338 alla gran parte del corpo elettorale. Lo stesso proposito di includere i comunisti nell’area governativa, annota Gianfranco Bettin, ripetuto a poche ore dal voto dal segretario socialista di fronte a milioni di telespettatori, non può che avere drastiche conseguenze: «una parte dell’elettorato socialista, il cosiddetto elettorato di area, ma probabilmente anche frange di militanti che non gradiscono gli avvicinamenti del Psi alla Dc, voterà per il Partito Comunista» e «un’altra parte dell’elettorato filosocialista, che vuole però una netta separazione dal Pci, si allontanerà dal Psi votando per altre formazioni» <339.
Eppure i socialisti continuano fino all’ultimo a sperare nella benevolenza degli elettori, in un pronunciamento degli italiani che consenta quantomeno al partito di riequilibrare il successo comunista dell’anno precedente. «Le elezioni del 1976 - scrive Alessandro Pizzorno - furono vissute in un clima di straordinarietà ed entusiasmo. Molti pensavano che sarebbero state risolutive per le immobilità e le impotenze del sistema politico italiano. […] L’entusiasmo con cui si partecipa alle elezioni del ’76 sembra esprimere un estremo moto di speranza. Si vuol tornare a credere nella possibilità di una direzione politica che faccia finalmente uscire l’Italia dal marasma» <340.
Il dato che appare subito evidente, all’indomani del 21 giugno, è il forte recupero della Democrazia Cristiana, l’ulteriore avanzata comunista ed il tracollo dei partiti laici minori341. I risultati elettorali premiano il partito cattolico, che raggiunge quota 38.7%, stessa percentuale di voti ottenuta nelle politiche del 1972, con un aumento del 3.2% rispetto alle amministrative dell’anno precedente. Il tanto temuto sorpasso comunista non avviene: nonostante la straordinaria crescita del partito di Berlinguer, che tocca il valore percentuale più alto della sua storia elettorale (il 34.4%) <342, lo Scudo crociato conserva il suo primato, la «distanza di sicurezza» - come scrive Moro in una lettera agli elettori del suo collegio - rispetto a Botteghe Oscure. Piazza del Gesù beneficia, in particolare, del netto declino delle forze intermedie e dello stesso calo dei missini <343. Con riferimento al voto del giugno 1975, Psdi, Pli e Msi perdono rispettivamente il 2.2%, l’1.2% e lo 0.7% dei suffragi. Il Partito Repubblicano ha un calo irrisorio rispetto alle amministrative (le liste dell’edera perdono lo 0.2%) ma è l’unica forza dell’area laico-socialista che, oltre «a non subire le pesanti perdite accusate da tutti i partner di governo della Dc» <344, registra un lievissimo aumento (ancora lo 0.2%) rispetto alle politiche del 1972 <345.
Facce scure in casa socialista. I toni fiduciosi e trionfalistici della vigilia lasciano spazio allo sbandamento ed alla delusione mentre sono ancora in corso le operazioni di scrutinio: il Psi rimane fermo al minimo storico, quel 9.6% già toccato quattro anni prima.
[...] L’interpretazione di queste elezioni non lascia spazio ad equivoci: il voto accentua i connotati bipolari del sistema politico italiano e consegna al Paese due vincitori <350: Dc e Pci totalizzano congiuntamente il 73.1% dei voti, conquistando il 77.8% della rappresentanza parlamentare complessiva (in termini di seggi alla Camera). I due “partiti Chiesa” <351 raccolgono voti in maniera speculare in termini geografici e rispetto alle caratteristiche sociologiche. Il voto democristiano, oltre che interclassista, sembra diventato un voto periferico, espressione degli strati sociali più poveri e più lontani dai processi di industrializzazione e urbanizzazione <352. Botteghe Oscure, oltre a confermare la capacità di presa sull’elettorato giovanile, registra un’omogeneizzazione geografica della propria presenza grazie ad una forte crescita al Sud <353.
La fisionomia bipolare del quadro politico non risolve tuttavia il problema della governabilità del Paese: «in concreto, le difficoltà di aggregare le forze necessarie alla formazione del governo appaiono enormi sia per la Dc sia per il Pci» <354. La nuova composizione del Parlamento rende impossibile un ritorno al centrismo, cui mancano ormai i numeri necessari. E l’indisponibilità dei socialisti non consente neppure al partito cattolico di ripercorrere la strada del centro-sinistra. Per questioni numeriche appare irrealizzabile anche un governo delle sinistre. E la possibilità di una più larga coalizione laica e progressista con il Pci a fare da perno, è sconfessata alla luce dei rapporti politici esistenti <355. Lo stesso De Martino, in un commento a caldo, appare categorico: «secondo me, l’accentuarsi di una sproporzione di forze tra socialisti e comunisti non è un fatto positivo» <356.
All’indomani del voto - scrive Arturo Gismondi - due frasi di Berlinguer spiccano su tutte, quasi a definire quale sarebbe stata la linea politica e la proposta di Botteghe Oscure per la legislatura. La prima: «In questa Dc esiste una componente popolare e antifascista sulla quale continueremo a far leva». La seconda: «Si apre la prospettiva delle più ampie convergenze fra le forze popolari» <357.
Il risultato elettorale, insomma, alimenta le prospettive dell’incontro tra cattolici e comunisti, forti ma entrambi prigionieri dei partiti minori, aprendo la strada agli sviluppi consociativi degli anni successivi <358. Da questo momento, tutta la vicenda politica degli anni fra il 1976 e il 1978 verrà vissuta dal gruppo dirigente del Pci e da quello della Dc come «questione esclusiva dei due grandi partiti di massa, verso cui il dovere “democratico” degli altri partiti, in primo luogo del Psi, era quello d’inserirsi e di adeguarsi senza sollevare troppe questioni e obiezioni» <359.
[NOTE]
334 “Avanti!”, 19 giugno 1976. Sono interessanti le parole che Craxi, sotto forma di lettera, rivolge agli elettori del collegio Milano-Pavia nel quale, dopo l’elezione del 1972, si ripresenta candidato per la Camera: «[…] Ho lavorato sodo in questi anni. Credo di non aver demeritato la vostra fiducia. Ho concluso molto meno di quello che avrei voluto. Benché abbia sempre avuto l’appoggio di compagni eccellenti e generosi, ho trovato lungo la strada molti ostacoli, avversari agguerriti, e gente di cattiva fede. E tuttavia, le idee per le quali ci battiamo avanzano sia pure tra grandi difficoltà e sono destinate ad avanzare e così pure le possibilità di creare in Italia un grande partito socialista di tipo europeo. [...] La Dc - scrive Craxi - tenta disperatamente di difendere il suo potere agitando lo spettro del comunismo. A sinistra però, non c’è solo il partito comunista. A sinistra c’è anche e soprattutto il Psi, forza tradizionale della democrazia, del progresso, della libertà. Spero di poter contare ancora su di voi, sulla vostra amicizia, sul vostro appoggio politico e fra alcuni giorni, il 20 giugno, sul vostro voto [...]». Si tratta di un dattiloscritto di Bettino Craxi, privo di data ma che ovviamente si riferisce al voto del 20 giugno 1976, conservato negli Archivi della Fondazione Craxi, Fondo Bettino Craxi, Sezione I: Attività di partito, Serie Partito Socialista Italiano (1965-1976).
335 Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 17.
336 Cfr. il resoconto della Conferenza stampa di Francesco De Martino a “Tribuna elettorale” il 14 giugno 1976, in “Avanti!”, 15 giugno 1976.
337 Ivi. Antonio Landolfi scrive che tutta l’Italia ebbe da quelle parole, pronunciate da De Martino in televisione, «la netta convinzione che il Psi non era più un protagonista della politica italiana. Che suo compito era ormai quello di “tirare la volata” al Pci», cfr. A. Landolfi, Storia del Psi, cit., p. 333.
338 Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 17. Cfr. anche P. Mieli, La crisi del centro-sinistra, l’alternativa, il «nuovo corso» socialista, cit., p. 251.
339 Cfr. G. Bettin, Il Psi e il trend plebiscitario, cit., p. 29.
340 Cfr. A. Pizzorno, Le trasformazioni del sistema politico italiano 1976-1992, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Einaudi, Torino, 1997, pp. 303 - 344, in part. pp.303 e 311.
341 Per un’analisi approfondita del voto del 20 e 21 giugno 1976 si vedano: i saggi raccolti in A. Parisi, G. Pasquino (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia. Le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, Il Mulino, Bologna, 1977; P. Corbetta et al. , Elezioni in Italia: struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Il Mulino, Bologna 1998; M. Caciagli, A. Spreafico (a cura di), Vent’anni di elezioni in Italia 1968-1987, Liviana, Padova, 1990; C. Ghini, Il voto degli italiani, 1946-1976, Editori Riuniti, Roma, 1976; M.S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 ad oggi, Laterza, Roma - Bari, 1995; A. Parisi, Mobilità senza movimento, Il Mulino, Bologna, 1980; G. Martinotti, Le tendenze dell’elettorato italiano, in A. Martinelli, G. Pasquino (a cura di), La politica nell’Italia che cambia, Feltrinelli, Milano, 1978.
342 Il Partito Comunista raggiunge il 34.4%, con un balzo di 7.2 punti sul totale dei voti rispetto al 1972. In soli quattro anni il Pci accresce la sua forza, in termine di consensi, più che nel quarto di secolo fra il ’48 e il ’72, Cfr. G. Are, Radiografia di un partito. Il Pci negli anni ’70: struttura ed evoluzione, Rizzoli, Milano 1980, pp. 16 - 19. Simona Colarizi precisa che la nuova immagine del Partito Comunista - rivoluzionaria e riformista al tempo stesso - «fa presa anche su un nuovo elettorato di ceto medio, emerso dalla rivoluzione degli anni Sessanta con forti connotati democratici e progressisti», cfr. S. Colarizi, L’area laico socialista, in in F. Malgeri e L. Paggi (a cura di), Partiti e organizzazioni di massa, cit., p. 126. Per Ernesto Galli della Loggia «l’ultimo velo è caduto, l’anticomunismo è finito ed il partito comunista partecipa virtualmente al governo del paese». Lo studioso non manca però di notare il paradosso determinato dal risultato elettorale: «L’anticomunismo è dunque finito ma è finito in bellezza, con un indiscusso successo della Democrazia Cristiana. Nulla di più naturale, perché se è vero che a causa della strategia seguita da sempre dal Pci è morto l’anticomunismo ideologico, invece tuttora ben vivo e vegeto l’anticomunismo antiriformistico, l’anticomunismo degli interessi, quello che ha nella Dc il suo baluardo. E proprio perché anticomunismo degli interessi, anticomunismo politico-pratico, è questo anticomunismo quello che può - e da un punto di vista storico generale forse deve - stipulare l’accordo col partito comunista, così come è proprio con questo anticomunismo che i comunisti hanno più interesse a scendere a patti. Ma già vedere le cose in questi termini non solo distrugge ogni compiaciuta ipotesi di “bipolarismo” (che razza di bipolarismo è quello che mette capo a un accordo tra i due “poli”?) ma vale altresì a mettere in una certa crisi, fin dalle premesse, l’idea che il vero significato del “compromesso storico” sia quello di essere una politica di riforme. La situazione è più aggrovigliata», E. Galli della Loggia, Una vittoria tra fallimenti e compromessi, in “Il Leviatano”, luglio - ottobre 1976.
343 Per Arnaldo Forlani «la Democrazia Cristiana si era salvata divorando i suoi figli, ossia sottraendo voti a quei partiti di centro che fungevano da cuscinetto tra il partito di maggioranza relativa e la sinistra». Cfr. I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo (1965-1978), cit., p. 158. Per A. Parisi e G. Pasquino la ripresa democristiana appare un elemento congiunturale. Il recupero dello Scudo crociato scrivono i due studiosi «avviene non grazie alla riconquista del tradizionale elettorato democristiano, cioè di quei settori spostatisi a sinistra tra il 13 maggio 1974 e il 15 giugno 1975, ma in seguito alla conquista di un elettorato “nuovo” sostanzialmente a scapito delle forze laiche intermedie […]. In sostanza, è stato possibile alla Democrazia Cristiana arrestare momentaneamente il declino, come è avvenuto congiunturalmente, ma è molto improbabile che la tendenza venga capovolta nel futuro prossimo», cfr. A. Parisi, G. Pasquino, 20 giugno: struttura politica e comportamento elettorale, in Idd. (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia, cit., pp. 11-65. Si veda anche R. Ruffilli, La Democrazia Cristiana nella crisi dei partiti, in AA. VV., La Democrazia Cristiana degli anni ’80 tra crisi dei partiti e domande della società civile, Cinque Lune, Roma, 1981, p. 147; F. Malgeri, La Democrazia Cristiana, in F. Malgeri e L. Paggi (a cura di), Partiti e organizzazioni di massa, cit., p. 53; S. Fontana, L’identità minacciata. La Democrazia Cristiana da Moro a De Mita, Sugarco, Milano, 1986, p. 22.
344 Cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 441.
345 Lo stato d’animo dei repubblicani può essere sintetizzato da una nota della segreteria del 23 giugno 1976: «[…] La polarizzazione attorno alla Dc e al Pci e le posizioni dei due partiti accentuano la radicalizzazione della lotta politica e quindi il rischio dell’ingovernabilità . […] Da qui la necessità di ricercare in maniera concreta e in aderenza ai problemi, le vie per il superamento della crisi», cfr. “La Voce Repubblicana”, 24 giugno 1976.
350 Cfr. P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., p. 633; cfr. anche A. Ronchey, Accadde in Italia, 1968-1977, Garzanti, Milano, 1977, p. 128.
351 La teoria delle “due Chiese” viene esposta per la prima volta da Roberto Guiducci all’indomani delle amministrative del 1975: cfr. Le elezioni e le due Chiese, “Corriere della Sera”, 21 giugno 1975.
352 Cfr. B. Bartolini, Insediamento subculturale e distribuzione dei suffragi, in A. Parisi, G. Pasquino (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia, cit., p. 137.
353 Cfr. G. Sani, Le elezioni degli anni Settanta: terremoto o evoluzione, ivi, pp. 67 - 101.
354 Cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 470.
355 «Psdi e Pri - scrive Simona Colarizi - non hanno sciolto la pregiudiziale anticomunista, anche se il loro atteggiamento si è notevolmente ammorbidito», Ivi, p. 470.
356 “Avanti!”, 23 giugno 1976.
357 Cfr. A. Gismondi, Alle soglie del potere. Storia e cronaca della solidarietà nazionale: 1976-10:06 09/10/20251979, Sugarco, Milano, 1986, p. 67.
358 Cfr. A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, cit., p. 177. Si veda anche P. Scoppola, La Repubblica dei partiti, cit., p. 390.
359 Cfr. F. Cicchitto, Il Psi e la lotta politica in Italia dal 1976 al 1994, Spirali/Vel, Milano, 1995, p. 38.
Andrea Spiri, Le trasformazioni del Psi e i mutamenti del sistema politico italiano (1975-1981), Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2007