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venerdì 25 luglio 2025

Nella stesura della Costituzione emersero delle divergenze su alcuni temi che interessavano il ruolo delle donne


Liberata Milano, nell’Aprile del 1945 si concludeva la Seconda Guerra Mondiale. Bisognava riorganizzare una nazione distrutta economicamente, socialmente e urbanisticamente: in pratica, si doveva ricostruire l’Italia. Uomini e donne dovettero lasciare le armi e dedicarsi alla riedificazione della propria patria, a prescindere da uno specifico colore politico. Per questi motivi, anche le donne desiderarono adoperarsi per il Paese, ma in quell’occasione non volevano più incarnare soltanto l’immagine delle madri o delle mogli, bensì impegnarsi attivamente al miglioramento delle condizioni economiche della propria famiglia.
Il primo diritto reale che la nuova Italia riconobbe alle sue cittadine fu il diritto di voto. Mentre parte del Nord Italia era ancora occupato a combattere per la Liberazione, il 1° febbraio 1945 il governo provvisorio Bonomi II, grazie al decreto legislativo luogotenenziale n. 23, sancì questo fondamentale diritto che era già prassi in altri paesi. Antesignani nel suffragio femminile universale furono la Nuova Zelanda (1893) e la Finlandia (1906), ma molte nazioni europee come il Regno Unito o l’URSS lo legalizzarono subito dopo la Prima Guerra mondiale. Nello stesso anno dell’Italia, introdussero il suffragio universale anche la Francia, il Giappone e Taiwan. Prima del 1945 c’erano stati altri tentativi di allargare alle donne il diritto di voto in Italia, il primo dei quali risale addirittura al 1875, grazie all’iniziativa parlamentare di Salvatore Morelli <1. Morelli fu il precursore italiano delle battaglie femministe: infatti si batté per equiparare la posizione giuridica della moglie con quella del marito, proponendo l’uguaglianza fra i coniugi e redasse un disegno di legge sul divorzio e sul suffragio femminile. A parte Morelli, ci furono altri tentativi precedenti al decreto luogotenziale del 1945 per equiparare giuridicamente uomo e donna. Il parlamentare lucano Francesco Saverio Nitti nel 1919 <2 propose in Parlamento l’allargamento del diritto di voto, ma la sua iniziativa non venne mai discussa o votata. A Fiume, sotto la reggenza del Carnaro, si arrivò a una sostanziale parità fra uomo e donna, come riconosciuta dalla Carta dannunziana, ma gli eventi del Natale di Sangue portarono a termine l’ardito esperimento <3. Infine, durante il fascismo sembrava che il regime avesse intenzione di concedere tale diritto universale, ma concesse soltanto il suffragio nelle elezioni amministrative. Si parlò, infatti, di “ultima farsa” o di “Mussolini e la beffa del voto alle donne” <4.
Così il 2 Giugno 1946 cittadini e cittadine finalmente votarono. Su 22 milioni di elettori, 12 milioni erano donne e 21 vennero elette per la stesura della Costituzione e cinque di loro entrarono a far parte della “Commissione dei 75”: Maria Federici, Teresa Noce, Lina Merlin, Angela Gotelli e Nilde Iotti. Queste donne avevano estrazione politica e sociale molto diversa: c’era chi afferiva alle fila della DC e chi invece proveniva dalle province rosse dell’Emilia-Romagna ed era iscritta nelle liste del PSI. Ciò che le accomunava era la loro origine, poiché provenivano tutte dal Nord Italia. Nella stesura della Costituzione emersero delle divergenze su alcuni temi che interessavano il ruolo delle donne, tra cui il tema del lavoro. Per la scrittura dell’art. 51, quello riguardante la libertà di intraprendere una carriera lavorativa, alcuni esponenti della Costituente volevano inserire nel testo la dicitura “tutti i cittadini d’ambo i sessi possono accedere agli uffici pubblici conformemente alle proprie attitudini”, attuando quindi una discriminazione vera e propria <5. Grazie all’intervento di Maria Federici si riuscì ad impedire che una barriera culturale potesse essere regolamentata a rango costituzionale: “Noi vediamo in questa formulazione due barriere che desideriamo siano abbattute. La dizione «conformemente alle loro attitudini» ci è sembrata pleonastica, perché non solamente per le carriere o per le cariche elettive, ma per tutte le manifestazioni del lavoro si deve verificare la possibilità che chi lavora segua la propria attitudine. Questo evidentemente è un principio fondamentale. [...] Poiché le attitudini non si provano se non col lavoro, escludere le donne da determinati lavori significherebbe non provare mai la loro attitudine a compierli. Ma evidentemente qui c'è l'idea di creare una barriera nei riguardi delle donne. E tuttavia che cosa può far pensare che le donne non siano capaci di accedere a posti direttivi? E che le donne non possano accedere alle cariche pubbliche, alle cariche dello Stato? È un pregiudizio, un preconcetto. E del resto tutta la storia delle affermazioni femminili dimostra che sempre si sono dovuti superare dei preconcetti. [...] Bisogna far sì che cada dalla nostra Costituzione ogni barriera frapposta alla donna. Credo poi che parlare di norme di legge qui sia ozioso, poiché tutte le disposizioni della Costituzione dovranno realizzarsi in norme di legge, espresse dalla legislazione positiva. Lasciamo cadere questa seconda barriera. Accetterei ben volentieri la formulazione presentata dall’on. Mortati, cioè quella che dice: «Tutti i cittadini forniti dei requisiti stabiliti dalla legge» ecc. Questo in nessun modo potrebbe offendere una donna perché, parlare di requisiti è cosa ben diversa che parlare di attitudini; e allora in questo senso potremmo accettare una limitazione o una dichiarazione che dica che ci sarà una legge che determinerà i requisiti richiesti per particolari incarichi.” <6 
Nonostante il lavoro della Federici, ci furono diversi impieghi che vennero preclusi alle donne nella storia dell’Italia repubblicana: ad esempio la carriera nelle forze dell’ordine o nell’esercito fu aperta soltanto verso la fine degli anni ‘90, mentre quella in Magistratura dal 1963. Alle donne italiane era richiesta una funzione particolare, ovvero provvedere alle contraddizioni intrinseche del boom economico. La peculiarità principale di quegli anni fu l’esplosione dei comportamenti consumistici delle famiglie, dimostrata dalla diminuzione della spesa pubblica ospedaliera e nei trasporti e dalla crescita delle vendite di automobili e di elettrodomestici di ultima generazione come frigoriferi, televisioni o lavatrici. Questo fu il “miracolo italiano” che però contribuì a rendere più profonda la distanza tra un Nord sviluppato, con redditi alti e nuclei familiari ridotti, e un Sud arretrato, con ménage numerosi e dove ancora il 56,9% della popolazione lavorava nei campi <7. Nel Meridione gli elettrodomestici erano un lusso che pochi potevano permettersi. D’altronde le divisioni materiali conducevano inevitabilmente anche a differenze culturali. Infatti, seppur quasi tutte le donne italiane si dedicavano alla casa, le cause di questo fenomeno erano diverse da Nord a Sud. Le donne piccolo-borghesi del Settentrione, grazie agli alti salari dei loro mariti, potevano permettersi pellicce di visone e girocolli di perle pur scegliendo di fare le casalinghe; nel Meridione, la povertà diffusa e le scarse opportunità rendevano l’essere casalinghe una necessità obbligata, non sostenuta neanche da redditi dignitosi.
[NOTE]
1 “XVI Legislatura – Conoscere la Camera dal 1848 al 1882” https://leg16.camera.it/512?conoscerelacamera=35
2 Corriere della sera https://pochestorie.corriere.it/2020/01/30/30-gennaio-1945-le-donne-ottengono-ildiritto-di-voto-in-italia/
3 https://www.consiglio.regione.fvg.it/cms/hp/eventi/0221.html [ultimo accesso 22 maggio]
4 La nota è presente in “Sorelle d’Italia: presenze e immagini femminili”, Treccani di Cecilia Dau Novelli 2011; riportato in M. De Leo, F. Taricone, Le donne in Italia. Diritti civili e politici, Napoli 1992.
5 Discorso di Maria Federici in sede Costituente il 22 maggio 1947, https://www.nascitacostituzione.it/02p1/04t4/051/index.htm?art051-012.htm&2 (ultima consultazione: 9 maggio 2023).
6 Ibidem
7 “Le donne dal dopoguerra ad oggi” di Francesca Koch 09/2015
Silva Lestingi, Le donne nel Mezzogiorno dal 1945 a oggi: Esperienze, generazioni e trasformazioni, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno Accademico 2022-2023

Il decreto legislativo del 1º febbraio 1945, n. 23 che aveva come titolo Estensione alle donne del diritto di voto, fu adottato in extremis da parte del Consiglio dei ministri allora presieduto da Ivanoe Bonomi il 30 gennaio, giorno dell’entrata in vigore delle disposizioni comunicate ai Comuni dell’Italia liberata per la nuova formazione delle liste elettorali per le amministrative. Nonostante avessero dovuto aspettare fino a questa data per vedersi riconoscere il diritto di voto, amministrativo e politico, le donne avevano già ricoperto nel passato recente dei ruoli pubblici, sia all'interno delle repubbliche partigiane sia successivamente durante un’attiva partecipazione dei lavori della Consulta, l’assemblea transitoria che era stata costituita nell’aprile 1945.
I membri della Consulta erano 455 designati dai partiti del Comitato di liberazione nazionale (CLN), fra questi vi erano però soltanto tredici donne, ma non era mai accaduto in precedenza. Fu anche la prima volta nelle aule del Parlamento italiano, nella seduta del 1º ottobre 1945, che una donna, Angela Cingolani Guidi parlò, sottolineando la difficoltà che trovavano le donne a entrare all’interno delle istituzioni e dei luoghi della politica.
"Ardisco pensare, pur parlando col cuore di democratica cristiana, di poter esprimere il sentimento, i propositi e le speranze di tanta parte di donne italiane: credo proprio di interpretare il pensiero di tutte noi consultrici, invitandovi a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole e gentile, oggetto di formali galanterie e di cavalleria di altri tempi, ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire (applausi), che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse, ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale (approvazioni – applausi). Colleghi Consultori, nel vostro applauso ravviso un saluto per la donna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per la mia persona, ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora, per la prima volta, partecipano alla vita politica del Paese. […] Parole gentili, molte ne abbiamo intese nei nostri riguardi, ma le prove concrete di fiducia in pubblici uffici non sono molte in verità. Qualche assessore come la collega Velletri, qui presente, una Vicesindaco come la nostra di Alessandria e qualche altro incarico assai, assai… sporadico". <62
Nel 1948 la donna finalmente conseguì il diritto di voto, sia attivo che passivo, ed ebbe riconosciuta la parificazione formale con l’uomo, anche se per diventare sostanziale si dovettero aspettare ancore diverse leggi successive.
Nella Costituzione Italiana, l’articolo 3 stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso.
Gli articoli 29, 30, e 31 della Costituzione si occupano della famiglia ed è molto interessante seguire i dibattiti che si fecero durante l’Assemblea Costituente su questa materia per comprendere anche lo stato delle cose e l’universo valoriale che era presente durante l’Assemblea, agli albori dell’epoca repubblicana italiana. Secondo il relatore Corsanego, ad esempio, se da una parte era appurato il superamento del concetto di inferiorità della donna, dall’altra era contrario a toccare la posizione del padre quale capo di famiglia poiché, a suo avviso, si sarebbe sconvolta l’istituzione familiare, frantumandone l’unità. Per Moro la famiglia era l’ordinamento originario, mentre lo Stato doveva provvedere al coordinamento dell’ordinamento familiare con il proprio; considerava la famiglia come la cellula di una società ordinata sotto il profilo della saldezza morale e della prosperità, la quale non andava intesa come prosperità economica, ma messa in relazione con le fondamentali concezioni cristiane. <63
L’accordo fu raggiunto per una formulazione definitiva degli articoli 29 e 30 della Costituzione, nei quali si proclamava che la famiglia fosse una società naturale; non si inserì il riferimento all’indissolubilità del matrimonio, si riconosceva l’eguaglianza dei coniugi e la tutela giuridica e sociale dei figli illegittimi come membri familiari a tutti gli effetti.
Uno dei passi più importanti per la storia dell’emancipazione femminile in quell’Assemblea Costituente avvenne il 23 aprile 1947, quando finalmente si statuiva l’eguaglianza dei coniugi nella famiglia, ponendo così fine alla dipendenza della donna dall’uomo risalente addirittura al diritto romano e agli Statuti medievali. <64
L’impegno delle donne era rivolto, quindi, all’ottenimento di norme che, mettendo in pratica il dettato costituzionale, prevedessero da una parte l’estensione della legge anche sulla lavoratrice madre e anche a chi lavorava nel settore agricolo e dall’altra garantissero l’effettiva parità fra uomo e donna. Coinvolgere le donne nell’organizzazione sindacale era un obiettivo considerato essenziale dai partiti e dal sindacato. <65 I dirigenti sindacali decisero, nel giugno 1947, di creare la Commissione femminile nazionale, composta da «sei comuniste, sei socialiste, sei democristiane e cinque rappresentanti delle minoranze», <66 sancendo così ufficialmente il ritorno delle donne nell’organizzazione sindacale che avevano dovuto abbandonare con l’avvento del fascismo.
L’articolo 51 inoltre sancì il diritto delle donne ad accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Quest’ultima precisazione in realtà avrebbe ancora limitato per diverso tempo l’accesso delle donne a determinate carriere, come alla carriera militare o in Magistratura. Questo aspetto venne evidenziato dalla democristiana Maria Federici la quale affermò quanto fosse strano «che la donna, che pur paga le tasse e sopporta tutti gli oneri della vita sociale non debba poi avere la possibilità di poter procedere nelle carriere in condizione di uguaglianza con gli uomini. [...] La donna dovrebbe scegliere liberamente seguendo il suo spontaneo desiderio, guidata dall’educazione o da altri elementi di valore anche spirituale, mai per ragione di un’ingiustizia che la offenda profondamente». <67
[NOTE]
62 ROSSELLA ROPA, CINZIA VENTUROLI, Donne e lavoro: un’identità difficile. Lavoratrici in Emilia Romagna (1860-1960), Bologna, Compositori, 2010, pp. 168-169.
63 E. SAROGNI, La donna italiana: Il lungo cammino verso i diritti, 1861-1994, cit., p. 153. 
64 Ivi, p. 155.
65 «Noi Donne - Rivista quindicinale dell’Unione delle Donne Italiane», anno I, n. 6, 25 ottobre 1944, p. 12.
66 «Notiziario Cgil», n. 8, 20 settembre 1947, p. 16.
67 E. SAROGNI, La donna italiana: Il lungo cammino verso i diritti, 1861-1994, cit., p. 155.
Nunzia De Palo, Donne di ieri, donne di oggi. Un’avventura che richiede coraggio, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015-2016

sabato 19 luglio 2025

Differenze di visioni e posizioni in merito all’accoglienza dei displaced ebrei in Italia


Nel corso dei primi mesi successivi al conflitto personalità ed enti ebraici in Italia fecero dei tentativi a livello istituzionale allo scopo di far entrare, legalmente, dei displaced ebrei nel paese. Di una prima richiesta, effettuata anche a nome del Comitato ricerche deportati ebrei e del Comitato europeo dei rabbini ortodossi degli Stati Uniti e del Canada, si fece carico nell’estate 1945 Angelo Donati, ebreo d’origine modenese trasferitosi a Parigi nel 1919 e attivo già durante la guerra nel salvataggio dei profughi ebrei presenti soprattutto nel Sud della Francia <278. Il piano riguardava 2000 minori d’età compresa fra i 4 e i 16 anni, “ritrovati nei vari territori della Germania, privi dei genitori che furono massacrati dalla ferocia nazista” <279.
Quello degli unaccompanied minors rimasti soli al mondo, senza nessuno che si prendesse cura di loro, fu il maggiore problema con cui l’Unrra [l’United Nations Relief and Rehabilitation Administration] dovette confrontarsi: in base ai dati forniti da Malcom J. Proudfoot, il 60% di essi era costituito da ebrei. L’organizzazione assistenziale delle Nazioni Unite calcolava che i giovani ebrei presenti nel 1946 in Germania - il paese dove il loro totale risultava maggiormente consistente - fossero circa 22.000: di questi, 2500-2600 erano orfani <280. Erano bimbi e adolescenti sopravvissuti ai Lager nazisti, spesso gli unici ormai in vita di interi nuclei familiari, giovani e giovanissimi riusciti a salvarsi nascondendosi o vivendo in clandestinità, ma anche minori ritornati nei paesi dove avevano vissuto in precedenza e messisi poi nuovamente in cammino, insieme a molti adulti, verso Ovest. Lo scrittore Aharon Appelfeld, originario di Czernowitz in Bucovina, aveva sette anni allo scoppio della guerra; persi entrambi i genitori, ormai solo, riuscì a sopravvivere nascondendosi per mesi nei boschi dell’Ucraina o lavorando presso contadini, ai quali mai raccontò di essere ebreo. Arrivato in Italia con un gruppo di altri ragazzi, incontrati a Zagabria, tutti più o meno della stessa età, soggiornò qualche mese vicino a Napoli - “Italy for me - ricorda - is the best memory after I lost my world” <281 - per poi emigrare in Palestina <282. In aiuto di bambini e adolescenti sopravvissuti alla shoah intervennero vari organismi, quali la Croce Rossa Internazionale, l’Ose (OEuvre de secours aux enfants), l’Ort (Obschtschestwo Rasprostranenja Truda, Organizzazione per la ricostruzione e il lavoro), la Jewish Agency for Palestine, il Central British Fund for Jewish Relief and Rehabilitation e The Refugee Childrens Movement; queste ultime due operarono al fine di condurre numerosi minori da Bergen Belsen in Gran Bretagna. L’alyah hana’or, fondata già nel 1933 a Berlino da Recha Freier, si occupava invece dell’emigrazione giovanile in Palestina <283.
Angelo Donati, nel perorare la causa di far arrivare in Italia questo gruppo di 2000 minori, assicurò che il periodo della loro permanenza nel paese sarebbe stato limitato ad uno o al massimo a due anni e che le spese per il loro mantenimento sarebbero state sostenute dal Comitato europeo dei rabbini ortodossi. Sia il Ministero degli esteri che la Presidenza del consiglio si espressero positivamente in merito all’accoglimento della domanda <284; anche l’azionista Emilio Lussu, ministro dell’Assistenza post-bellica nel governo Parri, si dichiarò “favorevole alla proposta, per motivi umanitari e politici” <285. Della questione era stata interessata anche l’Unrra, ma la risposta di Antonio Sorieri era stata che la politica dell’Afhq, considerate le difficili situazione in cui versava il paese e la scarsità dei certificati disponibili per la Palestina, era di non farvi affluire apolidi e stranieri non rimpatriabili. Sarebbe stato
insensato (unsound), scrisse inoltre, aggiungere ulteriori displaced ebrei alle migliaia già presenti nel paese <286. La pratica, anche se con lentezza, nel frattempo procedeva e furono presi contatti con organismi per l’assistenza all’infanzia - la fondazione Figli italiani all’estero e il Commissariato nazionale della gioventù italiana - al fine di reperire strutture adeguate, cosa peraltro non facile, ad ospitare questo gruppo di giovani in Italia. Il 23 novembre 1945 una lettera del Comitato ricerche deportati ebrei pose fine alla questione: si riferì infatti che questi minori avevano già trovato ospitalità in Francia e Inghilterra <287.
Dall’iter più complesso e controverso si rivelò un’ulteriore richiesta, la cui vicenda fece emergere differenze di visioni e posizioni in merito all’accoglienza dei displaced ebrei nel paese. Il 6 novembre Giuseppe Nathan, commissario governativo dell’Unione delle comunità, si rivolse a Ferruccio Parri, all’epoca presidente del consiglio, chiedendo di poter far entrare in Italia circa 3000 ebrei provenienti da paese dell’Europa centro-orientale; nella lettera, Nathan metteva in risalto l’antisemitismo ancora ben presente in quei territori <288. La riposta del Capo di gabinetto della Presidenza fu molto comprensiva e disponibile: "Il Governo Italiano considera giusto e doveroso dare aiuto agli ebrei costretti a lasciare altri paesi a causa della persecuzione razziale; spiacente che le attuali condizioni dell’Italia non consentano di provvedere alla loro assistenza, esso confida che gli immigrati possano trovare nel nostro Paese almeno quello spirito di libertà e di solidarietà umana che anima il popolo italiano nel suo risorgimento" <289.
Non si ravvisavano in sostanza difficoltà - si legge nella risposta - nel rilasciare permessi di soggiorno agli ebrei intenzionati a sostare per un breve periodo in Italia, anche se, date le condizioni in cui versava il paese, andavano posti dei limiti all’ospitalità: la permanenza doveva essere circoscritta nel tempo e il sostentamento doveva essere a carico di chi arrivava, cioè, in sostanza non pesare sul bilancio dello stato. Nathan diede rassicurazioni su entrambi i punti, scrivendo che sia l’Unrra che il Joint si erano impegnati a provvedere al mantenimento di queste persone <290. Dal canto suo, Raffaele Cantoni avrebbe fornito qualche mese dopo un’interessante motivazione - sintomatica dell’elevato grado di organizzazione di questi flussi - sul perché fosse stata inoltrata tale domanda, mirata, a quanto si legge, ad una ben determinata gruppo di she’erith hapletah: "La richiesta di ammissione di profughi, con regolare permesso, quando tanti ne arrivano illegalmente è fondata sulla necessità di provvedere a coloro i quali per le loro condizioni di età, di stato fisico od altro non avrebbero modo di venire altrimenti a salvamento in Italia" <291.
E’ una differenziazione che riflette perfettamente quelle che possiamo definire le due categorie di displaced presenti nei primi mesi del 1946 nella zona americana in Austria: da un lato vi erano gli infiltrees, inseriti per breve tempo nei campi di smistamento che venivano fatti proseguire subito, dall’altro vi erano quelli che Thomas Albrich definisce gli “echte”, i veri displaced, alloggiati in campi “residenziali”, troppo anziani o malati per affrontare viaggi faticosi e difficoltosi, oppure semplicemente stanchi di spostarsi in clandestinità e intenzionati ad emigrare solo legalmente. Cantoni, non da ultimo, pare proprio essere stato ben a conoscenza di come funzionasse il sistema <292.
Messo al corrente della richiesta inoltrata da Giuseppe Nathan, la replica del capo della polizia fu tutt’altro che conciliante nei toni e nelle posizioni: "Dell’intesa intercorsa […] questo Ministero non aveva avuto prima d’ora conoscenza, ciò premesso e date le attuali contingenze vedrà codesta On. Presidenza se convenga favorire ancora nuove immigrazioni le quali aggraverebbero le già difficili condizioni del momento, mentre sembrerebbe che i predetti ebrei evidentemente diretti in Palestina non possono trasferirvisi rapidamente" <293. A quanto si riesce a desumere dalla lettera - il passaggio non è esplicitato in modo così chiaro - già 207 ebrei si sarebbero trovati a Modena in attesa di ulteriore destinazione <294. Se dunque vi era stato da parte di settori della politica italiana uno slancio favorevole nei confronti di questi ingressi - già Parri aveva fatto esprimere pubblicamente alla Conferenza sionistica mondiale di Londra dell’agosto 1945 dal delegato italiano, Carlo Alberto Viterbo, il positivo atteggiamento del governo nei confronti del sionismo <295 - di idee diverse risultava essere la Direzione generale di pubblica sicurezza. Luigi Ferrari, capo della polizia dal luglio 1944 <296, ribadì circa un mese dopo alla Presidenza del consiglio la sua posizione: "Nel caso in esame si aggiunge che gli ebrei in questione […] verrebbero in Italia per un periodo di tempo che solo teoricamente è limitato a sei mesi, in quanto la loro partenza dal Regno è subordinata a condizioni del tutto aleatorie, come quella delle concessione del visto di ingresso da parte di altro Stato in un momento in cui tali concessioni sono sempre più difficili. […] A quanto risulta dalle stesse ammissioni fatte dal rag. Cantoni, la Commissione Alleata non è d’accordo circa il trasferimento in Italia dei tremila ebrei, tanto che occorrerebbe evitare che le Autorità Alleate possano venire a conoscenza dell’ingresso nel regno di una così considerevole massa di stranieri" <297. Ferrari scriveva inoltre che l’Unrra non era stata affatto informata della questione e che, anzi, Raffaele Cantoni temeva che questa avrebbe potuto, se ufficialmente interpellata dal governo, sollevare obbiezioni. Cosa che in effetti si verificò mesi dopo: alla richiesta di Cantoni che l’ente assistenziale si prendesse cura di questo gruppo di ebrei una volta entrati nel paese, Keeny, direttore della Missione Unrra in Italia, risponderà - siamo nel maggio 1946 - di concordare con la posizione alleata, decisa mesi prima, di non consentire ulteriori ingressi se non ai displaced da rimpatriare <298. Ferrari proseguiva scrivendo come, considerati gli “affidamenti già dati dal governo Italiano”, si dovesse ormai dare concreta attuazione al trasferimento, ma nondimeno dovevano essere definite alcune questioni: era importante informare le autorità alleate dell’ingresso dei profughi, che non dovevano arrivare alla spicciolata - per evitare, probabilmente, che ne arrivassero in numero maggiore al dovuto, cosa che, si evince chiaramente, era assai temuta - e andava stabilito tramite l’Unrra in quali campi essi avrebbero dovuto essere sistemati. Si voleva infatti evitare che i rifugiati si trasferissero in grandi città, si legge, dove "come a Roma, sono dilagate masse considerevoli di stranieri sbandati e senza mezzi, che si dedicano alle attività più losche" <299. La Direzione generale affari politici del Ministero degli esteri, interpellata sulla questione, rispose oltre un mese dopo di concordare con le indicazioni e le proposte della Direzione generale di pubblica sicurezza, ma di ritenere inoltre "opportuno in linea di massima da un punto di vista politico e per considerazioni di umanità, di favorire il trasferimento in Italia di ebrei provenienti dall’Europa Centrale, sempreché la temporanea dimora in Italia sia limitata al tempo necessario per il proseguimento del viaggio verso la Palestina o l’America" <300.
La vicenda si protrasse dunque per mesi, senza, a quanto pare, portare ad alcun risultato concreto e positivo. Il 5 maggio 1946 Raffaele Cantoni, ormai presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, scriveva all’Unrra che il progettato trasferimento non si era ancora potuto attuare “poiché varie difficoltà si sono venute a verificarsi”, le quali, però, sarebbero ormai state “alla fine” <301. In luglio riferiva invece - ed erano passati oltre nove mesi dall’invio della richiesta - che per non meglio specificate “circostante interne” si era verificato “un arresto nelle trattative” <302.
Sul possibile arrivo di questo gruppo di ebrei erano insomma emerse posizioni diverse: le autorità di polizia paventavano ulteriori ingressi di stranieri, visti come possibile pericolo per l’ordine pubblico, mentre il Ministero degli esteri, pur con qualche cautela, parlava di “opportunità politica” nell’appoggiare la richiesta. Vedremo in seguito come un atteggiamento benevolo nei confronti della she’erith haletah presente nella penisola, o intenzionata ad arrivarci, venisse considerato da alcuni come un’opportunità, da parte italiana, di offrire una rinnovata immagine del paese, anche in vista della stipula del trattato di pace. Una strategia che contemplò, fra il resto, e ne parleremo, anche quello che Guri Schwarz ha definito un “uso politico del passato prossimo”: fornire cioè della persecuzione antiebraica in Italia fra il 1938 e il 1945 una rappresentazione ampiamente auto-assolutoria e rassicurante <303.
[NOTE]
278 UNA, Unrra 1944-1949, S-0527-0849, Italy Mission: Chief of Mission. Office of the Special Assistant to the Chief of Mission for Government Liaison, PAG-4/3.0.14.0.2.:7 “Displaced Persons - Non - Italian”, Angelo Donati a Ambasciatore, 25 luglio 1945; Alberto Cavaglion, Donati, Angelo in Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto cit., p. 120.
279 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 2-3-2 N. 15.539 “Comitato Ricerche Deportati Ebrei”, Ministero degli affari esteri a Presidenza del consiglio dei ministri, 24 agosto 1945. Il Comitato Ricerche Deportati Ebrei di Roma, creato il 26 settembre 1944 sotto l’egida dell’Unione delle omunità israelitiche italiane, si mosse per rintracciare gli ebrei sopravvissuti ai campi, ma anche per reperire i nominativi degli ebrei morti in deportazione; Picciotto, Il libro cit., pp. 19-20; Liliana Picciotto Fargion, La liberazione dai campi di concentramento e il rintraccio degli ebrei italiani dispersi in Michele Sarfatti (a cura di), Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze 1998, p. 20.
280 Proudfoot, European Refugees cit., p. 268; Chaim Schatzker, The Role of the Alyat Hanoar in the Rescue, Absorption and Rehabilitation of Refugee Children in Gutman e Saf (a cura di), She’erit Hapletah cit., p. 371.
281 Intervista ad Aharon Appelfeld, Gerusalemme, 25 febbraio 2008.
282 Ibid.; sulle sue vicende nel corso della guerra: Appelfeld, Storia cit.
283 Joanne Reilly, Belsen. The liberation of a concentration camp, Routlidge, London and New York 1998, p. 163; Nili Keren, Bambini in Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto cit., p. 69; Schatzker, The Role of the Alyat Hanoar cit., p. 372; Klaus Voigt, Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga 1940-1945, La Nuova Italia, Firenze 2002, p. 23. L’Ort, creato nel 1880 in Russia e la cui sede principale, dalla fine della prima guerra mondiale sino alla salita al potere di Hitler, rimase a Berlino, si occupava di incentivare il lavoro agricolo e artigianale. All’epoca si attivò per fornire ai displaced un addestramento in campo artigianale, oltre a impartire lezioni di ebraico e di storia degli ebrei in vista del loro trasferimento in Palestina; Angelika Königseder, Flucht nach Berlin. Jüdische Displaced Persons 1945-1948, Metropol, Berlin 1998, p. 131; Le origini della Ort in “Israel”, a. XXXIII, n. 16, 25 dicembre 1947, p.4.
284 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 2-3-2 N. 15.539 “Comitato Ricerche Deportati Ebrei”, Ministero degli affari esteri a Presidenza del consiglio dei ministri, 24 agosto 1945; Presidenza del consiglio dei ministri, Gabinetto a Comitato ricerche deportati ebrei, 25 settembre 1945.
285 Ibid., Emilio Lussu a Ferruccio Parri, 10 ottobre 1945.
286 UNA, Unrra 1944-1949, S-0527-0849, Italy Mission: Chief of Mission. Office of the Special Assistant to the Chief of Mission for Government Liaison, PAG-4/3.0.14.0.2.:7 “Displaced Persons - Non-Italian”, Comitato ricerche deportati ebrei a Unrra, 17 agosto 1945; Sorieri a Comitato Ricerche Deportati Ebrei, 8 settembre 1945.
287 Ibid., Commissariato nazionale della gioventù italiana presso il Ministero della pubblica istruzione a Presidenza del consiglio dei ministri, 6 settembre 1945; Presidenza del consiglio dei ministri, Gabinetto a Comitato ricerche deportati ebrei, 25 settembre 1945; Comitato ricerche deportati ebrei a presidenza del consiglio, 23 novembre 1945.
288 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 3-2-2 dal n. 10301 al n. 13700, b. 3415, fasc. 2-3-2 n. 13680 “Comunità israelitiche. Questioni varie”, Unione delle comunità israelitiche italiane a presidente del Consiglio dei ministri, 6 novembre 1945. Copia in: UNA, Unrra 1944-1949, S-0527-0832, Italy Mission: Chief of Mission, PAG-4/3.0.14.0.0.3:2, fasc. “D.P.”.
289 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 3-2-2 dal n. 10301 al n. 13700, b. 3415, fasc. 2-3-2 n. 13680 “Comunità israelitiche. Questioni varie”, Presidenza del consiglio dei ministri a Commissario governativo dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, 27 novembre 1945; lettera anche in ACS, MI, DGPS, DAG, A16 Stranieri ed ebrei stranieri 1930-1956, b. 18, fasc. “Ebrei stranieri. Permanenza temporanea. Permessi soggiorno 1945-1947”.
290 Ibid.; Unione delle comunità israelitiche italiane a presidente del consiglio dei ministri, 29 novembre 1945.
291 UNA, Unrra 1944-1949, S-0527-0382, Italy Mission: Chief of Staff, PAG-4/3.0.14.0.0.3.:2 “D.P. Operations (Italy) 409 Jewish Refugees”, Raffaele Cantoni a Capo della Missione UNRRA in Italia, Kiny [sic], 5 maggio 1946.
292 Albrich, Exodus cit., p. 49.
293 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 3-2-2 dal n. 10301 al n. 13700, b. 3415, fasc. 2-3-2 n. 13680 “Comunità israelitiche. Questioni varie”, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, appunto per il gabinetto della Presidenza del consiglio dei ministri, 18 gennaio 1946.
294 Ibid.
295 Il discorso del Delegato dei Sionisti Italiani in “Israel”, a. XXXI, n. 1-2, 13 settembre 1945, p. 3; Toscano, La “Porta di Sion” cit., p. 53. In previsione della Conferenza sionistica mondiale, Viterbo aveva inviato un memorandum al governo italiano, chiedendo che venisse “confermata la politica prosionistica del periodo pre-fascista”. Parri, disse Viterbo nel corso del suo intervento, aveva anche preso in considerazione l’ipotesi di inviare un messaggio, ma cautele di politica estera l’avrebbero fatto propendere per una scelta più cauta. Viterbo era stato comunque autorizzato a fornire “l’assicurazione della miglior considerazione e del più favorevole atteggiamento da parte del governo italiano”, un atteggiamento da lui ritenuto essenziale anche per quanto riguardava l’accoglienza ai displaced ebrei e la creazione di centri per l’addestramento agricolo; Il discorso del Delegato dei Sionisti Italiani in “Israel”, a. XXXI, n. 1-2, 13 settembre 1945; Toscano, La “Porta di Sion” cit., pp. 48-49.
296 Tosatti, Storia cit., p. 233. Consigliere di Cassazione, Ferrari era stato scelto da Bonomi come capo della polizia, carica che lasciò il 10 settembre 1948, pare per divergenze con il ministro dell’Interno Scelba; ibid.
297 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 3-2-2 dal n. 10301 al n. 13700, b. 3415, fasc. 2-3-2 n. 13680 “Comunità israelitiche. Questioni varie”, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza a Presidenza del consiglio dei ministri, 13 febbraio 1946; copia anche in ACS, MI, DGPS, DAG, A16 Stranieri ed ebrei stranieri 1930-1956, b. 18, fasc. “Ebrei stranieri. Permanenza temporanea. Permessi soggiorno 1945-1947” e in ibid, Ministero dell’interno, gabinetto 1948, b. 80, fasc. 1 “Ebrei stranieri in Italia”.
298 Ibid.; UNA, Unrra 1944- 1949, S-0527-0832, Italy Mission: Chief of Staff, PAG-4/3.0.14.0.0.3.:2 “D.P.”, Raffaele Cantoni a Capo della Missione UNRRA in Italia, Kiny [sic], 5 maggio 1946; Sporgeun M. Keeny a Raffaele Cantoni, 5 maggio 1946.
299 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 3-2-2 dal n. 10301 al n. 13700, b. 3415, fasc. 2-3-2 n. 13680 “Comunità israelitiche. Questioni varie”, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza a Presidenza del consiglio dei ministri, 13 febbraio 1946; copia anche in ACS, MI, DGPS, DAG, A16 Stranieri ed ebrei stranieri 1930-1956, b. 18, fasc. “Ebrei stranieri. Permanenza temporanea. Permessi soggiorno 1945-1947” e in ibid, Ministero dell’interno, gabinetto 1948, b. 80, fasc. 1 “Ebrei stranieri in Italia”.
300 ACS, PCM 1944-1947, fasc. 3-2-2 dal n. 10301 al n. 13700, b. 3415, fasc. 2-3-2 n. 13680 “Comunità israelitiche. Questioni varie”, Ministero degli esteri, Direzione generale affari politici a Presidenza del consiglio dei ministri, 29 marzo 1946.
301 UNA, Unrra 1944-1949, S-0527-0832, Italy Mission: Chief of Staff, PAG-4/3.0.14.0.0.3.:2 “D.P.”, Raffaele Cantoni a Capo della Missione Unrra in Italia, Kiny [sic], 5 maggio 1946.
302 UCEI, CB, AS, Attività dell’Unione delle comunità israelitiche italiane dal 1934, Verbali del consiglio dal 16-3-1946 al 30.9. 1948, verbale della seduta del Consiglio dell’Unione delle comunità israelitiche italiane del 23 e 24 luglio 1946, p. 58; ACS, PCM 1944-1947, fasc. 3-2-2 dal n. 10301 al n. 13700, b. 3415, fasc. 2-3-2 n. 13680 “Comunità israelitiche. Questioni varie”, Unione delle comunità israelitiche italiane a presidente del Consiglio dei ministri, 6 novembre 1945. Copia in: UNA, Unrra 1944-1949, S-0527-0832, Italy Mission: Chief of Mission, PAG-4/3.0.14.0.0.3:2, fasc. “D.P.”.
303 Schwarz, Ritrovare cit., pp. 124-140.
Cinzia Villani, Infrangere le frontiere. L’arrivo in Italia delle "displaced persons" ebree 1945-1948, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, 2009

sabato 12 luglio 2025

Quando si chiedeva lo scioglimento del MSI


Una diversa percezione del pericolo proveniente dalla destra neofascista da parte della DC era iniziata nella primavera del 1974, con la strage di Brescia, anche se il governo aveva iniziato a muoversi con maggiore fermezza contro l’estremismo neofascista già dall’anno precedente <232.
A Brescia, il 28 maggio, durante una manifestazione antifascista organizzata dai sindacati nella centrale piazza della Loggia, lo scoppio di una bomba uccise otto persone. Furono indagati militanti di Ordine Nuovo, ma l’inchiesta approdò ben presto ad un vicolo cieco <233.
Soltanto un paio di mesi più tardi, la notte del 4 agosto, una bomba ad alto potenziale esplose sul treno Italicus, uccidendo dodici persone e ferendone quarantaquattro. Rumor, allora presidente del consiglio, avrebbe riconosciuto subito la matrice fascista di entrambi gli attentati. Nello stesso periodo, Taviani dichiarò superata la teoria degli opposti estremismi, indicando l’esistenza di un vero pericolo soprattutto a destra, un’opinione condivisa da molti altri esponenti democristiani, da Gui a Donat Cattin <234.
Fu dopo la strage di Brescia che Ferruccio Parri promosse una campagna per lo scioglimento del MSI a cui aderì tutta la sinistra extraparlamentare, mentre il PCI ne prese le distanze sia perché riteneva preferibile una presenza istituzionale dell’estrema destra, sia perché la messa fuori legge di partiti rappresentati in parlamento avrebbe potuto costituire un precedente pericoloso. Tuttavia, non solo fra gli esponenti dell’antifascismo di origine azionista e fra i socialisti, ma anche all’interno dello stesso partito comunista, erano in molti a condividere la posizione di Parri, secondo il quale, fare seriamente dell’antifascismo non significava organizzare convegni, ma prima di tutto togliere la copertura politica ai neofascisti <235.
Tutte le principali organizzazioni della sinistra extraparlamentare si impegnarono a fondo in questa campagna. A pochi giorni dalla strage di Brescia, al convegno nazionale operaio organizzato a Firenze, Lotta Continua sollecitò tutto il movimento sindacale a fare propria e a sostenere attivamente la parola d’ordine «Fuori legge il MSI» <236. Molti sindacalisti, soprattutto del settore metalmeccanico, condivisero l’appello di Lotta Continua e delle altre formazioni extraparlamentari. Decine di consigli di fabbrica furono infatti tra i primi firmatari, insieme ai gruppi, della proposta di legge di iniziativa popolare per lo scioglimento del Movimento sociale presentata alla corte di cassazione alla fine di giugno, un’iniziativa nata proprio come risposta alla strage di Brescia <237.
Le trasformazioni in corso nelle organizzazioni della sinistra extraparlamentare si riflettevano dunque anche sulle modalità con cui si manifestava l’«antifascismo militante»: non più solo mobilitazioni di piazza che prevedevano il ricorso ad azioni violente, ma anche l’utilizzo di strumenti riconducibili all’ambito istituzionale. Di fronte ad un cambiamento così evidente, i gruppi sentirono la necessità di fare delle precisazioni, in qualche modo, si potrebbe dire, di giustificarsi. Questo, più che per il PdUP per il comunismo <238, valeva soprattutto per Lotta Continua e Avanguardia Operaia. L’altra organizzazione protagonista delle mobilitazioni più radicali dei primi anni Settanta, Potere Operaio, come si è visto, si era sciolta da tempo e molte delle sue componenti erano transitate nell’area dell’Autonomia Operaia. Avanguardia Operaia, ad esempio, in un articolo pubblicato alla fine del 1974, spiegava che essere fra i promotori della raccolta di firme per la messa fuori legge del MSI non significava «abbandonare l’antifascismo militante per scegliere un terreno legalitario». Al contrario, questa iniziativa veniva presentata come «la ratifica a livello delle istituzioni» di una intensa mobilitazione contro le organizzazioni neofasciste <239.
Anche un documento unitario firmato da Avanguardia Operaia, PdUP per il comunismo e Lotta Continua precisava che la campagna per la messa fuori legge del MSI fosse strettamente legata «ad una azione continua di antifascismo militante» che togliesse «ogni spazio politico, ideologico e anche fisico ai fascisti nelle fabbriche nei quartieri e nelle scuole» <240.
La raccolta di firme proseguì per l’intero anno, supportata da centinaia di iniziative in tutta Italia, solitamente promosse da comitati formati dalle locali sezioni delle formazioni extraparlamentari, di associazioni, di gruppi politici e di lavoratori, non solo operai ma anche dipendenti di aziende <241.
Uno di questi comitati, l’Appio-Tuscolano, a Roma, era nato per iniziativa dell’ANPI della zona Appia, la cui sede era il punto di riferimento del quartiere per la raccolta di firme. Del comitato Appio-Tuscolano per la messa fuori legge del MSI facevano parte organizzazioni del quartiere, collettivi, sedi dei gruppi extraparlamentari e anche la locale sezione del PSI <242.
Nella primavera del 1975, un «volantone» firmato dalle tre principali organizzazioni extraparlamentari, Lega dei comunisti, Soccorso Rosso, sezione romana di Magistratura democratica, informava che alla campagna avevano aderito oltre 350 consigli di fabbrica e centinaia di assemblee studentesche, comitati, consigli comunali. Le firme raccolte, era scritto, erano migliaia, ma non si erano ancora raggiunte le cinquantamila necessarie <243.
Come veniva specificato nell’abbondante materiale propagandistico prodotto a sostegno della campagna, questa iniziativa era strettamente legata alla lotta contro il governo Moro, contro le ristrutturazioni aziendali, contro il fermo di polizia. La Democrazia cristiana era duramente attaccata, al punto da denunciarne la presunta connivenza con le violenze neofasciste <244.
Al di là dei rapporti solitamente conflittuali con i gruppi - quanto a meno a livello di vertice - sarebbe bastata anche solo questa loro presa di posizione così dura nei confronti della DC per convincere i comunisti, in quel momento, a non aderire alla campagna. La sinistra extraparlamentare cercava di forzare i dirigenti di PCI e PSI a prendere una posizione, ad esporsi sul fatto di appoggiare o meno la proposta di legge per lo scioglimento del MSI, facendo leva sul consenso che l’iniziativa aveva raccolto da parte di Terracini <245 e di altri dirigenti politici e sindacali, fra i militanti di quei partiti <246, e, in linea generale, fra i cittadini che partecipavano da anni alle mobilitazioni antifasciste. Erano gli stessi, scriveva Avanguardia Operaia, che il giorno dei funerali delle vittime della strage di Brescia avevano fischiato Leone e Rumor <247.
Nel gennaio 1975, a Roma, il comitato promotore costituito dalla sezione romana di Magistratura democratica, PdUP per il comunismo, Avanguardia Operaia, Lotta Continua, e altre organizzazioni della sinistra extraparlamentare, aveva inviato una lettera a Berlinguer per informarlo di una iniziativa al cinema Brancaccio organizzata per raccogliere le firme per la petizione. La lettera si concludeva con «Contiamo sulla presenza di una rappresentanza del Pci e su di una adesione del partito alla campagna» <248.
La campagna per lo scioglimento del MSI è un esempio di quelle iniziative riportate al "Seminario sull’estremismo" in cui il PCI sentiva la pressione dei gruppi finalizzata a «spostarlo» su posizioni radicali, ad influire sul suo asse politico. In una nota riservata del 30 gennaio <249, Mauro Tognoni comunicava che la segreteria di Lotta Continua aveva chiesto, anche a nome degli altri gruppi, un incontro con la Segreteria del partito. Non si trattava di un caso isolato. Al contrario, spiegava il dirigente, da tempo i gruppi stavano cercando di organizzare iniziative comuni, inviando richieste a PCI, PSI e sindacati. Con tono allarmato aggiungeva «e qualche risultato lo stanno ottenendo». Sulla base delle notizie ricevute da alcune federazioni, Tognoni riferiva che a Trento il PSI e la FLM avevano dato la propria adesione alla campagna per lo scioglimento del MSI, che a Milano i socialisti erano divisi sull’opportunità di farlo, che a Empoli fosse stata una sezione del PCI ad aderire. Episodi isolati, certo, ma sufficientemente preoccupanti da far sottolineare a Tognoni che il partito avrebbe dovuto far subito chiarezza in merito alla sua posizione e renderla nota attraverso articoli su «Rinascita» e sull’«Unità», anche per arginare le strumentalizzazioni che di quegli episodi facevano i gruppi <250.
I vertici del partito comunista, si è detto, erano contrari allo scioglimento del MSI. Essi ritenevano più opportuno contrastare il fenomeno del neofascismo attraverso la vigilanza, la richiesta di perquisizioni e di chiusura delle sedi delle organizzazioni neofasciste, il divieto delle loro manifestazioni, l’accelerazione dei processi contro esponenti del MSI e contro gli autori di pestaggi e aggressioni. Secondo i dirigenti comunisti, il Movimento sociale era già abbastanza isolato e in crisi <251, quello che semmai veniva percepito come un problema era, da una parte, l’atteggiamento di chiusura di Fanfani nei loro confronti e, dall’altra, la «prospettiva di alleanza a sinistra con obiettivi devianti propugnata dai gruppi estremisti». Le notizie frammentate che arrivavano sulle adesioni alla campagna per lo scioglimento del MSI, fra l’altro, imponevano alla Segreteria di incontrare urgentemente i funzionari delle federazioni e dei comitati regionali <252. Ad ogni modo, le inchieste sul fascismo condotte nelle regioni <253, le numerose iniziative per le celebrazioni del XXX anniversario della Resistenza, gli scioperi e le manifestazioni unitarie antifasciste, la crescita della rete dei Comitati unitari che vedevano anche l’adesione della DC, erano tutti elementi che rafforzavano nei vertici del PCI la convinzione che la strada giusta da percorrere fosse ancora una volta quella della mobilitazione condivisa con tutti i partiti democratici <254.
A partire dalla primavera del 1975, infatti, il PCI fu impegnato nella raccolta di firme per la «petizione popolare per la difesa dell’ordine democratico», che era stata lanciata il 7 marzo a Milano dal locale Comitato di coordinamento permanente antifascista nel corso di una manifestazione e alla quale avevano aderito i comitati unitari di tutta Italia <255. L’appello era stato lanciato anche dell’equivalente comitato di Roma256 e dall’ANPI, che già nel 1973 aveva promosso una petizione per «responsabilizzare il Parlamento attorno al grave problema dello squadrismo fiancheggiatore della Destra Nazionale e del MSI», ma in quel caso non c’era stata una risposta altrettanto energica da parte delle forze politiche <257.
Due anni più tardi, invece, partiti, sindacati e associazioni partigiane organizzarono un’ampia mobilitazione nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei quartieri, con l’obiettivo di raccogliere un milione di firme <258. Fondamentalmente, nella petizione si chiedevano misure contro «la violenza e la criminalità fascista», la piena utilizzazione delle leggi dello Stato per colpire «l’eversione squadrista», che fossero celebrati rapidamente i processi per le stragi, per gli atti di terrorismo e di violenza, e per i fatti attinenti alla tentata ricostruzione del «partito fascista» <259. L’iniziativa superò di gran lunga le aspettative: al Senato, il 25 luglio, furono depositate due milioni di firme <260. Nell’articolo dell’«Unità» che ne dava notizia, erano chiamate in causa non soltanto le «bande nere», ma anche il MSI, nel quale esse avrebbero trovato «copertura ed avallo». Si chiedeva infatti di procedere contro i «caporioni del MSI» <261.
In sostanza, il PCI si appellava alle istituzioni dello Stato affinché venissero presi provvedimenti contro personalità del MSI ritenute coinvolte a vario titolo nelle azioni violente dei neofascisti. Tuttavia, a differenza della petizione promossa dalla sinistra extraparlamentare, non si chiedeva di mettere fuori legge il Movimento sociale perché questo avrebbe potuto costituire un pericoloso precedente. Del resto, bisogna tener presente che il PCI non aveva ancora acquisito una piena legittimazione nel sistema politico e che la paura del «golpe», che era stata così viva per tutti gli anni Sessanta, aveva conosciuto un nuovo picco dopo i fatti cileni.
Infine, dal punto di vista dei vertici comunisti, il sostegno dato a primavera a questa campagna, che arrivava con un anno di ritardo rispetto a quella per lo scioglimento del MSI, poteva essere funzionale anche a riprendere il pieno controllo su quella parte della base che era stata attratta dall’iniziativa delle organizzazioni extraparlamentari, un’operazione quanto mai utile alla vigilia delle elezioni regionali e amministrative del giugno 1975.
Sul consenso manifestato almeno da una parte della base comunista e socialista nei confronti dell’iniziativa dei gruppi, aveva sicuramente pesato il clima di aspra violenza dei primi mesi di quell’anno.
[NOTE]
232 Dopo una serie di episodi violenti compiuti dai neofascisti nel 1973, che toccarono l’apice con la morte dell’agente di pubblica sicurezza Antonio Marino durante una manifestazione del MSI a Milano, nel dicembre di quell’anno il ministro dell’Interno Taviani sciolse Ordine Nuovo, P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 499.
233 Cfr. ad es. G. Mammarella, L’Italia contemporanea cit., p. 400
234 A. Giovagnoli, Il partito italiano cit., p. 165
235 G. Santomassimo, La memoria pubblica dell’antifascismo cit., p. 165
236 Mozione approvata al termine dei lavori del convegno nazionale operaio organizzato dal movimento “Lotta Continua” svoltosi a Firenze il 1° e 2 giugno 1974, copia allegata alla relazione della prefettura di Firenze dell’8 giugno 1974 in ACS, MI, Dip. PS, 1944-1986, b. 348, f. G5/42/133
237 MSI fuori legge, in «Avanguardia Operaia», n. 38, 1 novembre 1974. Sotto l’articolo venivano pubblicati il testo della «proposta di legge di iniziativa popolare per lo scioglimento del MSI» e l’elenco parziale dei firmatari, fra i quali comparivano numerosi consigli di fabbrica, esponenti dei sindacati metalmeccanici, molti avvocati, uomini della cultura, oltre, naturalmente, ai principali gruppi extraparlamentari e ad alcuni collettivi.
238 Tuttavia, Silvano Miniati, al congresso di Avanguardia Operaia dell’ottobre 1974, affermò: «La parola d’ordine dello scioglimento del MSI ha un senso solo se è sorretta da un concreto antifascismo militante», in l’intervento di S. Miniati in OCAO. IV Congresso nazionale: interventi dattiloscritti cit.
239 MSI fuori legge, in «Avanguardia Operaia» cit.
240 Una legge di iniziativa popolare per mettere fuori legge il MSI, documento ciclostilato del 21 gennaio 1975, in IRSIFAR, fondo Lipparini-Raspini, b. 113, f. 190
241 Molti volantini a sostegno della campagna sono contenuti in ivi; Archivio Fondazione Basso, fondo Saponaro, f. C11; Archivio della Nuova Sinistra-Marco Pezzi, fondo Marco Pezzi, f. Iniziative unitarie sinistra rivoluzionaria
242 Spazziamo via i fascisti. Fuori legge il MSI-DN, stampato in proprio, febbraio 1975, in IRSIFAR, fondo Lipparini-Raspini, b. 113, f. 192
243 25 aprile trentennale della Resistenza. Oggi come ieri contro il fascismo, in IRSIFAR, fondo Lipparini-Raspini, b. 113, f. 190
244 Cfr. ad es. Le violenze fasciste e la connivenza della Dc e dei corpi separati dello Stato, volantone (1975), ivi
245 L’Ufficio di Segreteria del PCI organizzò un incontro con Terracini a proposito «delle sue recenti posizioni pubbliche che contrastano con quelle del partito», Riunione di Segreteria del 30 aprile in IG, APC, 1975, Segreteria, m. 203, p. 487
246 Ad es. Avanguardia Operaia sosteneva in un comunicato che alcune sezioni romane del PCI avevano votato una mozione a favore della messa fuori legge del MSI e che numerose sezioni del PSI si erano dette disponibili a fare altrettanto, rimarcando quella che riteneva essere una contraddizione tra le basi e i vertici di questi partiti; comunicato di Avanguardia Operaia di Roma del 6 marzo 1975 in IRSIFAR, fondo Lipparini-Raspini, b. 113, f. 190
247 MSI fuori legge, in «Avanguardia Operaia» cit. Su questo episodio cfr. G. Crainz, Il paese mancato cit., p. 489
248 In IG, APC, 1975, Partiti politici, Estremismo di sinistra, m. 202, p. 953
249 Note per la Segreteria in IG, APC, 1975, Sezioni di lavoro, Gruppo di lavoro per le attività antifasciste, m. 202, pp. 408-410
250 Il riferimento è agli articoli Raccogliere centinaia di migliaia di firme per la messa fuorilegge del MSI! e Fermare con l’iniziativa di massa l’infame legge sulle armi!, in «Lotta Continua», 30 gennaio 1975, nei quali si dava un puntuale aggiornamento delle adesioni alla campagna
251 I nuovi equilibri nello scenario politico nazionale e internazionale, con la crisi irreversibile delle dittature in Spagna, Portogallo e Grecia, la sconfitta referendaria, le indagini sugli ambienti dell’estrema destra e gli aspri conflitti interni al MSI fra componenti moderate e oltranziste determinarono il progressivo isolamento del partito di Almirante. Cfr. ad es. D. Conti, L’anima nera della Repubblica cit., pp. 176-205
252 Note per la Segreteria cit.
253 Cfr. ad es. Consiglio regionale del Lazio, Indagine conoscitiva sulle attività neofasciste nel Lazio (1974) in IRSIFAR, fondo Lipparini-Raspini, b. 113, f. 190; Circolo della Resistenza di Torino, Antifascismo militante e trame nere, 11 settembre 1974, ivi
254 Note per la Segreteria cit.
255 Mobilitazione unitaria per battere la strategia della provocazione. Subito sotto, in prima pagina, L. Pavolini, La risposta giusta, in «l’Unità», 9 marzo 1975
256 Il «Comitato di coordinamento permanente per la difesa dell’ordine democratico» era composto dalla Federazione CGIL, CISL, UIL, dai partiti PCI, PSI, DC, PSDI, PRI, PLI di Roma e provincia, e dalle associazioni partigiane ANPI, FLAP E FVL. Cfr. Comitato di coordinamento permanente per la difesa dell’ordine democratico, Documento programmatico, 21 gennaio 1975, in IRSIFAR, fondo Lipparini-Raspini, b. 113, f. 190
257 Cfr. la corrispondenza tra Enrico Berlinguer e Arrigo Boldrini, presidente dell’ANPI, allegata in IG, APC, 1973, Riunione di Segreteria del 12 giugno, m. 045, p. 409 e sgg.
258 Mobilitazione di massa contro le violenze nere, in «l’Unità», 28 marzo 1975
259 Alle presidenze delle Camere le firme della petizione antifascista, ivi, 19 luglio 1975
260 Due milioni di firme al Senato sotto la petizione antifascista, ivi, 26 luglio 1975
261 Ibidem
Valentina Casini, Sinistra extraparlamentare e partito comunista in Italia 1968-1976, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015