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venerdì 12 agosto 2022

Dall’estate del ’44 ogni divisione partigiana si dotò di un tribunale composto da rappresentanti di ciascuna brigata


Tra lo Stato italiano retto da Bonomi, gli Alleati e i Comitati di Liberazione Nazionale (in particolare il CLNAI con sede a Milano) si inserisce l’opera di epurazione, più o meno sommaria, che intrapresero le frange della Resistenza; episodi di giustizia verificatisi sia in quei luoghi da poco liberati, in cui le autorità italiane ed angloamericane non si erano ancora imposte stabilmente , sia nei territori controllati, momentaneamente, dalle sole forze partigiane. Gli attori di questo paragrafo sono coloro che dopo l’8 settembre 1943 imbracciarono le armi e si nascosero tra i boschi, le campagne, le periferie <162, sacrificando le loro vite, e quelle dei loro familiari, per cacciare dalla patria il “tedesco invasore” e i “traditori” della RSI <163. E’ comprensibile che questi uomini <164, lottando e rischiando la vita quotidianamente, versando sangue per liberare le proprie terre, non volessero sentir ragione di leggi e procedure quando si trovarono faccia a faccia con i tedeschi o con i fascisti; per loro le flebili norme statali non avevano assunto in quei mesi un valore determinante e vincolante. L’epurazione spontanea della Resistenza rappresenta quindi una ritorsione per i delitti in precedenza commessi dai nazifascisti ed è il risultato di un sentimento collettivo, popolare e diffuso alimentato da rancori e spirito di vendetta. D’altra parte nell’estate del 1944 i partiti antifascisti non avevano ancora definito una posizione comune da tenere in tema di epurazione e i Comitati di liberazione regionali e provinciali erano troppo eterogenei e instabili. Prevalse quindi una condotta volta alla ritorsione violenta, rapida, per una radicale resa dei conti. Questo cambiava chiaramente da zona a zona in base a quanto cruenta era stata la lotta civile: il fenomeno non era omogeneo. In alcune aree accanto ai CLN si formarono dei comitati provvisori che agirono, nei giorni successivi all’armistizio, attraverso migliaia di licenziamenti nella pubblica amministrazione, prima ancora che le leggi dello Stato italiano entrassero in vigore, sostituendoli con una nuova classe di funzionari <165. In altre zone, soprattutto quelle del Nord dove la guerra civile era stata più cruenta, la voglia di rivalsa e il desiderio di vendetta contro i fascisti repubblicani fu talmente accesa che si verificarono migliaia di uccisioni: una vera e propria giustizia sommaria <166. Questa feroce ed illegale repressione rientra a pieno titolo nella cosiddetta “epurazione selvaggia” <167 verificatasi, prevalentemente, nella primavera del 1945 <168.
Se per il fascismo delle origini, che per quello repubblicano, la violenza rappresentò un tratto costitutivo <169, «un concentrato di sorda violenza», come lo ha definito Mirco Dondi <170, viceversa è stato osservato come per le formazioni partigiane il significato attribuito ad azioni cruente fugeneralmente diverso, reattivo <171 ma non strutturale; la violenza che nel primo caso era esaltata e rappresentava un valore, nel secondo era una conseguenza delle provocazioni, una legittima difesa (anche nei casi di attacco). In alcune circostanze non è da escludere che potessero verificarsi “forme di contagio” da parte di una violenza più accanita tipica delle Brigate nere anche nei gruppi di partigiani <172, ma in linea generale la Resistenza fece un uso, se si può dire, più morale della violenza. Proprio per questo ogni banda partigiana varò dei regolamenti interni, delle linee di comportamento da mantenere sia nei confronti dei nemici che nei confronti, a maggior ragione, dei paesani e dei civili che li sostentavano <173. In aggiunta se agli albori della lotta partigiana il codice comportamentale era distante dalle norme del diritto, via via che l’esperienza resistenziale si faceva più matura diversi gruppi si avvicinarono alle direttive del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà che indicava alle file della Resistenza di rifarsi al Codice penale militare di guerra. Così dall’estate del ’44 ogni divisione partigiana si dotò di un tribunale composto da rappresentati di ciascuna brigata. Le deliberazioni si rifacevano agli articoli del Codice penale di guerra e in altri casi al semplice buonsenso <174. L’applicazione delle pene era differenziata generalmente tra prigionieri tedeschi e repubblicani: i primi erano nemici, appartenenti ad una nazione ostile e invasori del suolo patrio ma venivano considerati meno pericolosi dei fascisti i quali erano spesso vecchi amici, vecchi compagni ora traditori, che andavano puniti nei casi estremi con la pena di morte inflitta in particolare ai delatori, gli organizzatori del partito e i partecipanti armati ai rastrellamenti, o alle rappresaglie contro i civili. Anche contro questi ultimi però andavano raccolte prove prima di sottoporre l’imputato al processo del Tribunale partigiano ed eventualmente condannarlo; il tutto era volto a ridurre al minimo le esecuzioni sommarie <175, «per dettare un fermo criterio al quale ispirarsi in qualsiasi momento, [e per] porre un freno e non sancire quello stato d’animo che rompeva ogni controllo» <176. A volte le esecuzioni rispondevano invece solo alle contingenze: la mancanza di carceri dove imprigionare i nemici e l’impossibilità di convincerli ad abbandonare le armi portava all’ovvia necessità di eliminazione fisica del malcapitato <177.
Ogni azione della giustizia partigiana, anche la più cruenta e vendicativa, tendeva (anche se non sempre ci riusciva) ad essere moralmente superiore a quella nazifascista. Non tutti i catturati inoltre venivano condannati alla pena capitale: le donne collaborazioniste coi tedeschi, per esempio, erano colpite già dal 1944 con il taglio dei capelli, una pena che mirava a mortificare la femminilità della donna.
In conclusione, per quanto la guerriglia partigiana avesse cercato tra il ’43 e il ’45 di agire con più moralità rispetto alla cruda violenza repubblicana, la guerra civile sancì la necessità di intraprendere azioni altrettanto tragiche e con poche «alternative nel giudizio» <178. Se la Resistenza aveva cercato di circoscrivere i limiti della violenza, le ondate di giustizia sommaria post-Liberazione sconfessarono ampiamente questi intenti.
[NOTE]
163 Il termine “traditori” era chiaramente utilizzato dai partigiani per descrivere i repubblicani e, viceversa, dai saloini per descrivere le bande della Resistenza.
164 Non mancano ovviamente tra le file della Resistenza anche moltissime donne.
165 Cfr. H. WOLLER, I conti con il fascismo, op. cit., pp. 227-242.
166 Si veda sul tema M. DONDI, La lunga liberazione, op. cit.
167 Vedi infra.
168 In questa ondata di vendette solo una piccola cittadina, Montecatini Terme, istituì un tribunale popolare extralegale (in attività per pochissimo tempo) al fine di giudicare i criminali fascisti.
169 Si consulti M. MILLAN, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2004, pp. 11-17. Si vedano anche G. ALBANESE, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 176-177 e T. ROVATTI, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la RSI, Clueb, Bologna, 2011, p. 101: «La violenza fascista assume modalità d’espressione tipiche della guerra civile, oltrepassando anche sotto l’aspetto formale ogni limite di legittimità. All’interno dello scontro armato fra connazionali il coinvolgimento indiscriminato degli inermi, l’uccisione sommaria di donne, la rappresaglia su ostaggi estranei ai fatti, l’uso della tortura, le ritorsioni sui congiunti e le azioni esplicitamente finalizzate alla vendetta acquisiscono a partire dagli ultimi mesi del 1944 il carattere di pratiche dominanti». Segnalo ancora di Rovatti un saggio: T. ROVATTI, La violenza dei fascisti repubblicani. Fra collaborazionismo e guerra civile, in G. FULVETTI, P. PEZZINO, (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 145-168.
170 M. DONDI, La lunga liberazione, op. cit., p. 14.
171 Cfr. G. SCHWARZ, Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, UTET, Torino, 2010.
172 Cfr. C. PAVONE, Una guerra civile, op. cit., pp. 413-514. Inoltre si consulti S. PELI, La Resistenza in Italia, op. cit., pp. 161-169.
173 Cfr. R. BOTTA, Il senso del rigore. Il codice morale della giustizia partigiana, in M. LEGNANI, F. VENDRAMINI, (a cura di) Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 141-161. In aggiunta si segnala G. OLIVA, I vinti e i liberati, op. cit. Va rammentato che non pochi furono i casi di esecuzione di partigiani che avevano infranto il codice della brigata rubando per esempio del cibo o del vestiario da alcune case. I partigiani avevano l’assoluta necessità di essere appoggiati dalla popolazione civile e non potevano passare per banditi e ladri. Se così fosse stato nulla li avrebbe resi diversi dai nazifascisti e il vitale sostegno delle comunità sarebbe venuto meno condannando le stesse bande partigiane alla fine. «Nati come fuorilegge, tendevamo per istinto a ritornar nella legge, ossia a crear un nostro “codice”, di cui la responsabilità fosse comune, alle cui formule si potesse ricorrere nei momenti d’incertezza». R. BATTAGLIA, Un uomo, un partigiano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 166.
174 Cfr. A. MARTINI, Dopo Mussolini, op. cit., pp. 44-58.
175 Cfr. R. BATTAGLIA, Un uomo, un partigiano, op. cit., pp. 165-174. Il Tribunale partigiano, specificava Battaglia, doveva dare un giudizio non vincolato ad alcun codice penale. Il giudizio era riconosciuto solo dal tribunale stesso e dai compagni d’armi.
176 Ivi, p. 167.
177 Cfr. A. MARTINI, Dopo Mussolini, op. cit., pp. 44-58.
178 G. SOLARO, La giustizia partigiana, in «Istituto milanese per la storia della resistenza e del movimento operaio», Annali 4, Franco Angeli, Minalo, 1995, p. 399.
Mauro Luciano Malo, La giustizia di transizione tra fascismo e democrazia. La Corte d’Assise straordinaria e l’amnistia Togliatti a Venezia (1945-1947), Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2019/2020

Vi è poi il tema dell’epurazione spontanea che si cerca di soppiantare con questa normativa, e come bene sintetizzato dal Woeller <9, si poteva ricondurre nell’alveo di tre chiare direttrici. Un primo tipo di epurazione è sicuramente quella selvaggia, violenta, tipica dei primi periodi di liberazione del territorio. La seconda tipologia è quella che avviene nell’ambito della guerra, come accade a Roma, dove tra il 1944 e il 1945 possiamo parlare di tre guerre contemporanee: la seconda guerra mondiale, la sanguinosa guerra civile tra fascisti e antifascisti e una guerra di classe di proletari, piccoli contadini e braccianti contro il ceto agrario e borghese. A titolo di esempio, il frutto di questo tipo di epurazione diede 1100 vittime ufficiali in Veneto e 2100 in Emilia Romagna, anche se i dati non sono definitivi  [...] 
9 Hans Woeller, I conti con il fascismo - l’epurazione in Italia. 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1977, pag. 373
Fabio Fignani, L’epurazione in Veneto. Alcuni casi di studio, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016