Powered By Blogger

domenica 21 agosto 2022

"Il manifesto" nacque in seguito all’espulsione dal PCI, nel ’69, di un gruppo di intellettuali e di dirigenti


Per quanto concerne i riflessi che il movimento di protesta ebbe sulla stampa, si può affermare che alcune delle innovazioni introdotte in questo lasso di tempo riflettevano anche i cambiamenti di costume e, più in generale, di mentalità, avvenuti nella società. Tale cambiamento era il portato della protesta del movimento studentesco e, per quanto riguarda lo specifico settore giornalistico, delle numerose, anche se spesso effimere, esperienze giornalistiche nate in quegli anni, legate al movimento e alle frazioni estreme della sinistra. Non si deve credere che il pullulare di fogli d’informazione – o meglio, di “controinformazione” - di quel periodo non avesse solide radici. In realtà, l’esperienza fatta negli anni Sessanta da molti gruppi della “nuova sinistra” - dai «Quaderni Rossi» ai «Quaderni Piacentini», ecc. <118 - si sarebbe riversata, in alcuni casi in modo diretto, proprio nei molti fogli nati nel ’68. Fra le maggiori esperienze, che avrebbero avuto un ruolo duraturo nel panorama giornalistico nazionale e che, in una certa misura, avrebbero anche influenzato il modo di fare giornalismo, è opportuno segnalare «il manifesto», «Lotta continua» e «Il quotidiano dei Lavoratori».
Il primo foglio nacque in seguito all’espulsione dal PCI, nel ’69, di un gruppo di intellettuali e di dirigenti (Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Lucio Magri) che aveva dato una diversa valutazione della situazione italiana e del fatto che nuovi soggetti rivoluzionari erano nati al di fuori delle strutture tradizionali della classe lavoratrice, e in contrapposizione ad esse. Tale gruppo era stato espulso dal partito al termine del XII Congresso del PCI, celebrato nel febbraio del ’69, quando tale gruppo aveva criticato le aperture del segretario del partito, Longo, al PSI e alla DC <119. Tale gruppo iniziò a pubblicare un mensile di approfondimento teorico, intitolato «Il manifesto», con il quale si rivolgono agli intellettuali d’area comunista, fino a quando, nel novembre ’69, con l’accusa di frazionismo, questi quadri e intellettuali sarebbero stati espulsi dal PCI. Nei primi mesi del ’70 «il manifesto» abbandona il progetto di interloquire con il PCI ed i suoi intellettuali, rivolgendo lo sguardo alla sinistra rivoluzionaria emersa nel biennio ’68-’69, con l’intento di unificarla e di concorrere alla costituzione di una nuova forza politica. Venne quindi lanciata una sottoscrizione di 50 milioni per la trasformazione del mensile in quotidiano. Tale trasformazione avvenne il 28 aprile 1971. Gli elementi caratterizzanti del nuovo quotidiano erano la formula (quattro pagine, tutte politiche), il prezzo, (50 £ contro le 80 £ degli altri quotidiani), il totale autofinanziamento e la trasparenza dei bilanci, resi noti sulle pagine dello stesso quotidiano <120. Il giornale appariva privo di una serie di servizi (sport e cronaca locale), e soprattutto non aveva pubblicità al di fuori di quella libraria. L’aspetto grafico era volutamente molto semplice e lineare, in modo da non stabilire aprioristicamente una scala di valore fra le notizie, lasciando libero il lettore di decidere autonomamente la gerarchia delle notizie. A tale scopo, anche i titoli erano molto omogenei all’articolo, al fine di non condizionare emotivamente il lettore. Le quattro pagine era divise per grandi temi: la prima era occupata dagli articoli di fondo e dalle notizie generali, la seconda dalle lotte operaie, la terza dalla politica interna e la quarta dalla politica internazionale.
Il finanziamento iniziale complessivo era di quasi 45 milioni, raccolto interamente con le sottoscrizioni dei “Centri di iniziativa comunista” nei quali si riunivano i militanti espulsi dal PCI. Il pareggio di bilancio era stato individuato in almeno 35.000 copie giornaliere: i risultati iniziali furono sorprendenti, vendendo nei primi giorni circa 120.000 copie, scese poi intorno alle 35-38 mila copie. Tuttavia, dopo i primi mesi, anche per colpa della costosa e scarsamente funzionale rete di distribuzione, le copie vendute diminuirono rapidamente, così come aumentarono le rese (oltre il 50% a numero), attestandosi intorno alle 30.000 copie effettivamente vendute. I risultati erano quindi insufficienti a garantire il pareggio: per questa ragione il collettivo redazionale lanciò una serie di sottoscrizioni fra i lettori, che consentirono al giornale di sopravvivere, seppure a fatica. Nei primi mesi del ’72 le vendite del quotidiano comunista registrano una ripresa – giungendo a toccare il tetto delle 40.000 copie giornaliere - legata alla decisione del gruppo redazionale di partecipare alle elezioni politiche del maggio ’72: la clamorosa sconfitta elettorale farà ripiombare le vendite ai minimi storici, cosa che obbligherà il quotidiano ad aumentare il prezzo di vendita a 90 £. Nonostante tale misura, il passivo aumenta (44 milioni a metà ’73) anche a causa delle spese sostenute dal giornale per l’organizzazione del gruppo politico che si era presentato alle elezioni. Per rimediare ai problemi di distribuzione nel settentrione viene messo a punto un programma per la realizzazione delle doppia stampa, a Roma e a Milano, attraverso la teletrasmissione in fac-simile (progetto entrato in funzione nel gennaio ’74). Nonostante questa importante innovazione, le vendite continuano a ristagnare: una boccata d’ossigeno venne, nel luglio ’74, dalla fusione del gruppo che faceva riferimento al quotidiano, con il PDUP, operazione grazie alla quale il quotidiano si trasformò in organo di partito, con un evidente vantaggio diffusionale, ma anche con una riduzione dell’autonomia della redazione.
Nel ’75 la media delle copie vendute si attestò intorno alle 20.000, e scese a 19.500 nel ’76. Il tracollo si verificò nel ’77, quando la media annuale delle vendite non superò le 16.000 copie. Tale drammatica flessione era riconducibile essenzialmente a due fatti: da un lato, la rottura con il PDUP, che causa una crisi all’interno del collettivo redazionale; dall’altro l’incapacità del giornale di leggere con lucidità l’evoluzione della situazione politico-sociale del paese, compresa invece maggiormente da quotidiani come «Repubblica» e «Lotta continua», che proprio in questo frangente hanno dei risultati di vendita significativi <121. La crisi fu superata grazie ai finanziamenti garantiti dalla legge n. 172 del ’76 sui provvedimenti urgenti per l’editoria, che consentì al giornale di ottenere un mutuo agevolato di circa 250 milioni di lire, e ai sacrifici compiuti dal collettivo redazionale, che decise di contenere gli stipendi.
Il ’78 fu l’anno della ripresa grazie anche al rientro di Pintor che diede al giornale una nuova spinta. Di maggiore impatto fu però la decisione di rinunciare alla discriminante anti-pubblicitaria: nel maggio, infatti, il quotidiano stipula con la SIPRA un contratto per la fornitura di un minimo garantito di 120 milioni l’anno con un incremento del 15% annuo per raggiungere la quota complessiva di 809 milioni in cinque anni.
[NOTE]
118 A. MANGANO, Le culture del Sessantotto. Gli anni Sessanta, le riviste, il movimento, Centro di Documentazione di Pistoia, Pistoia 1989.
119 S. DALMASSO, Il caso “Manifesto” e il PCI degli anni ’60, Cric, Torino 1989, pp. 82-90.
120 A. FERRIGOLO, L’avventura editoriale del «manifesto», in «Problemi dell’informazione», 1, 1981, pp. 45-69.
121 A. PILATI, Con fatica, tra «Lotta Continua» e «Repubblica», in «Prima Comunicazione», luglio-agosto 1979, p. 48.
Guido Ferrini, La stampa italiana dal dopoguerra alla seconda Repubblica. Dalle concentrazioni editoriali alla finanziarizzazione dell’editoria, Tesi di laurea, Università di Pisa, Anno accademico 2014-2015

Su di piano di più specifica direzione culturale, la battaglia in favore di un aggiornamento dei presupposti teoretici del partito si fa man mano più incisiva, mancando però di presentare una alternativa comprensibile. Le riflessioni sulla “unità” tra politica e cultura si inserivano in un approccio di fondo tipico del comunismo nazionale e non, in linea con le evoluzioni di tutto il partito in merito, limitandosi però a promuovere un atteggiamento programmatico dai contorni più astratti che concreti. In altre parole, Rossanda prova a reagire a una dismissione di fatto che il partito andava operando nei rapporti con la cultura, pur mascherata da una sorta di ždanovismo edulcorato ripetuto con sempre meno convinzione interiore. Mai, in Rossanda, è presente un astratto problema di “libertà” della cultura nei confronti della politica. Sempre, invece, vi è un tentativo di stimolare un effettivo aggiornamento del marxismo in seno al corpo intellettuale <562. Viceversa, la polemica sullo storicismo - se utile all’aggiornamento del marxismo nazionale in direzioni più originali - non riusciva ad indicare un complesso di riferimenti alternativi all’unica (a quel tempo e per quel partito) alternativa esistente, e cioè l’adeguamento ai canoni del marxismo di marca sovietica, serrato nel suo “materialismo-dialettico” che, se nuovamente importato quale canovaccio di fondo dell’ideologia del partito, avrebbe costretto lo stesso rapporto tra politica e cultura ad un nuovo irrigidimento. Esattamente l’opposto di quanto andava predicando Rossanda stessa. Sul piano più politico invece - e cioè le riflessioni sul centro-sinistra – la tensione di Rossanda appare quella più proficua o politicamente efficace, legandosi all’anima del partito che sempre più criticherà l’atteggiamento attendista o aperturista del partito alla nuova configurazione governativa. Non a caso, sarà proprio attorno a tale questione (e alla questione, connessa, delle “riforme di struttura”) che avverranno le polemiche più incisive, che si tradurranno in scontro aperto coagulando le diverse tendenze critiche in una “sinistra” del partito che vedrà in Ingrao il riferimento (suo malgrado) più importante, sconfitto tra l’XI e il XII Congresso. La vicenda del manifesto, in ultimo, costituirà il momento in cui tale scollamento non riuscirà più a ricomporsi, uno scollamento che agirà sui problemi politici, e non su quelli culturali o ideologici tra direzione del partito e i suoi critici.
[...] Alle soglie del Sessantotto i molteplici nodi critici ricordati verranno infine al pettine. I «folli» <567 anni Settanta troveranno ragion d’essere nel lungo confronto-scontro tra “comunismi”, o se si preferisce tra “marxismi” oramai alternativi fra loro, da cui scaturirà quel “lungo Sessantotto” che presenta, tra i caratteri decisivi, quello della inconciliabile alterità tra tradizione comunista, incarnata dal Pci, e l’anticapitalismo della nuova sinistra. Un rapporto conflittuale che schiaccerà sempre più i gruppi dell’estrema sinistra verso la radicalizzazione delle pratiche eversive e il Pci verso un inedito riposizionamento: da soggetto riformista della classe operaia a partito della “ragion di Stato” <568. Negli anni Settanta è già di fatto preclusa qualsivoglia forma di collaborazione, men che meno di alleanza, e questo nonostante la strategia del “fronte unico dal basso” espressa dai gruppi emersi dal riflusso dell’Autunno caldo (Pdup-Manifesto, Avanguardia operaia e Lotta continua), strategia volta ad impedire la convergenza politica tra Pci e Democrazia cristiana. Velleitaria o meno che fosse, il rapido esaurirsi di tale possibilità priverà anche l’area più “realista” dei gruppi di una tattica politica di medio periodo.
[...] A ben vedere, più che di “destra” e “sinistra”, bisognerebbe parlare di un’area più “movimentista”, che trovò in Ingrao il suo punto di riferimento, e di una più “parlamentare”, o riformista, incarnata da Amendola <626. Anche perché di “sinistre”, nel Pci degli anni Sessanta, se ne intravedono almeno tre: l’ortodossia sovietica di Secchia e Alberganti, ridimensionata nel partito ma punto di contatto con il “marxismo-leninismo” fuori dal partito; quella di Ingrao - o della «eterodossia disciplinata» <627 - che, sebbene «invenzione postuma» - come rilevato da Lucio Magri - non di meno costituì, secondo Luciana Castellina, «il tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste - più che su quelle antiche dell’Italietta rurale - far leva» <628; quella, infine, “ultramovimentista” del "manifesto", vicina alle posizioni di Ingrao ma non sovrapponibile ad esse, e in connessione, semmai, con le spinte provenienti dalla sinistra socialista di Libertini, Vecchietti e Ferraris.
[NOTE]
562 Vedi l’interessante documento contenuto presso Asfi, fondo Rossanda, faldone 37, fascicolo “Corrispondenza intellettuali Pci”, carta “Da RR a Direttore”, senza data, in cui Rossanda esprime la sua visione dei rapporti tra politica e cultura criticando le richieste di “maggiore libertà”, e invece accusando il comunismo italiano di scarso coraggio nella ricerca culturale, artistica e scientifica.
567 Cfr. L. Alteri, Il Sessantanove non fu “eccezionale”, né gli anni Settanta furono “folli”. Una chiave interpretativa secondo il paradigma della violenza politica, relazione tenuta al convegno «1969-2019: 50 ans d’Autunno caldo. Entre historiographie, hèritage et teimognage», Université Paris Nanterre, 16-17-18 ottobre 2019.
568 Cfr., sull’evoluzione politica del Pci determinata anche dal rapporto con la nuova sinistra e il movimento studentesco, M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, T. 2, Einaudi, Torino 1995, pp. 463-470. Sul ruolo politico del Pci e la sua funzione istituzionale-governativa, cfr. anche C. Spagnolo, Il partito di massa, in S. Pons (a cura di), Il comunismo italiano nella storia del Novecento, cit., pp. 151-169, soprattutto pp. 166-167.
626 Cfr. G. Chiarante, Da Togliatti a D’Alema. La tradizione dei comunisti italiani e le origini del Pds, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 105-109. Riguardo alla dialettica tra vere e presunte correnti interne, molto interessante (soprattutto perché maggiormente variegato ed esplicito) il quadro che ne dà G. Galasso in Seguendo il P.C.I., cit.: «vediamo una “destra” orientata intorno a Giorgio Amendola e alla quale fanno capo la maggior parte delle forze intellettuali raccolte nell’Istituto Gramsci e intorno alle riviste “Studi Storici” e “Il Contemporaneo”, la maggior parte dell’ala meridionale e meridionalistica del partito, larghissime sezioni delle rappresentanze amministrative del PCI […]; e vediamo una “sinistra”, che fa capo ad uomini nuovi e che raggruppa la maggior parte dei sindacati e della burocrazia comunista, minoranze di amministratori e di intellettuali e, tendenzialmente, la vecchia guardia del partito e i militanti filocinesi a tutti i livelli», p. 132.
627 Cfr. D. Stasi, L’eretica ortodossia: Pietro Ingrao, cit., pp. 167-181.
628 Cit. in Ivi, p. 175.
Alessandro Barile, Apogeo e crisi della politica culturale comunista. Rossana Rossanda e la Sezione culturale del Pci (1962-1965), Tesi di dottorato, Università di Roma La Sapienza, 2022