Analizzando l’esperienza italiana alla luce dei profili di giustizia di transizione <1079, si nota, come detto, che in Italia ha avuto luogo un’amnistia complessa, in quanto fondata su elementi sia normativi che di fatto. Essa ha avuto come punto di partenza un elemento normativo: l’amnistia Togliatti. Tale amnistia, di per sé, rinuncia solo in parte alla persecuzione penale e si colloca a metà strada fra le amnistie compromissorie e le amnistie con attribuzione di responsabilità (accountable amnisties) <1080. Tuttavia il combinato disposto delle imperfezioni tecnico-giuridiche del testo e di elementi di fatto (in primo luogo l’attivismo della magistratura) hanno trasformato la stessa in un veicolo di impunità. Tale impunità è stata poi avvallata normativamente dal legislatore con nuovi interventi di clemenza, in seguito al mutamento politico del 1948. In tale scenario spicca l’ampiezza dell’amnistia del 1953.
Con riferimento ai crimini italiani all’estero e ai crimini nazisti (per questi ultimi sino alla svolta del 1994), vi è un’amnistia pressoché generalizzata (blanket), data da elementi de facto.
La prospettiva della giustizia di transizione permette di formulare ulteriori considerazioni circa l’amnistia Togliatti. Innanzitutto essa è stata introdotta senza coinvolgimento della popolazione, né nella forma della democrazia diretta, né in quella della democrazia rappresentativa a mezzo del potere legislativo esercitato da un Parlamento eletto dai cittadini.
Valutando inoltre il caso italiano alla luce dei parametri oggi offerti dall’art. 17 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale <1081, emerge che l’Italia del 1946 è un Paese incapace (unable) di perseguire in maniera autentica i crimini commessi durante il fascismo e la seconda guerra mondiale; a tale incapacità si aggiunge, quantomeno dal 1948 una mancanza di volontà (unwillingness).
Preso atto del dato di impunità, allargando la prospettiva, dall’ambito della persecuzione penale (e quindi del correlato uso dell’amnistia) si è passati ad una valutazione sulla transizione nel suo insieme. Ci si è dunque posti il seguente interrogativo: se, a fronte della summenzionata impunità, abbia comunque avuto luogo un processo di transizione compiuto. Per rispondere a tale quesito, ci si è domandati che cosa sia corrisposto al ruolo molto limitato dello strumento penale, avuto riguardo ai piani della pacificazione, della formazione di uno stato democratico, della tutela delle vittime, della costruzione di una memoria storica.
La transizione italiana non ci è parsa meritare un giudizio negativo sotto il profilo del rapporto fra transizione, pacificazione e percorso costituente <1082. Un profilo di fallimento si è registrato invece con riferimento al coinvolgimento delle vittime <1083. Esse non solo sono assenti nella fase giudiziale (con la limitata eccezione dei processi post 1994 relativi alle stragi naziste), ma non hanno neppure uno spazio alternativo, in cui poter raccontare la propria storia, se non addirittura confrontarsi con gli autori dei crimini. La gravità di tale assenza si registra soprattutto in relazione ai decenni successivi all’immediato dopoguerra, quando le esigenze di pacificazione e ricostruzione sono meno pressanti.
Si è infine denunciato il fallimento principale della transizione italiana, in relazione alla ricerca della verità <1084. La transizione italiana ha infatti fornito un contributo minimo in tal senso, quando anzi non ha operato in direzione contraria, verso l’insabbiamento o la deformazione dei fatti. La centralità dell’imputazione per collaborazionismo, nonché la scarsa determinatezza del testo del provvedimento di amnistia, sono stati un punto di partenza determinate di un percorso fatto di molte amnesie, in cui anche la magistratura e la volontà politica hanno avuto un ruolo centrale.
Si è sottolineato come, una volta che la democrazia ha raggiunto una certa stabilità, il popolo italiano abbia omesso di chiedere conto al proprio Paese delle responsabilità passate; sia in forma giudiziaria, che in altre forme.
Dopo il 1989, il divario fra Italia e Europa è parso aumentare ulteriormente <1085. Se infatti, da un lato, anche l’Italia ha posto in discussione il precedente patto memoriale, dall’altro da noi questa fase, a differenza che in altri Paesi europei, ha dato spazio a revisionismi che si sono tradotti in una nuova autoassoluzione.
Il confronto con la transizione degli anni ’90 <1086 ha attenuato la colpevolezza del legislatore postbellico, essendovi all’epoca esigenze molto concrete di porre fine alle violenze, nonché essendo meno sviluppato lo strumentario giuridico a disposizione per affrontare una transizione. D’altro canto <1087, il confronto ha mostrato un elemento di analogia e continuità, una costante della classe politica italiana nell’affrontare le transizioni politiche: un’abdicazione del legislatore dal proprio ruolo politico e un lasciare, in entrambi i casi, che la responsabilità della transizione ricada sulla magistratura.
Di sicuro la transizione italiana è molto distante dal modello della persecuzione penale inaugurato a Norimberga, che affonda le sue radici nell’Orestea di Eschilo, ossia nel tribunale come luogo di civilizzazione del conflitto, fondante l’ordine della polis <1088.
La transizione italiana si presenta, a più di settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, come amnesica e incompiuta. Tuttavia, l’incompiutezza della giustizia di transizione italiana non risiede (sol)tanto nel fallimento della fase della repressione penale, quanto nel fatto che nei settant’anni successivi sia mancato un tentativo della società di fare i conti con il passato, di riflettere su cause ed effetti, in una parola di assumere le proprie responsabilità verso il passato e quindi verso il presente e il futuro. Tale momento infatti è un percorso sociale lungo e complesso, che prescinde dall’esistenza o meno di una fase repressiva penale, poiché lo strumento penale, laddove esperito, può offrire un contributo, ma non esaurisce tale autoanalisi. Ciò se non altro per il fatto che «in Occidente, la storia giuridica dello Stato consiste nella programmazione della sua innocenza nell’ambito del diritto penale» <1089, il che rende complesso e limitato il ruolo del giudice «quando il contesto storico, lungi dall’essere un puro oggetto di conoscenza speculativa, entra a far parte, invece degli elementi costituenti l’atto incriminato»1090. Ciò avviene quando «un soggetto risponde […] attraverso i propri atti, del significato che si riallaccia alla totalità di un piano, in cui tutto l’apparato dello Stato è impegnato» <1091.
La mancanza in Italia di un tale percorso non ha mantenuto solo memorie divisive del conflitto, senza una ricomposizione della storia del nostro Paese <1092, ma ha in generale impedito una riflessione sulle degenerazioni e le responsabilità del nostro passato <1093.
[...] La memoria storica della seconda guerra mondiale che si è prodotta, risulta falsata, amnesica e autoassolutoria. Sembrano dunque terribilmente vere le parole del già menzionato Autore, secondo cui «noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, le sue conversioni. Ma l’Italia è un Paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua memoria, della sua storia, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe questo Paese […] che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi ma con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia a una coerenza, a una tensione morale» <1100.
L’evocazione del summenzionato «grande processo» al fascismo e alla seconda guerra mondiale non significa (sol)tanto un maggiore bisogno di memoria, quanto un bisogno di analisi razionale e critica inserita in un contesto, ossia un bisogno di storia. E’ quindi di un’operazione che richiede attenzione e impegno e, se da essa deriva un contributo alla memoria collettiva, il risultato non può che essere quello di memorie plurali, che «devono riflettere sia gli elementi distruttivi che quelli costruttivi del passato […], gli storici hanno il compito di mantenere questo dualismo nella visione pubblica» <1101. Onde evitare la mera retorica o la pura utopia, non ci si può astenere dal registrare un aspetto problematico, che risiede nel fatto che «se la storia ci insegna qualcosa è che, in politica come in guerra, gli esseri umani non sono programmati per l’ambivalenza; essi rispondono alla lealtà e alla certezza. E come Renan ha affermato in “Che cos’è una Nazione?”, nella misura in cui esse possano essere rafforzate dal ricordo collettivo, non importa se le memorie in questione siano storicamente accurate o se, al contrario, esse siano invenzioni, prodotto di moderna manifattura» <1102.
Queste riflessioni allargano notevolmente la discussione rispetto al nostro punto di partenza, circa il ruolo del diritto e del rito penale all’interno del processo di transizione italiano. Emerge il ruolo parziale e limitato che essi possono avere nel gestire le transizioni alla democrazia, se non sono accompagnati da altri strumenti stragiudiziali, non solo nell’immediatezza, ma anche nei decenni successivi. E la transizione italiana, a questo punto è facile avvedersene, è un processo tutt’altro che concluso.
Volendo oggi tentare di fare effettivamente i conti con le responsabilità passate, ci si imbatte però nel summenzionato problema: la popolazione, nella sua maggioranza, non ragiona sulla base della storia, ma si adagia su semplificazioni della memoria collettiva. Il processo di Norimberga ha probabilmente “funzionato” in tal senso, proprio in quanto semplificazione. Come effettuare dunque questa operazione? Come rapportare il ragionamento critico della storia alla memoria collettiva, senza incorrere negli abusi di quest’ultima? E’ questa la sfida aperta.
[NOTE]
1079 Cfr. supra, Cap. II, § 7.2.3.
1080 R. SLYE, “The Legitimacy of Amnesties…”, cit., p. 245.
1081 Cfr. supra, Cap. II, § 7.2.3.1.
1082 Cfr. supra, Cap. III, § 3.
1083 Cfr. supra, Cap. III, § 4.
1084 Ibidem.
1085 Cfr. supra, Cap. III, § 5.5.
1086 Cfr. supra, Cap. III, § 6.1.
1087 Cfr. supra, Cap. III, § 6.2.
1088 In questo senso P.P. PORTINARO, I conti con il passato, cit., 76. Al contesto italiano si adatterebbe più la tragedia Elena di Euripide, dove il noto personaggio viene sdoppiato: vi è un’Elena innocente (che è stata vittima di un rapimento e non fuggì mai con Paride, causando la guerra di Troia) ed un’Elena colpevole (quella nota nell’immaginario collettivo). Nello stallo di una prigionia in Egitto, vi è un confronto interiore di Elena e del suo doppio, che avviene in una caverna che presenta analogie con quella del noto mito di Platone. Ivi emerge l’impossibilità di un giudizio univoco e definitivo. Il desiderio di Elena per la vita e la famiglia porteranno il personaggio ad uscire dallo stallo della prigionia e ad affrontare il futuro, in un finale che è al tempo stesso positivo in quanto forward-looking e negativo in quanto, a differenza dell’Orestea, al sacrifico di dieci anni di guerra non corrisponde una compensazione, una pena (sul tema M.L. GUARDINI, Il mito di Elena: Euripide e Isocrate, Treviso, Canova 1987). Nel caso italiano tuttavia anche questo momento di confronto all’interno della società è mancato.
1089 Cfr. Y. THOMAS, La verità, il tempo, il giudice e lo storico, cit., 379.
1100 Cfr. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, Milano, Garzanti 1975, 87, citato in S. PIVATO, Vuoti di memoria, cit., 41.
1101 Cfr. K.H. JARAUSCH, Nightmares or Daydreams?, cit., 320.
1102 Cfr. D. RIEFF, In praise of forgetting, cit., 141. Secondo l’Autore, l’unico ad aver affrontato espressamente tale problema sarebbe il politologo tedesco Ulrich BECK, il quale propone di «sostituire la “grandeur nazionale” con una forma di memoria collettiva che egli chiama “nazionalismo metodologico”, con qualche forma di “ambivalenza condivisa” sul passato, anche se egli è meno chiaro su come ciò possa funzionare nella pratica» (ibidem).
Paolo Caroli, La giustizia di transizione in Italia. L’esperienza dopo la seconda guerra mondiale, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2015-2016
Con riferimento ai crimini italiani all’estero e ai crimini nazisti (per questi ultimi sino alla svolta del 1994), vi è un’amnistia pressoché generalizzata (blanket), data da elementi de facto.
La prospettiva della giustizia di transizione permette di formulare ulteriori considerazioni circa l’amnistia Togliatti. Innanzitutto essa è stata introdotta senza coinvolgimento della popolazione, né nella forma della democrazia diretta, né in quella della democrazia rappresentativa a mezzo del potere legislativo esercitato da un Parlamento eletto dai cittadini.
Valutando inoltre il caso italiano alla luce dei parametri oggi offerti dall’art. 17 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale <1081, emerge che l’Italia del 1946 è un Paese incapace (unable) di perseguire in maniera autentica i crimini commessi durante il fascismo e la seconda guerra mondiale; a tale incapacità si aggiunge, quantomeno dal 1948 una mancanza di volontà (unwillingness).
Preso atto del dato di impunità, allargando la prospettiva, dall’ambito della persecuzione penale (e quindi del correlato uso dell’amnistia) si è passati ad una valutazione sulla transizione nel suo insieme. Ci si è dunque posti il seguente interrogativo: se, a fronte della summenzionata impunità, abbia comunque avuto luogo un processo di transizione compiuto. Per rispondere a tale quesito, ci si è domandati che cosa sia corrisposto al ruolo molto limitato dello strumento penale, avuto riguardo ai piani della pacificazione, della formazione di uno stato democratico, della tutela delle vittime, della costruzione di una memoria storica.
La transizione italiana non ci è parsa meritare un giudizio negativo sotto il profilo del rapporto fra transizione, pacificazione e percorso costituente <1082. Un profilo di fallimento si è registrato invece con riferimento al coinvolgimento delle vittime <1083. Esse non solo sono assenti nella fase giudiziale (con la limitata eccezione dei processi post 1994 relativi alle stragi naziste), ma non hanno neppure uno spazio alternativo, in cui poter raccontare la propria storia, se non addirittura confrontarsi con gli autori dei crimini. La gravità di tale assenza si registra soprattutto in relazione ai decenni successivi all’immediato dopoguerra, quando le esigenze di pacificazione e ricostruzione sono meno pressanti.
Si è infine denunciato il fallimento principale della transizione italiana, in relazione alla ricerca della verità <1084. La transizione italiana ha infatti fornito un contributo minimo in tal senso, quando anzi non ha operato in direzione contraria, verso l’insabbiamento o la deformazione dei fatti. La centralità dell’imputazione per collaborazionismo, nonché la scarsa determinatezza del testo del provvedimento di amnistia, sono stati un punto di partenza determinate di un percorso fatto di molte amnesie, in cui anche la magistratura e la volontà politica hanno avuto un ruolo centrale.
Si è sottolineato come, una volta che la democrazia ha raggiunto una certa stabilità, il popolo italiano abbia omesso di chiedere conto al proprio Paese delle responsabilità passate; sia in forma giudiziaria, che in altre forme.
Dopo il 1989, il divario fra Italia e Europa è parso aumentare ulteriormente <1085. Se infatti, da un lato, anche l’Italia ha posto in discussione il precedente patto memoriale, dall’altro da noi questa fase, a differenza che in altri Paesi europei, ha dato spazio a revisionismi che si sono tradotti in una nuova autoassoluzione.
Il confronto con la transizione degli anni ’90 <1086 ha attenuato la colpevolezza del legislatore postbellico, essendovi all’epoca esigenze molto concrete di porre fine alle violenze, nonché essendo meno sviluppato lo strumentario giuridico a disposizione per affrontare una transizione. D’altro canto <1087, il confronto ha mostrato un elemento di analogia e continuità, una costante della classe politica italiana nell’affrontare le transizioni politiche: un’abdicazione del legislatore dal proprio ruolo politico e un lasciare, in entrambi i casi, che la responsabilità della transizione ricada sulla magistratura.
Di sicuro la transizione italiana è molto distante dal modello della persecuzione penale inaugurato a Norimberga, che affonda le sue radici nell’Orestea di Eschilo, ossia nel tribunale come luogo di civilizzazione del conflitto, fondante l’ordine della polis <1088.
La transizione italiana si presenta, a più di settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, come amnesica e incompiuta. Tuttavia, l’incompiutezza della giustizia di transizione italiana non risiede (sol)tanto nel fallimento della fase della repressione penale, quanto nel fatto che nei settant’anni successivi sia mancato un tentativo della società di fare i conti con il passato, di riflettere su cause ed effetti, in una parola di assumere le proprie responsabilità verso il passato e quindi verso il presente e il futuro. Tale momento infatti è un percorso sociale lungo e complesso, che prescinde dall’esistenza o meno di una fase repressiva penale, poiché lo strumento penale, laddove esperito, può offrire un contributo, ma non esaurisce tale autoanalisi. Ciò se non altro per il fatto che «in Occidente, la storia giuridica dello Stato consiste nella programmazione della sua innocenza nell’ambito del diritto penale» <1089, il che rende complesso e limitato il ruolo del giudice «quando il contesto storico, lungi dall’essere un puro oggetto di conoscenza speculativa, entra a far parte, invece degli elementi costituenti l’atto incriminato»1090. Ciò avviene quando «un soggetto risponde […] attraverso i propri atti, del significato che si riallaccia alla totalità di un piano, in cui tutto l’apparato dello Stato è impegnato» <1091.
La mancanza in Italia di un tale percorso non ha mantenuto solo memorie divisive del conflitto, senza una ricomposizione della storia del nostro Paese <1092, ma ha in generale impedito una riflessione sulle degenerazioni e le responsabilità del nostro passato <1093.
[...] La memoria storica della seconda guerra mondiale che si è prodotta, risulta falsata, amnesica e autoassolutoria. Sembrano dunque terribilmente vere le parole del già menzionato Autore, secondo cui «noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, le sue conversioni. Ma l’Italia è un Paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua memoria, della sua storia, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe questo Paese […] che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi ma con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia a una coerenza, a una tensione morale» <1100.
L’evocazione del summenzionato «grande processo» al fascismo e alla seconda guerra mondiale non significa (sol)tanto un maggiore bisogno di memoria, quanto un bisogno di analisi razionale e critica inserita in un contesto, ossia un bisogno di storia. E’ quindi di un’operazione che richiede attenzione e impegno e, se da essa deriva un contributo alla memoria collettiva, il risultato non può che essere quello di memorie plurali, che «devono riflettere sia gli elementi distruttivi che quelli costruttivi del passato […], gli storici hanno il compito di mantenere questo dualismo nella visione pubblica» <1101. Onde evitare la mera retorica o la pura utopia, non ci si può astenere dal registrare un aspetto problematico, che risiede nel fatto che «se la storia ci insegna qualcosa è che, in politica come in guerra, gli esseri umani non sono programmati per l’ambivalenza; essi rispondono alla lealtà e alla certezza. E come Renan ha affermato in “Che cos’è una Nazione?”, nella misura in cui esse possano essere rafforzate dal ricordo collettivo, non importa se le memorie in questione siano storicamente accurate o se, al contrario, esse siano invenzioni, prodotto di moderna manifattura» <1102.
Queste riflessioni allargano notevolmente la discussione rispetto al nostro punto di partenza, circa il ruolo del diritto e del rito penale all’interno del processo di transizione italiano. Emerge il ruolo parziale e limitato che essi possono avere nel gestire le transizioni alla democrazia, se non sono accompagnati da altri strumenti stragiudiziali, non solo nell’immediatezza, ma anche nei decenni successivi. E la transizione italiana, a questo punto è facile avvedersene, è un processo tutt’altro che concluso.
Volendo oggi tentare di fare effettivamente i conti con le responsabilità passate, ci si imbatte però nel summenzionato problema: la popolazione, nella sua maggioranza, non ragiona sulla base della storia, ma si adagia su semplificazioni della memoria collettiva. Il processo di Norimberga ha probabilmente “funzionato” in tal senso, proprio in quanto semplificazione. Come effettuare dunque questa operazione? Come rapportare il ragionamento critico della storia alla memoria collettiva, senza incorrere negli abusi di quest’ultima? E’ questa la sfida aperta.
[NOTE]
1079 Cfr. supra, Cap. II, § 7.2.3.
1080 R. SLYE, “The Legitimacy of Amnesties…”, cit., p. 245.
1081 Cfr. supra, Cap. II, § 7.2.3.1.
1082 Cfr. supra, Cap. III, § 3.
1083 Cfr. supra, Cap. III, § 4.
1084 Ibidem.
1085 Cfr. supra, Cap. III, § 5.5.
1086 Cfr. supra, Cap. III, § 6.1.
1087 Cfr. supra, Cap. III, § 6.2.
1088 In questo senso P.P. PORTINARO, I conti con il passato, cit., 76. Al contesto italiano si adatterebbe più la tragedia Elena di Euripide, dove il noto personaggio viene sdoppiato: vi è un’Elena innocente (che è stata vittima di un rapimento e non fuggì mai con Paride, causando la guerra di Troia) ed un’Elena colpevole (quella nota nell’immaginario collettivo). Nello stallo di una prigionia in Egitto, vi è un confronto interiore di Elena e del suo doppio, che avviene in una caverna che presenta analogie con quella del noto mito di Platone. Ivi emerge l’impossibilità di un giudizio univoco e definitivo. Il desiderio di Elena per la vita e la famiglia porteranno il personaggio ad uscire dallo stallo della prigionia e ad affrontare il futuro, in un finale che è al tempo stesso positivo in quanto forward-looking e negativo in quanto, a differenza dell’Orestea, al sacrifico di dieci anni di guerra non corrisponde una compensazione, una pena (sul tema M.L. GUARDINI, Il mito di Elena: Euripide e Isocrate, Treviso, Canova 1987). Nel caso italiano tuttavia anche questo momento di confronto all’interno della società è mancato.
1089 Cfr. Y. THOMAS, La verità, il tempo, il giudice e lo storico, cit., 379.
1100 Cfr. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, Milano, Garzanti 1975, 87, citato in S. PIVATO, Vuoti di memoria, cit., 41.
1101 Cfr. K.H. JARAUSCH, Nightmares or Daydreams?, cit., 320.
1102 Cfr. D. RIEFF, In praise of forgetting, cit., 141. Secondo l’Autore, l’unico ad aver affrontato espressamente tale problema sarebbe il politologo tedesco Ulrich BECK, il quale propone di «sostituire la “grandeur nazionale” con una forma di memoria collettiva che egli chiama “nazionalismo metodologico”, con qualche forma di “ambivalenza condivisa” sul passato, anche se egli è meno chiaro su come ciò possa funzionare nella pratica» (ibidem).
Paolo Caroli, La giustizia di transizione in Italia. L’esperienza dopo la seconda guerra mondiale, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2015-2016