Se di apertura a sinistra si può cominciare a parlare all’indomani dell’incontro di Pralognan del 1956 - con la finalità ancora remota della ricomposizione delle anime scisse del socialismo italiano - e del convegno di Vallombrosa del 1957, è altrettanto vero che il centro-sinistra vero e proprio, prescindendo dalle formule parlamentari di appoggio esterno o partecipazione organica, si verificò all’indomani dei fatti di Genova del 1960, aprendosi con il II governo Fanfani e chiudendosi nell’estate del 1964, con la crisi del I esecutivo Moro. Altro spartiacque fondamentale per considerare definitivamente conclusa quella stagione è la scissione del Psu nel 1969, che segnò la definitiva sconfitta di quella che, per i riformisti, benché con declinazioni differenti, rappresentò l’operazione-chiave intorno alla quale ruotava il perno della formula politica in questione: in primis, creare gli spazi e le condizioni per l’esistenza di una forza di sinistra occidentale e laburista che sciogliesse l’anomalia tutta italiana di un partito socialista elettoralmente più esiguo delle forze alla sua sinistra e ideologicamente più autonomo dal massimalismo del Partito comunista, e in secondo luogo contendere alla Democrazia Cristiana il monopolio del ruolo di partito di governo. Da quel momento in poi, il centro-sinistra, pur sopravvissuto alle crisi scaturite dagli scontri tra gli attori politici e sociali che lo componevano e stabilizzato nella sua connotazione e nella sua interpretazione, avrebbe perso ogni afflato riformatore originario, caratterizzandosi per l’unico, magro merito d’esser diventato una formula di mero consenso parlamentare. Tale stallo è comprensibile solo in reverse, osservando gli sconvolgenti mutamenti accaduti alla fine del decennio in esame, che avrebbero cambiato la fisionomia della storia italiana e fatto parlare gli storici, non a torto, del 1968 come l’anno della fine effettiva del dopoguerra: la contestazione studentesca e l’autunno caldo. Il centro-sinistra nacque per fornire risposte ad un’ansia di cambiamento diffusa e radicata nell’Italia del boom economico, un Paese per certi versi ancora a metà strada su molti fronti, connotato da un benessere economico inegualmente distribuito, da una crescita tanto disordinata quanto fortuita, da una secolarizzazione culturale non ancora consapevolmente affrontata, da un rapporto con la modernità schizofrenico e da una posizione geopolitica ambiguamente intesa - solo per elencare i cleavages nati in quel periodo e tralasciando le tradizionali fratture che l’Italia affronta da sempre (centro/periferia, Stato/Chiesa, etc.). Non ci riuscì per via di una ragione su tutte: tali risposte, se correttamente messe in pratica, avrebbero spazzato via i cardini su cui poggiava il partito di maggioranza.
Benché alcuni significativi cambiamenti vennero attuati, con una tempistica incerta e con metodi e premesse discutibili, nel complesso il centro-sinistra non seppe trasmettere l’adeguata immagine di sé: era troppo riformatore per quella fetta di società legata ai valori tradizionali, lo era troppo poco per i giovani, per i figli del dopoguerra, che infatti diedero vita ad una delle stagioni più esaltanti ed insieme controverse della storia. Il Sessantotto, in questo senso, non può essere inquadrato come un momento di pura contestazione-per-la-contestazione, o, peggio, come la rivolta dei figli pasciuti contro i propri padri. Il Sessantotto fu innanzitutto la prima seduta d’autoanalisi della società occidentale contemporanea, il primo incontro tra conscio ed inconscio collettivi in una determinata e ben definibile area del mondo. Un momento in cui l’Occidente si confrontò coi suoi miti e coi suoi limiti, con le sue conquiste ed i suoi fantasmi, con le sue leggi (scritte e non) e le sue pene, provò a dare interpretazioni "altre" della realtà, ad elaborare analisi da prospettive nuove e diverse rispetto a quelle classiche. Un momento di discussione e non solo di contestazione, quindi, che avrebbe segnato un punto di rottura rispetto al passato. L’esplosione delle istanze libertarie, solidaristiche ed egualitarie manifestatesi in quel periodo partì proprio dall’insieme di risposte inevase, incomplete e insufficienti fornite dalle classi dirigenti, ivi compresa quella italiana, ad un fenomeno, la modernizzazione, le cui conseguenze furono comprese male o solo in parte.
L’anno successivo la protesta studentesca si saldò coi moti operai, che avevano l’obiettivo di cambiare i rapporti di forza all’interno delle relazioni industriali fino ad allora esistenti attraverso tutta una serie di rivendicazioni a favore dei lavoratori. Anche questo fu un punto saliente nella storia di quel periodo: mai una così vasta ondata di scioperi, proteste e manifestazioni si verificò in Italia in così breve lasso di tempo. Il bersaglio era un mondo del lavoro ormai sclerotizzato su modelli antichi e la massiccia sindacalizzazione della forza lavoro che da lì in poi avrebbe preso il via sarebbe servita proprio a rafforzare il potere contrattuale verso i datori di lavoro. L’eredità dell’autunno caldo, al di là delle marcate derive operaiste degli anni Settanta e della commistione frequente con il terrorismo, servì però a sancire l’irrinunciabilità del principio della contrattazione tra le parti sociali in maniera più flessibile e aperta di quanto fosse stato possibile fare fino ad allora, anche per via della rigida incomunicabilità che aveva animato nel passato le relazioni industriali. Se a ciò si aggiunge l’affermazione del principio per il quale la contrattazione tra capitale e lavoro era una questione che doveva veder impegnato anche il governo in termini di mediazione e proposte, allora non è difficile capire come il biennio 1968-1969 abbia chiuso un’epoca e segnato l’ingresso dell’Italia nella modernità anche in questo campo. Un ambito che il centro-sinistra si trovò a influenzare notevolmente - e in positivo -, tramite la filosofia economica e riformista di cui si fece portatore, sebbene in termini di realizzazioni mancò di esprimere un potenziale più ampio.
Francesco Corbisiero, La stagione del centrosinistra in Italia. (1956-1969), Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2013-2014
Benché alcuni significativi cambiamenti vennero attuati, con una tempistica incerta e con metodi e premesse discutibili, nel complesso il centro-sinistra non seppe trasmettere l’adeguata immagine di sé: era troppo riformatore per quella fetta di società legata ai valori tradizionali, lo era troppo poco per i giovani, per i figli del dopoguerra, che infatti diedero vita ad una delle stagioni più esaltanti ed insieme controverse della storia. Il Sessantotto, in questo senso, non può essere inquadrato come un momento di pura contestazione-per-la-contestazione, o, peggio, come la rivolta dei figli pasciuti contro i propri padri. Il Sessantotto fu innanzitutto la prima seduta d’autoanalisi della società occidentale contemporanea, il primo incontro tra conscio ed inconscio collettivi in una determinata e ben definibile area del mondo. Un momento in cui l’Occidente si confrontò coi suoi miti e coi suoi limiti, con le sue conquiste ed i suoi fantasmi, con le sue leggi (scritte e non) e le sue pene, provò a dare interpretazioni "altre" della realtà, ad elaborare analisi da prospettive nuove e diverse rispetto a quelle classiche. Un momento di discussione e non solo di contestazione, quindi, che avrebbe segnato un punto di rottura rispetto al passato. L’esplosione delle istanze libertarie, solidaristiche ed egualitarie manifestatesi in quel periodo partì proprio dall’insieme di risposte inevase, incomplete e insufficienti fornite dalle classi dirigenti, ivi compresa quella italiana, ad un fenomeno, la modernizzazione, le cui conseguenze furono comprese male o solo in parte.
L’anno successivo la protesta studentesca si saldò coi moti operai, che avevano l’obiettivo di cambiare i rapporti di forza all’interno delle relazioni industriali fino ad allora esistenti attraverso tutta una serie di rivendicazioni a favore dei lavoratori. Anche questo fu un punto saliente nella storia di quel periodo: mai una così vasta ondata di scioperi, proteste e manifestazioni si verificò in Italia in così breve lasso di tempo. Il bersaglio era un mondo del lavoro ormai sclerotizzato su modelli antichi e la massiccia sindacalizzazione della forza lavoro che da lì in poi avrebbe preso il via sarebbe servita proprio a rafforzare il potere contrattuale verso i datori di lavoro. L’eredità dell’autunno caldo, al di là delle marcate derive operaiste degli anni Settanta e della commistione frequente con il terrorismo, servì però a sancire l’irrinunciabilità del principio della contrattazione tra le parti sociali in maniera più flessibile e aperta di quanto fosse stato possibile fare fino ad allora, anche per via della rigida incomunicabilità che aveva animato nel passato le relazioni industriali. Se a ciò si aggiunge l’affermazione del principio per il quale la contrattazione tra capitale e lavoro era una questione che doveva veder impegnato anche il governo in termini di mediazione e proposte, allora non è difficile capire come il biennio 1968-1969 abbia chiuso un’epoca e segnato l’ingresso dell’Italia nella modernità anche in questo campo. Un ambito che il centro-sinistra si trovò a influenzare notevolmente - e in positivo -, tramite la filosofia economica e riformista di cui si fece portatore, sebbene in termini di realizzazioni mancò di esprimere un potenziale più ampio.
Francesco Corbisiero, La stagione del centrosinistra in Italia. (1956-1969), Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2013-2014

