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giovedì 18 gennaio 2024

A rammentarci il dinamismo relativo della società italiana è il fenomeno dell’immigrazione


L’Italia, un Paese dove si diventa adulti sempre più tardi e non si invecchia mai, paradossalmente, ma non troppo, in questa società protesa all’eterna giovinezza si assiste alla progressiva eclissi dei giovani veri, anagraficamente, e, insieme, delle donne <42. Senza immaginare il futuro, però, l’arte di arrangiarsi si riduce a una tecnica di sopravvivenza circoscritta all’immediato, il che risulta particolarmente evidente (e problematico) in ambito socioeconomico.
Nel corso del secondo dopoguerra, infatti, gli italiani hanno migliorato costantemente la loro posizione sociale, di generazione in generazione; ogni generazione adulta ha investito nei giovani come mezzo di autopromozione sociale, certa che i figli avrebbero raggiunto traguardi ulteriori rispetto ai genitori. Ogni fase si è tradotta quindi in un obiettivo, capace di garantire sviluppo sociale e benessere individuale: negli anni Cinquanta la ricostruzione; negli anni Sessanta e Settanta l’istruzione e la cultura di massa; negli anni Ottanta e Novanta i consumi vistosi e il “capitalismo popolare”, espresso da una larga base costituita da piccoli imprenditori e da lavoratori autonomi.
Negli ultimi due decenni, però, questa spinta collettiva sembra essersi smorzata e quasi spenta; al di là dei dati economici e del mercato del lavoro, possiamo coglierne segnali importanti nella percezione diffusa che si traduce nel senso e nel linguaggio comune. A questo proposito, risulta particolarmente significativo il successo, nel dibattito pubblico ma anche nella vita quotidiana, di parole come declino e decrescita, usate in ambiti molto diversi - così nel contesto economico e di mercato come in quello politico, nello sviluppo territoriale come nella struttura sociale - anche prima della grande crisi finanziaria che ha investito l’economia e la società globale nel 2008.
1.2.2. La “smobilitazione sociale” in Italia
In tal senso gli anni Duemila sono sicuramente l’età del declino e della decrescita; idee che si sono ormai insinuate nelle pieghe della vita quotidiana, minando la capacità delle famiglie e delle persone di adattarsi e di reagire ai problemi e ai cambiamenti. Lo conferma, di nuovo, la percezione dei cittadini, in questo caso riguardo alla posizione e ancor più alle aspettative di mobilità sociale, percezione che si potrebbe riassumere in una formula: “smobilitazione sociale”.
Le auto-definizioni espresse dagli italiani, d’altronde, rivelano una distanza notevole dalle rappresentazioni diffuse, che richiamano una società “liquida” dove i confini e i riferimenti sociali si perdono, secondo l’immagine felice e fortunata di Bauman (2002), e una società “cetomedizzata”, secondo il neologismo coniato dal sociologo De Rita (2002), dove la classe operaia è un residuo ideologico del passato. Piuttosto che “liquida” e “cetomedizzata”, la società appare “vischiosa” e “stagnante”; una strada in salita su cui molti temono di scivolare ricadendo indietro. Anzitutto, la “classe operaia” non sembra scomparsa, nella percezione sociale, visto che circa il 40% degli italiani continua a utilizzare questa definizione per catalogare la propria posizione nella stratificazione sociale. Semmai, la associano e talora la sostituiscono con un’altra formula, più suggestiva che descrittiva, ma, proprio per questo, molto diffusa: “ceti popolari” (Magatti, De Benedittis, 2006) <43.
Oltre metà delle persone continua a riconoscersi nel “ceto medio”, dove confluiscono le professioni libere e quelle intellettuali: i professori e gli impiegati di concetto; fra i lavoratori autonomi: i commercianti più degli artigiani. Nella borghesia e nelle classi più elevate, com’era prevedibile, si collocano invece in pochi: il 6% degli italiani, per lo più dirigenti privati, funzionari pubblici, imprenditori e, in misura limitata, i liberi professionisti. I lavoratori atipici e flessibili si distribuiscono fra ceti popolari e medi, sebbene in effetti siano ancora pochi a definirsi in questo modo, poiché la flessibilità, pur essendo una condizione diffusa che caratterizza ampie fasce di
persone, giovani e meno giovani, non è considerata una professione o una categoria specifica.
Tuttavia, oltre alla professione, sembrano caratterizzare la posizione di classe e di ceto delle persone anche altri aspetti, legati alle risorse individuali e familiari disponibili; l’aspettativa di mobilità, anzitutto. Fra i ceti popolari la quota di coloro che sostengono di aver migliorato la propria posizione è molto esigua, meno del 10%, simile al peso di coloro che immaginano possibile migliorarla, nel prossimo futuro <44. Le persone che dichiarano di aver migliorato la loro posizione negli ultimi anni, infatti, si dicono certe di ereditare in futuro proprietà immobiliari e altri patrimoni.
Il capitale familiare (non solo immobiliare ed economico, ma anche di relazioni) nella percezione comune sembra quindi più importante di quello culturale, come risorsa di mobilità sociale (Carboni, 2007).
La percezione sociale del declino, peraltro, si è ulteriormente e rapidamente deteriorata a partire dal 2008, a causa dell’impatto della crisi che ha investito le borse, la finanza e, in parallelo, anche l’economia (Demos, 2008). La scala sociale costruita in base all’auto-collocazione degli italiani nell’ultimo periodo rivela, infatti, un sensibile slittamento; dal 2006 al 2008 le persone che considerano bassa la posizione della propria famiglia sono raddoppiate: dal 7 a oltre il 15%. Nello stesso tempo è aumentata anche la componente di coloro che definiscono medio-bassa la posizione sociale della propria famiglia: dal 20 al 30%. Per cui lo spazio della classe media si è ridotto dal 60 a circa il 45%.
Il declino sociale, al di là delle misure fondate sul reddito e sul mercato del lavoro, si riproduce soprattutto in queste rappresentazioni, che condizionano le aspettative riguardo al futuro dei figli. Infatti, circa 7 persone su 10 risultano pensare che i giovani occuperanno, in prospettiva, una posizione sociale ed economica peggiore rispetto ai loro genitori <45. Si assiste, infine, al declino della fiducia nei riferimenti che hanno caratterizzato e accompagnato lo sviluppo e il benessere nel corso del dopoguerra e, soprattutto, fra gli anni Settanta e Novanta, ossia le organizzazioni che rappresentano i lavoratori dipendenti e gli imprenditori, che hanno visto scendere il consenso sociale nei loro riguardi in modo rapido e profondo.
1.2.3. L’immigrazione e il “particolarismo sociale”
A rammentarci il dinamismo relativo della società italiana è il fenomeno dell’immigrazione, che è cresciuto in misura enorme negli ultimi 30 anni. Intorno alla metà degli anni Novanta, infatti, il tasso di stranieri sulla popolazione era inferiore all’1%, mentre alla fine del primo decennio degli anni 2000 è salito oltre il 6%; in termini quantitativi quasi 4milioni («Caritas-Migrantes», 2008). Nelle regioni del Nord e in particolare nelle province caratterizzate da uno sviluppo di piccola impresa l’incidenza degli stranieri sale oltre il 10% della popolazione. Naturalmente, il fenomeno è il prodotto di numerose cause che hanno investito i Paesi da cui provengono gli immigrati, come instabilità globale, guerre, conflitti diffusi, crisi economiche e povertà; tuttavia, i percorsi dell’immigrazione non sono mai casuali. L’Italia, per decenni luogo di emigrazione e, in seguito, area di passaggio per immigrati diretti verso altri Paesi d’Europa, a partire dalla fine degli anni Novanta è divenuta essa stessa destinazione di un’immigrazione ampia e stabile richiesta dal mercato e dalle trasformazioni demografiche e sociali.
[NOTE]
42 L’età media dei dirigenti pubblici dello Stato ma anche degli enti locali supera i 50 anni (indagine Università Bocconi, 2004, confermata ancora oggi).
43 Tali si considerano, in gran parte, gli operai; ma anche le casalinghe e i pensionati, così come quote rilevanti (superiori al 40%) di impiegati e di artigiani.
44 Peraltro, la stratificazione sociale mostra una geografia urbana e una distribuzione delle risorse ben definita: i ceti popolari abitano nelle periferie, i ceti medi nei quartieri residenziali, la borghesia nei centri storici. Gran parte degli italiani vive in una casa di proprietà, ma una persona su due, fra i borghesi, e una su quattro, fra i ceti medi, ne possiede almeno due. Nei ceti popolari questa componente si riduce invece al 14% e quella di chi è in affitto sale al 20%, ossia quasi il doppio della media generale. Ciò chiarisce quale sia la principale risorsa a cui si affidano le speranze di mobilità: la famiglia, i circuiti parentali e amicali.
45 Soltanto due anni prima questa convinzione veniva espressa da una quota di persone ampia ma molto più limitata: il 45%. Il senso di declino, inoltre, non si distribuisce in modo omogeneo ma si addensa con particolare intensità in alcuni punti della società. Per esempio, tra le donne, tra gli operai, tra le persone con un titolo di studio basso, nel Mezzogiorno. Quindi, dal punto di vista della stratificazione, tra coloro che si collocano nei ceti bassi e medio-bassi. Espresso in altri termini, tra le componenti socialmente più deboli.
Marco Schiavetta, Il bisogno sociale di orientamento permanente come risposta al fenomeno dei NEET. Una teoria emergente per un “modello di orientamento permanente ed inclusivo”, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2019