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domenica 21 gennaio 2024

Durante la Presidenza Johnson la MLF sarebbe divenuta ormai un’ipotesi irrealizzabile


La stretta connessione quindi tra questione economica e il progetto di MultiLateralForce era fondamentale per il funzionamento di una simile politica. La MLF, secondo l’amministrazione Kennedy, costituiva in qualche modo la chiave alla soluzione sia del problema tedesco, sia atlantico che bipolare.
Concepita durante la II amministrazione Eisenhower, la MLF avrebbe dovuto essere un organismo militare atlantico in grado di conferire una sorta di status nucleare a tutti gli alleati partecipanti senza che questi acquisissero e utilizzassero indipendentemente dagli Usa armi nucleari, sebbene questo implicasse una sorta di riarmo per la RFT. D’altronde non c’era più ragione to keep the Germans down, dato anche il ruolo di Bonn sempre più centrale nell’Alleanza. La MLF, una volta realizzata, avrebbe dovuto essere una flotta di superficie composta di 25 unità navali, ciascuna delle quali avrebbe portato 8 missili nucleari Polaris e sarebbe stata gestita da equipaggi multinazionali, la cui responsabilità però sarebbe stata assegnata al Comandante Supremo alleato NATO. Gli Stati Uniti avrebbero comunque mantenuto il potere di veto sull’uso delle armi nucleari della MLF, sottraendo quindi agli alleati qualsiasi velleità decisionale <32.
Sebbene fosse parsa un’efficace soluzione affinché gli europei si occupassero della propria difesa, facendo addirittura arrivare l’amministrazione Kennedy a definire la questione della difesa convenzionale in mano agli europei “a matter of highest priority” <33, nel ’66, durante la Presidenza Johnson la MLF sarebbe divenuta ormai un’ipotesi irrealizzabile, sia per le difficoltà incontrate con gli alleati, sia per il disappunto di Mosca, che vedeva nel progetto il pericolo di un riarmo (nucleare) tedesco34. Il dibattito che sarebbe derivato dalla presa d’atto della sua irrealizzabilità, avrebbe seguito strade molto diverse.
Tra il ’65 e il ’66 Johnson dopo aver abbandonato in maniera ufficiale il progetto di MLF, avrebbe dato avvio alla realizzazione del Nuclear Defense Affairs Committee e del più importante Nuclear Planning Group <35. Due organismi la cui concezione sarebbe passata inevitabilmente per la questione di un “relativo riarmo” della Germania federale, molto più soft (sarebbe infatti stato un “finto riarmo”: nessun grilletto atomico sarebbe passato per la mano di Bonn!), grazie alla successiva adozione della dottrina della flexible response in ambito NATO. Una dottrina che, oltre la sua connotazione militare, aveva una rilevante prerogativa politica <36.
L’adozione della risposta flessibile da parte degli alleati NATO avrebbe infatti permesso alla Casa Bianca di continuare il dialogo con Mosca sfrondato da tutta una serie di implicazioni sul ruolo degli alleati nella gestione del condominio bipolare, e avrebbe altresì acconsentito a risolvere l’inveterata diatriba transatlantica sull’uso delle armi nucleari. Un uso che comunque sarebbe rimasto in mano a Washington, fugando le paure dei sovietici per una Germania “nuclearizzata”.
Nel dibattito transatlantico infine giaceva da tempo la necessità di una ristrutturazione graduale e concettuale dell’Alleanza Atlantica finalizzata alla riconferma da parte degli alleati del Trattato nel 1969; necessità che divenne urgenza nel corso del 1966 e con cui Johnson dovette rapidamente fare i conti, proprio a causa della “scossa di de Gaulle al sistema”.
Sotteso al quadro delle sfide che attendevano il Presidente in questo secondo scorcio degli anni sessanta era l’impegno nel Sud Est asiatico. Gli anni che videro un maggior coinvolgimento statunitense coincisero proprio con il biennio ’66-’68, gli ultimi due dell’amministrazione Johnson e i più densi di significativi avvenimenti. L’impatto che ebbe il conflitto del Vietnam sulla conduzione della politica estera americana e sulla percezione in patria dell’impegno statunitense a livello internazionale, fu cruciale.
A causa della sovraesposizione militare di Washington nel Sud Est asiatico, la crisi in Vietnam si legò presto alle altre problematiche in gioco: sul fronte europeo in misura principalmente negativa, su quello sovietico più positivamente. Innanzitutto gli europei iniziarono a perdere stima nei confronti dell’alleato senior proprio a causa del conflitto vietnamita, arrivando addirittura a divenire teatro di manifestazioni e a forme più o meno forti di anti-americanismo, Francia in particolare. Se da una parte ancora nell’agosto del ’67 gli Stati Uniti avevano bisogno, secondo le stime del Pentagono, di oltre 200 000 uomini per continuare quella escalation volta a fiaccare il nemico Vietcong; dall’altra si trovavano a dover negoziare con la RFT sulla quantità di truppe americane su suolo tedesco. In altre parole, Washington era incastrata nell’annosa questione dell’offset agreement e la necessità di avere forze nuove nel Sud est asiatico. Il dispiegamento delle truppe americane nella RFT aveva un costo e un significato: il secondo aspetto del problema aveva la sua ragion d’essere nel principio di base di alleanza, nello spirito che l’aveva informata. Il costo delle truppe per Washington invece era connesso con quanto i tedeschi sarebbero stati disposti a pagare per esse, dando così respiro alla bilancia dei pagamenti statunitensi. Laddove parte dei costi non potevano essere garantiti da parte tedesca, Washington era costretta a ritirare le forze e/o a disporne una diversa gestione (rotazione di divisioni, partecipazione di brigate britanniche, etc.).
In questo senso sicuramente il conflitto vietnamita accelerò, tra il ’66 e il ’67, il trend che avrebbe portato ad un diverso tipo di impegno americano in Europa, più defilato e sottotono, ma la questione sarebbe comunque rimasta una problematica con cui la Casa Bianca aveva a che fare da tempo e di cui avrebbe continuato a preoccuparsi negli anni a venire <37.
Dinnanzi alla prospettiva di un’Europa in forte crescita, proiettata verso la realizzazione di una se pur ancora lontana, unione economica e politica che travalicasse i confini della embrionale CEE, i governi alleati europei non erano del tutto disposti ad aumentare il proprio impegno economico e finanziario a favore della loro difesa. Piuttosto guardavano al proprio interno cercando di tirare le somme di una politica di welfare state costruita negli anni precedenti, e preferivano, anzi insistevano, affinché all’aspetto militare pensasse ancora Washington. E questo inevitabilmente creava difficoltà alla Casa Bianca, già sotto pressione per la richiesta di riduzione delle forze sia da parte dell’opinione pubblica che dal Congresso, con quella che in agosto sarebbe diventata la Risoluzione del Senatore Mike Mansfield.
Perché - si chiedevano nell’amministrazione Johnson e una parte crescente dell’opinione pubblica - Washington doveva continuare a fare sacrifici per la difesa dell’Europa se gli europei non volevano prestare un aiuto al loro alleato in tempo di guerra? Allo stesso tempo però i partners europei s’interrogavano se fosse corretto e accettabile che il conflitto in Vietnam diventasse un issue atlantico.
La discussione, com’era prevedibile, avrebbe riacceso il dibattito sul burden sharing e una buona dose di ostilità, contribuendo a scavare ulteriormente nelle crepe del rapporto transatlantico.
Al contrario, con i sovietici, il “fattore Vietnam” non incideva negativamente. Il riavvicinamento e la gestione di questo nuovo rapporto tra le due superpotenze, ancora molto cauto ma più rilassato, influiva tuttavia su quello che Mosca aveva con il “fratello minore” cinese, che appunto accusava l’URSS di tradire il socialismo con l’apertura ad ovest.
Una diretta conseguenza del miglioramento di questi rapporti si ebbe nell’avvio di una serie di contatti e scambi sia commerciali che culturali tra i paesi dell’Est e quelli dell’Ovest, finalizzati, da parte di Washington, ad influenzare il comportamento dei paesi comunisti verso l’esterno (verso i paesi occidentali) e l’interno (provocando criticità e dissenso verso i rispettivi governi e la società, all’interno della stessa compagine alleata comunista).
Nell’ambito degli accordi sulle riduzioni delle armi nucleari il riavvicinamento tra Usa e URSS si consumò contemporaneamente al conflitto e al dibattito sull’accesso alle armi nucleari nel blocco occidentale transatlantico.
Nel bel mezzo del 1966 Mosca avrebbe dichiarato alla Casa Bianca che non avrebbe voluto collegare alcun accordo sulle riduzioni di forze o sul disarmo con la questione del Vietnam e che su questo non sarebbe stata ostaggio della Repubblica Popolare Cinese <38. In sostanza Mosca non voleva mostrarsi troppo pronta a concludere un accordo che addirittura andava contro gli interessi di indipendenza nucleare dell’ormai antagonista cinese, ma ammetteva indirettamente che ormai era pienamente coinvolta in un processo irreversibile, peraltro già inaugurato dal Limited Test Ban Treaty.
Per il Cremlino il percorso che avrebbe condotto al Non Proliferation Treaty del ’68 - inaugurato dalla politica sul controllo degli armamenti - partiva dall’assunto (comune con la Casa Bianca) per cui non si dovevano permettere ulteriori sviluppi di armi né proliferazione nucleare, compreso (soprattutto) lo sviluppo della capacità atomica da parte della RPC che ormai s’avviava a far parte del club nucleare mondiale, grazie al primo test del ’64. Altrettanto divieto doveva sussistere per gli alleati degli Stati Uniti, la RFT, prima tra tutti. Nella seconda metà degli anni ’60, e in particolar modo a seguito della Peace Note del marzo del ’66, che aprì una nuova fase nella politica estera americana e tedesca, la Presidenza Johnson riuscì a legare concettualmente i negoziati per il Non Proliferation Treaty con gli obiettivi dell’Alleanza.
In pratica Washington doveva fare in modo di riportare gli alleati europei sul terreno degli interessi comuni, da cui in realtà si erano distanziati da tempo, quello cioè della conduzione delle relazioni Est-Ovest come sfida futura dell’Alleanza, togliendo terreno a chi in Europa, invece - e qui il riferimento alla Francia era esplicito - avrebbe voluto condurre una politica distensiva bilaterale. Quello che però avrebbe permesso all’amministrazione di portare a compimento un simile percorso e di concentrarsi sulla politica estera per l’Europa in stretta connessione con quella concepita per l’URSS, fu la realizzazione di una minaccia palesata da tempo, se non nelle sue estreme misure quanto meno nella sua intenzione: il ritiro francese dalla struttura integrata di comando.
La crisi di fiducia che a seguito dell’uscita di Parigi si determinò all’interno dell’organizzazione, come vedremo più avanti, avrebbe tuttavia determinato condizioni più favorevoli all’Alleanza stessa e a Washington, palesandosi più come un’opportunità che come una semplice minaccia.
[NOTE]
32 Stanley Sloan, NATO’s Future. Toward a New Transatlantic Bargain, National Defense University Press, Washington DC, 1985, pp. 40-43; M. Trachtenberg, A constructed peace, op. cit. pp. 310-315; Paul Hammond, LBJ and the Presidential Management of Foreign Relations, University of Texas Press, Austin, 1992.
33 FRUS, 1961-1963, Vol. XIII, “Policy Directive: NATO and the Atlantic Nations”, 20 April 1961, p.288.
34 Le difficoltà da parte degli alleati sulla MLF, come vedremo più in là nel nostro studio, scaturivano soprattutto dalla criticità di Francia e Gran Bretagna. La prima puntava a realizzare un deterrente nucleare autonomo e quindi non voleva impegnarsi in un progetto multinazionale come la MLF; la seconda non voleva abbandonare la sua pur limitata capacità atomica coadiuvata precedentemente dall’aiuto americano e proponeva invece la formazione di un Allied Nuclear Force, in cui a contare sarebbe stato la forza aerea britannica e gli Jupiter rimossi dalla Turchia e dall’Italia. De Gaulle, che in linea di massima avrebbe contribuito all’ANF senza rinunciare alla force de frappe, riteneva che lo schema di nuclear sharing proposto e personificato dal progetto di MLF non fosse altro che un mezzo per gli Stati Uniti per tenere sotto controllo le politiche nucleari occidentali e allo stesso tempo un espediente per farla figurare come un’occasione di condivisione in ambito strategico e nucleare con gli alleati. Vedi Stanley Sloan, op. cit.
35 Il Nuclear Planning Group fu un organismo interno all’organizzazione atlantica creato nel novembre del 1965 su proposta del segretario alla difesa americano McNamara, il quale, dapprincipio ne suggerì la creazione per ovviare al problema della pianificazione nucleare tra gli alleati, e solo in seguito realizzò che la proposta poteva andare a sostituire il progetto di MLF. Il Comitato del NPWG (Nuclear Planning Working Group) o anche NPG, riuniva i ministri della Difesa di Belgio, Canada, Danimarca, Germania Federale, Gran Bretagna, Grecia, Olanda, Turchia e ovviamente Stati Uniti. Al suo interno si suddivideva in tre sottogruppi di lavoro, di cui uno che si occupava della pianificazione nucleare, costituito da Usa, Gran Bretagna, Italia, Germania Federale e Turchia. Vedi H. Haftendorn, NATO and Nuclear revolution, A Crisis of Credibility, 1966-67, Clarendon Press, Oxford, 1996, soprattutto sulla sostituzione della MLF con il NPG; T.C. Wiegele, Nuclear Consultation Processes in NATO, in “Orbis”, vol. 16, No.2, Summer 1972, pp. 462-487; P. Buteux, The Politics of nuclear Consultation in NATO, 1965-1980, Cambridge, Cambridge University Press, 1983. Il Nuclear Defense Affaire Committee fu creato in seguito al NPG, nel dicembre del ’66, allorché si rese necessario, su proposta italiana, la creazione di un più ampio gruppo di lavoro, un organo dal carattere generale “che sarebbe stato formato da tutti quei membri dell’Alleanza che avessero mostrato interesse a discutere le linee di fondo della politica nucleare NATO, mentre un gruppo più ristretto, il NPG appunto, avrebbe costituito la sede adeguata per le discussioni più dettagliate dei problemi nucleari. L’obiettivo generale del NDAC “era la condivisione delle informazioni di base relative alle armi nucleari e ai piani di impiego, ma non della tecnologia dei sistemi d’arma”. Con l’occasione della creazione del NDAC la costituzione del NPG subì una importante modifica: gli stessi membri, Usa, Germania federale, Gran Bretagna e Italia ne divennero membri permanenti e di volta altri tre membri del NDAC vennero nominati temporaneamente. Essi avrebbero preso parte ai lavori del NPG. Vedi, Leopoldo Nuti, La sfida Nucleare, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 281-286.
36 La dottrina della flexible response, come vedremo più avanti nella trattazione, rappresentava un grande cambiamento dal punto di vista militare per la NATO, ma la sua incisività si dispiegava maggiormente in ambito politico. Era infatti uno strumento finalizzato a fare accettare agli Europei la politica americana di centralizzazione del controllo atlantico.
37 Hubert Zimmermann, The Improbable Permanence of a Commitment. America’s Troop Presence in Europe during the Cold War, in Journal of Cold War Studies, Vol. 11, No.1, Winter 2009, p.14.
38 Hal Brands, Progress Unseen: US Arms Control Policy and the Origins of Dètente, 1963-68, Diplomatic History, Vol. 30, No.2, April 2002, p. 260.
Chiara Organtini, "1963-1968. Dall’avvento dell’amministrazione di Lyndon. B. Johnson al Trattato di non Proliferazione: gli Stati Uniti, la Francia, la NATO e l’Europa agli esordi della distensione. Storia di una “non-crisi” transatlantica e della riorganizzazione dell’Alleanza", Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2011