Per quanto concerne la Democrazia Cristiana, occorre soffermarsi maggiormente.
Infatti, per comprendere le ragioni che portarono il partito a diventare protagonista dello scenario politico italiano per circa quarantacinque anni, è necessario partire da un’analisi del contesto in cui nacque e da uno studio delle dinamiche che portarono alla sua formazione.
Iniziando dal contesto socio-politico all’interno del quale la Dc iniziò a intrecciare le sue radici, è necessario soffermarsi sul ruolo che la Chiesa svolse durante la seconda guerra mondiale. Durante l’occupazione tedesca, l’Italia era stata attanagliata da un clima di insicurezza e bisogno. In questo instabile contesto, la Chiesa aveva rappresentato per gli italiani un punto di riferimento, soprattutto grazie ai concreti interventi dei vescovi e dei parroci per aiutare le vittime di guerra e i perseguitati politici. Partendo da questa considerazione, si può ben capire come i cattolici, soprattutto a partire dal 1943, avessero costantemente sottolineato il ruolo da essi svolto nell’opposizione al regime e, poi, nella lotta contro il fascismo. Infatti, solo da questa rivendicazione poteva emergere una piena legittimazione democratica dei cattolici e dunque il loro diritto a partecipare, con le altre forze antifasciste, alla ricostruzione democratica del paese.
Tuttavia, dopo la caduta del fascismo e la conseguente ondata di instabilità politica, i cattolici rappresentavano un punto di riferimento non solo per gli italiani, ma anche per le grandi potenze. Infatti, la Chiesa era emersa da un orizzonte di distruzione e di disfacimento come unica forza reale ancora in piedi, come un centro efficace di aggregazione e di consenso. Più semplicemente, il Vaticano veniva inquadrato dalle potenze straniere e in particolare dagli Stati Uniti d’America, come l’unica istituzione in grado di poter definire il futuro dell’Italia.
La presenza di un grande “vuoto” istituzionale causato dal venir meno dei tradizionali riferimenti socio-politici e l’importante ruolo svolto dalla Chiesa, imposero lo sforzo di coordinare le azioni di diversi gruppi cattolici attivi sul territorio, al fine di rappresentare una guida concreta per un paese senza più un’identità. La nascita del grande partito cattolico può essere infatti inquadrata come la convergenza di gruppi profondamente diversi che convenivano su una comune esigenza: la necessità di elaborare una proposta di successione cattolica al regime. Il loro obiettivo era quella di comprendere il ruolo che i cattolici avrebbero dovuto, e potuto, svolgere nella difficile transizione dal fascismo alla costruzione di un ordine nuovo ed elaborare programmi capaci di rispondere alle sfide della nuova fase politica.
La Democrazia Cristiana nacque tra il 1942 e il 1943 come partito clandestino e fu il risultato dell’aggregazione di diverse anime politiche. Poco prima della fine del conflitto mondiale, a Roma, si succedevano riunioni di ex-popolari - fra i quali Cingolani, Gonella, Grandi, Gronchi, Scelba, Spataro - intorno alla figura di De Gasperi per discutere sul futuro assetto politico italiano e per elaborare un’azione cattolica coesa. Incontri analoghi si svolgevano a Milano per iniziativa degli esponenti del Movimento guelfo d’Azione, un’organizzazione cattolica antifascista i cui esponenti di maggior rilievo erano Piero Malvestiti e Giuseppe Malavasi. I primi incontri tra i due differenti gruppi si svolsero a Borgo Valsugana, nell’estate 1942, e poi a Milano, nell’autunno dello stesso anno, con la partecipazione del sindacato dei lavoratori italiani, la Cil. In queste riunioni si sarebbe deciso il nome «Democrazia Cristiana» e si sarebbero approvate le linee del programma e dell’azione politica del partito. In definitiva, la Dc «finiva dunque per nascere dalla convergenza di due orientamenti forti: da un lato il significato della guerra partigiana antifascista rispetto alla legittimazione del nuovo ordine istituzionale; dall’altro la capacità di una generazione politica, quella popolare, di smussare le velleità più marcatamente rivoluzionarie del movimento resistenziale» <18.
Tutti i differenti gruppi cattolici proponevano diverse soluzioni attraverso cui colmare il “vuoto” politico-istituzionale formatosi dopo la fine del fascismo. Il lungo dibattito può essere tradotto, secondo l’interpretazione di Renato Moro, in tre differenti approcci <19.
Il primo traeva ispirazione dalla posizione assunta da Pio XII a fronte della transizione istituzionale. In questa prospettiva, lo Stato, necessariamente a carattere democratico, doveva edificarsi sulla difesa dei principi della religione cristiana: la tutela della famiglia, della scuola e del ruolo del cristianesimo nella vita quotidiana. Più semplicemente, si trattava di formulare «un progetto di ricostruzione ispirato all’insegnamento cristiano ma privato dei tratti speculativi» <20. Questa prospettiva era stata sintetizzata all’interno di un documento redatto tra il settembre 1943 e il maggio 1944 dalla Direzione generale dell’Azione cattolica e dall’Istituto cattolico di attività sociali, diretto dal segretario del Movimento dei laureati cattolici, Veronese. Lo scritto era stato diffuso soltanto nel 1945 con il titolo “Per la comunità cristiana. Principii dell’ordinamento sociale a cura di studiosi amici di Camaldoli”, meglio noto come “Codice Camaldoli”. Il testo condannava sia il materialismo ateo-marxista che il capitalismo e proponeva una forma di economia «mista», lontana dal modello corporativista legato inesorabilmente all’esistenza di una dittatura a partito unico <21.
Il secondo approccio risentiva dell’esperienza e delle sensibilità di cui si facevano portatori gli esponenti del mondo cattolico che avevano militato nelle file del Ppi di Sturzo dopo la prima guerra mondiale. La loro proposta veniva costruita intorno alla convinzione che le istituzioni dovessero essere concepite come strumenti al servizio del popolo e che il ruolo dello lo Stato dovesse essere orientato a tutelare l’individuo nella sua sfera privata.
Infine, l’ultimo approccio era espressione di quelle idee maturate e difese dalla componente più progressista e antifascista del movimento cattolico italiano, la sinistra cristiana, convinta della importanza di segnare una discontinuità con il fascismo e costruire un ordine nuovo basato sulla centralità della lotta partigiana, sul riferimento ai valori cristiani e sul contributo determinante dei partiti politici.
Sebbene esistessero delle forti differenze in merito alla definizione dei presupposti ideali sui quali il nuovo sistema si sarebbe dovuto edificare, le differenti visioni convergevano su un alcuni denominatori comuni: il riconoscimento della libertà politica come premessa indispensabile per garantire la libertà civile e la tutela dei diritti inviolabili, l’affermazione della giustizia sociale e l’intervento statale atto a correggere gli squilibri del capitalismo e a limitare i rischi del collettivismo.
Il partito che nasceva nel ’42, dunque, era un partito nuovo, diverso dal Partito Popolare. Dopo averne assunto la guida, De Gasperi intendeva sottolineare fin dal principio il distacco dall’esperienza popolare partendo dalla scelta di un nuovo nome. Questa decisione non rispondeva soltanto alla visione degasperiana del nuovo corso dell’impegno politico dei cattolici, ma rispondeva alla necessità di dare, soprattutto alle generazioni più giovani, che poco o nulla avevano a che fare con la precedente storia del movimento politico cattolico, la percezione di una forte discontinuità con il passato.
In effetti, dopo la fine del ventennio fascista, la parola popolarismo appariva ormai logora: una formula legata alle polemiche che avevano accompagnato l’esperienza politica di Sturzo, segnato i rapporti tra Stato e Chiesa, indirizzato il sistema liberale verso la deriva totalitaria. Con la scelta del nome Democrazia Cristiana si voleva, al contrario, affermare la volontà, come avrebbe scritto lo stesso De Gasperi, di «non ripetere gli errori del passato», evitando «anche l’impressione di invitare i giovani ad un’assemblea ove odio e poltrone fossero già occupati in forza dei meriti passati e in base all’anzianità del servizio» <22.
Dagli incontri e dai colloqui preparatori nacquero, dunque, i primi documenti programmatici del partito: le "Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana", redatte da De Gasperi stesso e "Il programma di Milano", in cui sarebbe stata più forte l’influenza del gruppo guelfo.
Le "Idee ricostruttive" furono elaborate nella primavera del 1943 ed ebbero una limitata diffusione attraverso contatti prettamente personali: stampate nel luglio, decine di migliaia di copie furono inviate a tutti i popolari, a tutti gli esponenti del mondo cattolico e a circa ventimila parroci. Questo singolare documento costituiva la base originaria del programma della Democrazia Cristiana. Il testo prevedeva, come premessa indispensabile a qualsiasi altro punto programmatico, la libertà politica, unita ad un regime democratico che prevedesse una forma di governo decentrata e la presenza di una Corte Suprema di garanzia avente il compito di tutelare la Costituzione. Il nuovo Stato avrebbe dovuto fondarsi su saldi valori morali. In particolare, lo spirito cristiano doveva «fermentare in tutta la vita sociale» <23 e proteggere l’integrità della famiglia, coadiuvando i genitori nella loro missione di educare cristianamente le nuove generazioni. Il testo prevedeva poi la presenza di una giustizia sociale che assicurasse alla popolazione un lavoro e l’accesso alla proprietà privata, nonché l’istituzione di una nuova comunità internazionale.
"Il programma di Milano" redatto dai guelfi aveva molti punti in comune con i principi e le linee fissati nelle "Idee ricostruttive": la costruzione di una nuova comunità internazionale, l’indipendenza della Chiesa e dello Stato, il decentramento, l’ispirazione cristiana nell’attività dello Stato. In più, proponeva riferimenti più specifici in merito all’introduzione di un sistema elettorale proporzionale e dei sindacati di categoria.
Dall’analisi di questi documenti si evince come il primato del fattore religioso venisse continuamente affermato a discapito di una chiara definizione del programma politico. Questo continuo richiamo ad un sistema di valori morali era finalizzato al raggiungimento di due obiettivi: da un lato, impediva il definirsi di scelte vincolanti e definitive, dall’altro agevolava l’identificazione tra l’identità cattolica della nazione italiana e il partito che, di quella identità, ambiva ad essere l’unico referente politico.
2.2 La transizione dal Cln al governo Parri
La leadership di De Gasperi si impose senza difficoltà al nuovo partito che risultava essere veramente una creazione del leader trentino. Proprio per questo motivo, come sottolineato dallo studioso Gianni Baget-Bozzo, «la Dc avrebbe portato così intimamente impressa nella sua storia le qualità ed i difetti di De Gasperi: l’empirismo, la capacità di strumentalizzazione, l’uso accorto degli espedienti come soluzioni permanenti nel quadro di una fedeltà senza discussione al metodo democratico sarebbero trapassati da De Gasperi nel partito, attraverso la classe dirigente da lui formata con il suo comportamento ed il suo esempio. Egli sarebbe stato per la Dc un eroe eponimo, una personalità individuale che dava forma ad una figura collettiva» <24.
Nel periodo che andava dalla liberazione di Roma a quella del Nord, De Gasperi preparò il proprio avvento e quello del suo partito al potere. All’interno del Cln egli evitò di restare isolato a destra o emarginato all’opposizione. A questo proposito, egli poté contare sulla collaborazione dei comunisti, i quali miravano ad inserire i democristiani all’interno del Cln al fine di legittimare il nuovo potere anche mediante l’autorità della Chiesa. Non a caso, dopo la liberazione di Roma, l’interlocutore principale di De Gasperi divenne proprio Togliatti, con il quale condivideva l’idea di costruire un ordinamento democratico e di valutare i rapporti tra le forze politiche in termini elettorali, sociali ed internazionali [...]
[NOTE]
18 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2010.
19 R. Moro, Il contributo culturale e politico dei cattolici nella fase costituente, in M. C. Giuntella, R. Moro, Dalla FUCI degli anni ’30 verso la nuova democrazia, Editrice A.V.E, Roma 1991, pp. 31-89.
20 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2010, pag. 32.
21 E. A. Rossi, Dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, 1969, pp. 320-330.
22 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna 1977, pag. 65.
23 E. A. Rossi, Dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, 1969, pag. 337.
24 G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere, Vallecchi editore, Firenze 1974, pag. 68.
Veronica Murgia, La politica come missione. Alcide De Gasperi, uomo e politico, Tesi di laurea, Università LUISS "Guido Carli", Anno accademico 2014/2015
Infatti, per comprendere le ragioni che portarono il partito a diventare protagonista dello scenario politico italiano per circa quarantacinque anni, è necessario partire da un’analisi del contesto in cui nacque e da uno studio delle dinamiche che portarono alla sua formazione.
Iniziando dal contesto socio-politico all’interno del quale la Dc iniziò a intrecciare le sue radici, è necessario soffermarsi sul ruolo che la Chiesa svolse durante la seconda guerra mondiale. Durante l’occupazione tedesca, l’Italia era stata attanagliata da un clima di insicurezza e bisogno. In questo instabile contesto, la Chiesa aveva rappresentato per gli italiani un punto di riferimento, soprattutto grazie ai concreti interventi dei vescovi e dei parroci per aiutare le vittime di guerra e i perseguitati politici. Partendo da questa considerazione, si può ben capire come i cattolici, soprattutto a partire dal 1943, avessero costantemente sottolineato il ruolo da essi svolto nell’opposizione al regime e, poi, nella lotta contro il fascismo. Infatti, solo da questa rivendicazione poteva emergere una piena legittimazione democratica dei cattolici e dunque il loro diritto a partecipare, con le altre forze antifasciste, alla ricostruzione democratica del paese.
Tuttavia, dopo la caduta del fascismo e la conseguente ondata di instabilità politica, i cattolici rappresentavano un punto di riferimento non solo per gli italiani, ma anche per le grandi potenze. Infatti, la Chiesa era emersa da un orizzonte di distruzione e di disfacimento come unica forza reale ancora in piedi, come un centro efficace di aggregazione e di consenso. Più semplicemente, il Vaticano veniva inquadrato dalle potenze straniere e in particolare dagli Stati Uniti d’America, come l’unica istituzione in grado di poter definire il futuro dell’Italia.
La presenza di un grande “vuoto” istituzionale causato dal venir meno dei tradizionali riferimenti socio-politici e l’importante ruolo svolto dalla Chiesa, imposero lo sforzo di coordinare le azioni di diversi gruppi cattolici attivi sul territorio, al fine di rappresentare una guida concreta per un paese senza più un’identità. La nascita del grande partito cattolico può essere infatti inquadrata come la convergenza di gruppi profondamente diversi che convenivano su una comune esigenza: la necessità di elaborare una proposta di successione cattolica al regime. Il loro obiettivo era quella di comprendere il ruolo che i cattolici avrebbero dovuto, e potuto, svolgere nella difficile transizione dal fascismo alla costruzione di un ordine nuovo ed elaborare programmi capaci di rispondere alle sfide della nuova fase politica.
La Democrazia Cristiana nacque tra il 1942 e il 1943 come partito clandestino e fu il risultato dell’aggregazione di diverse anime politiche. Poco prima della fine del conflitto mondiale, a Roma, si succedevano riunioni di ex-popolari - fra i quali Cingolani, Gonella, Grandi, Gronchi, Scelba, Spataro - intorno alla figura di De Gasperi per discutere sul futuro assetto politico italiano e per elaborare un’azione cattolica coesa. Incontri analoghi si svolgevano a Milano per iniziativa degli esponenti del Movimento guelfo d’Azione, un’organizzazione cattolica antifascista i cui esponenti di maggior rilievo erano Piero Malvestiti e Giuseppe Malavasi. I primi incontri tra i due differenti gruppi si svolsero a Borgo Valsugana, nell’estate 1942, e poi a Milano, nell’autunno dello stesso anno, con la partecipazione del sindacato dei lavoratori italiani, la Cil. In queste riunioni si sarebbe deciso il nome «Democrazia Cristiana» e si sarebbero approvate le linee del programma e dell’azione politica del partito. In definitiva, la Dc «finiva dunque per nascere dalla convergenza di due orientamenti forti: da un lato il significato della guerra partigiana antifascista rispetto alla legittimazione del nuovo ordine istituzionale; dall’altro la capacità di una generazione politica, quella popolare, di smussare le velleità più marcatamente rivoluzionarie del movimento resistenziale» <18.
Tutti i differenti gruppi cattolici proponevano diverse soluzioni attraverso cui colmare il “vuoto” politico-istituzionale formatosi dopo la fine del fascismo. Il lungo dibattito può essere tradotto, secondo l’interpretazione di Renato Moro, in tre differenti approcci <19.
Il primo traeva ispirazione dalla posizione assunta da Pio XII a fronte della transizione istituzionale. In questa prospettiva, lo Stato, necessariamente a carattere democratico, doveva edificarsi sulla difesa dei principi della religione cristiana: la tutela della famiglia, della scuola e del ruolo del cristianesimo nella vita quotidiana. Più semplicemente, si trattava di formulare «un progetto di ricostruzione ispirato all’insegnamento cristiano ma privato dei tratti speculativi» <20. Questa prospettiva era stata sintetizzata all’interno di un documento redatto tra il settembre 1943 e il maggio 1944 dalla Direzione generale dell’Azione cattolica e dall’Istituto cattolico di attività sociali, diretto dal segretario del Movimento dei laureati cattolici, Veronese. Lo scritto era stato diffuso soltanto nel 1945 con il titolo “Per la comunità cristiana. Principii dell’ordinamento sociale a cura di studiosi amici di Camaldoli”, meglio noto come “Codice Camaldoli”. Il testo condannava sia il materialismo ateo-marxista che il capitalismo e proponeva una forma di economia «mista», lontana dal modello corporativista legato inesorabilmente all’esistenza di una dittatura a partito unico <21.
Il secondo approccio risentiva dell’esperienza e delle sensibilità di cui si facevano portatori gli esponenti del mondo cattolico che avevano militato nelle file del Ppi di Sturzo dopo la prima guerra mondiale. La loro proposta veniva costruita intorno alla convinzione che le istituzioni dovessero essere concepite come strumenti al servizio del popolo e che il ruolo dello lo Stato dovesse essere orientato a tutelare l’individuo nella sua sfera privata.
Infine, l’ultimo approccio era espressione di quelle idee maturate e difese dalla componente più progressista e antifascista del movimento cattolico italiano, la sinistra cristiana, convinta della importanza di segnare una discontinuità con il fascismo e costruire un ordine nuovo basato sulla centralità della lotta partigiana, sul riferimento ai valori cristiani e sul contributo determinante dei partiti politici.
Sebbene esistessero delle forti differenze in merito alla definizione dei presupposti ideali sui quali il nuovo sistema si sarebbe dovuto edificare, le differenti visioni convergevano su un alcuni denominatori comuni: il riconoscimento della libertà politica come premessa indispensabile per garantire la libertà civile e la tutela dei diritti inviolabili, l’affermazione della giustizia sociale e l’intervento statale atto a correggere gli squilibri del capitalismo e a limitare i rischi del collettivismo.
Il partito che nasceva nel ’42, dunque, era un partito nuovo, diverso dal Partito Popolare. Dopo averne assunto la guida, De Gasperi intendeva sottolineare fin dal principio il distacco dall’esperienza popolare partendo dalla scelta di un nuovo nome. Questa decisione non rispondeva soltanto alla visione degasperiana del nuovo corso dell’impegno politico dei cattolici, ma rispondeva alla necessità di dare, soprattutto alle generazioni più giovani, che poco o nulla avevano a che fare con la precedente storia del movimento politico cattolico, la percezione di una forte discontinuità con il passato.
In effetti, dopo la fine del ventennio fascista, la parola popolarismo appariva ormai logora: una formula legata alle polemiche che avevano accompagnato l’esperienza politica di Sturzo, segnato i rapporti tra Stato e Chiesa, indirizzato il sistema liberale verso la deriva totalitaria. Con la scelta del nome Democrazia Cristiana si voleva, al contrario, affermare la volontà, come avrebbe scritto lo stesso De Gasperi, di «non ripetere gli errori del passato», evitando «anche l’impressione di invitare i giovani ad un’assemblea ove odio e poltrone fossero già occupati in forza dei meriti passati e in base all’anzianità del servizio» <22.
Dagli incontri e dai colloqui preparatori nacquero, dunque, i primi documenti programmatici del partito: le "Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana", redatte da De Gasperi stesso e "Il programma di Milano", in cui sarebbe stata più forte l’influenza del gruppo guelfo.
Le "Idee ricostruttive" furono elaborate nella primavera del 1943 ed ebbero una limitata diffusione attraverso contatti prettamente personali: stampate nel luglio, decine di migliaia di copie furono inviate a tutti i popolari, a tutti gli esponenti del mondo cattolico e a circa ventimila parroci. Questo singolare documento costituiva la base originaria del programma della Democrazia Cristiana. Il testo prevedeva, come premessa indispensabile a qualsiasi altro punto programmatico, la libertà politica, unita ad un regime democratico che prevedesse una forma di governo decentrata e la presenza di una Corte Suprema di garanzia avente il compito di tutelare la Costituzione. Il nuovo Stato avrebbe dovuto fondarsi su saldi valori morali. In particolare, lo spirito cristiano doveva «fermentare in tutta la vita sociale» <23 e proteggere l’integrità della famiglia, coadiuvando i genitori nella loro missione di educare cristianamente le nuove generazioni. Il testo prevedeva poi la presenza di una giustizia sociale che assicurasse alla popolazione un lavoro e l’accesso alla proprietà privata, nonché l’istituzione di una nuova comunità internazionale.
"Il programma di Milano" redatto dai guelfi aveva molti punti in comune con i principi e le linee fissati nelle "Idee ricostruttive": la costruzione di una nuova comunità internazionale, l’indipendenza della Chiesa e dello Stato, il decentramento, l’ispirazione cristiana nell’attività dello Stato. In più, proponeva riferimenti più specifici in merito all’introduzione di un sistema elettorale proporzionale e dei sindacati di categoria.
Dall’analisi di questi documenti si evince come il primato del fattore religioso venisse continuamente affermato a discapito di una chiara definizione del programma politico. Questo continuo richiamo ad un sistema di valori morali era finalizzato al raggiungimento di due obiettivi: da un lato, impediva il definirsi di scelte vincolanti e definitive, dall’altro agevolava l’identificazione tra l’identità cattolica della nazione italiana e il partito che, di quella identità, ambiva ad essere l’unico referente politico.
2.2 La transizione dal Cln al governo Parri
La leadership di De Gasperi si impose senza difficoltà al nuovo partito che risultava essere veramente una creazione del leader trentino. Proprio per questo motivo, come sottolineato dallo studioso Gianni Baget-Bozzo, «la Dc avrebbe portato così intimamente impressa nella sua storia le qualità ed i difetti di De Gasperi: l’empirismo, la capacità di strumentalizzazione, l’uso accorto degli espedienti come soluzioni permanenti nel quadro di una fedeltà senza discussione al metodo democratico sarebbero trapassati da De Gasperi nel partito, attraverso la classe dirigente da lui formata con il suo comportamento ed il suo esempio. Egli sarebbe stato per la Dc un eroe eponimo, una personalità individuale che dava forma ad una figura collettiva» <24.
Nel periodo che andava dalla liberazione di Roma a quella del Nord, De Gasperi preparò il proprio avvento e quello del suo partito al potere. All’interno del Cln egli evitò di restare isolato a destra o emarginato all’opposizione. A questo proposito, egli poté contare sulla collaborazione dei comunisti, i quali miravano ad inserire i democristiani all’interno del Cln al fine di legittimare il nuovo potere anche mediante l’autorità della Chiesa. Non a caso, dopo la liberazione di Roma, l’interlocutore principale di De Gasperi divenne proprio Togliatti, con il quale condivideva l’idea di costruire un ordinamento democratico e di valutare i rapporti tra le forze politiche in termini elettorali, sociali ed internazionali [...]
[NOTE]
18 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2010.
19 R. Moro, Il contributo culturale e politico dei cattolici nella fase costituente, in M. C. Giuntella, R. Moro, Dalla FUCI degli anni ’30 verso la nuova democrazia, Editrice A.V.E, Roma 1991, pp. 31-89.
20 V. Capperucci, Il partito dei cattolici, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2010, pag. 32.
21 E. A. Rossi, Dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, 1969, pp. 320-330.
22 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna 1977, pag. 65.
23 E. A. Rossi, Dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana, Cappelli, 1969, pag. 337.
24 G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere, Vallecchi editore, Firenze 1974, pag. 68.
Veronica Murgia, La politica come missione. Alcide De Gasperi, uomo e politico, Tesi di laurea, Università LUISS "Guido Carli", Anno accademico 2014/2015