Alla fine, Ascoli dirà (pur tra tante e crescenti incomprensioni): «Solo in questo Paese mi sono sentito veramente importante e pienamente realizzato». Esalterà la “fredda precisione” di John Fitzgerald Kennedy, il presidenzialismo di Charles De Gaulle e Lyndon Johnson, fino al ’68 e alla guerra nel Vietnam. Alcuni storici e cineasti han voluto vedere in lui l’influenza della Cia. Ma non è dimostrato che “The Reporter” beneficiasse di tali canali o interventi. Anzi, nell’impresa continuava (con la moglie) a rischiare del suo.
Era la fede nella libertà, la “religione della libertà”, che lo spingeva a battaglie difficili. Perciò (parafrasando il titolo del libro dedicato a Hirscham da Edelkman), lo chiamerei “Filosofo mondiale della Libertà”. Negli anni ’30, risponde già alla domanda “After Mussolini, What? - Il comunismo”, contrapponendo «No. L’Italia. Noi abbiamo fede nella vitalità, nella saggezza, nel buon senso del popolo italiano».
Collaborerà a “Criterio” di Carlo Ludovico Ragghianti (1957-’58), con articoli di filosofia del diritto, studi da cui era vichianamente partito da giovane. Denuncerà la nascente lobby cinese, i pericoli di Cuba, il fanatismo razzistico del Ku Klux Klan, i limiti dell’utopia totalitaria. Elogia Claire Sterling, Isaac Deutscher, gran studioso di sociologia e critico dello stalinismo, la scoperta e pubblicazione del “Dottor Zivago” di Boris Pasternak, ritrovato per le cure di Giorgio Bassani, amico ferrarese. La politica non può controllare l’intierezza della vita, questo il suo messaggio, da “uomo profondamente religioso” (come dirà nel congedo dell’ultimo numero di “The Reporter”, 13 giugno 1968).
Giuseppe Brescia, Max Ascoli, ferrarese simbolo di libertà, la Nuova Ferrara, 7 febbraio 2014
Grazie ai legami del suo fondatore Max Ascoli con importanti funzionari governativi, la rivista «The Reporter» divenne un nodo importante nella rete di relazioni tra istituzioni e mondo politico negli anni della Guerra fredda. Si era organizzata intorno alla rivista un’influente rete di intellettuali, professori universitari, dirigenti di grandi aziende e di mezzi di comunicazione, che si unirono a politici e personale dei servizi di intelligence, con l’obiettivo di influenzare la politica estera americana. Questa rete di personaggi influenti - ampia ma poco strutturata - si basava sull’esistenza di passate esperienze comuni tra i suoi esponenti; esperienze di studio nelle università della Ivy League, o esperienze di lavoro svolto insieme nei servizi di intelligence e di propaganda durante la guerra, come l’Office of War Information (Owi) e l’Office of Strategic Services (Oss). Una potente élite che in virtù di una provenienza culturale e lavorativa comune aveva idee simili sull’organizzazione del mondo dopo la guerra e una visione simile del ruolo degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Condividevano tutti le stesse idee liberali, un fiero anticomunismo ed una forte convinzione dell’importanza della cooperazione internazionale attraverso organizzazioni ed iniziative come le Nazioni Unite, una Europa unita e l’Alleanza Atlantica.
Con la costituzione della Cia nel 1947 questa rete cominciò ad avere un ruolo essenziale negli sforzi dei servizi segreti per contrastare la minaccia posta dal comunismo internazionale e nel promuovere gli interessi americani in politica estera <29. «The Reporter», nato esplicitamente con l’intenzione di rappresentare la rivista adatta per la nuova era postbellica, non solo si distinse all’interno di questa rete di relazioni, ma ne incarnò in pieno la visione dell’organizzazione del mondo.
Max Ascoli fu un membro attivo di questa rete. Come presidente dell’Università in Esilio aveva lavorato a stretto contatto con la Fondazione Rockefeller, con organizzazioni di aiuto ai rifugiati come l’Emergency Rescue Committee e con il Dipartimento di Stato per soccorrere gli studiosi europei in fuga dal fascismo e favorirne l’arrivo negli Stati Uniti. Durante questo periodo Ascoli aveva stretto amicizie importanti e di lunga durata, tra cui quella con Adolf A. Berle, assistente segretario di Stato e con Nelson Rockefeller, due personaggi molto impegnati nelle attività di intelligence e di propaganda in guerra, che avrebbero poi avuto un ruolo cruciale nell’organizzazione delle operazioni segrete della Cia alla fine degli anni ’40 e per tutti gli anni ’50 <30.
Ascoli intrecciò ulteriori relazioni nella sua attività come presidente della Mazzini Society, che collaborò con l’Owi <31. Nel 1941 entrò a far parte della Ociaa, un’agenzia, guidata da Nelson Rockefeller, costituita con l’obiettivo di rafforzare i legami tra le nazioni dell’emisfero occidentale e creare un fronte comune contro le potenze dell’Asse. L’Ociaa, che precedette le agenzie Owi e Oss, servì come terreno di sperimentazione per le tecniche americane di propaganda che avrebbero poi svolto un ruolo importante sia durante la seconda guerra mondiale che durante la guerra fredda <32.
Dal 1941 al 1943 Ascoli lavorò al Bureau of Latin America Research a Washington, Dc, un ufficio organizzato dalla Ociaa e dalla New School for Social Research. Il professore svolse un ruolo importante nelle attività di propaganda e di intelligence come collegamento tra gli agenti in America Latina, gli studiosi della New School e i funzionari dell’Ociaa <33.
È probabile che nell’attività svolta per la Ociaa Ascoli abbia lavorato a stretto contatto con il Dipartimento di Stato, nel quale il suo amico Adolf A. Berle era il più ardente sostenitore della cooperazione pan-americana per resistere all’intrusione del totalitarismo <34. Ascoli collaborò anche con C.D. Jackson, direttore del Council for Democracy. All’epoca Jackson era uno degli esperti fondamentali per l’America nella guerra psicologica, della quale il Council for Democracy era parte, come iniziativa volta a coordinare le attività di difesa e promozione della democrazia. Ascoli ne era membro e vi svolgeva un ruolo di collegamento tra il consiglio, la Mazzini Society e l’“Università in Esilio” <35.
Al termine della guerra Ascoli utilizzò la sua ampia rete di relazioni per costituire il «Reporter» e per circondarsi di persone con idee simili alle sue. Una delle cose che queste persone avevano in comune era il lavoro svolto durante la guerra nell’Owi e nell’Oss. Wallace Carroll, il primo caporedattore della rivista, era un caso tipico. Era responsabile dell’assunzione del personale come della definizione dei principi fondativi e della filosofia della rivista. Mentre stava scrivendo le prime note sulla politica del «Reporter» in merito alla guerra fredda, Carroll stava anche lavorando su un libro intitolato "Persuade or Perish". Nel libro argomentava come la guerra fredda fosse soprattutto una guerra psicologica e che gli Stati Uniti su questo terreno erano indietro rispetto all’Unione Sovietica <36.
Carroll non fu l’unico membro dello staff del della rivista con alle spalle la collaborazione con agenzie di spionaggio e propaganda. Altri due illustri esempi furono Philip Horton e Douglass Cater, entrambi ancora in contatto con l’Owi e l’Oss a beneficio della rivista. Cater lavorava nel ramo dell’Oss dedicato a ricerca ed analisi (R&A), nella divisione che si occupava di Unione Sovietica, mentre Horton svolgeva un ruolo fondamentale come agente nell’Oss a Washington, Londra e Parigi. Nella capitale francese Horton si occupò di traghettare l’attività di intelligence americana dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda. Sebbene l’Oss avesse ufficialmente smobilitato nel 1945 e la Cia non fosse stata costituita prima del 1947, Horton continuò il suo lavoro, fino ad organizzare la prima sede della nuova agenzia di spionaggio americana a Parigi <37.
[NOTE]
29. Per una descrizione più dettagliata del concetto di “rete di relazioni tra stato e privati” cfr. S. Lucas, Beyond Freedom, Beyond Control: Approaches to Culture and the State-Private Network of the Cold War, in Scott-Smith-Krabbendam (eds.), The Cultural Cold War in Western Europe, 1945-1960, F. Lass, London-Portland, 2003, pp. 53-72; S. Lucas, Freedom’s War: The U.S. Crusade Against the Soviet Union, 1945-1956, New York University Press, New York, 1999); Id., Mobilising Culture: The Cia and State-Private Networks in the Early Cold War, in D. Carter-R. Clifton (eds.), War and Cold War in American Foreign Policy, 1942-62. Palgrave Macmillan, London, 2001, pp. 83-107; and S. Lucas, ‘Total Culture’ and the State-Private Network: A Commentary, in J.C.E. Gienow-Hecht-F. Schumacher (eds.), Culture and International History, © Bergham Books, New York, 2003, pp. 206-12.
30. Per un resoconto più dettagliato dell’associazione di Ascoli con Nelson Rockefeller cfr.: R.J. Tosiello, Max Ascoli: A Lifetime of Rockefeller Connections, cit., pp. 107-40.
31. L. Fermi, Illustrious Immigrants, cit., p. 119.
32. E.W. Barrett, Truth is Our Weapon, Funk & Wagnallis Company, New York, 1951, pp. 21-22.
33. HGARC, Box 169, Max Ascoli al Selective Service Local Board n. 17, Tls (cc), 21 maggio 1942, folder 1.
34. J.A. Schwartz, Liberal: Adolf A. Berle and the Vision of an American Era, The Free Press, New York, 1987, pp. 130-31.
35. HGARC, Box 198, Council for Democracy file, folder 7.
36. W. Carroll, Persuade or Perish, Houghton Mifflin Company, Boston, 1948; D.E. Rosenbaum, Wallace Carroll, Editor and Publisher, Is Dead at 95, in «New York Times», July 30, 2002.
37. Per una descrizione più dettagliata dei contatti di Horton e Cater con l’Oss cfr. il capitolo 9 della mia dissertazione: Elke Van Cassel, A Cold War Magazine of Causes: A Critical History of The Reporter, 1949-1968 (doctoral dissertation, Radboud University Nijmegen, 2007).
Elke Van Cassel, «The Reporter» (1949-1968): il lascito americano di Max Ascoli in (a cura di) Renato Camurri, Max Ascoli. Antifascista, intellettuale, giornalista, FrancoAngeli, 2012
Alla fine del 1939, si costituiva a New York la Mazzini Society. Fondata su iniziativa di alcuni esuli antifascisti, a essa si aggregavano, nell’estate del 1940, altri illustri personaggi giunti negli Stati Uniti dopo l’invasione tedesca della Francia. Tra questi vi erano Carlo Sforza, Alberto Tarchiani e Randolfo Pacciardi, che si andavano ad aggiungere agli altri esuli già da tempo residenti in America, come Gaetano Salvemini, Massimo Ascoli e Giuseppe Antonio Borgese. Lo scopo della società era di informare il pubblico statunitense e i milioni di italo-americani sulle reali condizioni dell’Italia sotto il regime fascista. Nello svolgere la sua opera, la Mazzini Society attaccava apertamente Generoso Pope, accusandolo di fare propaganda favorevole alle potenze dell’Asse <132.
In effetti, «Il Progresso Italo-Americano» non aveva smesso di celebrare la figura di Mussolini e il suo costante impegno per preservare la pace internazionale <133. Le speranze di Pope, come quelle della maggioranza degli italo-americani, erano riposte nella neutralità proclamata dai governi di Washington e di Roma, vista come l’unica possibilità che avrebbe evitato un conflitto tra i due paesi. Questa illusione era destinata a tramontare nel giugno 1940, quando Mussolini annunciava dal balcone di palazzo Venezia la sua decisione di scendere in guerra al fianco di Hitler. «Il Progresso Italo-Americano» commentava la notizia con delusione, ma senza alcun tono polemico nei confronti della scelta di campo operata dal duce <134. Il giornale riferiva puntualmente sugli iniziali successi militari italiani e replicava ai commenti della stampa americana che criticavano la capacità bellica del regio esercito in occasione dei primi rovesci in Africa e in Grecia <135.
[NOTE]
132 Cfr. P.V. CANNISTRARO, E. AGA ROSSI, La politica etnica e il dilemma dell’antifascismo italiano negli Stati
Uniti: il caso di Generoso Pope, cit., pp. 229-232.
133 Cfr. G. POPE, Per i buoni rapporti italo-americani, in «Il Progresso Italo-Americano», 14 gennaio 1940.
134 Cfr. ID., L’Italia in guerra, in «Il Progresso Italo-Americano», 11 giugno 1940.
135 Cfr. ID., Le croniche diffamazioni, in «Il Progresso Italo-Americano», 22 novembre 1940; ID., Le alterne vicende della guerra, in «Il Progresso Italo-Americano», 15 dicembre 1940.
Francesco Di Legge, L'aquila e il littorio: direttive, strutture e strumenti della propaganda fascista negli Stati Uniti d'America (1922-1941), Tesi di dottorato, Università degli Studi del Molise - Campobasso, Anno Accademico 2013/2014
Il rapporto di Ascoli con personalità statunitensi non sioniste o persino antisioniste è però un punto da approfondire, soprattutto in riferimento al network familiare della sua seconda moglie, Marion Rosenwald. Uno dei cognati di Ascoli era Lessing Rosenwald, <192 dal 1943 al 1955 presidente dell’American Council for Judaism, la principale organizzazione antisionista americana. <193 Un altro cognato, William Rosenwald, <194 fu invece un personaggio di primo piano nell’ambito delle organizzazioni ebraiche (come l’American Jewish Committee) che ofrirono il proprio supporto organizzativo e finanziario all’immigrazione dei profughi ebrei europei negli Stati Uniti e, dopo il 1948, in Israele.
Fra i collaboratori di «Reporter» ci fu anche un’alta personalità politica israeliana, di grande rilievo intellettuale, come Abba Eban, già delegato di Israele alle Nazioni Unite (1949-1959), ambasciatore israeliano a Washington (1950-1959) e infine (1966-1974) ministro degli Esteri. Negli anni ’50, durante la presidenza Eisenhower, Eban ebbe un ruolo determinante nei rapporti tra i due paesi e nella loro trasformazione in una «special relationship». <195
[...] Ma soffermiamoci ora su altri due articoli di Ascoli. Il primo è un editoriale uscito nel numero del 22 gennaio 1952, nella sezione «Problems of Faith and Color». <198
Il titolo era 'America, the Vatican and Israel' e il direttore vi commentava tre episodi recenti che riguardavano altrettante importanti componenti della società americana: sionisti, cattolici e organizzazioni sindacali.
Il primo episodio concerneva un attacco verbale del capo del governo israeliano, Ben–Gurion, ai vertici del sionismo americano, avvenuto il 12 dicembre ’51.
Il secondo episodio riguardava le affermazioni contenute nel radiomessaggio di Natale di Pio XII, trasmesso il 24 dicembre 1951. Il pontefice non si era limitato - riassunse Ascoli - a proclamare la ‘neutralità’ della Chiesa nel conflitto tra democrazia e comunismo, ma aveva aggiunto una vigorosa denuncia della «bancarotta morale» del cosiddetto «mondo libero», in cui l’individuo era ridotto a semplice ingranaggio dell’organismo sociale, plasmato dai mezzi di comunicazione di massa.
Il terzo episodio, infine, concerneva le dichiarazioni rilasciate da George Meany, segretario dell’American Federation of Labor, al ritorno da un incontro con le controparti europee. In un’intervista al «New York times» pubblicata il 26 dicembre 1951, <199 Meany aveva manifestato il suo profondo disappunto per lo scarso impegno che - a suo dire - i governi, le imprese e i sindacati europei (in particolare in Francia e in Italia) dimostravano nella lotta al comunismo e sull’eccessivo affidamento che gli europei facevano sui finanziamenti americani.
L’analisi di Ascoli metteva una accanto all’altra con abilità vicende diverse, accomunate dal fatto che i gruppi presi in esame avevano forti rapporti con centri di potere politico, religioso o sociale all’estero (Israele, il Vaticano e il mondo sindacale europeo). Ma tutti e tre i casi esemplificavano i limiti dell’influenza americana. L’accostamento delle tre vicende consentiva ad Ascoli di raggiungere due obiettivi: in primo luogo, di sfumare il contrasto fra il primo ministro israeliano e il mondo ebraico americano, perché lo inseriva in un contesto più ampio; in secondo luogo, esprimeva una serie di considerazioni (e di critiche) di carattere generale sui temi della politica estera statunitense - e in questo modo interloquiva direttamente con il dipartimento di Stato.
Secondo Ascoli, da queste vicende si poteva trarre una «lezione», già peraltro ben nota agli esperti della diplomazia USA: per quanto il supporto economico americano potesse essere indispensabile alla sopravvivenza delle istituzioni e dei governi stranieri ai quali veniva fornito, esso però non permetteva di dettare la loro politica. E anzi, affinché le «policies» del Dipartimento di Stato ricevessero migliore accoglienza, sarebbe stato opportuno che non venissero percepite come una manifestazione dell’imperialismo americano. «Checché ne dicano i comunisti, noi non vogliamo essere i padroni del mondo», osservava Ascoli, il quale concludeva con questa considerazione: "Noi non vogliamo rifare il mondo esterno a nostra immagine, perché altrimenti esso non sarebbe ciò che noi vogliamo che sia: un mondo di uomini liberi - davvero un mondo libero, senza virgolette". <200
[NOTE]
192 Bibliofilo, uomo d’affari e filantropo, Lessing J. Rosenwald (1891-1979) era uno dei figli del magnate della Sears Julius Rosenwald (1862-1932). Alla morte del padre gli successe nella direzione dell’azienda fino al 1939, quando si ritirò. Nel settembre 1940 aderì all’America First Committee, il più influente gruppo di pressione contrario all’ingresso in guerra degli Stati Uniti prima dell’attacco a Pearl Harbor, ma si dimise a causa dell’antisemitismo di alcuni suoi membri, fra i quali c’era Charles Lindbergh. Durante la Seconda guerra mondiale diresse il Bureau of Industrial Conservation del War Production Board. Nel suo ruolo di presidente dell’American Council for Judaism si impegnò attivamente prima contro l’istituzione di uno stato ebraico in Palestina, poi, dopo il 1948, contro le implicazioni della «legge del ritorno». Su di lui si vedano i necrologi di E. Pace, Lessing Rosenwald, Sears head and collector of art, dead at 88: ‘A real Medici as a collector’ opponent of Zionism started with one print («The New York times», New York, v. 128, n. 44.260, 26 giugno 1979, p. C17) e di J.Y. Smith, Lessing Rosenwald dies, donated art, rare books («The Washington post», Washington D.C., a. 102, n. 203, 26 giugno 1979, p. C4) e la voce di L. Dinnerstein nell’American national biography, vol. 18, New York-Oxford, Oxford University Press, 1999, p. 895. Lessing Rosenwald fu anche un importante collezionista di stampe, disegni, manoscritti miniati, incunaboli e libri rari. Donò le sue preziose collezioni al governo americano; le raccolte di disegni e stampe sono conservate alla National Gallery of Art, i manoscritti le edizioni di pregio alla Library of Congress di Washington (W. Matheson, Lessing J. Rosenwald ‘A splendidly generous man’, «The Quarterly journal of the Library of Congress », 1980, pp. 2-24). Su Julius Rosenwald, la sua attività filantropica nei confronti degli ebrei perseguitati e il sionismo si veda P.M. Ascoli, Julius Rosenwald. The man who built Sears, Roebuck and advanced the cause of black education in the American South, Bloomington, Indiana University Press, 2006.
193 L’American Council for Judaism fu fondato nel 1942 da un gruppo di rabbini aderenti al Reform Judaism, che intendevano contrastare la crescita del sionismo politico negli Stati Uniti e la creazione di uno stato ebraico in Palestina. L’ACJ sosteneva la natura puramente religiosa dell’ebraismo e riiutava il nazionalismo ebraico. Benché inizialmente rappresentasse l’opposizione religiosa al sionismo politico, l’ACJ si trasformò rapidamente in un gruppo di pressione laico antisionista, che collaborò strettamente con il Dipartimento di Stato americano. Si veda T.A. Kolsky, Jews against Zionism. The American Council for Judaism, 1942-1948, Philadelphia, Temple University Press, 1990.
194 William Rosenwald (1903-1996), altro iglio di Julius Rosenwald, anch’egli uomo d’affari e filantropo, svolse un’intensa attività prima e dopo la Seconda guerra mondiale in favore degli ebrei in fuga dall’Europa che intendevano stabilirsi negli Stati Uniti e in Israele. Fu primo presidente del National Refugee Service, uno dei tre rappresentanti dello United Jewish Appeal (1942-1946) e per cinquant’anni membro del comitato esecutivo dell’American Jewish Joint Distribution Committee. Su di lui si veda l’ampio necrologio di L. Van Gelder, William Rosenwald dies. Benefactor to many was 93, «The New York times» (New York), v. 146, n. 50.598, 1 novembre 1996, p. B14.
195 Abba Eban (n. Aubrey Solomon) nacque a Cape Town, in Sud Africa, nel 1915. Crebbe a Londra e si laureò in lingue orientali a Cambridge. Durante la Seconda guerra mondiale fece parte dei servizi segreti militari inglesi, quindi entrò a far parte della Jewish Agency. Dal 1949 capo della delegazione israeliana all’ONU, nel 1950 fu nominato ambasciatore dello Stato ebraico negli Stati Uniti; tenne entrambi gli incarichi fino al 1959. Tornato in Israele, fu ministro
dell’Educazione e della cultura e poi degli Esteri. Morì a Herzliya, vicino a Tel Aviv, nel 2002. Sul ruolo strategico giocato da Eban nelle relazioni tra Israele e Stati Uniti negli anni ’50 si veda A. Siniver, Abba Eban and the development of American-Israeli relations, 1950-1959, «Diplomacy & statecraft», 2015, pp. 65-83.
198 M. Ascoli, America, the Vatican and Israel cit.
199 J.A. Loftus, Europe labor held apathetic on reds. Dubious on Europe, «The New York times» (New York), v. 101, n. 34.304, 26 dicembre 1951, p. 9.
200 «We do not want to remake the outside world in our image, for otherwise it would never be what we want it to be: a world of f ree men-really a free world, without quotes» (M. Ascoli, America, the Vatican and Israel cit., p. 5).
Annalisa Capristo, "E io ora provo l’irritante piacere di sentirmi vicino a voi": Max Ascoli su ebraismo e sionismo in (a cura di) Davide Crippa, Oltreoceano: Politica e comunicazione tra Italia e Stati Uniti nel Novecento, Leo S. Olschki, 2017 (Fondazione Luigi Einaudi. Studi, 55)