"Dopo sette anni di intenso ed intelligente lavoro nella nostra città e dopo quasi cinquanta da quando entrò come ausiliario nel corpo di Polizia, Saverio Polito si concede finalmente un po‘ di riposo. Fino all‘ultimo giorno egli ha svolto il suo oneroso e difficile compito con vigore non comune accompagnato da una singolare acutezza di giudizio e da una assiduità che è stata sempre di esempio ai suoi dipendenti. Particolarmente in questi ultimi anni, anzi, la sua attività è stata instancabile: il suo nome è legato alla più dura e implacabile lotta alla malavita. Dallo sfacelo morale e materiale dei servizi di Polizia in Roma nell‘immediato dopoguerra, Saverio Polito ha saputo far sorgere un organismo altamente efficiente e disciplinato che pur muovendosi attraverso ogni sorta di difficoltà è riuscito a restituire alla cittadinanza la fiducia nella giustizia". <157
Con queste parole elogiative, nel settembre 1953, il quotidiano filocomunista «Il Paese» salutava il questore Saverio Pòlito, che dopo sette anni si apprestava a lasciare il vertice della questura di Roma. Si trattava indubbiamente di una di quelle occasioni in cui le belle parole non vengono lesinate: non solo il nuovo questore, Arturo Musco, gli riconobbe «l‘incontestabile merito di aver riportato Roma dal caos dell‘immediato dopoguerra a quell‘ordine e a quell‘austerità, che si addicono alla Capitale di un Paese di millenaria civiltà» <158, ma Pòlito - sempre attento a ricordare che proveniva dall‘ambiente giornalistico - fu elogiato da tutti i quotidiani, anche da quelli di sinistra che lo avevano fino ad allora sempre criticato per le sue politiche di gestione dell‘ordine pubblico <159.
Anche nell‘ambito del ministero dell‘Interno, i complimenti e gli elogi non furono risparmiati. L‘ex prefetto Aldo Buoncristiano, che redasse per la lettera con cui il ministro dell‘Interno Fanfani salutò il questore, scrisse che
"intelligentissimo e coraggioso, Pòlito fronteggiava personalmente con i suoi uomini qualsiasi manifestazione, se pericolosa per l‘ordine pubblico. Anche settantenne non mandava funzionari ma si recava sul posto di persona; non aveva preoccupazioni di fronte a chicchessia: diceva che anche i membri del Parlamento, che andavano a coprire le violenze con la loro persona, erano semplici dimostranti ed in piazza li trattava come gli altri. Non si curava se ritornavano in Parlamento con la testa rotta. Sapeva che dietro di lui vi erano il Capo della Polizia D‘Antoni ed il Ministro Scelba. […] Polito fu un uomo dalla forte personalità, oggetto anche di violente critiche (forse non era esente dall‘avere avuto qualche debolezza). I servizi resi all‘amministrazione lo rendono però, meritevole di essere ricordato con gratitudine e stima. […] Polito dettava personalmente gli appunti diretti al Ministro e al Capo della Polizia in uno stile inconfondibile". <160
Ma Pòlito fu davvero un funzionario non meritevole di alcun biasimo? Se già nel brano di Buoncristiano viene fatto cenno a qualche debolezza, venti anni dopo, in un volume dalla chiara impostazione militante, Pier Giuseppe Murgia lo definì, in modo molto meno lusinghiero, come un «funzionario senza scrupoli, corrotto e corruttore, tipico esempio di quegli elementi di cui il partito clericale si baserà per costruire la sua impalcatura di potere inquinando irrimediabilmente le strutture democratiche del nostro paese» <161. Ma anche un attento e pacato studioso dell‘amministrazione dello Stato come Guido Melis ha definito la sua carriera come «poco meno che inquietante» <162.
Personaggio ingombrante ed egocentrico, ossequioso fino alla piaggeria con i superiori, ma anche - almeno fin quando la sua razionalità non fu annebbiata da eccessi paranoici - acuto e intelligente osservatore della realtà sociale in cui operava, Saverio Pòlito fu un funzionario con una carriera lunga e costellata più da ombre che da luci: fu, infatti, più volte messo in discussione, anche sul piano etico.
Nato a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, l‘8 novembre 1879, Pòlito entrò in polizia nel 1907 <163. A cavallo degli anni ‘20 prestò servizio a Napoli, dove tornò poi nel 1927. Durante entrambi i periodi trascorsi nella città partenopea, fu oggetto di molte lettere anonime che lo accusavano di appropriazioni indebite, che sarebbero state dimostrata dal suo stile di vita agiato del tutto incompatibile con il suo stipendio, e di contatti con la camorra <164: la veridicità di questi addebiti non fu mai dimostrata dalle indagini. Nel 1921, il prefetto di Napoli Angelo Pesce scrisse di lui come di un uomo «di carattere megalomane» che, «amante di rendersi famoso ad ogni costo», era riuscito «a rendersi inviso a tutti: colleghi e dipendenti nonché a buona parte della cittadinanza e della stampa; è tenuto in sospetto anche dall‘autorità giudiziaria ed è circondato dalla quasi generale disistima»: egli chiese al ministero, quindi, di allontanarlo dalla città per difendere il buon nome della questura <165. Anche le parole del questore di Napoli sul suo conto non apparivano lusinghiere, ma probabilmente restituivano un‘immagine fedele del carattere del futuro questore di Roma:
"Io ebbi il Polito alla mia dipendenza durante il non breve periodo di tempo che fui a capo della Polizia giudiziaria. Il Polito, già agente, poi applicato, fu nominato Delegato di P.S. nel 1916, in virtù della legge che istituì l‘ufficio speciale per la repressione dell‘abigeato in Sicilia. Egli che, a dir vero, è stato faber suae fortunae meritava incoraggiamento e io non gliene ho mai lesinato, contenendo, con rigida disciplina, i suoi difetti che non erano pochi, utilizzando le buone qualità di cui è fornito, ma soprattutto limitando la tendenza ad espandersi, a soverchiare tutti e tutto, che è la peculiare nota del suo carattere". <166
Il questore non approvava che il suo predecessore avesse nominato Pòlito a capo della squadra mobile di Napoli: a essa, egli aveva dato «l‘impronta del suo stesso carattere, vale a dire invadendo il campo altrui, accentrando funzioni affini, sfuggendo a controlli, creando, come fu detto con frase felicemente applicata, uno stato nello stato» <167. Per questi motivi aveva attirato intorno a sé antipatie e avversioni:
"Egli, infatti, divenne ben presto inviso ai compagni di ufficio per l‘aria di supremazia e la tendenza a far risaltare sempre ed in ogni occasione l‘opera sua, esagerando i minimi servizii a scapito di altri funzionari più seri e modesti, valendosi, in ciò, della réclame dei giornali, a volte perfino grottesca; fu mal visto dalla classe degli avvocati per i suoi imperativi categorici e i metodi non sempre sani e legali dei procedimenti e per i frequenti arbitri […]; fu odiato dagli stessi dipendenti, salvo qualche eseguo gruppo di suoi fidi, ai quali i modi burberi ed autoritari tornavano mal sopportabili perché provenienti da chi un giorno fu loro pari".168
Inoltre, mentre nel 1919 Pòlito viveva in condizioni modeste - al punto di ricorrere all‘aiuto economico del padre emigrato in America -, nel 1921 si circondava di oggetti costosi - il questore elencò un portasigarette di oro del valore di 2mila lire, una spilla con brillante, catene d‘oro pesante, «abiti da società», camice di seta, una pelliccia del valore di 10mila lire - e, oltre ad aver cambiato il mobilio di casa, aveva iniziato a frequentare locali di lusso e a utilizzare autovetture. Secondo il questore di Napoli, queste spese facevano pensare che, in un anno e mezzo, avesse guadagnato circa centomila lire e ciò bastava a dimostrarne «in modo indubbio la disonestà»: non sarebbe stato sufficiente a giustificare tale entrata neanche lo sblocco di un conto vincolato di diverse decine di migliaia di lire a cui qualcuno faceva riferimento. Le voci più diffuse affermavano che avesse ricevuto diecimila lire dalla tenutaria di un bordello clandestino per farle ottenere la licenza, che fosse stato tollerante nei confronti di una bisca in cambio di denaro e che, nel corso delle retate contro il gioco d‘azzardo, non dichiarasse le alte somme sequestrate nei rapporti, ma che «sottraesse molto denaro ad ogni sorpresa» <169.
Il questore concludeva il rapporto con un‘altra notazione sul carattere di Pòlito:
"Il Polito ha la mania di esibirsi in pubblico, di farsi conoscere, di estendere al massimo la sua notorietà. Non vi è stata cerimonia ufficiale, prima rappresentazione di teatro, inaugurazione, corteo, in cui egli, comandato o non di servizio, non sia intervenuto sfoggiando il maggior lusso possibile, cercando sempre il posto più in vista. Tale mania ha fatto sì che effettivamente egli è divenuto il funzionario più conosciuto della città, ma, sfortunatamente come è nota la sua persona, sono purtroppo noti tutti gli addebiti che gli si fanno e da ciò lo scandalo maggiore. […] Io ritengo che allo stato delle cose il trasferimento del Polito sia assolutamente indispensabile, pel decoro dell‘Amministrazione". <170
Dall‘inchiesta del 1921 dell‘ispettore generale Tringali emerse che Pòlito era «un applicato svelto e intelligente», che aveva grande ascendente sulla Divisione seconda e che «sul suo conto non si fanno appunti specifici, ma nessuno sa spiegarsi la vita piuttosto agiata che conduce, avendo uno stipendio di sole L. 2000» <171. Secondo l‘inchiesta, i pettegolezzi affermavano che «a Messina, ove andò in missione, appena dopo il terremoto, si sia addirittura sostituito a chi era incaricato di distribuire le baracche e che in questo modo si sarebbe fatta una discreta posizione finanziaria che ora vorrebbe far apparire come conseguenza del matrimonio sotto contratto» <172.
Anche se gli addebiti non erano stati accertati, a causa della cattiva fama di cui ormai godeva in città, Pòlito fu trasferito a Civitavecchia. Le accuse erano state pubblicate anche da alcuni giornali e Pòlito le aveva smentite punto per punto: il conto dei soldi nelle sorprese alle bische sarebbe stato effettuato sempre alla presenza di molti, i suoi accusatori erano dediti ad attività immorali e illegali (e dunque poco credibili), la sua vita era un «modello di austerità e di signorilità», le spese per la sua famiglia erano pagate dal ricco suocero, la pelliccia era un oggetto vecchio comprato a poco prezzo <173. Anzi, il suo allontanamento da Napoli, secondo Pòlito, sarebbe stato proprio conseguenza campagna contro di lui organizzata dai biscazzieri perché lui era stato un ferreo persecutore del gioco d‘azzardo.
Negli anni successi al 1921, ricevette molti encomi e promozioni per i suoi risultati investigativi, anche perché a Civitavecchia strinse forti rapporti con le gerarchie fasciste della città, nelle imminenza della marcia su Roma.
Dopo un altro soggiorno a Napoli, non esente da nuove critiche e nuovi addebiti, nel 1928 fu promosso vice questore per meriti per aver arrestato, a Campione d‘Italia Cesare Rossi, ex capo dell‘ufficio stampa di Mussolini e autore del «memoriale» che accusava il duce dell‘omicidio di Giacomo Matteotti e che lo aveva fatto diventare un nemico giurato dal dittatore <174.
Tra il 1932 e il 1933 fu incaricato di organizzare e dirigere la IV Zona dell‘Ovra, la polizia politica fascista, che era stata nominalmente costituita intorno al 1930 e, con sede centrale ad Avezzano, estendeva la sua giurisdizione su Umbria, Abruzzo, Molise e sulla provincia di Rieti. Qui, secondo il suo fascicolo personale, fu autore di «numerose brillantissime operazioni di polizia politica di carattere riservato, di importanza eccezionale»175 e il 15 settembre 1933 fu promosso questore «per aver reso numerosi importanti servigi di indole politica al Regime» <176. Nella sua attività nella IV Zona, egli «curò con scrupolo la scelta dei confidenti, pescando nell‘area dei vecchi militanti di sinistra che, dopo anni di galera e di confino, si trovavano in pessime condizioni fisiche e in difficoltà finanziarie» <177. In realtà, l‘attività comunista in quei luoghi era piuttosto limitata, ma Pòlito la esagerò in modo notevole per giustificare l‘esistenza della Zona.
In questo periodo, divenne tra i più stretti collaboratori di un allora giovane e brillante funzionario della polizia politica, Guido Leto, insieme a Carmine Senise e a Gesualdo Barletta. I quattro collaborarono a lungo per attribuire al gruppo di Giustizia e libertà guidato da Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi la responsabilità dell‘attentato dinamitardo del 12 aprile 1928 a Milano, che aveva fatto sedici morti <178.
Nel novembre 1933, Pòlito fu trasferito in Sardegna a dirigere l‘Ispettorato speciale per la repressione dell‘abigeato. La sua lotta conto il banditismo sardo durò fino al 1935, quando fu nominato questore di Bologna: su richiesta di Starace, tuttavia, egli fu rimosso da questo incarico nel 1939 perché si era reso inviso all‘ambiente locale179, anche se le relazioni prefettizie su di lui lo descrivevano come dotato di una «schietta passione fascista che acuisce in lui perspicacia e volontà nel perseguire i nemici del regime» <180.
In quegli anni, in effetti, Pòlito presentava se stesso come animato da una accesa fede fascista. In una lettera, in cui chiedeva una promozione, egli scrisse:
"Mi si dice che, tra i coefficienti richiesti, vi sono anche le benemerenze fasciste. Nessuno meglio di Lei, Eccellenza, può ricordare che, al momento della Marcia su Roma, mentre il famoso sottoprefetto D‘Aniello era costretto a fuggire ignominiosamente su di una nave da guerra, io ero proclamato benemerito del Partito. […] Inoltre, tutti gli altri servizi da V.E. ordinatimi nell‘interesse del Partito, fra i quali l‘arresto di Cesare Rossi, ritengo che valgano a mettere in luce le benemerenze politiche, anche se la tessera, per una severa disciplina verso la mia amministrazione, segna la data in cui il Duce ha autorizzato formalmente l‘ammissione dei funzionari". <181
Con l‘entrata in guerra dell‘Italia nel giugno 1940, Pòlito fu militarizzato col grado di generale di brigata e, nel 1942, nominato a capo dell‘Ispettorato generale di polizia per i servizi di guerra presso lo Stato maggiore dell‘esercito: in questo ruolo, egli doveva prevenire gli atti di sabotaggio, frequenti soprattutto contro le linee ferroviarie. Si trattava di un «corpo speciale» di cui si sa poco, attivo anche nella zona friulano-giuliana e impegnato nella ricerca dei partigiani e degli irredentisti sloveni <182.
Non sappiamo come maturò - se maturò - il suo distacco dal regime, ma non a caso, in un ironico racconto, lo scrittore Sebastiano Vassalli ha rappresentato Pòlito, soprannominato il trasformista, come «il riassunto e, per così dire, il simbolo di una metamorfosi che interessò milioni di italiani. Da fascisti ad antifascisti» <183. Egli, infatti, partecipò alla cospirazione del 25 luglio e, come fiduciario di Badoglio, fu incaricato di scortare a Ponza, alla Maddalena e al Gran Sasso Benito Mussolini.
All‘inizio dell‘agosto 1943, fu poi incaricato di accompagnare Rachele Guidi, la moglie di Mussolini, alla residenza estiva sita nei pressi di Rocca delle Caminate (Forlì). Nelle memorie del 1948, donna Rachele ricordadi essere stata visitata, il 29 luglio 1943, a villa Torlonia «da un certo generale Pòlito, venuto alla villa insieme a due carabinieri» <184, che le aveva portato una lettera del marito. Il giorno successivo, racconta Rachele Guidi affermando di copiare dal suo diario coevo, Pòlito le fece nuovamente visita ed ella si era «finalmente ricordata chi è: lo incontrai questore di Bologna nel tempo in cui si professava ammiratore di Mussolini e ardente fascista. Lo ricordo servile funzionario, che si sentiva onorato di portare la valigetta a "Donna Rachele. Ora si fa chiamare generale, non so di qual corpo» <185. Nei giorni successivi racconta di aver ricevuto altre visite di Pòlito, «che cercava di fare la storia a modo suo» <186. Il 2 agosto, sotto gli occhi di Pòlito, Rachele preparò un piccolo bagaglio per essere da lui condotta alla Rocca delle Caminate. Il viaggio viene raccontato in questo modo:
"Il viaggio da Roma alla Rocca fu tremendo. Miei accompagnatori furono sempre Pòlito e il colonnello dei carabinieri che sedeva vicino all‘autista. In sei o sette ore avremmo potuto arrivare benissimo alla Rocca, ma Polito volle deviare per strade meno battute, impiegando così più di dodici ore. Durante il tragitto venivano lanciati strani manifestini di propaganda per Badoglio. […] Il generale [Pòlito, ndr] fumava ininterrottamente sigari, e coi vetri ermeticamente chiusi, nella macchina si soffocava, addirittura. Quando scendeva, Pòlito mi chiudeva dentro, come una donna pericolosa. Durante il percorso ebbe l‘impudenza di un contegno che non è riferibile e che non sfuggì al colonnello e all‘autista. Mi svelò vecchie e inconfessate trame della polizia contro mio marito, e mi disse che non era mai stato fascista. Si beffava del mio stupore per la finzione durata tanti anni. Con vergognosa crudeltà insisteva nelle più nere previsioni circa la sorte di mio marito. E faceva più che il galante. Mi diede perfino il suo biglietto da visita con l‘indirizzo, di cui, nelle sue intenzioni offensive, avrei dovuto servirmi, e mi dava del tu. Quando finalmente, alle undici di mattino, scorsi di lontano la torre della Rocca, in un trionfo di sole, ringraziai Iddio: ero salva […]. Il generale si accommiatò in fretta e cercò perfino di essere deferente. Trattenni parole di sdegno che mi salivano alle labbra e lo salutai appena". <187
Leggermente diversa è la versione riportata nelle nuove memorie di donna Rachele del 1958, in cui racconta che il 29 luglio 1943 Pòlito le fece visita a villa Torlonia, portandole una lettera di Mussolini, e che le «si aprì il cuore, vedendolo. Era stato con noi per dodici anni (quante volte a Riccione avevamo pranzato assieme nella villa di una mia carissima amica, la signora Sandra Borsalino!) e pensavo che avrei potuto fidarmi di lui, che mi avrebbe aiutata, in un momento così doloroso» <188. Pòlito viene quindi descritto come intimo della famiglia Mussolini, anche se Rachele Guidi, vedendolo promosso di grado, disse di aver pensato che aveva fatto carriera col 25 luglio e, quindi, di non potersi fidare di lui. La sera del 2 agosto Pòlito la andò a prendere per condurla a Rocca delle Caminate:
"Fu un viaggio orribile, che ricordo con umiliazione e disgusto. Avremmo potuto raggiungere la Rocca in poche ore, invece la macchina continuò a vagare per tutta la notte e Polito rideva, beffandosi di me, quando mi meravigliavo per quello spreco di combustibile. […] Mi disse che non era mai stato fascista e mi rivelò vecchi complotti della polizia di cui nessuno aveva avuto sospetto; inoltre si pavoneggiava di continuo per i suoi gradi («Generale lui», diceva alludendo a Benito, «e generale io!») e lasciava capire che la sorte di Mussolini dipendeva soltanto dalle sue decisioni. In quanto al suo contegno verso di me, durante quel viaggio tremendo, non posso e non voglio parlarne, ma molti italiani ne sono a conoscenza". <189
Ciò che molti italiani conoscevano erano delle vere e proprie molestie sessuali, che Rachele Guidi aveva in seguito denunciato, con descrizioni che non lasciavano adito a dubbi: «Io ero seduta... serrandomi con le mani la gonna sotto le gambe, tuttavia egli riuscì ad aver ragione del mio braccio sinistro e a portare la mia mano tra le sue luride vergogne e a scoprirmi le gambe» <190.
Dopo il viaggio con donna Rachele, a Pòlito fu affidato l‘incarico di sorvegliare Mussolini alla Maddalena, che si era rilevata un sistemazione poco sicura. Tuttavia, il 17 agosto 1943, di ritorno dall‘ispezione di un nuovo papabile posto in cui trasferire l‘ex duce, Pòlito rimase ferito con fratture e ferite multiple molto gravi in un incidente automobilistico, che lo costrinse a letto per diversi mesi e che, nel dopoguerra, gli fece ottenere una contestata pensione di invalidità. Convalescente a Roma, nel gennaio 1944 fu arrestato dalla Squadra politica della questura per ordine del ministero dell‘Interno e condotto in arresto a Verona e, poi, in carcere - o, secondo lo storico Mauro Canali, in una clinica <191 - a Parma, per essere deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato <192. La denuncia di Rachele Mussolini, infatti, aveva fatto il suo corso e aspettava di essere sottoposta a processo: nel marzo 1945, fu condannato a ventiquattro anni di reclusione per «atti di libidine violenta» <193 e «congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale».
Nonostante questi discutibili - e discussi - trascorsi, dopo la fine della guerra Pòlito fu riabilitato. Nell‘agosto 1945, dietro autorizzazione dell‘Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, fu riassunto in servizio con l‘incarico di ispettore generale, superando con successo il giudizio dell‘epurazione. Egli, anzi, fu riconosciuto come «vittima» della persecuzione del regime <194, nonostante il commissario per l‘epurazione Nino Colozza si fosse espresso per la sua incompatibilità con la permanenza in servizio per «faziosità fascista», affermando che solo in virtù della sua partecipazione all‘Ovra era stato nominato come questore di seconda classe <195.
A causa di questi ulteriori dubbi sulla sua condotta, fu, per un po‘, sottoposto a riposo. Nel gennaio 1946, scrisse quindi al ministero dell‘Interno, affermando che se gli era stato dato l‘incarico del trasferimento di Mussolini era perché il capo della polizia aveva «la certezza che io non ero fascista» <196. Egli - compiendo una giravolta esemplare, soprattutto alla luce della lettera del 1936 in cui affermava il contrario - vantò meriti antifascisti tra cui quello, a Napoli, di aver fatto cessare le persecuzioni contro la casa di Benedetto Croce: per questo sarebbe stato avversato dai fascisti. Inoltre, affermò,
"possono essere […] sentiti sui miei rapporti col fascismo napoletano Francesco Saverio Nitti […]. Mi dispiace inoltre non poter citare qui la testimonianza decisiva di Arnaldo Lucci, morto da poco, che salvai da una invasione domiciliare, eseguita dopo un attentato a Mussolini, offrendogli ospitalità nella mia casa". <197
Nello stesso periodo, Pòlito cominciò a godere dei favori del ministro dell‘Interno Giuseppe Romita - che nel febbraio 1946 lo inviò a Milano (per controllare la situazione della questura dopo l‘immissione degli ex partigiani come ausiliari <198 -, di De Gasperi e di Scelba <199. In realtà, nonostante queste entrature, a Milano mise in difficoltà il ministro Romita, che nelle sue memorie "Dalla monarchia alla Repubblica" scrisse che
"il vecchio funzionario, un uomo che aveva indubbiamente al proprio attivo non poche benemerenze, giunse a Milano con l‘idea di non essere, come doveva, un ispettore inquirente che accerta, raccoglie prove, documenta e, quindi, riferisce al ministero per i provvedimenti di definitiva competenza, ma piuttosto di essere un organo superiore e diretto, un supervisore dell‘opera svolta dal dirigente della questura. […] In pratica, il Polito si mise a fare il processo alle forze partigiane presenti nella polizia. E con ciò commetteva uno sbaglio molto serio sul piano politico. Ma egli sbagliava anche perché sviava la funzione che la prassi amministrativa affida agli ispettori generali centrali, i quali debbono agire in perfetta intesa col capo della provincia. Il Polito, infatti, esautorò completamente il prefetto Troilo, già valoroso comandante della brigata Maiella, ed ottimo elemento prescelto al di fuori dei partiti. D‘altra parte, anche lo stesso questore Papa venne a trovarsi sotto tutela, in una specie di vigilanza coatta, e ridotto a fare il questore soltanto di nome". <200
Le informazioni allarmanti trasmesse da Pòlito ai giornali monarchici sulla situazione della questura di Milano, che diceva essersi trasformata in un covo di sovversivi, provocarono le proteste delle sinistre, e Romita lo rimosse e lo inviò ad Andria, dove all‘inizio di marzo si erano verificati gravi incidenti tra disoccupati e forze dell‘ordine, con morti e feriti. In seguito, intervenendo al Senato il 25 ottobre 1948, il socialista Romita, preoccupato per la trasformazione dello Stato in «Stato di polizia», diede un giudizio non troppo positivo sulla democraticità di Pòlito:
"Quando vedo Polito, che io stimo veramente, questore di Roma, dico: mandate Polito in Sicilia a cercare e a combattere Giuliano e la sua banda, e a quest‘ora ve lo avrebbe già catturato. Polito che è un grande questore, un grande uomo d‘azione, ve lo avrebbe già portato, vivo o morto; ma Polito come uomo politico non è indicato. Oggi al Viminale è un po‘ l‘eminenza grigia; se fosse andato in Sicilia sarebbe il benemerito della nazione; in Sicilia o dovunque ci sia una situazione criminale, ma a Roma no, al Viminale no, è un pericolo n. 1 per la democrazia". <201
Nell‘ottobre 1946, dopo gli incidenti del Viminale in cui rimasero uccise quattro persone <202, fu nominato questore di Roma in sostituzione di un altro questore che aveva fatto parte dell‘Ovra, Ciro Verdiani: secondo lo storico Giuseppe Carlo Marino, Pòlito era uno dei funzionari «puri tecnici o esperti ideologicamente piuttosto neutri», mentre il suo predecessore era uno dei «personaggi di indubbia mentalità fascista» <203. L‘assegnazione alla questura di Roma era particolarmente importante. Essa, infatti, godeva di una posizione di prestigio rispetto alle altre, in quanto era autonoma e non subordinata alla prefettura per quanto riguardava la pubblica sicurezza e l‘ordine pubblico: il questore di Roma rispondeva direttamente al capo della polizia. È piuttosto significativo che la gestione della questura di Roma fosse affidata a funzionari che avevano lavorato nell‘Ovra (Verdiani, Pòlito e, in seguito, il suo successore Arturo Musco) e che «disponevano di un patrimonio di conoscenze nell‘ambiente dell‘antifascismo, e in particolare del Partito comunista - non bisogna dimenticare che l‘Ovra era nata specificatamente per il controllo dell‘opposizione comunista - e avevano acquisito con gli anni una mentalità inquisitoria che poteva risultare molto utile al fine di un controllo pervasivo di tutte le attività politiche e commerciali che facevano capo al Partito comunista» <204.
Nel 1948, in seguito alla nomina di Mario Scelba al ministero dell‘Interno, aspirò probabilmente a diventare capo della polizia, nonostante che la scelta di un questore a ricoprire questa carica avrebbe costituito un‘anomalia. È questo che si deduce, almeno, da una lettera che scrisse allo stesso Scelba nel settembre 1948:
"Eccellenza,
mentre La ringrazio vivamente per le cortesi e confortanti comunicazioni, delle quali mi ha onorato, desidero rassicurarLa […] che la mia collaborazione nel settore assegnatomi dalla fiducia del Governo, e particolarmente dall‘E.V., sarà assoluta e totalitaria, e che nessuna nube è passata per la mia mente, in conseguenza alla nuova sistemazione data alla Direzione Generale della P.S., non avendo avuta mai altra ambizione che quella di servire, con la doverosa fedeltà, il Governo dell‘ordine e della ricostruzione nazionale. Un certo mio turbamento ha esclusiva attinenza con le notizie, che hanno circolato per parecchio tempo sulla crisi della Direzione Generale della P.S., dando per certa la mia utilizzazione in un settore più elevato. Ma io intendevo perfettamente che la mia eventuale elevazione a Capo della Polizia, a parte ogni considerazione di indole pratica, avrebbe potuto avere riflessi politici dannosi, in quanto si sarebbe potuta interpretare come un indirizzo più restrittivo e più rigoroso dell‘azione di Governo, prestandosi a speculazioni di parte. Della nomina a Vice-Capo non è il caso di parlare, perché non da meno è la funzione del Questore nella Capitale, per i poteri diretti, di cui è investita, e per le gravi e ponderose responsabilità, che comporta. A tutte le voci mi sono mantenuto estraneo; ma non posso nascondere che la sola mia preoccupazione è che, a seguito delle previsioni anticipate, trovino ora credito errate valutazioni e ineluttabilmente si riflettano a mio danno. A dissipare quel senso di perplessità, diffusosi tra il personale e nell‘opinione pubblica, sulle eventuali ragioni di trascuranza (lo stesso prefetto Trinchero mi ha domandato amichevolmente come ero rimasto dopo le deliberazioni dell‘ultimo Consiglio dei Ministri), dirò che, ove l‘E.V. lo ritenga opportuno, la questione potrebbe essere risolta con la mia nomina a Prefetto, secondo una prassi quasi costante nella tradizione della Questura di Roma. […] Devo dire all‘E.V. che, quando fu istituito il grado IV, parecchi colleghi […] mi sollecitarono a far valere la tradizione, caldeggiando la mia nomina a Prefetto, anziché ad Ispettore Generale Capo, in modo da lasciare disponibile un altro posto in tale grado; ma io mostrai la mia invincibile riluttanza a rappresentare all‘E.V. una cosa che mi riguardasse personalmente. E neppure ora l‘avrei fatto, se non me ne avesse offerto lo spunto il colloquio di ieri con l‘E.V., del quale ancora una volta Le rendo grazie, serbando indelebile ricordo della Sua grande lealtà e della Sua affettuosa benevolenza". <205
Nel 1949, Pòlito raggiunse i limiti di età, ma fu lasciato in servizio per le sue capacità per volontà del ministro dell‘Interno: del resto, come ha scritto il giornalista Francesco Grignetti, egli era «il poliziotto più stimato da Mario Scelba» <206. Meno idilliaci erano, invece, i rapporti tra Pòlito e il capo della polizia Giovanni D‘Antoni, in carica dal settembre 1948 e, probabilmente, intimamente considerato dal questore di Roma come colui che gli aveva soffiato il posto <207. Tra i due, il ministro aveva un occhio di riguardo per il questore di Roma, al punto che, secondo alcune ricostruzioni, nel novembre 1952, Scelba rimosse D‘Antoni dalla carica di capo della polizia, sostituendolo con Tommaso Pavone, proprio perché aveva criticato la permanenza di Pòlito in servizio oltre il settantesimo anno di età <208.
Sono emblematiche della difficoltà della relazione tra Pòlito e D‘Antoni alcune critiche sull‘operato del questore di Roma <209 e, soprattutto, alcune annotazioni quasi derisorie, scritte dal secondo a penna sui rapporti e le richieste del primo. Ad esempio, quando nell‘ottobre 1949 il questore di Roma chiese come rinforzi 900 allievi guardie di polizia o sottufficiale, 100 allievi carabinieri e un‘aliquota del reparto celere, D‘Antoni, con l‘inconfondibile penna verde, commentò «Sì, ma in caso di gravi perturbamenti che cosa chiederebbe?» <210. Ancora più significativo è un rapporto del primo dell‘agosto 1952 <211, avente come oggetto l‘attività del Pci. Si tratta di una comunicazione lunga ma che, per la prosa barocca e l‘atteggiamento mellifluo e accondiscendente di Pòlito verso il superiore, è particolarmente caratteristica della personalità del suo autore e, per questo, la riporterò quasi integralmente:
"Al termine della stasi estiva ed alla vigilia dell‘apertura del mese della stampa comunista, mi incorre il dovere di richiamare l‘attenzione dell‘E.V. su alcuni fatti in apparenza semplici, ma veramente essenziali, che potrebbero avere importanza determinante nella vita politica del nostro Paese. Il primo di essi, a quanto risulta dalle più certe ed attendibili fonti di informazione e soprattutto dalla osservazione diretta ed immediata sull‘attività del partito, sia nella sua impostazione generale, come nella sua attuazione spicciola e capillare, è quello, secondo il quale il P.c.i. sta procedendo alla mobilitazione di tutte le sue forze, per dare inizio ad un vasto programma d‘azione che, partendo dal 1° settembre p.v., va a raggiungere i primi dell‘anno 1953 e, quindi, l‘apertura dei comizi elettorali, senza alcuna soluzione di continuità. Può in un certo senso affermarsi, che nelle condizioni politiche attuali, l‘obiettivo ultimo del partito, è la consultazione popolare, mentre tutto quanto si è andato vociferando di armate clandestine, di grossi depositi di armi, di gruppi di sabotatori, di formazioni para-militari e di altre occulte attività, tutte dirette alla conquista armata del potere politico, non è da prendersi in seria considerazione [Come io ho chiaramente e continuamente dichiarato fin dal 1946]. Basta, infatti, soltanto accennare che i partigiani escono dalle file del partito soltanto al momento buono, e che saprebbero ritrovarsi senza che siano pronti compromettenti ruolini; che i partigiani sanno già adoperare armi ed esplosivi senza che abbiano necessità di apprenderne l‘uso in segrete scuole di addestramento; che, infine, i partigiani, più che attingere le armi in depositi clandestini, oggi assai pericolosi per essi e per il partito, le riceverebbero dai loro sostenitori, come le ricevettero dagli alleati in un passato non ancora remoto, per ritenere per certo che il p.c.i. ha, per ora, rinunciato alla conquista del potere attraverso un atto insurrezionale [Su questo punto io non ho mai avuto alcun dubbio] che rimane una ipotesi possibile a verificarsi solo attraverso un conflitto europeo e mondiale. […] Il secondo fatto in apparenza semplice, ma essenziale, è quello secondo il quale il p.c.i. compierà [sic] un gigantesco lavoro propagandistico fra le donne che, oltre ad essere la maggioranza del corpo elettorale, rappresentano anche la parte più influenzabile di esso. […] È superfluo aggiungere, per quanto riguarda la stampa, la parte che avranno i manifesti, i giornali murali, gli striscioni, i volantini e tutta la serie di stampati, già noti all‘On. Ministero, e dei quali quest‘Ufficio cerca di infrenare la diffusione, ove manchino, o siano soltanto apparenti, gli estremi della legittimità. Naturalmente, l‘attività dello strillonaggio della stampa comunista, specie nei quartieri periferici, sarà spinto al massimo, per cui è augurabile, malgrado i contrastanti pareri delle corti giudicanti, che l‘autorità di Governo possa infrenarla sulla base del potere d‘ordinanza. […] In proposito è stato riferito da fonte certa, che nella sede della federazione provinciale è di pubblico dominio l‘opinione per cui il Prefetto e il Questore stiano già studiando ogni accorgimento per soffocare l‘attività del mese e qualcuno dei maggiorenti, ha specificato, in merito, che questo mese dovrà rappresentare una autentica ginnastica del cervello per fregare il Sig. Questore. Infine, il terzo fatto essenziale da porre, come i due altri, che precedono nel dovuto rilievo, è quello, secondo il quale, il motivo dominante della propaganda comunista, non riguarderà solo quello risultante dalle conclamate finalità delle varie iniziative o dai principi che il partito, mimetizzandosi, sbandiera e che si riassumono nel trinomio pace, lavoro e libertà, ma avrà diretto ed esplicito riferimento al Governo nel suo complesso e nei suoi singoli componenti. Essa avrà aspetto di denigrazione e di diffamazione generica [Come han sempre fatto fin dal 47] e sarà specialmente fondata, su motivi che trovano facile presa negli strati sociali, cui viene rivolta: il preteso malgoverno del partito di maggioranza, che rivolgerebbe la sua attività, soprattutto, a favorire parentele e clientele politiche […]. [Da parte nostra non c’è che impedire all’azione di propaganda di andare oltre i limiti consenti dalla legge. (incomprensibile) anche intensificare l’azione di contropropaganda; ma questo non è compito della polizia]" <212
Pòlito aveva un‘immagine ben precisa del suo ruolo, dei suoi compiti e dei margini di discrezionalità lasciati dall‘ordinamento per poterli mettere in pratica. Ad esempio, nell‘autunno del 1950 il questore Pòlito vietò gli spazi per alcune manifestazioni ludiche organizzate dal Pci, determinando le proteste parlamentari di Pietro Ingrao e di Aldo Natoli, che fecero un esposto alla giustizia contro il questore <213. Egli giustificò il divieto affermando che alcune precedenti manifestazioni dello stesso tipo «a causa delle attrazioni installate nelle pubbliche vie e piazze richiamanti il pubblico, furono trasformati in veri baccanali, cosa che provocò gravi fastidi ed energiche proteste della cittadinanza, affatto comunista e nella quale il Partito promotore non rappresenta che una minoranza»: aveva quindi deciso di non concedere le autorizzazioni, «in considerazione delle proteste pervenutemi, anche per le sconcezze commesse da individui partecipanti alle feste, in preda ai fumi dell‘alcool, e, soprattutto, al fine di restituire le forze dell‘ordine alle loro normali funzioni d‘istituto» <214. Tuttavia Pòlito si spinse oltre, evidenziando l‘idea che aveva del proprio ruolo:
"L‘art. 18 del T.U. della Legge di P.S. pienamente compatibile con l‘art.17 della Costituzione, dà facoltà al Questore di impedire che una pubblica riunione abbia luogo, per ragione di ordine pubblico, di moralità e di sicurezza pubblica, formula questa cui corrisponde pienamente quella adottata dalla Costituzione di motivi di sicurezza e incolumità pubblica. Ritengo, che non a caso la citata legge affidi la competenza a decidere in tale materia, al Questore. Questi, infatti, […] è l‘unica persona autorizzata a formulare un giudizio sulla delicata questione, se una pubblica riunione, indetta in determinate contingenze di luogo e di tempo e, specialmente, in un dato clima politico, sia da ritenersi suscettibile o meno di turbare l‘ordine e la sicurezza pubblica. Il provvedimento del Questore in materia è un atto assolutamente discrezionale, ispirato al principio salus reipublicae suprema lex, del tutto insindacabile davanti all‘Autorità Giudiziaria, tranne naturalmente che esso appaia talmente viziato nella forma da costituire un‘aperta ed evidente violazione della legge penale". <215
In occasione delle celebrazioni del I° maggio 1951, invece, suggerì alla Giunta comunale di non concedere piazza del Popolo per il comizio sindacale. In una lunga comunicazione al ministro Scelba, il questore – che in generale cercava di evitare ogni manifestazione nel centro della città – motivò nel dettaglio la sua decisione:
"La questione dei comizi pubblici, che vengono quasi quotidianamente indetti dai vari partiti, con schiacciante prevalenza di quelli di sinistra, ha fermato tutta la mia attenzione per gli inconvenienti, che ne sono derivati e che tuttora ne derivano, non solo per le possibili trasmodanze, perturbatrici dell‘ordine pubblico, ma anche perché, con la moltiplicata intensità del traffico e le accresciute necessità della circolazione, non si concilia l‘occupazione delle piazze e località centrali […]. Tre sono le piazze, prese principalmente di mira, per le concioni, alle quali si intende dare più rilievo: piazza SS. Apostoli, Piazza del Popolo e Piazza S. Giovanni. Per la prima l‘esperienza ci ha insegnato che anche un‘adunata di proporzioni ridotte, determina un ingorgo tale da paralizzare la circolazione cittadina, per l‘assoluta centralità del luogo; sì che, tenuto conto anche della prossimità della Prefettura, come obiettivo di disturbo e di possibili colpi di mano, la Piazza SS. Apostoli è senz‘altro da scartare, ed a questo principio io mi sono sempre attenuto, dopo qualche rara, remota concessione, ripudiando ogni ulteriore richiesta per la stessa località. La Piazza del Popolo, per quanto meno centrale e spesso adoperata per adunate, offre essa pure notevoli inconvenienti, non solo per il blocco del traffico del Quartiere Flaminio, ma anche, in ispecie, per l‘afflusso e il deflusso dei partecipanti, che, provenienti dalle varie sezioni, sono soliti portarvisi in numerosi cortei, intralciando la circolazione, tra la più sfavorevole impressione della maggior parte della popolazione, nettamente contraria a queste iniziative demagogiche. Il deflusso, al termine del comizio, si svolge, poi, con difficoltà, ancora più grave: non sempre, infatti, si è potuto evitare che forti nuclei, con i labari ed i vessilli di partito - malgrado i formali impegni, preventivamente assunti dagli organizzatori e le assicurazioni dei medesimi date di far rispettare il divieto di ogni e qualsiasi corteo – si incolonnassero per il Corso, abbandonandosi a canti ed a grida ostili contro le Autorità ed obbiettivi di Governo (Ministero degli Esteri). Per questo punto, non si può e non si deve assolutamente transigere: la via del Corso, il Tritone, piazza Colonna, su cui si riversa il maggior peso del deflusso, sono già ordinariamente congestionate, ed ancor di più lo diventano nelle ore di punta, sul mezzogiorno e nelle ore serotine, in coincidenza col consueto termine dei comizi, onde riesce difficile evitare inconvenienti e contrasti e prevenire manifestazioni di ostilità. Quanto a Piazza S. Giovanni, che offre il vantaggio dell‘ampiezza e possibilità migliori di deflusso, ogni ulteriore concessione è sconsigliata, sia dalla presenza di luoghi sacri al culto e di istituti religiosi, i cui rettori hanno più volte […] elevato giustificate voci di protesta, sia dal fatto della inevitabile devastazione dei pubblici giardini con grave danno al decoro ed all‘economia cittadina per il ripristino, ed a tutto servigio di una fazione, irrequieta ed incivile, che di altro non si preoccupa se non della propaganda di partito. […] Dopo larghe verifiche ed opportune, acconce considerazioni, mi sono fermato sul Piazzale, ora inutilizzato, del Circo Massimo, presso il Palatino, proponendo alla Giunta comunale di orientarsi per la concessione di quelle località […]. La zona è stata da me accuratamente ispezionata, con i miei collaboratori, […], e trovata perfettamente corrispondente al fine, […] anche per la libertà di manovra, che può avere la forza pubblica nel caso di interventi, resi necessari da trasmodanze e o da tentativi di inscenare, al termine del comizio, cortei o altre manifestazioni, non consentite. […] La località prescelta, oltre al vantaggio dell‘ampiezza e della solitudine, è, nello stesso tempo, abbastanza vicina al centro e di facile accesso attraverso ampii stradali, che si prestano per un agevole e rapido afflusso e deflusso dei convenuti. […] Ritengo ovvio far presente che la norma suddetta troverebbe una deroga, soltanto in caso di manifestazioni a carattere patriottico e di interesse nazionale, che accomunino tutta la popolazione e che, per la loro stessa natura, sono meno suscettibili di determinare incidenti e contrasti". <216
Nel settembre 1953, Pòlito - che nell‘ottobre successivo avrebbe compiuto 74 anni - fu posto a riposo, per raggiunti limiti d‘età, dal nuovo ministro Fanfani. Era questa, in realtà, solo la motivazione ufficiale: il motivo della rimozione risiedeva probabilmente nel coinvolgimento di Pòlito nello scandalo politico relativo all‘omicidio di Wilma Montesi <217. Come ha scritto Grignetti, «Scelba non lo [Fanfani, ndR] perdonerà mai, soprattutto per i modi» <218.
Cinque giorni dopo il ritrovamento del corpo della giovane ragazza, infatti, Pòlito aveva annunciato in una conferenza stampa che il caso era chiuso, che essa era morta cadendo in mare mentre faceva un pediluvio e che erano infondate le voci che parlavano di «giallo» <219. In effetti, il sospetto di un coinvolgimento nella vicenda del figlio del ministro democristiano Attilio Piccioni era giunta, all‘inizio di maggio 1953, al fondatore, direttore e proprietario del «Tempo», Roberto Angiolillo: consultato telefonicamente, il questore di Roma affermò di non saperne nulla e di non conoscere neppure la composizione della famiglia del ministro. Il 4 maggio 1953, però, il quotidiano monarchico napoletano «Roma» pubblicò un articolo, intitolato "Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?", in cui si affermava che Pòlito stesse cercando di insabbiare l‘inchiesta per fare un favore a un ministro, il cui figlio era coinvolto nella morte della ragazza. Nei giorni seguenti, Pòlito definì «calunniose» le voci sul coinvolgimento di Piero Piccioni e denunciò per diffusione di notizie false e tendenziose i giornali che avevano messo in dubbio la versione ufficiale, che riaffermò nuovamente <220. Certamente la questura di Roma fece alcuni errori, come quello di non interrogare Piero Piccioni e di limitarsi, si disse per riguardo, a chiedere al padre dove fosse il figlio quel giorno: Attilio Piccioni rispose che il figlio era a Como, ma poi si scoprì che era a Capri con una donna <221, forse Alida Valli di cui era l‘amante.
[...] Il 21 maggio 1957 il tribunale di Venezia emise la sentenza: Piccioni, Montagna e Pòlito furono tutti e tre assolti, anche perché il giovane figlio del ministro aveva un alibi molto forte che non aveva inizialmente dichiarato per non mettere in difficoltà la donna con la quale si trovava. Pòlito, che incolpava i carabinieri che avevano guidato le indagini per il suo ingiusto coinvolgimento <225, vedeva così confermata l‘estraneità sempre affermata alla vicenda. Poté godersi questo successo, tuttavia, solo per poco tempo: poco meno di due anni dopo, il 12 maggio 1959, egli morì.
[NOTE]
157 Stamattina Saverio Polito lascia il suo incarico di Questore di Roma, «Il Paese», 7 settembre 1953.
158 Una medaglia d’oro ricordo offerta al comm. Polito, «Il Messaggero», 25 settembre 1953.
159 Cfr. ad esempio Il questore Musco si è insediato stamane, «Paese sera», 8 settembre 1953.
160 A. Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, Laurus Robuffo, Roma 2005, pp. 39, 55.
161 P.G. Murgia, Il vento del Nord. Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza, 1945-50, SugarCo, Milano 1975, p. 403.
162 G. Melis, La cultura dello Stato tra continuità e discontinuità in G. Monina (a cura di), 1945-1946. Le origini della Repubblica, I, Contesto internazionale e aspetti della transizione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 223.
163 Il suo fascicolo personale è in Acs, Mi, Direzione generale pubblica sicurezza (Dgps), Divisione personale Ps, vers. 1973, bb. 232 e 233, f. Saverio Pòlito.
164 G. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, Il Mulino, Bologna 2009, p. 256. Cfr. Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1963, b. 165bis, f. Rapporto del prefetto di Napoli con allegati a carico del Commissario di p.s. Polito Cav. Saverio, in cui sono contenuti molti di questi scritti anonimi.
165 Ivi, vers. 1973, b. 232, f. Saverio Pòlito. Comunicazione del prefetto di Napoli, 1951.
166 Ivi, vers. 1963, b. 165bis, f. Rapporto del prefetto di Napoli con allegati a carico del Commissario di p.s. Polito Cav. Saverio. Comunicazione del questore di Napoli al prefetto di Napoli dell‘11 agosto 1921.
167 Ibidem.
168 Ibidem.
169 Ibidem.
170 Ibidem.
171 Ivi. Estratto dall‘inchiesta eseguita dall‘Ispettore Generale Tringali sulla questura di Napoli.
172 Ibidem.
173 Ivi. Nota di Pòlito su alcune accuse mossagli dal quotidiano napoletano «Don Marzio».
174 In realtà Rossi fu arrestato a Lugano...
175 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 256.
176 Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito. Benemerenze di servizio.
177 Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 248. Cfr. anche M. Canali, Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 363-6, che, più benevolo circa l‘efficacia dell‘azione repressiva di Pòlito, scrive che avrebbe sventato il tentativo della cellula giovanile comunista di riprendere l‘attività in Abruzzo.
178 Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 121.
179 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 256.
180 Relazione del prefetto di Bologna del 15 settembre 1938 cit. in Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 256.
181 Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito. Lettera dell‘8 dicembre 1936. Il destinatario commentò a matita «I servizi gli sono stati già lungamente riconosciuti e compensati!».
182 Canali, Le spie del regime, cit., p. 494.
183 S. Vassalli, L’Italiano, Einaudi, Torino 2007, p. 88.
184 R. Mussolini, La mia vita con Benito, Mondadori, Milano 1948, p. 201.
185 Ivi, p. 203.
186 Ibidem.
187 Ivi, p. 204-5.
188 R. Mussolini, Benito, il mio uomo, Rizzoli, Milano 1958, p. 200.
189 Ivi, p. 203.
190 Cit. in S. Bertoldi, Il segreto dell’OVRA, un diabolico refuso, «Corriere della sera», 8 agosto 1994. La deposizione completa di Rachele Guidi è in Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito, sf. Epurazione). Secondo donna Rachele, inoltre, egli avrebbe ripetuto: «Non importa che hai cinquantacinque anni, ma ti chiami Rachele Mussolini…» (l‘aneddoto è riportato sul «Merlo giallo», che fece un‘ampia campagna contro Pòlito nel dopoguerra, in particolare nel novembre 1948; i vari ritagli sono in Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito). Abbastanza sorprendentemente, secondo lo scrittore Sebastiano Vassalli, che inserì la figura di Pòlito in diversi suoi racconti, «gli atti di libidine violenta, casomai qualcuno pensasse chissà cosa, furono un normale (quasi normale...) rapporto sessuale consumato in automobile. Rachele ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma Pòlito ritenne di dover agire così» (S. Vassalli, Ma Pòlito in carcere ci finì davvero, «la Repubblica», 25 luglio 2007), come se un rapporto sessuale con una donna che ne farebbe a meno e sottoposta a custodia – nel caso in cui fosse davvero avvenuto – non fosse da considerarsi una violenza sessuale.
191 Canali, Le spie del regime, cit., p. 489.
192 Acs, Segreteria particolare del Duce, Rsi, Carteggio riservato, b. 45, f. 452 Polito Saverio. Nota del 16 gennaio 1944 e Comunicazione del prefetto di Parma Ugo Leonardi del 19 maggio 1944.
193 Nel 1956, Pòlito si rivolse al Tribunale di Forlì per la revisione della condanna del tribunale fascista e, dopo che fu interrogata anche Rachele Guidi, fu assolto dalle accuse di tentata violenza carnale e atti di libidine aggravati perché il fatto non sussisteva. Cfr. Vassalli, Ma Pòlito in carcere ci finì davvero, cit. e Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito, sf. Inchieste Ispezioni. Comunicazione del capo divisione della Dgps del 28 dicembre 1958.
194 Ivi, sf. Trasferimenti 2.
195 Ivi, sf. Epurazione. Nel novembre 1945, inoltre, il comandante dei carabinieri di Bologna scrisse che lì si era dimostrato come mosso sempre da «tornaconto personale», che gli si addebitava di essere un accanito giocatore di poker, di aver approfittato della sua carica per pagare di meno ristoranti e acquisti (Ibidem).
196 Ivi. Lettera al ministero dell‘Interno del 6 gennaio 1946.
197 Ibidem.
198 R. Canosa, La polizia in Italia dal 1945 ad oggi, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 119-120.
199 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 257.
200 Cit. in Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 476.
201 Atti Parlamentari, I legislatura, Senato, Discussioni, seduta pomeridiana del 25 ottobre 1948, p. 3171.
202 Mi permetto di rinviare a I. Rossini, Riottosi e ribelli. Conflitti sociali e violenze a Roma (1944-1948), Carocci, Roma 2012, pp. 104-10.
203 G.C. Marino, La repubblica della forza. Mario Scelba e le passioni del suo tempo, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 175-6.
204 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 304.
205 Asils, Fondo Mario Scelba, II versamento, b. 12, f. 133 ―1948‖. Lettera di Saverio Pòlito del 13 settembre 1948.
206 F. Grignetti, Il caso Montesi. Sesso, potere e morte nell’Italia degli anni ’50, Marsilio, Venezia 2006, pp. 56, 131.
207 Sull‘attività di D‘Antoni come capo della polizia, cfr. Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, cit., pp. 29-45. Secondo Buoncristiano, D‘Antoni era in contrasto con Scelba su molte questioni e, in primis, sulla repressione del neofascismo: mentre il ministro pensava che la lotta contro gli estremismi dovesse essere effettuata in primo luogo contro il Msi, il capo della polizia riteneva il popolo italiano ormai vaccinato contro il fascismo e auspicava una legge che mettesse fuori legge tutti i partiti che non accettavano il metodo democratico (Ivi, p. 43). I rapporti tra D‘Antoni e Scelba giunsero a rottura nel 1952: «Le differenti visioni sulla politica interna erano aggravate da problemi caratteriali delle due personalità (l‘On. Scelba e il Capo della Polizia D‘Antoni). Il primo assai brusco, il secondo forse troppo sensibile alla forma. Ne derivava che le udienze finivano per essere uno scontro. Quando telefonava il Ministro Scelba parlava frettolosamente, a volte saltando anche le parole. Questa circostanza lasciava in tensione il Capo della Polizia, il quale, avrebbe preferito non fiumi di parole, ma direttive chiare. Lo stesso accadeva nelle annotazioni fatte dall‘On. Scelba: redatte in fretta, dovevano essere interpretate. Talvolta erano talmente dure da apparire offensive» (Ivi, p. 45).
208 Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 473. Secondo l‘ex prefetto Aldo Buoncristiano, invece, «ai primi di novembre [del 1952, ndR] il Prefetto D‘Antoni prese motivo da una colica renale (poi superata in un paio di giorni) per dimettersi. Non venne più al Ministero; neanche per dare le consegne. […] Il colloquio avuto con il Ministro la sera prima delle dimissioni deve essere stato assai spiacevole se le due personalità non si sono più incontrate. È da ricordare che l‘On. Amintore Fanfani nominò nell‘ottobre 1953 il Prefetto D‘Antoni Direttore Generale della Protezione Civile. Quando l‘On. Scelba assunse la carica di Presidente del Consiglio e ad interim quella di Ministro dell‘Interno, D‘Antoni lasciò l‘ufficio di Direttore Generale perché, dichiarò, di non volere stringere la mano all‘On. Scelba!» (Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, cit., p. 47)
209 Il capo della polizia, nel settembre del 1949, lamentò che nel pomeriggio del giovedì precedente in un servizio di ordine pubblico durante una manifestazione a Piazza Colonna, le jeeps della polizia erano salite sui marciapiedi...
210 Acs, Mi, Ps, 1949, b. 36, f. Roma - Rinforzi. Fonogramma della questura di Roma dell‘11 ottobre 1949, ore 20,30.
211 Le annotazioni di D‘Antoni sono in corsivo tra parentesi quadre.
212 Acs, Mi, Ps, Ar, 1951-53, b. 115, f. -Direttive per la propaganda comunista e misure preventive di Polizia – 1° fascicolo. Comunicazione di Pòlito del 27 agosto 1952.
213 Cfr. Acs, Mi, Ps, 1950, b. 22, f. Roma - Partito comunista italiano - 5° fascicolo. Esposto del 16 ottobre 1950. In realtà, una comunicazione dell‘8 settembre 1950 della Direzione generale di Pubblica sicurezza ribadiva la disposizione secondo cui «comizi e pubbliche manifestazioni politiche debbano aver luogo possibilmente in locali chiusi e comunque in località lontane dal centro è sempre tenuta presente dagli organi di polizia. Essa è stata fatta osservare anche per la festa dell‘Unità» (Ivi, b. 15, f. Partito comunista italiano – 2° fascicolo). Per questo motivo, Pòlito si sentiva probabilmente autorizzato a scrivere al capo della polizia che «il diritto di riunione e di parola si può affermare ed esprimere in luoghi e con modalità più acconci al rispetto della Capitale ed al vero carattere della sua popolazione, che in siffatte circostanze, viene alterato, svisato, snaturato. […] Pertanto, salvo contrario avviso di cotesto On. Ministero, riterrei di non concedere più, almeno per quest‘anno, alla federazione comunista romana, ulteriori autorizzazioni per riunioni pubbliche, richieste col motivo della diffusione della stampa di partito che si prospettano, tuttora, minacciose pel mese di ottobre e per il resto dell‘anno» (Ivi, b. 22, f. Roma - Partito comunista italiano – 5° fascicolo. Comunicazione del 9 ottobre 1950) e a chiedergli «di avere la bontà di dirmi se, limitando nel tempo queste manifestazioni, che da oltre quaranta giorni ci affliggono, costringendo le forze di polizia ai movimenti più impensati, sia in linea con le direttive del Governo o debba rettificare il mio comportamento» (Ivi, b. 22, f. Roma - Partito comunista italiano – 5° fascicolo. Comunicazione del 12 ottobre 1950).
214 Acs, Mi, Ps, 1951, b. 27 – f. Roma – Partito comunista italiano – 1° fascicolo. Relazione di Pòlito del 26 gennaio 1951. La denunzia contro Pòlito fu poi archiviata. Cfr. I comunisti volevano un mese di 40 giorni. Archiviata una inconsistente denuncia di Ingrao e Natoli contro il Questore, Il Popolo, 15 marzo 1951.
215 Acs, Mi, Ps, 1951, b. 27 – f. Roma – Partito comunista italiano – 1° fascicolo. Relazione di Pòlito del 26 gennaio 1951.
216 Acs, Mi, Ps, 1951, b. 84, f. Roma – Manifestazioni, s. Roma. Appunto per il ministro dell‘Interno del questore Pòlito del 28 aprile 1951.
217 L'11 aprile 1953 una giovane donna, Wilma Montesi, fu trovata cadavere sulla spiaggai di Capocotta, nei pressi di Roma [...] Grignetti, Il caso Montesi, cit.
218 Ivi, p. 63.
219 Ivi, pp. 25-6.
220 Grignetti, Il caso Montesi, cit., p. 48.
221 Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, cit., p. 56.
225 De Luca, Lo scandalo Montesi, cit.
Ilenia Rossini, Conflittualità sociale, violenza politica e collettiva e gestione dell'ordine pubblico a Roma (luglio 1948-luglio 1960), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2014-2015
Con queste parole elogiative, nel settembre 1953, il quotidiano filocomunista «Il Paese» salutava il questore Saverio Pòlito, che dopo sette anni si apprestava a lasciare il vertice della questura di Roma. Si trattava indubbiamente di una di quelle occasioni in cui le belle parole non vengono lesinate: non solo il nuovo questore, Arturo Musco, gli riconobbe «l‘incontestabile merito di aver riportato Roma dal caos dell‘immediato dopoguerra a quell‘ordine e a quell‘austerità, che si addicono alla Capitale di un Paese di millenaria civiltà» <158, ma Pòlito - sempre attento a ricordare che proveniva dall‘ambiente giornalistico - fu elogiato da tutti i quotidiani, anche da quelli di sinistra che lo avevano fino ad allora sempre criticato per le sue politiche di gestione dell‘ordine pubblico <159.
Anche nell‘ambito del ministero dell‘Interno, i complimenti e gli elogi non furono risparmiati. L‘ex prefetto Aldo Buoncristiano, che redasse per la lettera con cui il ministro dell‘Interno Fanfani salutò il questore, scrisse che
"intelligentissimo e coraggioso, Pòlito fronteggiava personalmente con i suoi uomini qualsiasi manifestazione, se pericolosa per l‘ordine pubblico. Anche settantenne non mandava funzionari ma si recava sul posto di persona; non aveva preoccupazioni di fronte a chicchessia: diceva che anche i membri del Parlamento, che andavano a coprire le violenze con la loro persona, erano semplici dimostranti ed in piazza li trattava come gli altri. Non si curava se ritornavano in Parlamento con la testa rotta. Sapeva che dietro di lui vi erano il Capo della Polizia D‘Antoni ed il Ministro Scelba. […] Polito fu un uomo dalla forte personalità, oggetto anche di violente critiche (forse non era esente dall‘avere avuto qualche debolezza). I servizi resi all‘amministrazione lo rendono però, meritevole di essere ricordato con gratitudine e stima. […] Polito dettava personalmente gli appunti diretti al Ministro e al Capo della Polizia in uno stile inconfondibile". <160
Ma Pòlito fu davvero un funzionario non meritevole di alcun biasimo? Se già nel brano di Buoncristiano viene fatto cenno a qualche debolezza, venti anni dopo, in un volume dalla chiara impostazione militante, Pier Giuseppe Murgia lo definì, in modo molto meno lusinghiero, come un «funzionario senza scrupoli, corrotto e corruttore, tipico esempio di quegli elementi di cui il partito clericale si baserà per costruire la sua impalcatura di potere inquinando irrimediabilmente le strutture democratiche del nostro paese» <161. Ma anche un attento e pacato studioso dell‘amministrazione dello Stato come Guido Melis ha definito la sua carriera come «poco meno che inquietante» <162.
Personaggio ingombrante ed egocentrico, ossequioso fino alla piaggeria con i superiori, ma anche - almeno fin quando la sua razionalità non fu annebbiata da eccessi paranoici - acuto e intelligente osservatore della realtà sociale in cui operava, Saverio Pòlito fu un funzionario con una carriera lunga e costellata più da ombre che da luci: fu, infatti, più volte messo in discussione, anche sul piano etico.
Nato a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, l‘8 novembre 1879, Pòlito entrò in polizia nel 1907 <163. A cavallo degli anni ‘20 prestò servizio a Napoli, dove tornò poi nel 1927. Durante entrambi i periodi trascorsi nella città partenopea, fu oggetto di molte lettere anonime che lo accusavano di appropriazioni indebite, che sarebbero state dimostrata dal suo stile di vita agiato del tutto incompatibile con il suo stipendio, e di contatti con la camorra <164: la veridicità di questi addebiti non fu mai dimostrata dalle indagini. Nel 1921, il prefetto di Napoli Angelo Pesce scrisse di lui come di un uomo «di carattere megalomane» che, «amante di rendersi famoso ad ogni costo», era riuscito «a rendersi inviso a tutti: colleghi e dipendenti nonché a buona parte della cittadinanza e della stampa; è tenuto in sospetto anche dall‘autorità giudiziaria ed è circondato dalla quasi generale disistima»: egli chiese al ministero, quindi, di allontanarlo dalla città per difendere il buon nome della questura <165. Anche le parole del questore di Napoli sul suo conto non apparivano lusinghiere, ma probabilmente restituivano un‘immagine fedele del carattere del futuro questore di Roma:
"Io ebbi il Polito alla mia dipendenza durante il non breve periodo di tempo che fui a capo della Polizia giudiziaria. Il Polito, già agente, poi applicato, fu nominato Delegato di P.S. nel 1916, in virtù della legge che istituì l‘ufficio speciale per la repressione dell‘abigeato in Sicilia. Egli che, a dir vero, è stato faber suae fortunae meritava incoraggiamento e io non gliene ho mai lesinato, contenendo, con rigida disciplina, i suoi difetti che non erano pochi, utilizzando le buone qualità di cui è fornito, ma soprattutto limitando la tendenza ad espandersi, a soverchiare tutti e tutto, che è la peculiare nota del suo carattere". <166
Il questore non approvava che il suo predecessore avesse nominato Pòlito a capo della squadra mobile di Napoli: a essa, egli aveva dato «l‘impronta del suo stesso carattere, vale a dire invadendo il campo altrui, accentrando funzioni affini, sfuggendo a controlli, creando, come fu detto con frase felicemente applicata, uno stato nello stato» <167. Per questi motivi aveva attirato intorno a sé antipatie e avversioni:
"Egli, infatti, divenne ben presto inviso ai compagni di ufficio per l‘aria di supremazia e la tendenza a far risaltare sempre ed in ogni occasione l‘opera sua, esagerando i minimi servizii a scapito di altri funzionari più seri e modesti, valendosi, in ciò, della réclame dei giornali, a volte perfino grottesca; fu mal visto dalla classe degli avvocati per i suoi imperativi categorici e i metodi non sempre sani e legali dei procedimenti e per i frequenti arbitri […]; fu odiato dagli stessi dipendenti, salvo qualche eseguo gruppo di suoi fidi, ai quali i modi burberi ed autoritari tornavano mal sopportabili perché provenienti da chi un giorno fu loro pari".168
Inoltre, mentre nel 1919 Pòlito viveva in condizioni modeste - al punto di ricorrere all‘aiuto economico del padre emigrato in America -, nel 1921 si circondava di oggetti costosi - il questore elencò un portasigarette di oro del valore di 2mila lire, una spilla con brillante, catene d‘oro pesante, «abiti da società», camice di seta, una pelliccia del valore di 10mila lire - e, oltre ad aver cambiato il mobilio di casa, aveva iniziato a frequentare locali di lusso e a utilizzare autovetture. Secondo il questore di Napoli, queste spese facevano pensare che, in un anno e mezzo, avesse guadagnato circa centomila lire e ciò bastava a dimostrarne «in modo indubbio la disonestà»: non sarebbe stato sufficiente a giustificare tale entrata neanche lo sblocco di un conto vincolato di diverse decine di migliaia di lire a cui qualcuno faceva riferimento. Le voci più diffuse affermavano che avesse ricevuto diecimila lire dalla tenutaria di un bordello clandestino per farle ottenere la licenza, che fosse stato tollerante nei confronti di una bisca in cambio di denaro e che, nel corso delle retate contro il gioco d‘azzardo, non dichiarasse le alte somme sequestrate nei rapporti, ma che «sottraesse molto denaro ad ogni sorpresa» <169.
Il questore concludeva il rapporto con un‘altra notazione sul carattere di Pòlito:
"Il Polito ha la mania di esibirsi in pubblico, di farsi conoscere, di estendere al massimo la sua notorietà. Non vi è stata cerimonia ufficiale, prima rappresentazione di teatro, inaugurazione, corteo, in cui egli, comandato o non di servizio, non sia intervenuto sfoggiando il maggior lusso possibile, cercando sempre il posto più in vista. Tale mania ha fatto sì che effettivamente egli è divenuto il funzionario più conosciuto della città, ma, sfortunatamente come è nota la sua persona, sono purtroppo noti tutti gli addebiti che gli si fanno e da ciò lo scandalo maggiore. […] Io ritengo che allo stato delle cose il trasferimento del Polito sia assolutamente indispensabile, pel decoro dell‘Amministrazione". <170
Dall‘inchiesta del 1921 dell‘ispettore generale Tringali emerse che Pòlito era «un applicato svelto e intelligente», che aveva grande ascendente sulla Divisione seconda e che «sul suo conto non si fanno appunti specifici, ma nessuno sa spiegarsi la vita piuttosto agiata che conduce, avendo uno stipendio di sole L. 2000» <171. Secondo l‘inchiesta, i pettegolezzi affermavano che «a Messina, ove andò in missione, appena dopo il terremoto, si sia addirittura sostituito a chi era incaricato di distribuire le baracche e che in questo modo si sarebbe fatta una discreta posizione finanziaria che ora vorrebbe far apparire come conseguenza del matrimonio sotto contratto» <172.
Anche se gli addebiti non erano stati accertati, a causa della cattiva fama di cui ormai godeva in città, Pòlito fu trasferito a Civitavecchia. Le accuse erano state pubblicate anche da alcuni giornali e Pòlito le aveva smentite punto per punto: il conto dei soldi nelle sorprese alle bische sarebbe stato effettuato sempre alla presenza di molti, i suoi accusatori erano dediti ad attività immorali e illegali (e dunque poco credibili), la sua vita era un «modello di austerità e di signorilità», le spese per la sua famiglia erano pagate dal ricco suocero, la pelliccia era un oggetto vecchio comprato a poco prezzo <173. Anzi, il suo allontanamento da Napoli, secondo Pòlito, sarebbe stato proprio conseguenza campagna contro di lui organizzata dai biscazzieri perché lui era stato un ferreo persecutore del gioco d‘azzardo.
Negli anni successi al 1921, ricevette molti encomi e promozioni per i suoi risultati investigativi, anche perché a Civitavecchia strinse forti rapporti con le gerarchie fasciste della città, nelle imminenza della marcia su Roma.
Dopo un altro soggiorno a Napoli, non esente da nuove critiche e nuovi addebiti, nel 1928 fu promosso vice questore per meriti per aver arrestato, a Campione d‘Italia Cesare Rossi, ex capo dell‘ufficio stampa di Mussolini e autore del «memoriale» che accusava il duce dell‘omicidio di Giacomo Matteotti e che lo aveva fatto diventare un nemico giurato dal dittatore <174.
Tra il 1932 e il 1933 fu incaricato di organizzare e dirigere la IV Zona dell‘Ovra, la polizia politica fascista, che era stata nominalmente costituita intorno al 1930 e, con sede centrale ad Avezzano, estendeva la sua giurisdizione su Umbria, Abruzzo, Molise e sulla provincia di Rieti. Qui, secondo il suo fascicolo personale, fu autore di «numerose brillantissime operazioni di polizia politica di carattere riservato, di importanza eccezionale»175 e il 15 settembre 1933 fu promosso questore «per aver reso numerosi importanti servigi di indole politica al Regime» <176. Nella sua attività nella IV Zona, egli «curò con scrupolo la scelta dei confidenti, pescando nell‘area dei vecchi militanti di sinistra che, dopo anni di galera e di confino, si trovavano in pessime condizioni fisiche e in difficoltà finanziarie» <177. In realtà, l‘attività comunista in quei luoghi era piuttosto limitata, ma Pòlito la esagerò in modo notevole per giustificare l‘esistenza della Zona.
In questo periodo, divenne tra i più stretti collaboratori di un allora giovane e brillante funzionario della polizia politica, Guido Leto, insieme a Carmine Senise e a Gesualdo Barletta. I quattro collaborarono a lungo per attribuire al gruppo di Giustizia e libertà guidato da Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi la responsabilità dell‘attentato dinamitardo del 12 aprile 1928 a Milano, che aveva fatto sedici morti <178.
Nel novembre 1933, Pòlito fu trasferito in Sardegna a dirigere l‘Ispettorato speciale per la repressione dell‘abigeato. La sua lotta conto il banditismo sardo durò fino al 1935, quando fu nominato questore di Bologna: su richiesta di Starace, tuttavia, egli fu rimosso da questo incarico nel 1939 perché si era reso inviso all‘ambiente locale179, anche se le relazioni prefettizie su di lui lo descrivevano come dotato di una «schietta passione fascista che acuisce in lui perspicacia e volontà nel perseguire i nemici del regime» <180.
In quegli anni, in effetti, Pòlito presentava se stesso come animato da una accesa fede fascista. In una lettera, in cui chiedeva una promozione, egli scrisse:
"Mi si dice che, tra i coefficienti richiesti, vi sono anche le benemerenze fasciste. Nessuno meglio di Lei, Eccellenza, può ricordare che, al momento della Marcia su Roma, mentre il famoso sottoprefetto D‘Aniello era costretto a fuggire ignominiosamente su di una nave da guerra, io ero proclamato benemerito del Partito. […] Inoltre, tutti gli altri servizi da V.E. ordinatimi nell‘interesse del Partito, fra i quali l‘arresto di Cesare Rossi, ritengo che valgano a mettere in luce le benemerenze politiche, anche se la tessera, per una severa disciplina verso la mia amministrazione, segna la data in cui il Duce ha autorizzato formalmente l‘ammissione dei funzionari". <181
Con l‘entrata in guerra dell‘Italia nel giugno 1940, Pòlito fu militarizzato col grado di generale di brigata e, nel 1942, nominato a capo dell‘Ispettorato generale di polizia per i servizi di guerra presso lo Stato maggiore dell‘esercito: in questo ruolo, egli doveva prevenire gli atti di sabotaggio, frequenti soprattutto contro le linee ferroviarie. Si trattava di un «corpo speciale» di cui si sa poco, attivo anche nella zona friulano-giuliana e impegnato nella ricerca dei partigiani e degli irredentisti sloveni <182.
Non sappiamo come maturò - se maturò - il suo distacco dal regime, ma non a caso, in un ironico racconto, lo scrittore Sebastiano Vassalli ha rappresentato Pòlito, soprannominato il trasformista, come «il riassunto e, per così dire, il simbolo di una metamorfosi che interessò milioni di italiani. Da fascisti ad antifascisti» <183. Egli, infatti, partecipò alla cospirazione del 25 luglio e, come fiduciario di Badoglio, fu incaricato di scortare a Ponza, alla Maddalena e al Gran Sasso Benito Mussolini.
All‘inizio dell‘agosto 1943, fu poi incaricato di accompagnare Rachele Guidi, la moglie di Mussolini, alla residenza estiva sita nei pressi di Rocca delle Caminate (Forlì). Nelle memorie del 1948, donna Rachele ricordadi essere stata visitata, il 29 luglio 1943, a villa Torlonia «da un certo generale Pòlito, venuto alla villa insieme a due carabinieri» <184, che le aveva portato una lettera del marito. Il giorno successivo, racconta Rachele Guidi affermando di copiare dal suo diario coevo, Pòlito le fece nuovamente visita ed ella si era «finalmente ricordata chi è: lo incontrai questore di Bologna nel tempo in cui si professava ammiratore di Mussolini e ardente fascista. Lo ricordo servile funzionario, che si sentiva onorato di portare la valigetta a "Donna Rachele. Ora si fa chiamare generale, non so di qual corpo» <185. Nei giorni successivi racconta di aver ricevuto altre visite di Pòlito, «che cercava di fare la storia a modo suo» <186. Il 2 agosto, sotto gli occhi di Pòlito, Rachele preparò un piccolo bagaglio per essere da lui condotta alla Rocca delle Caminate. Il viaggio viene raccontato in questo modo:
"Il viaggio da Roma alla Rocca fu tremendo. Miei accompagnatori furono sempre Pòlito e il colonnello dei carabinieri che sedeva vicino all‘autista. In sei o sette ore avremmo potuto arrivare benissimo alla Rocca, ma Polito volle deviare per strade meno battute, impiegando così più di dodici ore. Durante il tragitto venivano lanciati strani manifestini di propaganda per Badoglio. […] Il generale [Pòlito, ndr] fumava ininterrottamente sigari, e coi vetri ermeticamente chiusi, nella macchina si soffocava, addirittura. Quando scendeva, Pòlito mi chiudeva dentro, come una donna pericolosa. Durante il percorso ebbe l‘impudenza di un contegno che non è riferibile e che non sfuggì al colonnello e all‘autista. Mi svelò vecchie e inconfessate trame della polizia contro mio marito, e mi disse che non era mai stato fascista. Si beffava del mio stupore per la finzione durata tanti anni. Con vergognosa crudeltà insisteva nelle più nere previsioni circa la sorte di mio marito. E faceva più che il galante. Mi diede perfino il suo biglietto da visita con l‘indirizzo, di cui, nelle sue intenzioni offensive, avrei dovuto servirmi, e mi dava del tu. Quando finalmente, alle undici di mattino, scorsi di lontano la torre della Rocca, in un trionfo di sole, ringraziai Iddio: ero salva […]. Il generale si accommiatò in fretta e cercò perfino di essere deferente. Trattenni parole di sdegno che mi salivano alle labbra e lo salutai appena". <187
Leggermente diversa è la versione riportata nelle nuove memorie di donna Rachele del 1958, in cui racconta che il 29 luglio 1943 Pòlito le fece visita a villa Torlonia, portandole una lettera di Mussolini, e che le «si aprì il cuore, vedendolo. Era stato con noi per dodici anni (quante volte a Riccione avevamo pranzato assieme nella villa di una mia carissima amica, la signora Sandra Borsalino!) e pensavo che avrei potuto fidarmi di lui, che mi avrebbe aiutata, in un momento così doloroso» <188. Pòlito viene quindi descritto come intimo della famiglia Mussolini, anche se Rachele Guidi, vedendolo promosso di grado, disse di aver pensato che aveva fatto carriera col 25 luglio e, quindi, di non potersi fidare di lui. La sera del 2 agosto Pòlito la andò a prendere per condurla a Rocca delle Caminate:
"Fu un viaggio orribile, che ricordo con umiliazione e disgusto. Avremmo potuto raggiungere la Rocca in poche ore, invece la macchina continuò a vagare per tutta la notte e Polito rideva, beffandosi di me, quando mi meravigliavo per quello spreco di combustibile. […] Mi disse che non era mai stato fascista e mi rivelò vecchi complotti della polizia di cui nessuno aveva avuto sospetto; inoltre si pavoneggiava di continuo per i suoi gradi («Generale lui», diceva alludendo a Benito, «e generale io!») e lasciava capire che la sorte di Mussolini dipendeva soltanto dalle sue decisioni. In quanto al suo contegno verso di me, durante quel viaggio tremendo, non posso e non voglio parlarne, ma molti italiani ne sono a conoscenza". <189
Ciò che molti italiani conoscevano erano delle vere e proprie molestie sessuali, che Rachele Guidi aveva in seguito denunciato, con descrizioni che non lasciavano adito a dubbi: «Io ero seduta... serrandomi con le mani la gonna sotto le gambe, tuttavia egli riuscì ad aver ragione del mio braccio sinistro e a portare la mia mano tra le sue luride vergogne e a scoprirmi le gambe» <190.
Dopo il viaggio con donna Rachele, a Pòlito fu affidato l‘incarico di sorvegliare Mussolini alla Maddalena, che si era rilevata un sistemazione poco sicura. Tuttavia, il 17 agosto 1943, di ritorno dall‘ispezione di un nuovo papabile posto in cui trasferire l‘ex duce, Pòlito rimase ferito con fratture e ferite multiple molto gravi in un incidente automobilistico, che lo costrinse a letto per diversi mesi e che, nel dopoguerra, gli fece ottenere una contestata pensione di invalidità. Convalescente a Roma, nel gennaio 1944 fu arrestato dalla Squadra politica della questura per ordine del ministero dell‘Interno e condotto in arresto a Verona e, poi, in carcere - o, secondo lo storico Mauro Canali, in una clinica <191 - a Parma, per essere deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato <192. La denuncia di Rachele Mussolini, infatti, aveva fatto il suo corso e aspettava di essere sottoposta a processo: nel marzo 1945, fu condannato a ventiquattro anni di reclusione per «atti di libidine violenta» <193 e «congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale».
Nonostante questi discutibili - e discussi - trascorsi, dopo la fine della guerra Pòlito fu riabilitato. Nell‘agosto 1945, dietro autorizzazione dell‘Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, fu riassunto in servizio con l‘incarico di ispettore generale, superando con successo il giudizio dell‘epurazione. Egli, anzi, fu riconosciuto come «vittima» della persecuzione del regime <194, nonostante il commissario per l‘epurazione Nino Colozza si fosse espresso per la sua incompatibilità con la permanenza in servizio per «faziosità fascista», affermando che solo in virtù della sua partecipazione all‘Ovra era stato nominato come questore di seconda classe <195.
A causa di questi ulteriori dubbi sulla sua condotta, fu, per un po‘, sottoposto a riposo. Nel gennaio 1946, scrisse quindi al ministero dell‘Interno, affermando che se gli era stato dato l‘incarico del trasferimento di Mussolini era perché il capo della polizia aveva «la certezza che io non ero fascista» <196. Egli - compiendo una giravolta esemplare, soprattutto alla luce della lettera del 1936 in cui affermava il contrario - vantò meriti antifascisti tra cui quello, a Napoli, di aver fatto cessare le persecuzioni contro la casa di Benedetto Croce: per questo sarebbe stato avversato dai fascisti. Inoltre, affermò,
"possono essere […] sentiti sui miei rapporti col fascismo napoletano Francesco Saverio Nitti […]. Mi dispiace inoltre non poter citare qui la testimonianza decisiva di Arnaldo Lucci, morto da poco, che salvai da una invasione domiciliare, eseguita dopo un attentato a Mussolini, offrendogli ospitalità nella mia casa". <197
Nello stesso periodo, Pòlito cominciò a godere dei favori del ministro dell‘Interno Giuseppe Romita - che nel febbraio 1946 lo inviò a Milano (per controllare la situazione della questura dopo l‘immissione degli ex partigiani come ausiliari <198 -, di De Gasperi e di Scelba <199. In realtà, nonostante queste entrature, a Milano mise in difficoltà il ministro Romita, che nelle sue memorie "Dalla monarchia alla Repubblica" scrisse che
"il vecchio funzionario, un uomo che aveva indubbiamente al proprio attivo non poche benemerenze, giunse a Milano con l‘idea di non essere, come doveva, un ispettore inquirente che accerta, raccoglie prove, documenta e, quindi, riferisce al ministero per i provvedimenti di definitiva competenza, ma piuttosto di essere un organo superiore e diretto, un supervisore dell‘opera svolta dal dirigente della questura. […] In pratica, il Polito si mise a fare il processo alle forze partigiane presenti nella polizia. E con ciò commetteva uno sbaglio molto serio sul piano politico. Ma egli sbagliava anche perché sviava la funzione che la prassi amministrativa affida agli ispettori generali centrali, i quali debbono agire in perfetta intesa col capo della provincia. Il Polito, infatti, esautorò completamente il prefetto Troilo, già valoroso comandante della brigata Maiella, ed ottimo elemento prescelto al di fuori dei partiti. D‘altra parte, anche lo stesso questore Papa venne a trovarsi sotto tutela, in una specie di vigilanza coatta, e ridotto a fare il questore soltanto di nome". <200
Le informazioni allarmanti trasmesse da Pòlito ai giornali monarchici sulla situazione della questura di Milano, che diceva essersi trasformata in un covo di sovversivi, provocarono le proteste delle sinistre, e Romita lo rimosse e lo inviò ad Andria, dove all‘inizio di marzo si erano verificati gravi incidenti tra disoccupati e forze dell‘ordine, con morti e feriti. In seguito, intervenendo al Senato il 25 ottobre 1948, il socialista Romita, preoccupato per la trasformazione dello Stato in «Stato di polizia», diede un giudizio non troppo positivo sulla democraticità di Pòlito:
"Quando vedo Polito, che io stimo veramente, questore di Roma, dico: mandate Polito in Sicilia a cercare e a combattere Giuliano e la sua banda, e a quest‘ora ve lo avrebbe già catturato. Polito che è un grande questore, un grande uomo d‘azione, ve lo avrebbe già portato, vivo o morto; ma Polito come uomo politico non è indicato. Oggi al Viminale è un po‘ l‘eminenza grigia; se fosse andato in Sicilia sarebbe il benemerito della nazione; in Sicilia o dovunque ci sia una situazione criminale, ma a Roma no, al Viminale no, è un pericolo n. 1 per la democrazia". <201
Nell‘ottobre 1946, dopo gli incidenti del Viminale in cui rimasero uccise quattro persone <202, fu nominato questore di Roma in sostituzione di un altro questore che aveva fatto parte dell‘Ovra, Ciro Verdiani: secondo lo storico Giuseppe Carlo Marino, Pòlito era uno dei funzionari «puri tecnici o esperti ideologicamente piuttosto neutri», mentre il suo predecessore era uno dei «personaggi di indubbia mentalità fascista» <203. L‘assegnazione alla questura di Roma era particolarmente importante. Essa, infatti, godeva di una posizione di prestigio rispetto alle altre, in quanto era autonoma e non subordinata alla prefettura per quanto riguardava la pubblica sicurezza e l‘ordine pubblico: il questore di Roma rispondeva direttamente al capo della polizia. È piuttosto significativo che la gestione della questura di Roma fosse affidata a funzionari che avevano lavorato nell‘Ovra (Verdiani, Pòlito e, in seguito, il suo successore Arturo Musco) e che «disponevano di un patrimonio di conoscenze nell‘ambiente dell‘antifascismo, e in particolare del Partito comunista - non bisogna dimenticare che l‘Ovra era nata specificatamente per il controllo dell‘opposizione comunista - e avevano acquisito con gli anni una mentalità inquisitoria che poteva risultare molto utile al fine di un controllo pervasivo di tutte le attività politiche e commerciali che facevano capo al Partito comunista» <204.
Nel 1948, in seguito alla nomina di Mario Scelba al ministero dell‘Interno, aspirò probabilmente a diventare capo della polizia, nonostante che la scelta di un questore a ricoprire questa carica avrebbe costituito un‘anomalia. È questo che si deduce, almeno, da una lettera che scrisse allo stesso Scelba nel settembre 1948:
"Eccellenza,
mentre La ringrazio vivamente per le cortesi e confortanti comunicazioni, delle quali mi ha onorato, desidero rassicurarLa […] che la mia collaborazione nel settore assegnatomi dalla fiducia del Governo, e particolarmente dall‘E.V., sarà assoluta e totalitaria, e che nessuna nube è passata per la mia mente, in conseguenza alla nuova sistemazione data alla Direzione Generale della P.S., non avendo avuta mai altra ambizione che quella di servire, con la doverosa fedeltà, il Governo dell‘ordine e della ricostruzione nazionale. Un certo mio turbamento ha esclusiva attinenza con le notizie, che hanno circolato per parecchio tempo sulla crisi della Direzione Generale della P.S., dando per certa la mia utilizzazione in un settore più elevato. Ma io intendevo perfettamente che la mia eventuale elevazione a Capo della Polizia, a parte ogni considerazione di indole pratica, avrebbe potuto avere riflessi politici dannosi, in quanto si sarebbe potuta interpretare come un indirizzo più restrittivo e più rigoroso dell‘azione di Governo, prestandosi a speculazioni di parte. Della nomina a Vice-Capo non è il caso di parlare, perché non da meno è la funzione del Questore nella Capitale, per i poteri diretti, di cui è investita, e per le gravi e ponderose responsabilità, che comporta. A tutte le voci mi sono mantenuto estraneo; ma non posso nascondere che la sola mia preoccupazione è che, a seguito delle previsioni anticipate, trovino ora credito errate valutazioni e ineluttabilmente si riflettano a mio danno. A dissipare quel senso di perplessità, diffusosi tra il personale e nell‘opinione pubblica, sulle eventuali ragioni di trascuranza (lo stesso prefetto Trinchero mi ha domandato amichevolmente come ero rimasto dopo le deliberazioni dell‘ultimo Consiglio dei Ministri), dirò che, ove l‘E.V. lo ritenga opportuno, la questione potrebbe essere risolta con la mia nomina a Prefetto, secondo una prassi quasi costante nella tradizione della Questura di Roma. […] Devo dire all‘E.V. che, quando fu istituito il grado IV, parecchi colleghi […] mi sollecitarono a far valere la tradizione, caldeggiando la mia nomina a Prefetto, anziché ad Ispettore Generale Capo, in modo da lasciare disponibile un altro posto in tale grado; ma io mostrai la mia invincibile riluttanza a rappresentare all‘E.V. una cosa che mi riguardasse personalmente. E neppure ora l‘avrei fatto, se non me ne avesse offerto lo spunto il colloquio di ieri con l‘E.V., del quale ancora una volta Le rendo grazie, serbando indelebile ricordo della Sua grande lealtà e della Sua affettuosa benevolenza". <205
Nel 1949, Pòlito raggiunse i limiti di età, ma fu lasciato in servizio per le sue capacità per volontà del ministro dell‘Interno: del resto, come ha scritto il giornalista Francesco Grignetti, egli era «il poliziotto più stimato da Mario Scelba» <206. Meno idilliaci erano, invece, i rapporti tra Pòlito e il capo della polizia Giovanni D‘Antoni, in carica dal settembre 1948 e, probabilmente, intimamente considerato dal questore di Roma come colui che gli aveva soffiato il posto <207. Tra i due, il ministro aveva un occhio di riguardo per il questore di Roma, al punto che, secondo alcune ricostruzioni, nel novembre 1952, Scelba rimosse D‘Antoni dalla carica di capo della polizia, sostituendolo con Tommaso Pavone, proprio perché aveva criticato la permanenza di Pòlito in servizio oltre il settantesimo anno di età <208.
Sono emblematiche della difficoltà della relazione tra Pòlito e D‘Antoni alcune critiche sull‘operato del questore di Roma <209 e, soprattutto, alcune annotazioni quasi derisorie, scritte dal secondo a penna sui rapporti e le richieste del primo. Ad esempio, quando nell‘ottobre 1949 il questore di Roma chiese come rinforzi 900 allievi guardie di polizia o sottufficiale, 100 allievi carabinieri e un‘aliquota del reparto celere, D‘Antoni, con l‘inconfondibile penna verde, commentò «Sì, ma in caso di gravi perturbamenti che cosa chiederebbe?» <210. Ancora più significativo è un rapporto del primo dell‘agosto 1952 <211, avente come oggetto l‘attività del Pci. Si tratta di una comunicazione lunga ma che, per la prosa barocca e l‘atteggiamento mellifluo e accondiscendente di Pòlito verso il superiore, è particolarmente caratteristica della personalità del suo autore e, per questo, la riporterò quasi integralmente:
"Al termine della stasi estiva ed alla vigilia dell‘apertura del mese della stampa comunista, mi incorre il dovere di richiamare l‘attenzione dell‘E.V. su alcuni fatti in apparenza semplici, ma veramente essenziali, che potrebbero avere importanza determinante nella vita politica del nostro Paese. Il primo di essi, a quanto risulta dalle più certe ed attendibili fonti di informazione e soprattutto dalla osservazione diretta ed immediata sull‘attività del partito, sia nella sua impostazione generale, come nella sua attuazione spicciola e capillare, è quello, secondo il quale il P.c.i. sta procedendo alla mobilitazione di tutte le sue forze, per dare inizio ad un vasto programma d‘azione che, partendo dal 1° settembre p.v., va a raggiungere i primi dell‘anno 1953 e, quindi, l‘apertura dei comizi elettorali, senza alcuna soluzione di continuità. Può in un certo senso affermarsi, che nelle condizioni politiche attuali, l‘obiettivo ultimo del partito, è la consultazione popolare, mentre tutto quanto si è andato vociferando di armate clandestine, di grossi depositi di armi, di gruppi di sabotatori, di formazioni para-militari e di altre occulte attività, tutte dirette alla conquista armata del potere politico, non è da prendersi in seria considerazione [Come io ho chiaramente e continuamente dichiarato fin dal 1946]. Basta, infatti, soltanto accennare che i partigiani escono dalle file del partito soltanto al momento buono, e che saprebbero ritrovarsi senza che siano pronti compromettenti ruolini; che i partigiani sanno già adoperare armi ed esplosivi senza che abbiano necessità di apprenderne l‘uso in segrete scuole di addestramento; che, infine, i partigiani, più che attingere le armi in depositi clandestini, oggi assai pericolosi per essi e per il partito, le riceverebbero dai loro sostenitori, come le ricevettero dagli alleati in un passato non ancora remoto, per ritenere per certo che il p.c.i. ha, per ora, rinunciato alla conquista del potere attraverso un atto insurrezionale [Su questo punto io non ho mai avuto alcun dubbio] che rimane una ipotesi possibile a verificarsi solo attraverso un conflitto europeo e mondiale. […] Il secondo fatto in apparenza semplice, ma essenziale, è quello secondo il quale il p.c.i. compierà [sic] un gigantesco lavoro propagandistico fra le donne che, oltre ad essere la maggioranza del corpo elettorale, rappresentano anche la parte più influenzabile di esso. […] È superfluo aggiungere, per quanto riguarda la stampa, la parte che avranno i manifesti, i giornali murali, gli striscioni, i volantini e tutta la serie di stampati, già noti all‘On. Ministero, e dei quali quest‘Ufficio cerca di infrenare la diffusione, ove manchino, o siano soltanto apparenti, gli estremi della legittimità. Naturalmente, l‘attività dello strillonaggio della stampa comunista, specie nei quartieri periferici, sarà spinto al massimo, per cui è augurabile, malgrado i contrastanti pareri delle corti giudicanti, che l‘autorità di Governo possa infrenarla sulla base del potere d‘ordinanza. […] In proposito è stato riferito da fonte certa, che nella sede della federazione provinciale è di pubblico dominio l‘opinione per cui il Prefetto e il Questore stiano già studiando ogni accorgimento per soffocare l‘attività del mese e qualcuno dei maggiorenti, ha specificato, in merito, che questo mese dovrà rappresentare una autentica ginnastica del cervello per fregare il Sig. Questore. Infine, il terzo fatto essenziale da porre, come i due altri, che precedono nel dovuto rilievo, è quello, secondo il quale, il motivo dominante della propaganda comunista, non riguarderà solo quello risultante dalle conclamate finalità delle varie iniziative o dai principi che il partito, mimetizzandosi, sbandiera e che si riassumono nel trinomio pace, lavoro e libertà, ma avrà diretto ed esplicito riferimento al Governo nel suo complesso e nei suoi singoli componenti. Essa avrà aspetto di denigrazione e di diffamazione generica [Come han sempre fatto fin dal 47] e sarà specialmente fondata, su motivi che trovano facile presa negli strati sociali, cui viene rivolta: il preteso malgoverno del partito di maggioranza, che rivolgerebbe la sua attività, soprattutto, a favorire parentele e clientele politiche […]. [Da parte nostra non c’è che impedire all’azione di propaganda di andare oltre i limiti consenti dalla legge. (incomprensibile) anche intensificare l’azione di contropropaganda; ma questo non è compito della polizia]" <212
Pòlito aveva un‘immagine ben precisa del suo ruolo, dei suoi compiti e dei margini di discrezionalità lasciati dall‘ordinamento per poterli mettere in pratica. Ad esempio, nell‘autunno del 1950 il questore Pòlito vietò gli spazi per alcune manifestazioni ludiche organizzate dal Pci, determinando le proteste parlamentari di Pietro Ingrao e di Aldo Natoli, che fecero un esposto alla giustizia contro il questore <213. Egli giustificò il divieto affermando che alcune precedenti manifestazioni dello stesso tipo «a causa delle attrazioni installate nelle pubbliche vie e piazze richiamanti il pubblico, furono trasformati in veri baccanali, cosa che provocò gravi fastidi ed energiche proteste della cittadinanza, affatto comunista e nella quale il Partito promotore non rappresenta che una minoranza»: aveva quindi deciso di non concedere le autorizzazioni, «in considerazione delle proteste pervenutemi, anche per le sconcezze commesse da individui partecipanti alle feste, in preda ai fumi dell‘alcool, e, soprattutto, al fine di restituire le forze dell‘ordine alle loro normali funzioni d‘istituto» <214. Tuttavia Pòlito si spinse oltre, evidenziando l‘idea che aveva del proprio ruolo:
"L‘art. 18 del T.U. della Legge di P.S. pienamente compatibile con l‘art.17 della Costituzione, dà facoltà al Questore di impedire che una pubblica riunione abbia luogo, per ragione di ordine pubblico, di moralità e di sicurezza pubblica, formula questa cui corrisponde pienamente quella adottata dalla Costituzione di motivi di sicurezza e incolumità pubblica. Ritengo, che non a caso la citata legge affidi la competenza a decidere in tale materia, al Questore. Questi, infatti, […] è l‘unica persona autorizzata a formulare un giudizio sulla delicata questione, se una pubblica riunione, indetta in determinate contingenze di luogo e di tempo e, specialmente, in un dato clima politico, sia da ritenersi suscettibile o meno di turbare l‘ordine e la sicurezza pubblica. Il provvedimento del Questore in materia è un atto assolutamente discrezionale, ispirato al principio salus reipublicae suprema lex, del tutto insindacabile davanti all‘Autorità Giudiziaria, tranne naturalmente che esso appaia talmente viziato nella forma da costituire un‘aperta ed evidente violazione della legge penale". <215
In occasione delle celebrazioni del I° maggio 1951, invece, suggerì alla Giunta comunale di non concedere piazza del Popolo per il comizio sindacale. In una lunga comunicazione al ministro Scelba, il questore – che in generale cercava di evitare ogni manifestazione nel centro della città – motivò nel dettaglio la sua decisione:
"La questione dei comizi pubblici, che vengono quasi quotidianamente indetti dai vari partiti, con schiacciante prevalenza di quelli di sinistra, ha fermato tutta la mia attenzione per gli inconvenienti, che ne sono derivati e che tuttora ne derivano, non solo per le possibili trasmodanze, perturbatrici dell‘ordine pubblico, ma anche perché, con la moltiplicata intensità del traffico e le accresciute necessità della circolazione, non si concilia l‘occupazione delle piazze e località centrali […]. Tre sono le piazze, prese principalmente di mira, per le concioni, alle quali si intende dare più rilievo: piazza SS. Apostoli, Piazza del Popolo e Piazza S. Giovanni. Per la prima l‘esperienza ci ha insegnato che anche un‘adunata di proporzioni ridotte, determina un ingorgo tale da paralizzare la circolazione cittadina, per l‘assoluta centralità del luogo; sì che, tenuto conto anche della prossimità della Prefettura, come obiettivo di disturbo e di possibili colpi di mano, la Piazza SS. Apostoli è senz‘altro da scartare, ed a questo principio io mi sono sempre attenuto, dopo qualche rara, remota concessione, ripudiando ogni ulteriore richiesta per la stessa località. La Piazza del Popolo, per quanto meno centrale e spesso adoperata per adunate, offre essa pure notevoli inconvenienti, non solo per il blocco del traffico del Quartiere Flaminio, ma anche, in ispecie, per l‘afflusso e il deflusso dei partecipanti, che, provenienti dalle varie sezioni, sono soliti portarvisi in numerosi cortei, intralciando la circolazione, tra la più sfavorevole impressione della maggior parte della popolazione, nettamente contraria a queste iniziative demagogiche. Il deflusso, al termine del comizio, si svolge, poi, con difficoltà, ancora più grave: non sempre, infatti, si è potuto evitare che forti nuclei, con i labari ed i vessilli di partito - malgrado i formali impegni, preventivamente assunti dagli organizzatori e le assicurazioni dei medesimi date di far rispettare il divieto di ogni e qualsiasi corteo – si incolonnassero per il Corso, abbandonandosi a canti ed a grida ostili contro le Autorità ed obbiettivi di Governo (Ministero degli Esteri). Per questo punto, non si può e non si deve assolutamente transigere: la via del Corso, il Tritone, piazza Colonna, su cui si riversa il maggior peso del deflusso, sono già ordinariamente congestionate, ed ancor di più lo diventano nelle ore di punta, sul mezzogiorno e nelle ore serotine, in coincidenza col consueto termine dei comizi, onde riesce difficile evitare inconvenienti e contrasti e prevenire manifestazioni di ostilità. Quanto a Piazza S. Giovanni, che offre il vantaggio dell‘ampiezza e possibilità migliori di deflusso, ogni ulteriore concessione è sconsigliata, sia dalla presenza di luoghi sacri al culto e di istituti religiosi, i cui rettori hanno più volte […] elevato giustificate voci di protesta, sia dal fatto della inevitabile devastazione dei pubblici giardini con grave danno al decoro ed all‘economia cittadina per il ripristino, ed a tutto servigio di una fazione, irrequieta ed incivile, che di altro non si preoccupa se non della propaganda di partito. […] Dopo larghe verifiche ed opportune, acconce considerazioni, mi sono fermato sul Piazzale, ora inutilizzato, del Circo Massimo, presso il Palatino, proponendo alla Giunta comunale di orientarsi per la concessione di quelle località […]. La zona è stata da me accuratamente ispezionata, con i miei collaboratori, […], e trovata perfettamente corrispondente al fine, […] anche per la libertà di manovra, che può avere la forza pubblica nel caso di interventi, resi necessari da trasmodanze e o da tentativi di inscenare, al termine del comizio, cortei o altre manifestazioni, non consentite. […] La località prescelta, oltre al vantaggio dell‘ampiezza e della solitudine, è, nello stesso tempo, abbastanza vicina al centro e di facile accesso attraverso ampii stradali, che si prestano per un agevole e rapido afflusso e deflusso dei convenuti. […] Ritengo ovvio far presente che la norma suddetta troverebbe una deroga, soltanto in caso di manifestazioni a carattere patriottico e di interesse nazionale, che accomunino tutta la popolazione e che, per la loro stessa natura, sono meno suscettibili di determinare incidenti e contrasti". <216
Nel settembre 1953, Pòlito - che nell‘ottobre successivo avrebbe compiuto 74 anni - fu posto a riposo, per raggiunti limiti d‘età, dal nuovo ministro Fanfani. Era questa, in realtà, solo la motivazione ufficiale: il motivo della rimozione risiedeva probabilmente nel coinvolgimento di Pòlito nello scandalo politico relativo all‘omicidio di Wilma Montesi <217. Come ha scritto Grignetti, «Scelba non lo [Fanfani, ndR] perdonerà mai, soprattutto per i modi» <218.
Cinque giorni dopo il ritrovamento del corpo della giovane ragazza, infatti, Pòlito aveva annunciato in una conferenza stampa che il caso era chiuso, che essa era morta cadendo in mare mentre faceva un pediluvio e che erano infondate le voci che parlavano di «giallo» <219. In effetti, il sospetto di un coinvolgimento nella vicenda del figlio del ministro democristiano Attilio Piccioni era giunta, all‘inizio di maggio 1953, al fondatore, direttore e proprietario del «Tempo», Roberto Angiolillo: consultato telefonicamente, il questore di Roma affermò di non saperne nulla e di non conoscere neppure la composizione della famiglia del ministro. Il 4 maggio 1953, però, il quotidiano monarchico napoletano «Roma» pubblicò un articolo, intitolato "Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?", in cui si affermava che Pòlito stesse cercando di insabbiare l‘inchiesta per fare un favore a un ministro, il cui figlio era coinvolto nella morte della ragazza. Nei giorni seguenti, Pòlito definì «calunniose» le voci sul coinvolgimento di Piero Piccioni e denunciò per diffusione di notizie false e tendenziose i giornali che avevano messo in dubbio la versione ufficiale, che riaffermò nuovamente <220. Certamente la questura di Roma fece alcuni errori, come quello di non interrogare Piero Piccioni e di limitarsi, si disse per riguardo, a chiedere al padre dove fosse il figlio quel giorno: Attilio Piccioni rispose che il figlio era a Como, ma poi si scoprì che era a Capri con una donna <221, forse Alida Valli di cui era l‘amante.
[...] Il 21 maggio 1957 il tribunale di Venezia emise la sentenza: Piccioni, Montagna e Pòlito furono tutti e tre assolti, anche perché il giovane figlio del ministro aveva un alibi molto forte che non aveva inizialmente dichiarato per non mettere in difficoltà la donna con la quale si trovava. Pòlito, che incolpava i carabinieri che avevano guidato le indagini per il suo ingiusto coinvolgimento <225, vedeva così confermata l‘estraneità sempre affermata alla vicenda. Poté godersi questo successo, tuttavia, solo per poco tempo: poco meno di due anni dopo, il 12 maggio 1959, egli morì.
[NOTE]
157 Stamattina Saverio Polito lascia il suo incarico di Questore di Roma, «Il Paese», 7 settembre 1953.
158 Una medaglia d’oro ricordo offerta al comm. Polito, «Il Messaggero», 25 settembre 1953.
159 Cfr. ad esempio Il questore Musco si è insediato stamane, «Paese sera», 8 settembre 1953.
160 A. Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, Laurus Robuffo, Roma 2005, pp. 39, 55.
161 P.G. Murgia, Il vento del Nord. Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza, 1945-50, SugarCo, Milano 1975, p. 403.
162 G. Melis, La cultura dello Stato tra continuità e discontinuità in G. Monina (a cura di), 1945-1946. Le origini della Repubblica, I, Contesto internazionale e aspetti della transizione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 223.
163 Il suo fascicolo personale è in Acs, Mi, Direzione generale pubblica sicurezza (Dgps), Divisione personale Ps, vers. 1973, bb. 232 e 233, f. Saverio Pòlito.
164 G. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, Il Mulino, Bologna 2009, p. 256. Cfr. Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1963, b. 165bis, f. Rapporto del prefetto di Napoli con allegati a carico del Commissario di p.s. Polito Cav. Saverio, in cui sono contenuti molti di questi scritti anonimi.
165 Ivi, vers. 1973, b. 232, f. Saverio Pòlito. Comunicazione del prefetto di Napoli, 1951.
166 Ivi, vers. 1963, b. 165bis, f. Rapporto del prefetto di Napoli con allegati a carico del Commissario di p.s. Polito Cav. Saverio. Comunicazione del questore di Napoli al prefetto di Napoli dell‘11 agosto 1921.
167 Ibidem.
168 Ibidem.
169 Ibidem.
170 Ibidem.
171 Ivi. Estratto dall‘inchiesta eseguita dall‘Ispettore Generale Tringali sulla questura di Napoli.
172 Ibidem.
173 Ivi. Nota di Pòlito su alcune accuse mossagli dal quotidiano napoletano «Don Marzio».
174 In realtà Rossi fu arrestato a Lugano...
175 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 256.
176 Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito. Benemerenze di servizio.
177 Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 248. Cfr. anche M. Canali, Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 363-6, che, più benevolo circa l‘efficacia dell‘azione repressiva di Pòlito, scrive che avrebbe sventato il tentativo della cellula giovanile comunista di riprendere l‘attività in Abruzzo.
178 Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 121.
179 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 256.
180 Relazione del prefetto di Bologna del 15 settembre 1938 cit. in Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 256.
181 Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito. Lettera dell‘8 dicembre 1936. Il destinatario commentò a matita «I servizi gli sono stati già lungamente riconosciuti e compensati!».
182 Canali, Le spie del regime, cit., p. 494.
183 S. Vassalli, L’Italiano, Einaudi, Torino 2007, p. 88.
184 R. Mussolini, La mia vita con Benito, Mondadori, Milano 1948, p. 201.
185 Ivi, p. 203.
186 Ibidem.
187 Ivi, p. 204-5.
188 R. Mussolini, Benito, il mio uomo, Rizzoli, Milano 1958, p. 200.
189 Ivi, p. 203.
190 Cit. in S. Bertoldi, Il segreto dell’OVRA, un diabolico refuso, «Corriere della sera», 8 agosto 1994. La deposizione completa di Rachele Guidi è in Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito, sf. Epurazione). Secondo donna Rachele, inoltre, egli avrebbe ripetuto: «Non importa che hai cinquantacinque anni, ma ti chiami Rachele Mussolini…» (l‘aneddoto è riportato sul «Merlo giallo», che fece un‘ampia campagna contro Pòlito nel dopoguerra, in particolare nel novembre 1948; i vari ritagli sono in Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito). Abbastanza sorprendentemente, secondo lo scrittore Sebastiano Vassalli, che inserì la figura di Pòlito in diversi suoi racconti, «gli atti di libidine violenta, casomai qualcuno pensasse chissà cosa, furono un normale (quasi normale...) rapporto sessuale consumato in automobile. Rachele ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma Pòlito ritenne di dover agire così» (S. Vassalli, Ma Pòlito in carcere ci finì davvero, «la Repubblica», 25 luglio 2007), come se un rapporto sessuale con una donna che ne farebbe a meno e sottoposta a custodia – nel caso in cui fosse davvero avvenuto – non fosse da considerarsi una violenza sessuale.
191 Canali, Le spie del regime, cit., p. 489.
192 Acs, Segreteria particolare del Duce, Rsi, Carteggio riservato, b. 45, f. 452 Polito Saverio. Nota del 16 gennaio 1944 e Comunicazione del prefetto di Parma Ugo Leonardi del 19 maggio 1944.
193 Nel 1956, Pòlito si rivolse al Tribunale di Forlì per la revisione della condanna del tribunale fascista e, dopo che fu interrogata anche Rachele Guidi, fu assolto dalle accuse di tentata violenza carnale e atti di libidine aggravati perché il fatto non sussisteva. Cfr. Vassalli, Ma Pòlito in carcere ci finì davvero, cit. e Acs, Mi, Dgps, Divisione personale Ps, vers. 1973, b. 233, f. Saverio Pòlito, sf. Inchieste Ispezioni. Comunicazione del capo divisione della Dgps del 28 dicembre 1958.
194 Ivi, sf. Trasferimenti 2.
195 Ivi, sf. Epurazione. Nel novembre 1945, inoltre, il comandante dei carabinieri di Bologna scrisse che lì si era dimostrato come mosso sempre da «tornaconto personale», che gli si addebitava di essere un accanito giocatore di poker, di aver approfittato della sua carica per pagare di meno ristoranti e acquisti (Ibidem).
196 Ivi. Lettera al ministero dell‘Interno del 6 gennaio 1946.
197 Ibidem.
198 R. Canosa, La polizia in Italia dal 1945 ad oggi, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 119-120.
199 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 257.
200 Cit. in Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 476.
201 Atti Parlamentari, I legislatura, Senato, Discussioni, seduta pomeridiana del 25 ottobre 1948, p. 3171.
202 Mi permetto di rinviare a I. Rossini, Riottosi e ribelli. Conflitti sociali e violenze a Roma (1944-1948), Carocci, Roma 2012, pp. 104-10.
203 G.C. Marino, La repubblica della forza. Mario Scelba e le passioni del suo tempo, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 175-6.
204 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 304.
205 Asils, Fondo Mario Scelba, II versamento, b. 12, f. 133 ―1948‖. Lettera di Saverio Pòlito del 13 settembre 1948.
206 F. Grignetti, Il caso Montesi. Sesso, potere e morte nell’Italia degli anni ’50, Marsilio, Venezia 2006, pp. 56, 131.
207 Sull‘attività di D‘Antoni come capo della polizia, cfr. Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, cit., pp. 29-45. Secondo Buoncristiano, D‘Antoni era in contrasto con Scelba su molte questioni e, in primis, sulla repressione del neofascismo: mentre il ministro pensava che la lotta contro gli estremismi dovesse essere effettuata in primo luogo contro il Msi, il capo della polizia riteneva il popolo italiano ormai vaccinato contro il fascismo e auspicava una legge che mettesse fuori legge tutti i partiti che non accettavano il metodo democratico (Ivi, p. 43). I rapporti tra D‘Antoni e Scelba giunsero a rottura nel 1952: «Le differenti visioni sulla politica interna erano aggravate da problemi caratteriali delle due personalità (l‘On. Scelba e il Capo della Polizia D‘Antoni). Il primo assai brusco, il secondo forse troppo sensibile alla forma. Ne derivava che le udienze finivano per essere uno scontro. Quando telefonava il Ministro Scelba parlava frettolosamente, a volte saltando anche le parole. Questa circostanza lasciava in tensione il Capo della Polizia, il quale, avrebbe preferito non fiumi di parole, ma direttive chiare. Lo stesso accadeva nelle annotazioni fatte dall‘On. Scelba: redatte in fretta, dovevano essere interpretate. Talvolta erano talmente dure da apparire offensive» (Ivi, p. 45).
208 Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 473. Secondo l‘ex prefetto Aldo Buoncristiano, invece, «ai primi di novembre [del 1952, ndR] il Prefetto D‘Antoni prese motivo da una colica renale (poi superata in un paio di giorni) per dimettersi. Non venne più al Ministero; neanche per dare le consegne. […] Il colloquio avuto con il Ministro la sera prima delle dimissioni deve essere stato assai spiacevole se le due personalità non si sono più incontrate. È da ricordare che l‘On. Amintore Fanfani nominò nell‘ottobre 1953 il Prefetto D‘Antoni Direttore Generale della Protezione Civile. Quando l‘On. Scelba assunse la carica di Presidente del Consiglio e ad interim quella di Ministro dell‘Interno, D‘Antoni lasciò l‘ufficio di Direttore Generale perché, dichiarò, di non volere stringere la mano all‘On. Scelba!» (Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, cit., p. 47)
209 Il capo della polizia, nel settembre del 1949, lamentò che nel pomeriggio del giovedì precedente in un servizio di ordine pubblico durante una manifestazione a Piazza Colonna, le jeeps della polizia erano salite sui marciapiedi...
210 Acs, Mi, Ps, 1949, b. 36, f. Roma - Rinforzi. Fonogramma della questura di Roma dell‘11 ottobre 1949, ore 20,30.
211 Le annotazioni di D‘Antoni sono in corsivo tra parentesi quadre.
212 Acs, Mi, Ps, Ar, 1951-53, b. 115, f. -Direttive per la propaganda comunista e misure preventive di Polizia – 1° fascicolo. Comunicazione di Pòlito del 27 agosto 1952.
213 Cfr. Acs, Mi, Ps, 1950, b. 22, f. Roma - Partito comunista italiano - 5° fascicolo. Esposto del 16 ottobre 1950. In realtà, una comunicazione dell‘8 settembre 1950 della Direzione generale di Pubblica sicurezza ribadiva la disposizione secondo cui «comizi e pubbliche manifestazioni politiche debbano aver luogo possibilmente in locali chiusi e comunque in località lontane dal centro è sempre tenuta presente dagli organi di polizia. Essa è stata fatta osservare anche per la festa dell‘Unità» (Ivi, b. 15, f. Partito comunista italiano – 2° fascicolo). Per questo motivo, Pòlito si sentiva probabilmente autorizzato a scrivere al capo della polizia che «il diritto di riunione e di parola si può affermare ed esprimere in luoghi e con modalità più acconci al rispetto della Capitale ed al vero carattere della sua popolazione, che in siffatte circostanze, viene alterato, svisato, snaturato. […] Pertanto, salvo contrario avviso di cotesto On. Ministero, riterrei di non concedere più, almeno per quest‘anno, alla federazione comunista romana, ulteriori autorizzazioni per riunioni pubbliche, richieste col motivo della diffusione della stampa di partito che si prospettano, tuttora, minacciose pel mese di ottobre e per il resto dell‘anno» (Ivi, b. 22, f. Roma - Partito comunista italiano – 5° fascicolo. Comunicazione del 9 ottobre 1950) e a chiedergli «di avere la bontà di dirmi se, limitando nel tempo queste manifestazioni, che da oltre quaranta giorni ci affliggono, costringendo le forze di polizia ai movimenti più impensati, sia in linea con le direttive del Governo o debba rettificare il mio comportamento» (Ivi, b. 22, f. Roma - Partito comunista italiano – 5° fascicolo. Comunicazione del 12 ottobre 1950).
214 Acs, Mi, Ps, 1951, b. 27 – f. Roma – Partito comunista italiano – 1° fascicolo. Relazione di Pòlito del 26 gennaio 1951. La denunzia contro Pòlito fu poi archiviata. Cfr. I comunisti volevano un mese di 40 giorni. Archiviata una inconsistente denuncia di Ingrao e Natoli contro il Questore, Il Popolo, 15 marzo 1951.
215 Acs, Mi, Ps, 1951, b. 27 – f. Roma – Partito comunista italiano – 1° fascicolo. Relazione di Pòlito del 26 gennaio 1951.
216 Acs, Mi, Ps, 1951, b. 84, f. Roma – Manifestazioni, s. Roma. Appunto per il ministro dell‘Interno del questore Pòlito del 28 aprile 1951.
217 L'11 aprile 1953 una giovane donna, Wilma Montesi, fu trovata cadavere sulla spiaggai di Capocotta, nei pressi di Roma [...] Grignetti, Il caso Montesi, cit.
218 Ivi, p. 63.
219 Ivi, pp. 25-6.
220 Grignetti, Il caso Montesi, cit., p. 48.
221 Buoncristiano, Ricostruire lo Stato, cit., p. 56.
225 De Luca, Lo scandalo Montesi, cit.
Ilenia Rossini, Conflittualità sociale, violenza politica e collettiva e gestione dell'ordine pubblico a Roma (luglio 1948-luglio 1960), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2014-2015