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venerdì 15 aprile 2022

Circa gli scioperi del marzo 1943 e quelli del marzo 1944

Prima pagina de "l'Unità" clandestina del 15 marzo 1943 - Fonte: Fondazione Gramsci

Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, le condizioni di vita e di lavoro delle masse operaie e della piccola borghesia erano sempre più in rapido e costante regresso. L’inflazione che immiseriva i salari reali, la penuria dei generi alimentari razionati e il conseguente aumento dei prezzi del mercato libero e della borsa nera, avevano prodotto una sensibile riduzione delle possibilità di approvvigionamento alimentare. Nell’autunno inverno 1942 si registravano le prime azioni di protesta nelle fabbriche di Torino, Milano e Sesto San Giovanni. Tra l’aprile 1942 e l’aprile 1943 furono 2.600 gli arrestati per manifestazioni sovversive nelle zone industriali settentrionali. <62
Gli scioperi avevano soprattutto un carattere economico e di rivendicazione salariale per fare fronte a condizioni di vita che divenivano sempre più insopportabili soprattutto nelle città. Nel comasco e in Brianza molti operai erano anche piccoli coltivatori, che integravano il magro salario con i prodotti agricoli, destinati al consumo famigliare scongiurando il rischio di vera e propria denutrizione patita dagli operai delle grandi città. <63
Tutto ciò, in alcuni casi, come accadde in Alta Brianza per lo sciopero generale del marzo 1944, faceva venir meno la volontà di lotta. Va inoltre detto che la massa operaia nelle grandi fabbriche di Milano e di Sesto San Giovanni, favoriva una più forte Resistenza, anche morale, contro la repressione, mentre nelle medie e piccole fabbriche brianzole, la conoscenza tra lavoratori e padroni era più diretta e il ricatto padronale più immediato; quindi era pericoloso esporsi in pochi. Quasi nulla era inoltre la penetrazione del Pci che organizzò il malcontento dei lavoratori e capì che, ormai, dopo le numerose agitazioni dei mesi passati, uno sciopero generale era possibile e decise di promuoverlo attraverso i comitati di agitazione <64.
[...] Il 1° marzo si accese la protesta in tutte la città industriali del nord. Nel milanese, a Sesto San Giovanni, la Breda, la Falck, la Magneti Marelli, furono il fulcro dello sciopero e il punto di riferimento anche per la Brianza dove si scioperò a Monza, Desio, Meda e Mariano Comense. Nella Brianza comasca fu abbastanza attiva la zona di Cantù, dove la filotecnica Salmoiraghi attuò lo sciopero il 2 marzo. Il foglio clandestino “il fronte proletario”, comunicò che si erano astenuti dal lavoro alla Salmoiraghi 350 dipendenti <65. Il Notiziario della G.N.R. dell’8 marzo 1944 riferì che dei 600 operai della filotecnica Salmoiraghi, si presentarono al lavoro in 200 circa, che abbandonarono alle 10.30 lo stabilimento per solidarietà con i lavori in sciopero. <66
Le due fonti di opposta tendenza, quindi, concordavano sul numero degli operai in sciopero alla Salmoiraghi.
Lo sciopero generale del marzo ’44 fu la più grande protesta di massa avvenuta nell’Europa sotto il dominio tedesco.
[NOTE]
62 Cfr. Roncacci Vittorio, La calma apparente del lago. Como e il Comasco tra guerra e guerra civile, Macchione Editore Varese 2003, pp.42-43. Tutto ciò, in alcuni casi, come accadde in Alta Brianza per lo sciopero generale del marzo 1944, faceva venir meno la volontà di lotta. Va inoltre detto che la massa operaia nelle grandi fabbriche di Milano e di Sesto San Giovanni, favoriva una più forte Resistenza, anche morale, contro la repressione, mentre nelle medie e piccole fabbriche brianzole, la conoscenza tra lavoratori e padroni era più diretta e il ricatto padronale più immediato; quindi era pericoloso esporsi in pochi. Quasi nulla era inoltre la penetrazione del P.C.I. che organizzò il malcontento dei lavoratori e capì che, ormai dopo
63 Cfr. Roncacci Vittorio, op. cit., p.51;
64 Cfr. Ibidem;
65 Cfr. Gatti Marco, La stampa comasca nella Repubblica Sociale Italiana, Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, Ed. Graficop Como 1996, pp.226-227;
66 Cfr. Perretta Giusto, Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana della Provincia di Como 1943-1945,
Ed. Istituto Comasco per la storia del movimento di Liberazione, Graficop Como 1990, p.16;
Laura Bosisio, Guerra e Resistenza in Alta Brianza e Vallassina, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2008-2009
 
[...] Il 14 marzo [1943] a Milano si riunivano i membri della Direzione del Pci là presenti i quali, accolta la proposta del Comitato operaio di Torino, lanciavano un manifestino ai lavoratori milanesi e prendevano una serie di misure per assicurare l’estensione del movimento. Il 15 marzo veniva diffusa a Torino, Milano e in molti altri centri industriali l’Unità. Grandi titoli annunciavano: “Lo sciopero di 100 mila operai torinesi”. La direttiva era chiara: “Tutto il Paese segua il loro esempio per conquistare il pane, la pace e la libertà”.
Dal 16 marzo ai primi di aprile lo sciopero si estese in tutti i principali centri industriali del Piemonte: a Pinerolo, Villar Perosa, Asti, Savigliano, Biella, nella valle d’Aosta, ecc., e nella Lombardia.
A Milano nei giorni 16, 17 e 18 marzo si riunirono i comitati di zona del Pci. Il 19 alla Caproni e in alcuni stabilimenti di Sesto San Giovanni si verificarono i primi scioperi. Nel corso della settimana successiva il movimento si estese in tutti i principali stabilimenti della città e della provincia, alla Pirelli, Breda, Motomeccanica, Borletti, Marelli, ecc. Alla fabbrica Innocenti la maestranza, composta in maggioranza di donne, scendeva in massa nel cortile della fabbrica e sosteneva violenti scontri con le guardie metropolitane inviate dai gerarchi fascisti. Alla Face in via Bovio, le operaie manifestavano al grido: “Abbasso la guerra!”. Le guardie spararono sulla folla uccidendo un’operaia e ferendone gravemente altre nove.
Alla Borletti ed alla Pirelli, i soldati inviati per reprimere lo sciopero fraternizzavano con gli operai. Ad Abbiategrasso un membro del Gran Consiglio fascista, Cianetti, tentava di parlare alle maestranze, ma veniva preso a sassate e messo in fuga. Alla Brown Boveri, alle ore 10 del 24 marzo, i giovani apprendisti del reparto n. 71 iniziavano per primi lo sciopero. Il direttore ing. Rolandi, accompagnato dai diversi capiservizio, si portava sul posto per reprimerlo. Gli operai del reparto n. 70, venuti a conoscenza dell’intervento del direttore, accorrevano in difesa dei giovani compagni di lavoro. Un operaio affrontava il direttore e in presenza della maestranza esponeva e difendeva i motivi dell’agitazione. Lo sciopero nel pomeriggio si estese in tutto lo stabilimento.
Malgrado la repressione ordinata da Mussolini, malgrado le centinaia e centinaia di operai arrestati a Torino, Asti, Biella, Pinerolo e a Milano e provincia, lo sciopero continuò ad estendersi.
L’agitazione minacciava di svilupparsi nelle fabbriche della Liguria, Venezia Giulia e dell’Emilia. Nell’impossibilità di arrestare il movimento con i soliti mezzi repressivi a causa della possente e organizzata azione delle masse operaie, il governo fascista fu costretto a cedere.
Il 3 aprile, dopo un mese di scioperi, dopo l’interruzione di un mese nella produzione bellica, la classe operaia obbligava Mussolini a operare una prima grande “ritirata strategica”: i salari e gli stipendi furono aumentati.
Gli scioperi, iniziati il 5 marzo, terminarono nella prima quindicina del mese di aprile con una importante vittoria della classe operaia italiana. Il grande movimento, avendo colpito il governo fascista all’interno del Paese, rappresentò il primo grande contributo della popolazione italiana alla guerra di liberazione degli Alleati. Lo sciopero ebbe un’eco in tutto il mondo e i suoi effetti furono decisivi per lo sviluppo della vita politica del nostro Paese. I popoli progressivi accolsero e salutarono gli scioperi della classe operaia italiana come una grande manifestazione degli italiani contro la guerra nazifascista. L’apparato del governo e delle organizzazioni fasciste si sgretolò. Sotto la pressione delle sconfitte militari e sotto l’azione delle masse lavoratrici italiane il governo fascista precipitava verso la sua completa rovina.
Lucio Cecchini, 1943: gli scioperi di marzo e aprile, Patria Indipendente,  n° 3 - 30 marzo 2003 

[...] La storia del loro svolgimento è stata narrata all’infinito da testimoni diretti come Umberto Massola - che di quei giorni diverrà l’esegeta anche con il suo libro «Marzo’43, ore 10» - Leo Lanfranco, Vito Damico e tanti altri ed è tuttora ammantata da un velo di leggenda. Lo sciopero viene fissato per venerdì 5 marzo 1943: la sospensione del lavoro deve avvenire alle 10, al suono, come ogni giorno, della sirena d’allarme.
La sirena non suona
Ma nel cuore industriale della città, a Mirafiori, la sirena non suona perchè la direzione è stata preavvertita. Ma il contrattempo non ferma la lotta. All’officina 19 la fermata parte comunque pochi minuti dopo. Nel settore aeronautico della Fiat Augusto Bazzani racconta: «Il segnale non è azionato, ma gli operai smettono di lavorare e vanno verso l’uscita. Il caporeparto li richiama, non è degnato neppure di uno sguardo».
E alla Fispa Carlo Peletto narra: «Noi abbiamo scioperare l’8 marzo. Non avevamo la sirena; si decise che il segnale lo avrei dato io fermando il mio tornio e girandomi verso i compagni di lavoro.  Fermai le macchine, mi girai e incrociai in un sol colpo gli occhi di tutti che mi puntavano: dopo pochi secondi tutte le macchine erano ferme».
Un evento simbolico
In realtà - come ricordano molti storici - la grande capacità dell’organizzazione comunista fu quella di veicolare in città la notizia della riuscita della manifestazione di Mirafiori, simbolo della resistenza operaia, tanto che il lunedì successivo, 8 marzo, lo sciopero riprese e si diffuse in gran parte delle fabbriche torinesi. E poi come per osmosi raggiunse il resto del Piemonte e arrivò a Milano.
Come ricorda Roberto Finzi nel suo libro «Marzo 1943 - Un seme della Repubblica fondata sul lavoro» (Clueb, Bologna) quell’anno è un anno si svolta: il 2 febbraio i sovietici vincono a Stalingrado, il 9 febbraio gli americani a Guadalcanal. Le sorti della guerra «si invertono in Europa come in Oriente».
La caduta del fascismo
E per l’Italia sarà l’anno della caduta del fascismo, dell’invasione nazista, della repubblica di Salò. E della nascita della Resistenza di cui sicuramente gli scioperi del marzo - che dureranno fino a metà mese e coinvolgeranno secondo una ovvia stima per difetto del regime 40 mila operai - sono l’inizio. Gli operai chiedono una indennità di carovita e il pagamento a tutti delle 192 ore di sfollamento. Rivendicazioni economiche che si intrecciano ormai alla ripulsa della guerra e del fascismo. Un intreccio di spontaneità e di organizzazione comunista come analizzato da Claudio Dellavalle. Scioperi che vengono pagati com 164 arresti e 37 deferiti al tribunale speciale. Ma il fascismo ha ormai imboccato la sua lunga agonia.
Marina Cassi, Mirafiori: 70 anni fa rivolta operaia, La Stampa, 6 marzo 2013
 
Le necessità della guerra di Liberazione si intrecciano dunque con la spontaneità di un conflitto sociale causato dall’asprezza delle condizioni di vita delle classi subalterne. Osserviamo ora più da vicino gli episodi conflittuali del ciclo che dall’autunno ’43 si protrae in un crescendo fino allo sciopero generale del marzo ’44: ci sono le agitazioni operaie del novembre 1943, sempre connesse ai licenziamenti e alle indennità da corrispondere ai lavoratori lasciati a casa, in particolare nelle fabbriche di Sesto San Giovanni e alla Magnaghi di Turro.
Ma è soprattutto a dicembre che si verifica il cosiddetto "grandioso sciopero dei sette giorni": la prima grande prova di forza organizzata da parte del Partito comunista, in questo momento l’unico che spinge per rompere l’attendismo sia della massa operaia (che faticosamente decide di appoggiare la lotta contro l’occupante, con tutti i rischi che ciò comporta), sia soprattutto del fronte antifascista. Da segnalare l’importante presenza e contributo socialista nel settore tranviario, dove appunto i sindacalisti erano di orientamento PSIUP. L’organo del PCI milanese, "La Fabbrica" (che nei primi numeri riporta il sottotitolo significativo di "Giornale sindacale"), lancia l’appello allo sciopero che riscuote un importante successo:
"Dal 13 al 18 dicembre l’attività industriale è pressoché paralizzata, soprattutto nei primi quattro giorni di sciopero, durante i quali il movimento si estende a macchia d’olio coinvolgendo oltre 60 fabbriche per un totale di 150-160 mila operai. I primi segni di stanchezza si avvertono in seguito all’intervento tedesco che alterna le blandizie e le promesse di miglioramenti alimentari alle minacce e all’uso della repressione armata. Tuttavia la ripresa del lavoro, decisa dal Pci per lunedì 18, può avvenire senza che su di essa gravi un senso di sconfitta e di impotenza". <277
Una volta messa in moto la mobilitazione nelle aziende principali (Magnaghi, Ercole Marelli, Marelli Magneti, Olap, Pirelli e così via), anche gli stabilimenti più piccoli dichiarano lo sciopero. L’agitazione di carattere politico, antifascista e antinazista, è anticipata da un piano rivendicativo chiaro e forte: aumenti retributivi pari al 100%, aumento indennità giornaliera, premio di 500 lire al capofamiglia e 350 agli altri, miglioramento delle mense e degli spacci, liberazione dei detenuti politici, pagamento del 75% per i lavoratori sospesi. <278 Soprattutto, vero elemento di novità, gli operai rifiutano di incontrarsi con i tedeschi e la prefettura, ma vogliono trattare direttamente e solo con gli industriali:
"Porre rivendicazioni relative al rapporto di lavoro e, in generale, alla vita in fabbrica implicava la necessità di individuare un interlocutore. Su questo terreno erano i fatti stessi a far riemergere il problema della coincidenza, o della dissociazione, delle tre figure del padrone, del fascista, del tedesco. Il secondo e il terzo erano dei nemici espliciti […] La figura del padrone era invece una figura ambigua". <279
L’azione di massa era stata accompagnata in questi due mesi, novembre e dicembre, dall’incalzare dell’iniziativa armata delle bande partigiane (non ancora un esercito) e dei GAP di città (lo vedremo fra poco); in particolare, il giorno stesso in cui si conclude lo "sciopero dei sette giorni", il 18 dicembre, avviene l’attentato al commissario federale fascista Aldo Resega. È un atto importante che, unito al successo dello sciopero, aumenta sicuramente il morale operaio e dei partigiani. Al tempo stesso però emerge un carattere centrale della Resistenza milanese urbana: "Svincolare la classe operaia da un terreno di lotta i cui limiti siano marcati, da un lato, dallo scontro economico rivendicativo
in fabbrica e, dall’altro, da un impegno clandestino che rischia di essere mortificato in una attività esclusivamente assistenziale verso il nascente partigianato di montagna. La lezione dei fatti è, insomma, che il potenziamento della lotta in difesa degli interessi di vita e di lavoro delle masse, e il suo crescente e sempre più saldo collegamento con la guerra di liberazione nazionale, devono avvenire attraverso la partecipazione diretta e la conduzione in prima persona della lotta armata in città da parte della classe operaia". <280
E tuttavia la critica e l’autocritica della Federazione comunista milanese riguardo la necessità di costituire gruppi armati di difesa e nuclei partigiani in fabbrica non supererà i limiti della teoria.
Questa è anche la principale problematica emersa nel grande sciopero generale del marzo 1944.
[NOTE]
277 L. Borgomaneri, op. cit., p. 18
278 Vedi L. Ganapini, op. cit., pp. 74-75
279 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 339
280 L. Borgomaneri, op. cit., p. 19
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017

Prima pagina de "l'Unità" clandestina del 20 marzo 1944 - Fonte: Fondazione Gramsci

[...] Nella sola città di Torino, il numero degli scioperanti raggiunse le 70mila unità, mentre a Milano, la città dove le agitazioni ottennero maggiori adesioni, tale soglia fu ampiamente superata; se il Piemonte e la Lombardia furono le regioni più mobilitate, rilevante fu la partecipazione anche in Emilia e in Toscana, mentre a Genova, dopo le grandi lotte del dicembre 1943, seguite dalla durissima repressione del Prefetto Basile, la nuova tornata di agitazioni operaie non riuscì.
Ancora una volta, come era successo già in passato, furono gli operai dell’industria, in particolare delle fabbriche metalmeccaniche, a guidare la mobilitazione. Ma da un’analisi dei dati disaggregata per settore, ci si rende subito conto dell’apporto notevole fornito da altre importanti categorie dei servizi; basti pensare ai tranvieri di Milano e, nello stesso capoluogo lombardo, ai tipografi del Corriere della Sera che impedirono l’uscita del giornale per ben tre giorni. Senza dimenticare infine, in quegli stessi mesi, il consistente contributo di lotte dato nelle campagne dai lavoratori della terra; mentre in molte zone della Val Padana si effettuavano azioni di boicottaggio contro la produzione del grano necessario alle truppe di occupazione, lo sciopero delle mondine del maggio 1944, prolungatosi per circa un mese, testimoniò in modo chiaro la partecipazione trasversale di larghi settori del mondo del lavoro alla lotta di Resistenza.
Questa breve descrizione degli scioperi del marzo 1944 evidenzia un tratto peculiare dell’antifascismo italiano che, a differenza di altri movimenti di liberazione sviluppatisi nel resto d’Europa, oltre all’elemento politico e partitico, presentò un carattere sociale ben visibile. Se, infatti, il Comitato segreto di agitazione del Piemonte, della Lombardia e della Liguria e lo stesso CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) ebbero un ruolo importante nella preparazione politica dello sciopero, a livello pratico e organizzativo la spinta della base fu decisiva. I Comitati clandestini, nati in molte fabbriche del nord (dalla Breda all’Alfa Romeo, dalla Falck alla Pirelli), guidarono la lotta, esponendosi in prima persona alle rappresaglie del nemico; un dato, infatti, assolutamente centrale negli scioperi del 1944 fu l’alto numero di deportati che si registrò tra le file operaie, soprattutto tra coloro più esposti sindacalmente e politicamente per avere diretto lo sciopero (membri di Commissioni Interne, capilega, attivisti e militanti).
Se mancò da parte di Mussolini la “punizione esemplare” degli agitatori, è anche vero che la deportazione dei lavoratori italiani in Germania dopo gli scioperi del marzo 1944 rappresenta una delle pagine più nere e drammatiche della nostra Resistenza; centinaia e centinaia, infatti, furono i lavoratori che trovarono una morte atroce nei campi di lavoro e di concentramento nazisti.
Accanto al carattere di massa delle agitazioni e al dramma della deportazione operaia, il terzo dato che emerge dall’analisi di quegli avvenimenti è il valore politico della mobilitazione; da questo punto di vista, il confronto con gli scioperi del marzo-aprile 1943 può risultare di grande aiuto. Le lotte dell’anno precedente avevano avuto una motivazione “economica” piuttosto evidente, legata ai crescenti disagi in tema di pane, prezzi, trasporti, mercato clandestino; la dimensione politica di quella lotta stava soprattutto negli effetti prodotti perché, dopo quasi venti anni di negazione autoritaria del diritto di sciopero, gli scioperi del 1943 rappresentarono la spia più evidente del fallimento del corporativismo e dell’imminente crollo del regime [...]
Guglielmo Epifani, Quegli scioperi del marzo di tanti anni fa, Patria Indipendente,  n° 3 - 28 marzo 2004

Preceduto dalla crisi dei GAP a seguito della disastrosa scelta di compiere un attentato alla Casa del Fascio di Sesto San Giovanni (da dove proveniva la quasi totalità dei primi gappisti), che aveva portato all’arresto e alla morte di tutti i suoi membri; preparato e organizzato secondo linee confuse, tra lo sciopero politico-rivendicativo e quello insurrezionale, creando quindi un’aspettativa non chiara nella classe operaia: tutto ciò, al netto dell’indubbio successo politico e del primato storico europeo rappresentato dalla classe operaia milanese durante la Seconda guerra mondiale, porterà a un netto ripiegamento soprattutto a causa dell’assenza di strutture di autodifesa al momento della durissima repressione nazifascista.
Vediamo ancora una volta la descrizione dataci da Borgomaneri: "Mercoledì 1° marzo 1944. Alle 10 in punto del mattino, seguendo le direttive impartite dal Comitato segreto d’agitazione del Piemonte, Lombardia e Liguria, gli operai incrociano le braccia in quasi tutte le fabbriche milanesi. Nelle prime ore del pomeriggio la partecipazione allo sciopero è totale e coinvolge anche settori impiegatizi di numerose fabbriche, della posta e della Stazione Centrale. L’astensione dal lavoro dei tipografi del Corriere della Sera, che per tre giorni impediranno l’uscita dell’edizione pomeridiana, e la compatta adesione dei tranvieri, contribuiscono a diffondere in tutta la cittadinanza l’immagine di quella che passerà alla storia come la più grande e riuscita mobilitazione di massa mai avvenuta nell’Europa occupata".
Tuttavia, già dal secondo giorno, la tendenza è a starsene a casa per evitare l’imprigionamento e la deportazione, o peggio; diffusa, secondo i rapporti dei comitati comunisti <281, la sensazione di debolezza per la mancanza di armi; forte, soprattutto negli ultimi giorni e in quelli successivi, il rammarico e la delusione perché nessun supporto partigiano è arrivato. Quando il giorno 8 gli operai rientrano in fabbrica, l’agitazione cessa senza seguire le direttive degli organizzatori. Lo sciopero del marzo 1944 rappresenta sicuramente uno spartiacque e chiude la prima fase conflittuale apertasi un anno prima, dove si è provato a costruire una politica del conflitto capace di transitare la conflittualità sociale, il malcontento popolare dalla sopravvivenza all’antifascismo militante. Soprattutto, si è dimostrata l’incapacità della lotta armata, per come era stata concepita dal settembre, di connettersi con la lotta di massa, portando quindi a una sua profonda ristrutturazione.
Vediamo alcuni elementi importanti per gli sviluppi successivi, compreso il dopoguerra, che emergono proprio in questa occasione:
- le rivendicazioni dello sciopero sono collegate ancora una volta alla quotidianità di strada e di quartiere: "il raddoppio dei generi alimentari di base, la distribuzione di vestiario e combustibile, le case per i sinistrati e i mezzi di trasporto adeguati e a prezzi ribassati, ma soprattutto la liberazione dei lavoratori arrestati per aver difeso gli interessi della classe lavoratrice e, ancor di più, il ritorno della normalità nella vita civile, con la cessazione del coprifuoco e il ritiro dei tedeschi dalle officine" <282.
- La partecipazione estesa dello strato più basso dei lavoratori: donne, manovali, giovani: secondo una relazione interna del Pci di fine gennaio ’44, "più che ai miglioramenti concessi con decreto la differenza è dovuta al fatto dell’enorme sbalzo delle percentuali del cottimo che dal 30-50 per cento sono passate all’80-100 per cento, miglioramento […] ottenuto dagli operai e tacitamente concesso dalla direzione. Poiché i beneficiari sono i cottimisti a paga
alta, le donne ed i ragazzi, i manovali, prelevatori, capisquadra, impiegati facenti parte delle altre categorie sono continuamento in fermento […] Nulla è stato fatto per le donne, manovali, ragazzi, controlli" <283. Proprio lo sciopero di marzo fa emergere alla lotta queste categorie, la cui importanza supererà poi il solo luogo di lavoro.
- Infine, lo stretto legame che si instaura tra rivendicazione economica, mobilitazione politica, insurrezionalismo, autodifesa e autonomia di classe attorno alla questione dello sciopero.
In particolare su quest’ultimo punto, è interessante vedere le considerazioni svolte dal dirigente azionista Leo Valiani, "Nulla hanno chiesto gli operai perché non intendono chiedere nulla ai loro nemici, perché non vogliono trattare con i loro avversari. Non rivendicazioni parziali e particolari che potessero essere oggetto di trattative […]. È il problema stesso della rivoluzione italiana che essi hanno posto".
E della base operaia, dove meno chiaro è il quadro delineatosi: "Per chi abbiamo lottato? Per gli inglesi, per i capitalisti? Non ottenendo soddisfazione alle rivendicazioni economiche, non abbiamo noi perduto lo sciopero?" <284
[NOTE]
281 In particolare, cfr. Rapporto conclusivo sugli insegnamenti dello sciopero generale di Milano e provincia dell’1-8 marzo 1944; Considerazioni ed esperienze da trarre dal grande sciopero generale del 1-8 marzo 1944, entrambi in L.
Borgomaneri, op. cit., pp. 110-12
282 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 339
283 Cfr. L. Ganapini, op. cit., pp. 84-85
284 Entrambe le citazioni in C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 344
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017

« [...] L’inserimento in fabbrica e nei rioni non era piú possibile perché eravamo troppo conosciuti. Rigoldi raggiunse l’86ª Brigata Valtaleggio di Bergamo e poi, come commissario politico, la Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, nel Comasco. Io raggiunsi la Bassa Lodigiana, dove mi resi utile per il Partito». Dopo Armando Brivio, parla ancora Francesco Tadini: «Il grosso problema era per noi quello di come comunicare con i compagni di lavoro, con gli antifascisti, quelli che avrebbero solidarizzato in un’azione di lotta. Il fiduciario del regime obbligava l’intero reparto, fino ad investire tutta la Pirelli. Pagammo caro lo sciopero: il 22 di marzo ci furono 43 arresti: oltre a me furono arrestati Libero Temolo, Pietro Benzi, Ferruccio Bega, Marelli, Mandrini, Mariani, Meloni, Granelli, Costelli Vacchetti, Giuseppe Introini, Vittorio Peraboni, Luigia e Giuseppina Zanaboni, tutti della 107ª Brigata Garibaldi».
Tadini raccontò altri particolari di quei giorni di sciopero: alla fabbrica Aquila di Niguarda scioperarono 154 operai, alla Pasquino 250, alla Allocchio Bacchini 530, alla Vago 170, all’Isotta Fraschini 960. Alla Pirelli, il primo e secondo giorno, gli operai rimasero sul posto di lavoro protestando per il forzato arruolamento dei giovani; alla De Micheli sono i partigiani ad aprire i cancelli e invitare gli operai allo sciopero; il generale Zimmermann, al terzo giorno, temeva una calata dei partigiani e fece rafforzare i controlli sulle strade di accesso a Milano. Sperava che la fame costringesse alla resa gli operai e fece sapere che considerava lo sciopero come una settimana di ferie. Durante il quarto e il quinto giorno di sciopero si moltiplicano le proteste delle donne in fila davanti agli spacci. Il 4 marzo i fascisti si mettono alla guida dei tram per tentare di fiaccare il morale dei tranvieri. Lo sciopero termina con la diffusione di migliaia di manifestini, anche nei quartieri con l’invito a continuare la lotta: «La cessazione dello sciopero deve segnare l’inizio di una guerriglia partigiana con l’intervento di tutte le masse lavoratrici dentro e fuori la fabbrica. Oggi l’unica soluzione è: rispondere alla violenza con la violenza. Il sabotaggio nelle fabbriche deve essere azione quotidiana e crescente che i lavoratori dovranno sviluppare, a iniziare da subito, da mercoledí». Ma questa risoluzione del CLNAI non arrivò a tutti i reparti e ci fu disorientamento. Un ostacolo alla sua diffusione fu il presidio dei militi ai cancelli.
Nei giorni dello sciopero zelanti consiglieri di Zimmermann furono Guido Donegani e Piero Pasini. Ironia della storia, a Donegani, ras della Montecatini, la giunta centrista del Comune di Milano intitolò a suo onore “Largo Guido Donegani”, rimuovendo la statua del patriota Agostino Bertani.
Lo sciopero generale dall’1 all’8 marzo 1944 fu la piú possente manifestazione di massa organizzata in un paese occupato dai nazifascisti. Le fabbriche sestesi ebbero nella lotta un ruolo fondamentale di propulsione. A. Scalpelli, in "Scioperi e guerriglia in Val Padana" non nasconde le difficoltà incontrate durante gli scioperi. Tra gli operai e i gappisti si manifestarono due linee: una che voleva la continuazione ad oltranza della lotta, l’altra che sosteneva la ripresa del lavoro perché ormai non c’era piú nulla da sperare. Altri non accettarono sentire ripetere «la prossima volta andrà meglio». Questi stati d’animo influirono su molti compagni che, disorientati e sfiduciati per il mancato intervento dei GAP, in alcuni casi assunsero posizioni opportuniste e settarie. Per una lotta ad oltranza premeva l’ordine del giorno, inviato in data 8 luglio 1944 al CLNAI dal CNL di Sesto S. Giovanni e Bicocca: «Il CLN di Sesto e Bicocca si impegna a sviluppare al massimo tutte quelle attività politiche e militari atte a potenziare la lotta per la liberazione del nostro paese, dando pratica realizzazione alle attività che tendono alla mobilitazione politica e insurrezionale delle masse popolari; indica a tutte le forze operose di Sesto e Bicocca all’interno e all’esterno degli apparati produttivi di mettere subito in atto e di far proprio tutti i mezzi di lotta capaci di impedire le bestiali misure dei tedeschi e degli sgherri fascisti e di rendere piú rapida la liberazione dell’Italia. Saluta le gloriose brigate Garibaldi, tutte le organizzazioni antifasciste, l’eroico esercito rosso e tutti gli eserciti che combattono per la liberazione dei popoli».
Anito Bergamaschi ricordò gli scioperi del 1944 sul numero di marzo del mensile "L’Eco di Niguarda", del 1970. «… I tranvieri furono i primi ad abbandonare le loro vetture, fascisti assunsero il compito di crumiri e nel giro di poche ore, per la loro inesperienza, fracassarono 166 vetture. Scioperarono pure i dipendenti del Corriere della Sera e per tre giorni di seguito, il giornale piú autorevole della borghesia, tacque. Accanto ai lavoratori furono anche gli studenti che con la forza cacciarono i professori fascisti dalle università. Le squadre armate partigiane appoggiarono i lavoratori in lotta e anche a Niguarda, dove lo sciopero riuscí in tutte le fabbriche. Sulla linea Milano-Carate i fascisti riuscirono a far funzionare due convogli, ma la pronta azione dei partigiani niguardesi, con un atto di sabotaggio ai binari allo scambio di Via Biglia-Ornato, paralizzò ogni tentativo di crumiraggio».
Antonio Masi, Dall’Internazionale a Fischia il vento a Niguarda. L’insurrezione popolare del 24 aprile e l’impegno per la Costituzione (Collaborazione e ricerche di Michele Michelino - Introduzione di Roberto Cenati), Collana Il Cormorano 37, Edizioni Eva, Venafro (IS), 2011

Mentre era in corso l'offensiva tedesco-fascista contro le formazioni partigiane, il Comitato di agitazione del Piemonte, Lombardia e Liguria aveva proclamato lo sciopero generale in tutta l'Italia occupata.
Ciò infliggeva al nemico uno dei più duri colpi, lo obbligava a spostare le sue forze verso i grandi centri industriali, alleggeriva la pressione sulle unità partigiane e soprattutto avrebbe ridato possente slancio ai lavoratori delle città e delle campagne e alle formazioni provate dai combattimenti.
Lo sciopero generale preparato durante alcuni mesi di lavoro, riuscì in modo grandioso e superiore ad ogni aspettativa, fu certamente il più vasto movimento di massa che abbia avuto luogo in Europa durante la guerra, nei territori occupati dai tedeschi (1).
I grandi centri industriali di Milano e Torino furono per otto giorni completamente paralizzati. A Milano durante tre giorni scioperarono compatti anche i tranvieri, i postelegrafonici e gli operai del «Corriere della Sera».
Lo sciopero si estese dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto, alla Liguria, all'Emilia ed alla Toscana. Due milioni di operai parteciparono al movimento appoggiato da forti manifestazioni di contadini e di donne della campagna, specialmente nell'Emilia.
Tutte le misure preventive e repressive della polizia fascista e delle SS non riuscirono ad impedire, né a limitare lo sciopero, malgrado che il nemico ne conoscesse la data e gli obiettivi. Con lo sciopero generale i lavoratori chiedevano l'indispensabile per vivere, chiedevano di non lavorare per la guerra, di poter essere liberi nelle loro case, di non essere fermati, arrestati, deportati, torturati dai nazifascisti, chiedevano che i loro figli non fossero arruolati dallo straniero.
Ancora una volta i grandi industriali si dimostrarono in generale solidali con gli occupanti tedeschi; salvo casi singoli si rifiutarono di trattare e di ricevere le delegazioni operaie, arrivarono persino a passare ai tedeschi le liste degli operai scioperanti compiendo a fondo l'opera di aperto tradimento della nazione in guerra.
Anche se nessuna delle rivendicazioni economiche che erano alla base dello sciopero rivendicativo-politico venne ottenuta, anche se gli operai dovettero riprendere il lavoro con le paghe di prima, lo sciopero segnò un grande successo per i lavoratori ed una dura sconfitta per i fascisti.
La macchina di guerra nazista ricevette un serio colpo, per una settimana la produzione bellica in tutta l'Italia del nord venne arrestata.
Gli scioperi del marzo del 1943 avevano segnato l'approssimarsi della fine del fascismo, lo sciopero generale del 1-8 marzo 1944 significò un grande balzo in avanti verso l'insurrezione generale, una battaglia vinta contro le forze fasciste-hitleriane (2).
Durante lo sciopero generale si ebbe una magnifica prova di unità e di solidarietà di tutte le forze patriottiche raggruppate attorno ai Comitati di liberazione nazionale ed in modo particolare da parte delle classi lavoratrici. Tale unità non fu certo realizzata senza contrasti, tant'è vero che lo sciopero generale già fissato per la metà di febbraio dovette esser rinviato. In seno al CLNAI sostennero la decisa volontà dei Comitati di Agitazione e dei comunisti specialmente il Partito d'azione e il PSI. Ma non furono poche le resistenze che si dovettero superare [...]
[NOTE]
1) Cfr. Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, «Nuova Italia », p. 154: «I comunisti sono ottimisti al punto da ritenere possibile l'organizzazione di un grande sciopero generale in tutte tre le regioni industriali: Piemonte, Lombardia, Liguria. Ne avrò altri dettagli a Milano dove devono trovarsi Longo e Secchia al centro di tutto il movimento proletario».
2) Cfr. Joseph John Marus (Candidus), Radio Londra, 20 marzo 1944: «Gli scioperi avvenuti nell'Italia Settentrionale dal primo all'otto Marzo, organizzati, condotti, conclusi con una precisione, una disciplina e un coraggio finora mai visti in tutta l'Europa occupata, hanno avuto nella stampa internazionale il riconoscimento che meritano. Ora che sono giunti dall'Italia più precisi particolari sulla natura, l'andamento e la portata del moto, i giornali non esitano a definirlo come il più coraggioso sciopero che si ricordi, data l'eccezionalità delle condizioni e le difficoltà e i pericoli in mezzo ai quali si è svolto».
Pietro Secchia, Cino Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, Einaudi, 1958


"L’intreccio di situazioni e di volontà fin qui delineato si manifesta in modo evidente negli scioperi, che la Resistenza italiana conobbe estesi, ripetuti e incisivi. Sotto un regime di occupazione e sotto un regime interno che aveva nella sua storia e nella sua ispirazione più profonda il divieto di sciopero […], gli scioperi esaltano proprio il carattere di affermazione di identità collettiva, di strumento di liberazione, di scoperta (o riscoperta) dell’azione diretta: elementi tutti che, nel loro valore morale, non sono in contraddizione, come già si è accennato, con la natura di strumento per la soddisfazione di bisogni immediati che anche in quelle condizioni lo sciopero poteva assumere". <291
Non risulta facile e lineare il tentativo di dedurre, dalla complessa ricostruzione storica degli episodi conflittuali sopra descritti, quei caratteri di cultura popolare e cultura politica del conflitto che rappresentano l’oggetto della nostra ricerca. La riflessione di Claudio Pavone a proposito del significato dello sciopero resistenziale (ma potremmo estenderlo anche alle mobilitazioni preresistenziali che dal dicembre ’42 scuotono i centri industriali del nord), però, ci risulta particolarmente esaustiva. Non dimentichiamo che Milano era stata il cuore del movimento sindacale operaio tra fine Ottocento e inizio Novecento, fino al fascismo; culla storica dell’operaismo e del classismo di più stretta osservanza; nei mesi che precedono la caduta di Mussolini e nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre diventa il centro dell’organizzazione insurrezionale e, pur nella difficoltà oggettiva, del dibattito politico che investe l’antifascismo e le sinistre in particolare sul significato della guerra di Liberazione.
Da questo punto di vista, è inevitabile che, al di là delle direttive di Togliatti, la base operaia vecchia e nuova interpreti in modo autonomo lo strumento dello sciopero. Ce lo rivelano alcuni caratteri <292 di fondo delle rivendicazioni portate avanti nelle diverse fasi conflittuali del ’43-’45:
- è sempre presente una forte e radicale spinta egualitaria: quando si richiede, ad esempio, il salario minimo; parità di trattamento salariale tra ceto operaio alto e categorie non qualificate, come appunto donne, manovali e giovani; estensione di misure di previdenza sociale, a carico dell’industriale, a tutti coloro cui è impedito per i più svariati motivi di lavorare; istituzione delle mense in tutte le officine, anche quelle più piccole e periferiche;
- anche a causa della scarsa alfabetizzazione politica della nuova classe operaia, si percepisce però l’azione di sciopero come immediatamente politica: si determina in questo modo un collegamento diretto tra sciopero economico, sciopero politico e sciopero insurrezionale;
- è presente un forte antagonismo nei confronti non solo di tedeschi e fascisti, ma anche e soprattutto del padrone, che viene visto come doppiogiochista e collaborazionista in sé: per questo, all’indomani del 25 aprile, molti operai richiedono espressamente di completare la liberazione mantenendo gli organismi rappresentativi e dell’autogoverno, liberandosi anche dei padroni. Come giustamente ha notato Pavone, però, gli industriali svolgevano un ruolo che rendeva obbligata l’ambiguità: ciò non significa che la presunta neutralità padronale fosse reale a prescindere, ma che il rigorismo operaio e socialcomunista tendeva a interpretare come coerente con la figura del nemico di classe, propria dell’industriale, quella del collaborazionista;
- a proposito della questione degli organismi di rappresentanza e agitazione, emerge un altro aspetto che abbiamo già descritto a inizio capitolo: l’interpretazione operaia (e operaista) di CLN aziendali e di quartiere, consigli di gestione e comitati d’agitazione come embrioni del futuro autogoverno popolare; c’è un’aspirazione radicale della democrazia che è propria della storia del socialismo in Italia, che esploderà con particolare forza dopo la Liberazione;
- collegato a quest’ultimo aspetto e intrecciato anche con la profonda identità di classe che i lavoratori e gli abitanti dei quartieri popolari attribuiscono alla loro azione è la difesa degli impianti e della fabbrica;
- infine non bisogna mai dimenticare il legame tra l’azione in fabbrica e le condizioni dei ceti subalterni fuori, nella città bombardata e posta sotto occupazione militare: le questioni della casa, dell’alimentazione e dei trasporti risultano quindi presentate in chiave politica e fanno parte della politica del conflitto portata avanti dai lavoratori; non solo: il ruolo sociale delle SAP ne è un’ulteriore riprova.
Il quadro culturale, al nord e in particolare a Milano, è quello della tradizione operaista e classista che si esprime ora in forme differenti.
"Esisteva una vasta area operaia che contaminava le parole d’ordine del partito, talvolta celandone le contraddizioni, talaltra portandole invece alla luce. Dell’aspettativa che la caduta del fascismo travolgesse con sé anche il capitalismo non esisteva soltanto una versione dotta, catastrofista e terzinternazionalista, della quale si trovano formulazioni esplicite anche nello PSIUP e tracce evidenti nel Partito d’azione […]. Esisteva anche una versione vissuta attraverso l’immediata identificazione del fascista con il padrone e l’aspettativa di un mondo nuovo, del socialismo o del comunismo […]. In pari tempo, le cautele tattiche del Partito comunista potevano incrociarsi con le richieste operaie di immediati e <<riformistici>> miglioramenti". <293
Questa visione diede origine, durante gli scioperi o altre proteste, a numerosi comportamenti da parte degli operai che i partiti di sinistra tentavano di censurare e sanzionare, senza tuttavia riuscirci: come nei numerosi casi di allontanamento dei tecnici e di altri quadri industriali intermedi <294.
È la percezione e il senso della differenza sociale, del sé distinto, a livello di identità vissute come antagoniste, che scatena queste espressioni di rigida morale operaia.
Percezione che, a Milano e non solo, trova la sua cornice culturale di riferimento nell’icona popolare e politica del Barbisùn (che non a caso è anche il nome di battaglia di uno dei fondatori del primo nucleo GAP a Milano, Carlo Camisasca, operaio sestese). L’attesa del Baffone (come è definito affettuosamente Stalin) non è rappresentativa solo di un atteggiamento attendista nella classe operaia e a livello di dottrina politica nei gruppi estremisti, ma è comune anche a quella frangia dell’antifascismo che si pone attivamente alla testa del movimento di liberazione. Come giustamente ha notato Pavone, il mito dell’URSS e del suo leader servono a riempire il vuoto che caratterizza le indicazioni sul futuro, sul dopoguerra, quando il nazifascismo sarà stato sconfitto.
"L’arrivo a Trieste e nel Veneto orientale delle armate di Stalin e di Tito è la speranza che viene espressa dal Comando SAP di Milano. In altri documenti viene manifestato in forma talvolta poco circostanziata, ma sempre sicura, il desiderio di vedere giungere l’Armata Rossa". <295
A livello ufficiale, il Partito comunista tacciava con un termine dall’odore di anatema tutti coloro che si ponevano alla sua sinistra: <<sinistrismo>>, variabile di <<estremismo>> e, ancora più antico, <<trotzkismo>>. Famoso resta l’infelice articolo di Pietro Secchia dal titolo "Sinistrismo maschera della Gestapo" <296, con il quale alcuni storici hanno ipotizzato si era giustificata dalle pagine de l’Unità la condanna a morte di alcuni leader partigiani di gruppi trotzkisti o antisovietici, ma non solo: il dubbio di una simile condanna pesa anche sulla figura di Lelio Basso, socialista rivoluzionario, tra i più agguerriti oppositori alla politica di unità ciellenista a tutti i costi <297. Scritto peraltro da un esponente di primo piano del PCI sospettato più avanti egli stesso di estremismo interno, esso sembra rivolto anche a un certo sinistrismo proprio di quadri e militanti del partito; in questo caso il termine
utilizzato è <<settarismo>>, per indicare un senso di appartenenza tale al partito e alla classe operaia da incrinare la linea stessa del partito. Infatti "L’estremismo entrava più nel merito e proponeva contenuti diversi e tempi veloci facendo coincidere la grandiosità dell’obiettivo con l’immediata possibilità di realizzarlo. Non si trattava tanto di malattia infantile, quanto di intensità della richiesta. Nella realtà avveniva un complicato gioco di relazioni fra settarismo ed estremismo, che dava vita a forme varie di <<sinistrismo>>". <298
Significativo, da questo punto di vista, il gruppo milanese riunito attorno ai fratelli Venegoni e al giornale "Il Lavoratore": "La sola formazione esterna al Pci presente con solidi legami di massa è quella che si esprime attraverso <<Il Lavoratore>>: è un gruppo locale, ed opera nel circondario di Legnano dove il suo ascendente è molto forte. Dal giornale emergono molto forti le riserve sullo stalinismo del Pci, e dai rapporti conservati nell’archivio del Pci si desume anche che un’aspra polemica lo contrapponeva al partito perché quest’ultimo sarebbe stato presente troppo debolmente negli scioperi di marzo [1943, nda]. <299
Anche se, nel giudizio espresso da Luigi Longo a Roma, il gruppo è orientato in senso estremista, ma non antipartito. <300
E ancora più importante risulta il gruppo bassiano del Movimento di unità proletaria fondato il 10 gennaio 1943 e che per lungo tempo, dopo il rientro di Basso nel PSI (nel settembre ’43), rappresentò l’unica formazione antiattendista in campo socialista <301. La figura di Basso è piuttosto particolare: esponente di un socialismo operaista dichiaratamente rivoluzionario, favorevole all’unità di intenti con il PCI e al tempo stesso critico da sinistra sulle posizioni di compromesso che la dirigenza comunista assume dopo la svolta di Salerno. Egli è sicuramente una delle figure più importanti della cultura classista rivoluzionaria milanese: "Il Movimento di unità proletaria (MUP) di Lelio Basso si era costituito il 10 gennaio 1943 con un documento programmatico nel quale dalla tesi del fascismo come ultima espressione del capitalismo e quindi della coincidenza della fase rivoluzionaria con il crollo militare si faceva derivare l’obiettivo della <<repubblica socialista dei lavoratori>> dove il potere fosse distribuito e gestito dagli organi di autogoverno da essi costituiti". <302
In particolare l’ala sinistra del PSIUP cercherà sia durante la guerra che dopo di porsi alla testa di tutti i movimenti e le tendenze dissenzienti dal PCI.
Incrociando gli elementi esposti nelle pagine precedenti, possiamo dunque riassumere la forte tendenza della classe operaia settentrionale e milanese a un antagonismo spontaneo, integrale e di lungo corso. Questa è un’acquisizione molto importante, utile soprattutto a spiegare più avanti le lunghe resistenze delle classi subalterne e del movimento comunista meneghino alla normalizzazione e alla pacificazione imposta a livello centrale, e che avranno nella figura di Pietro Secchia e nell’espressione di uno stalinismo classista popolare, di base, la loro massima espressione.
[NOTE]
291 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 341
292 Cfr. C. Pavone, Alle origini della repubblica, op. cit., pp. 20-46
293 Ibidem, p. 351
294 Cfr. C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., pp.354-56; L. Ganapini, op. cit., pp. 82-83
295 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 404
296 Ricordiamo, per correttezza, nonostante la palese asimmetria organizzativa, che anche nel fronte estremista ci sono state prese di posizione radicalmente antagoniste, come quella comparsa il 1° marzo 1945 nell’articolo Sulla guerra sul giornale bordighista Prometeo in cui si affermava che <<alle tre maschere del nemico di classe (democrazia, fascismo, sovietismo), il proletariato risponde trasformando la guerra in rivoluzione>>.
297 Cfr. G. Monina, Il Movimento di Unità Proletaria (1943-1945), Carocci Editore 2005
298 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 367
299 L. Ganapini, op. cit., p. 67
300 Lettera del 6 dicembre 1943, in C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., pp. 370-71
301 Se consideriamo che le Brigate Matteotti, legate appunto al PSI, furono fondate solo dopo la metà del 1944.
302 M. Degl’Innocenti, Storia del PSI, V. 3. Dal dopoguerra a oggi, pp. 6-7, Editori Laterza 1993
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017