La catena del valore nell’industria televisiva è basata principalmente sulla creazione e distribuzione di contenuti: entrambe le funzioni assommano i due terzi dei ricavi del settore (BCG 2016). L’integrazione verticale, come abbiamo visto, costituisce un aspetto fondamentale del sistema televisivo, tuttavia, prima degli effetti del Telecommunication Act del 1996 sulla conglomerazione, le Fin Syn Rules hanno determinato un’alterazione che ha mutato le relazioni tra studi produttivi e network nella divisione del lavoro e nei modelli di finanziamento. L’iter precedente il regolamento prevedeva che il broadcaster producesse da sé o attraverso uno sponsor il programma. Tuttavia, la natura particolarmente rischiosa associata alla produzione televisiva e, più in generale, ai prodotti creativi, spinge i network ad adottare forme di finanziamento più prudenziali: il deficit financing. Questa modalità produttiva comporta che lo studio che crea il programma si faccia carico di circa i due terzi dei costi di produzione, mentre il network, unico compratore, esercita il proprio potere di monopsonio pagando una license fee per i diritti di trasmissione del prodotto. Lo studio deve quindi assorbire la differenza tra costi e licenza ottenuta e realizza profitti solo se il prodotto gode di diritti di trasmissione nei mercati secondari (syndication), oppure nel caso in cui esso abbia successo, e sia dunque possibile rinegoziare le licence fees con il network che mette in onda il programma. La possibilità di trasmettere in syndication è legata alla quantità di episodi commissionati da un network allo studio. Tale soglia è fissata a cento episodi, numero che consente la ritrasmissione durante il calendario televisivo. La condizione degli Studios è resa ancora più svantaggiosa da un’altra pratica messa in atto dai network, la profit participation, ovvero la richiesta forzata di ottenere delle quote sulle vendite secondarie con soglie fino al 91% (Lotz 2007). Come abbiamo detto, lo scenario cambia parzialmente con l’introduzione delle Fin Syn Rules, ma anche grazie all’allargamento del contesto competitivo e alla crescita nella domanda di programmi, dovuta all’affermazione dei canali via cavo e alla nascita di reti broadcast alternative alle Big Three. La pratica del deficit financing rimane predominante fino ai giorni nostri, come avremo modo di approfondire nel capitolo 5, tuttavia la multichannel transition mitiga la relazione tra network e Studios, riallineando in parte il potere contrattuale tra produttori e distributori e la negoziazione di nuove modalità nella creazione di contenuti (Lotz 2007). Sono due le forme principali che caratterizzano il periodo: l’emergere di produttori indipendenti, che grazie alle Fin Syn Rules riescono a trovare spazio all’interno dei palinsesti; e la conglomerazione tra Media Company come Disney, Viacom, News Corp e Time Warner e studi di produzione, operazione che raggiunge l’apice con la sospensione della regolamentazione negli anni ’90 e che ripopola i palinsesti con programmi prodotti dagli studi di proprietà.
La ragione di questa pratica, nota come common ownership, è da ricondurre alla possibilità degli studi indipendenti di fare profitti con prodotti di successo grazie alla rinegoziazione delle licenze. Ne sono esempio ER e Friends, serie televisive andate in onda sulla rete broadcast NBC, che dagli anni ’90 ai 2000 raggiungono costi di trasmissione di 12 milioni di dollari a episodio e che, non essendo di proprietà del network, possono quindi essere vendute a una rete concorrente in grado di sostenere il prezzo. Quest’ultima eventualità si è verificata anche nel caso di Buffy the Vampire Slayer, passato da The WB a UPN. Il common ownership, strategia di integrazione verticale, è dunque utile a limitare il rischio: se il programma prodotto dallo studio ha successo, il network beneficia dei profitti sia nel caso in cui sia proprietario dello stesso, sia nel caso in cui sia comproprietario, perché riesce a distribuirlo sulla propria rete a un costo inferiore. In ogni caso, la proprietà di quote sul prodotto consente di ottenere vantaggi anche sui diritti di ritrasmissione. La varietà narrativa e stilistica apportata nel mercato da contenuti qualitativamente superiori, quali le serie televisive prodotte durante la seconda Goden Age, rendono il modello della common ownership il più utilizzato in ambito produttivo, specialmente a seguito dell’incremento dei budget per la produzione di serialità. Ciò inficia la competizione nel mercato delle produzioni indipendenti, che non riescono a garantirsi una distribuzione nelle fasce più redditizie del palinsesto, dal momento che non possono permettersi di sostenere tali costi. Tuttavia, proprio in questo contesto emergono modelli non convenzionali, che nel passaggio alla post-network era raggiungono una piena affermazione. È la competizione sul fronte dei contenuti apportata dai canali cable a garantirne lo sviluppo. Tra gli anni ’80 e ’90, dopo anni in cui la loro programmazione si reggeva sulla ritrasmissione di contenuti seriali di proprietà dei broadcaster, queste reti entrano nel mercato della produzione di contenuti originali. Inizialmente si tratta di una programmazione analoga a quella dei concorrenti, ma nel 1988, quando ormai il cavo aveva una penetrazione del 50% nelle case americane e la necessità di accrescere il proprio bacino di pubblico, i programmi della cable television raggiungono una piena legittimazione istituzionale, con la candidatura agli Emmy Awards e la vittoria, quell’anno, di tre statuette nella competizione del primetime. Al volgere del millennio, ormai, più di sessanta canali basic e dieci delle reti premium gareggiano regolarmente nella competizione (Parsons 2008).
È appunto questa programmazione originale a introdurre una varietà nelle norme produttive e nella dimensione formale della serialità. La sperimentazione apportata dai cable network è un antidoto ai limiti di budget e alla necessità di contenere i costi. L’effetto sulla produzione si concretizza in uno spostamento dei set presso location meno costose, nell’utilizzo di strumentazioni più snelle, come la macchina a mano, e nella riduzione del numero di episodi per stagione da 22-24, adottato dai broadcast network per la copertura del palinsesto lungo l’annata televisiva - da settembre a maggio -, a 13. È questa la novità che incide maggiormente sulle caratteristiche della serialità cable: la riduzione degli episodi rende infatti più agile la gestione della narrazione, in cui la condensazione dei tempi facilita i processi di elaborazione della scrittura a favore della ricerca di una maggiore complessità. In seguito, con la crescita di competizione sul fronte della qualità nei cable network, la brevità diventa fattore di attrazione per le professionalità del settore. Registi e attori solitamente coinvolti nelle produzioni cinematografiche riescono infatti a impegnarsi nella produzione di serie televisive grazie ai tempi di ripresa più brevi, oltre che alla maggiore libertà creativa consentita dai cable network. Motivo di questa maggiore libertà è il fatto che, rispetto ai broadcast network, gli interventi del regolatore sui canali via cavo sono più blandi. L’assenza di organi censori e degli inserzionisti pubblicitari per i canali premium rende più spregiudicata la trattazione di temi e contenuti come la nudità e la violenza, l’esibizione di un linguaggio esplicito e la rappresentazione di personaggi non convenzionali, che contribuiscono alla definizione dei caratteri costitutivi della quality television di cui abbiamo detto. Inoltre, proprio là dove la pubblicità è assente, gli sceneggiatori non sono costretti a calibrare i ritmi narrativi alle interruzioni come avviene nella broadcast television per mantenere desta l’attenzione dello spettatore durante le pause (Leverette et al. 2009). Per la pay television, il cui modello di business è legato all’attivazione di abbonamenti, e in particolare per i canali premium, è necessario distinguersi non soltanto dai broadcast network, ma anche dalle reti concorrenti sullo stesso piano distributivo. La strategia della boutique television consiste infatti nell’intercettazione di nicchie di pubblico attraverso la costruzione di un’identità di brand legata alla reputazione del canale più che al perseguimento dei rating. Nel capitolo 6 approfondiremo questi aspetti alla luce del contesto attuale, osservando come oggi vengono prodotti i contenuti seriali tra studi integrati verticalmente e studi indipendenti e come si differenziano le strategie tra canali legati a un modello di business più tradizionale e canali rivolti alla distribuzione su piattaforme di streaming, tenendo conto del fatto che le pratiche qui riferite sono ancora in larga parte usate da alcuni player nel settore, specialmente quelli più tradizionali. L’avvento dei player over the top ha infatti ulteriormente modificato il contesto rispetto alle pratiche consolidatesi con lo sviluppo e la diffusione della pay-TV.
20 http://entmerch.org/ema_pwc-presentation.pdf e https://www.emarketer.com/Article/TV-Watchers-Want-Original-Content-No-Matter-Platform/1010261
Marianna Trimarchi, Le serie TV nel mercato televiso americano: competizione e coesistenza tra modelli di business, Tesi di dottorato, Università IULM, Anno accademico 2017/2018
La ragione di questa pratica, nota come common ownership, è da ricondurre alla possibilità degli studi indipendenti di fare profitti con prodotti di successo grazie alla rinegoziazione delle licenze. Ne sono esempio ER e Friends, serie televisive andate in onda sulla rete broadcast NBC, che dagli anni ’90 ai 2000 raggiungono costi di trasmissione di 12 milioni di dollari a episodio e che, non essendo di proprietà del network, possono quindi essere vendute a una rete concorrente in grado di sostenere il prezzo. Quest’ultima eventualità si è verificata anche nel caso di Buffy the Vampire Slayer, passato da The WB a UPN. Il common ownership, strategia di integrazione verticale, è dunque utile a limitare il rischio: se il programma prodotto dallo studio ha successo, il network beneficia dei profitti sia nel caso in cui sia proprietario dello stesso, sia nel caso in cui sia comproprietario, perché riesce a distribuirlo sulla propria rete a un costo inferiore. In ogni caso, la proprietà di quote sul prodotto consente di ottenere vantaggi anche sui diritti di ritrasmissione. La varietà narrativa e stilistica apportata nel mercato da contenuti qualitativamente superiori, quali le serie televisive prodotte durante la seconda Goden Age, rendono il modello della common ownership il più utilizzato in ambito produttivo, specialmente a seguito dell’incremento dei budget per la produzione di serialità. Ciò inficia la competizione nel mercato delle produzioni indipendenti, che non riescono a garantirsi una distribuzione nelle fasce più redditizie del palinsesto, dal momento che non possono permettersi di sostenere tali costi. Tuttavia, proprio in questo contesto emergono modelli non convenzionali, che nel passaggio alla post-network era raggiungono una piena affermazione. È la competizione sul fronte dei contenuti apportata dai canali cable a garantirne lo sviluppo. Tra gli anni ’80 e ’90, dopo anni in cui la loro programmazione si reggeva sulla ritrasmissione di contenuti seriali di proprietà dei broadcaster, queste reti entrano nel mercato della produzione di contenuti originali. Inizialmente si tratta di una programmazione analoga a quella dei concorrenti, ma nel 1988, quando ormai il cavo aveva una penetrazione del 50% nelle case americane e la necessità di accrescere il proprio bacino di pubblico, i programmi della cable television raggiungono una piena legittimazione istituzionale, con la candidatura agli Emmy Awards e la vittoria, quell’anno, di tre statuette nella competizione del primetime. Al volgere del millennio, ormai, più di sessanta canali basic e dieci delle reti premium gareggiano regolarmente nella competizione (Parsons 2008).
È appunto questa programmazione originale a introdurre una varietà nelle norme produttive e nella dimensione formale della serialità. La sperimentazione apportata dai cable network è un antidoto ai limiti di budget e alla necessità di contenere i costi. L’effetto sulla produzione si concretizza in uno spostamento dei set presso location meno costose, nell’utilizzo di strumentazioni più snelle, come la macchina a mano, e nella riduzione del numero di episodi per stagione da 22-24, adottato dai broadcast network per la copertura del palinsesto lungo l’annata televisiva - da settembre a maggio -, a 13. È questa la novità che incide maggiormente sulle caratteristiche della serialità cable: la riduzione degli episodi rende infatti più agile la gestione della narrazione, in cui la condensazione dei tempi facilita i processi di elaborazione della scrittura a favore della ricerca di una maggiore complessità. In seguito, con la crescita di competizione sul fronte della qualità nei cable network, la brevità diventa fattore di attrazione per le professionalità del settore. Registi e attori solitamente coinvolti nelle produzioni cinematografiche riescono infatti a impegnarsi nella produzione di serie televisive grazie ai tempi di ripresa più brevi, oltre che alla maggiore libertà creativa consentita dai cable network. Motivo di questa maggiore libertà è il fatto che, rispetto ai broadcast network, gli interventi del regolatore sui canali via cavo sono più blandi. L’assenza di organi censori e degli inserzionisti pubblicitari per i canali premium rende più spregiudicata la trattazione di temi e contenuti come la nudità e la violenza, l’esibizione di un linguaggio esplicito e la rappresentazione di personaggi non convenzionali, che contribuiscono alla definizione dei caratteri costitutivi della quality television di cui abbiamo detto. Inoltre, proprio là dove la pubblicità è assente, gli sceneggiatori non sono costretti a calibrare i ritmi narrativi alle interruzioni come avviene nella broadcast television per mantenere desta l’attenzione dello spettatore durante le pause (Leverette et al. 2009). Per la pay television, il cui modello di business è legato all’attivazione di abbonamenti, e in particolare per i canali premium, è necessario distinguersi non soltanto dai broadcast network, ma anche dalle reti concorrenti sullo stesso piano distributivo. La strategia della boutique television consiste infatti nell’intercettazione di nicchie di pubblico attraverso la costruzione di un’identità di brand legata alla reputazione del canale più che al perseguimento dei rating. Nel capitolo 6 approfondiremo questi aspetti alla luce del contesto attuale, osservando come oggi vengono prodotti i contenuti seriali tra studi integrati verticalmente e studi indipendenti e come si differenziano le strategie tra canali legati a un modello di business più tradizionale e canali rivolti alla distribuzione su piattaforme di streaming, tenendo conto del fatto che le pratiche qui riferite sono ancora in larga parte usate da alcuni player nel settore, specialmente quelli più tradizionali. L’avvento dei player over the top ha infatti ulteriormente modificato il contesto rispetto alle pratiche consolidatesi con lo sviluppo e la diffusione della pay-TV.
20 http://entmerch.org/ema_pwc-presentation.pdf e https://www.emarketer.com/Article/TV-Watchers-Want-Original-Content-No-Matter-Platform/1010261
Marianna Trimarchi, Le serie TV nel mercato televiso americano: competizione e coesistenza tra modelli di business, Tesi di dottorato, Università IULM, Anno accademico 2017/2018