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mercoledì 31 gennaio 2024

Graziani si oppose a questa trattativa di “resa separata”


Sappiamo che nei primi mesi del '45 e sin dalla liberazione di Roma vi fu un pullulare di servizi segreti esteri in Italia: si contendevano il campo inglesi e americani, ma anche russi, francesi e tedeschi. Il circuito più diffuso fu quello inglese, ma vi erano anche polacchi e jugoslavi, questi ultimi, soprattutto, nel sud dell'Italia e a Bari <8. Nel corso delle ultime settimane di aprile '45, gli uomini del britannico Secret Intelligence Service (d'ora in poi, SIS) si diedero a una gara di velocità con i colleghi dell'americano Office of Strategic Services (d'ora in poi, OSS), allo scopo di far prevalere la posizione di Churchill su quella di Roosevelt: quest'ultimo riteneva, infatti, che il Duce, come i criminali nazisti, avrebbe dovuto essere condotto innanzi a un tribunale internazionale per essere processato, in quanto ispiratore del fascismo europeo <9, mentre Churchill, al contrario, era favorevole a un'esecuzione “a caldo” del Capo della Repubblica Sociale Italiana (d'ora in poi, RSI), sì da non lasciare parola allo “scomodo testimone” <10. Non deve essere, altresì, trascurato, alla luce del quadro storico internazionale delineatosi mentre la seconda guerra mondiale volgeva al termine, che emerse anche una ferma volontà russa di uccidere Mussolini, resa esecutiva in Italia mediante il suo satellite comunista, a fronte della quale i servizi segreti americani non poterono agire o, in taluni casi, agirono troppo tardi. Parimenti è a dirsi per i servizi segreti tedeschi attivissimi nell'Italia settentrionale che, per ordine del generale Wolff e, d'intesa con gli americani, si furono mimetizzati nella zona ma non poterono essere utili e, comunque, in molti casi furono travolti dalle repressioni comuniste né furono in grado di comunicare con i propri superiori. Tale complesso gioco di alleanze segrete ha rivelato che la volontà e l'interesse di salvare Mussolini fosse, in definitiva, degli americani e non degli inglesi, forse anche perché i primi speravano di potersene servire nella guerra segreta contro il bolscevismo all'epoca alleato intoccabile <11.
§ 2. Ciò che rivelano gli archivi dell'OSS
Renzo De Felice citava un certo numero di documenti, testimonianze e “piste”, che contraddicevano la vulgata, a cominciare da una relazione segreta, di circa cinquecento pagine, redatta da un agente dell'OSS, alla fine della sua missione nell'Italia del nord, foriera di 'molte nuove verità' <12. Tale fonte, che è stata analizzata in altra sede <13, fu il frutto dell'indagine compiuta dal colonnello Valerian Lada Mocarski - agente n. 441, nome in codice “Valla”, “Maj”, “Topper” <14 - per ordine di Allen Dulles, direttore della Sezione svizzera del Secret Intelligence (d'ora in poi, SI) dell'OSS, al fine di ricostruire i fatti e accertare le responsabilità della morte di Benito Mussolini, dopo che gli americani dovettero, loro malgrado, registrare il fallimento delle molteplici missioni lanciate nell'Italia settentrionale durante le ultime tumultuose settimane di aprile '45 miranti all'obiettivo di catturare il Duce vivo <15. L'indagine di Mocarski, che iniziò il 29 aprile 1945 e proseguì per i successivi sei mesi, da subito non si prospettò facile. Infatti, come annotò l'autore, nonostante che fossero trascorse solo ventiquattro ore dall'esecuzione di Mussolini, egli non fu in grado di ottenere i resoconti autentici sulle circostanze sia dell'arresto sia dell'esecuzione della condanna a morte del dittatore né riuscì a interrogare alcun testimone oculare a Como, come a Dongo e Milano, perché la popolazione locale fu tenuta all'oscuro della parte più importante di quegli eventi e neanche un singolo attore del complessivo dramma pare avesse assistito all'intera vicenda, senza considerare che ben pochi protagonisti sopravvissero per raccontare la loro parte di verità: delle tre o massimo quattro persone che presero parte alla fucilazione di Benito Mussolini, infatti, una, che rispondeva al nome di Giuseppe Frangi, nome in codice “Lino”, s'imbatté in un fatale 'accidente' pochi giorni dopo il fatto, un'altra, Luigi Canali, alias il “capitano Neri”, scomparve in circostanze misteriose, mentre gli ultimi due, il “colonnello Valerio” (che, probabilmente, non era altri che Aldo Lampredi, nome di battaglia “Guido”) e il commissario comunista Michele Moretti, conosciuto come “Pietro”, riuscirono a sottrarsi all'investigazione dell'OSS. Nonostante la scarsezza di fonti orali e la difficoltà di giudicarne l'affidabilità, per essere queste nella maggior parte dei casi infarcite di pregiudizio derivante dall'educazione, esperienza ovvero orientamento politico, il rapporto Mocarski <16, che constò di due memoranda, dei quali il primo risalente ai primi di maggio e il secondo iniziato il 30 maggio 1945 e, probabilmente, completato successivamente alla prima decade di giugno, come agevolmente rilevabile dall'elenco delle persone interrogate sino al 13 giugno <17, è degno di interesse, perché ricostruisce, in maniera sufficientemente analitica, gli ultimi quattro giorni della vita di Benito Mussolini e della Repubblica Sociale Italiana (d'ora in poi RSI) nel periodo dal 25 al 28 aprile del 1945, riuscendo, dunque, nella missione affidatagli per conto dell'OSS. La relazione dell'OSS non si esaurisce, pertanto, nella ricostruzione degli ultimi istanti di vita di Benito Mussolini, sui quali - si deve, sin d'ora, evidenziare - l'agente dell'OSS vi apportava segretamente alcune importanti novità, ma narra gli ultimi quattro tormentati giorni di una Repubblica e del suo Capo.
§ 3. L'incontro in Arcivescovado
Su questo incontro dall'esito tragicamente fallimentare molto si è scritto <18. L'agente dell'OSS ne ha ricostruito prologo, motivazioni, modalità e conclusioni, avvalendosi delle testimonianze di alcuni suoi celebri protagonisti, il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, il generale Raffaele Cadorna, il prefetto Riccardo Lombardi, l'azionista Leo Valiani e redigendo accurati resoconti dei relativi colloqui, quindi puntualmente inseriti nel suo rapporto <19. E' noto ed è confermato da tale relazione che il presule, ansioso per la sorte di Milano e di tutta la Lombardia, intessé una fitta rete di rapporti diplomatici con tutte le parti in conflitto, ergendosi a trait d'union tra il CLNAI e, in particolare, il democristiano avv. Achille Marrazza, da un lato, e gli emissari tedeschi, le cui trattative con i servizi segreti alleati fervevano, nonché, almeno dal 22 aprile, con i responsabili fascisti, che pure avevano dato segni di essere propensi a negoziare la resa, dall'altro <20. Invero, già dal dicembre 1944, i dirigenti della RSI, su autorizzazione di Mussolini ovvero anche autonomamente, avevano avviato con alcuni esponenti del CLNAI una stagione di trattative, i cui principali intermediari furono il giornalista Carlo Silvestri <21; il ministro dell'Economia della RSI Angelo Tarchi <22, l'industriale Gian Riccardo Cella, acquirente del giornale 'Il popolo d'Italia', che Mussolini aveva fondato nel 1914 e a cui era rimasto affezionato <23.
Alle ore 15,00 del 25 aprile 1945, Benito Mussolini, con due cartelle di cuoio contenenti importanti documenti <24, giunse nel palazzo arcivescovile, accompagnato dal maresciallo Rodolfo Graziani <25, il ministro degli Interni Paolo Zerbino, il prefetto di Milano Mario Bassi, il sottosegretario alla Presidenza Francesco Maria Barracu e l'industriale Gian Riccardo Cella. È noto che, prima di iniziare la conferenza, Mussolini e Schuster restarono soli per più di un'ora durante la quale discussero in maniera pacata di vari argomenti <26. Dopo circa un'ora arrivarono i delegati del CLNAI: Raffaele Cadorna, presidente del CVL, Achille Marrazza, per il partito della Democrazia Cristiana (DC), Riccardo Lombardi e Matteo Arpesani, per il Partito di Azione (Pd'A). Dopo un breve scambio di saluti, ciascuno si sedette, come si evince dallo schizzo vergato da Cadorna per Mocarski <27. Mussolini avrebbe voluto trattare con Raffaele Cadorna, in quanto, come avrebbe più tardi riferito ai suoi ministri riuniti a Como, era l'unico che conoscesse tra i presenti, ma questi rispose che era stato delegato quale rappresentante militare, mentre Achille Marrazza era il rappresentante politico del CLNAI. Il Duce domandò quali condizioni gli fossero offerte e Achille Marrazza gli rispose seccamente che la resa avrebbe dovuto essere incondizionata. Mussolini si proclamò meravigliato, poiché pensava che alcune condizioni sarebbero state accettate ma Cadorna intervenne, affermando che, conformemente alle istruzioni diramate dall'Alto Comando Alleato, sia le milizie sia le famiglie dei fascisti sarebbero state trattate alla stessa stregua di prigionieri di guerra. Mussolini, sulle prime, manifestò la volontà di negoziare ma, in quel momento, intervenne Graziani, il quale sollevò la questione dell'onore, obiettando che il governo fascista non poteva iniziare trattative per la resa con l'avversario prima di aver informato l'alleato tedesco, perché non si fosse accusati di rinnovare il tradimento dell'8 settembre. A questo punto, la discussione si accese e Cadorna fece rilevare che i tedeschi stavano già trattando la resa con gli Alleati e avevano manifestato delle aperture in tal senso anche con lui. Mussolini s'irritò di fronte a questa notizia <28 e Schuster non poté far altro che confermare la correttezza della dichiarazione. Il capo della RSI dichiarò, dunque, che avrebbe immediatamente incontrato Wolff per fargli rilevare che questa volta era l'Italia a essere stata pugnalata alle spalle: 'I tedeschi ci hanno sempre trattato come servi e ora mi stanno tradendo. Date le circostanze, io mi ritengo libero e recupero la libertà di adottare l'azione che riterrò opportuna', proclamò adirato <29. Mussolini chiese, quindi, un'ora di tempo per meditare sulla situazione e incontrare gli alleati tedeschi <30. I dirigenti fascisti partirono immediatamente, promettendo di dare una risposta entro le ore 20,00.
§ 4. La fuga da Milano
Il ritorno di Mussolini in Prefettura fu assai tumultuoso. Secondo la testimonianza degli astanti, il Duce imprecava: 'Volevano crearmi un'altra trappola tipo 25 luglio […] i tedeschi ci hanno tradito' e, ancora, 'se fossi stato armato li avrei uccisi tutti'. Poi, accusando Cella, gli disse: 'Voi siete responsabile di quanto è accaduto: non voglio credere che foste d'accordo con la cricca ci-ellenistica […] volevano giungere esclusivamente alla mia cattura […] ma non mi avranno' <31. Seguì un'accesa discussione sul da farsi. La ricostruzione degli eventi è resa assai complicata dalla mancanza di fonti, perché ci si può riferire esclusivamente alle testimonianze dei presenti, non sempre coerenti e, comunque, suscettibili di verifica. Sul punto, la storiografia è ampia e articolata e la questione dei piani dell'ultimo Mussolini non è stata completamente chiarita <32.
[NOTE]
8 A tal proposito, illuminante è un rapporto della Divisione italiana del Secret Intelligence (SI) rubricato Foreign Intelligence Organizations currently operating in Italy del 5 marzo 1945, inviato dal suo capo Vincent Scamporino a J. Jesus Angleton, responsabile della Sezione italiana del servizio di controspionaggio dell'OSS (X-2). Ivi si compie un'accurata disamina delle organizzazioni dei servizi segreti stranieri in Italia, con particolare riguardo a quelli inglesi considerati i più diffusi, preparati e inseriti nella realtà politica, sociale ed economica italiana, sin dall'epoca antecedente all'entrata in guerra dell'Italia. Foreign Intelligence Organizations currently operating in Italy in National Archives and Records Administration, College Park, MD (d'ora in poi NARA), R.G. 226, E. 211, B. 7.
9 R. De Felice, Rosso e Nero cit., pp. 144 e ss.
10 Si cfr. il “Punishment of war criminals“, appunto scritto da W. Churchill il 9 novembre 1943, conservato nel Public Record Office (PRO) di Londra (War Cabinet Paper WP(43) 496, F. CAB. 66/39) e riportato in F. Andriola, Carteggio segreto Churchill-Mussolini, Sugarco, Milano 1995, p. 45.
11 V. Teodorani, Perche' fu ucciso Mussolini, in «Asso di Bastoni», 21 e 31 ottobre, 7, 14 e 21 novembre 1954. Vanni Teodorani, Capo della Segreteria Militare della Repubblica Sociale Italiana, fu accanto a Mussolini sino al tragico epilogo. In tale veste, oltre che in quella di genero, narra la missione condotta allo scopo di salvargli la vita insieme con i delegati alleati Giovanni Dessy e Salvatore Guastoni, di cui in seguito si dirà.
12 R. De Felice, Rosso e Nero cit., p. 145.
13 Uno stralcio di tale relazione segreta è stato riportato, nella versione tradotta in italiano, in appendice al saggio di M. Sapio, Gli ultimi giorni di Mussolini tra storia e verità cit. nonché commentato, in chiave critica, in M. Sapio, Ma davvero è stata scritta la parola fine? cit. Una sintesi è stata pubblicata con il titolo The last three days of Mussolini in 'Atlantic Montlhy', n. 6 del dicembre 1945.
14 Valerian Lada Mocarski, russo, discendente di una famiglia nobile travolta dalla rivoluzione bolscevica emigrata negli Stati Uniti, si arruolò quale ufficiale nell'esercito americano nel 1941 e fu, quindi, reclutato nell'OSS e destinato in Medio Oriente, Egitto, Francia e, infine, in Svizzera, dove si trovava durante gli ultimi giorni di Mussolini. Nel giorno di Piazzale Loreto, passò nell'Italia del nord e, infine, si ritirò dall'esercito nel 1945. Dopo la guerra fu nominato vicepresidente della G. Henry Shroeder Banking Corporation a New York.
15 Oltre alla missione del capitano Emilio Daddario già trattata nel capitolo precedente, molteplici furono le missioni alleate di cui si resero artefici, soprattutto, i servizi segreti americani, che furono lanciate nel nord dell'Italia nelle ultime settimane di aprile '45, con l'obiettivo di catturare Mussolini vivo. Per una panoramica di queste iniziative, si rinvia a M. Sapio, Ma davvero è stata scritta la parola Fine? cit., nt. 43, p. 142.
16 Il rapporto, conservato in Archivio Centrale di Stato (d'ora in poi ACS), Archivi di famiglie e di persone, Fondo De Felice Renzo, si compone di undici capitoli intitolati Last days of Mussolini and his Ministers con vari sottotitoli e diciassette capitoli, variamente intitolati, cui si aggiunge un report di un autore sconosciuto (che Lada Mocarski ipotizza essere Riccardo Lombardi) dal titolo First and Last meeting with Mussolini, nonché un memorandum anonimo intitolato La libertà fiorisce a Tremezzina. V. Lada Mocarski, Last days of Mussolini and his Ministers cit.
17 L'elenco suddetto vergato di proprio pugno dall'autore è il seguente: «1. Cardinale Ildebrando [sic] Schuster, 8 giugno; 2. Generale Raffaelle [sic] Cadorna, 30 aprile, 9 e 10 maggio, 9 giugno; 3. Leo Valiani, notte tra 8 e 9 giugno; 4. Com. Gustavo Ribet, 29 e 30 aprile e 9 giugno; 5. Prefetto fascista di Como, Renato Celio, 29 aprile; 6. Federale di Menaggio E. Castelli, giugno; 7. Com. Gementi, 29 aprile; 8 Com. Baridon; 9. Prefetto di Como Bertinelli, 29 aprile; 10. Com. “Pedro”, 6 giugno; 11. “Bill”(Lazzaro Urbano), 6 giugno; 12. “Renzo”; 13.“Mennefreggo”[sic], 12 giugno; 14. Arturo (“Roma”), 9 maggio; 15. Paolo Gerli, 10 maggio; 16. Vet. Dr Giacobbi; 17. Plinio Sergiuti; 18. Signora Romano, 10 maggio; 19. Giacomo e Lia De Maria, 9 maggio e 13 giugno; 20. Don Mainetti, 13 giugno; 21. Padre Accursio, 13 giugno; 22. Padre Ferrari, 13 giugno; 23. Giovane Romano, 13 giugno; 24. Brig. Scappin, 12 giugno; 25. Il partigiano di Pianello Lario, 9 maggio; 26. Oscar Sforni; 27. Maggiore De Angelis; 28. Comandante Dessy; 29. Autista Tacchino; 30. Dr. Guastone [sic]; 31.Com. Pinto; 32. Capitano Nicola; 33. Questore di Como; 34. Fotografo in Lugano; 35. Poletti; 36. Fotografo (…); 37. [incomprensibile]; 38. (…)» V. Lada Mocarski, Last days of Mussolini and his Ministers cit., List of people interrogated during the investigation.
18 Si confrontino e multis R. Cadorna, La riscossa cit.; R. Graziani, Una vita per l'Italia cit.; R. Lombardi, Primo e ultimo incontro con Mussolini, in «Italia Libera», 28 maggio 1945; A. Marrazza, Il colloquio del CLNAI con Mussolini nell'arcivescovado di Milano, in AA.VV., La Resistenza in Lombardia cit. (in polemica con quello che definisce il “libro bianco” del cardinale Schuster, accusato di aver alterato i fatti con particolare riferimento al tema della transigibilità della “resa incondizionata” da parte del CLNAI.); A. I., Schuster, Gli ultimi tempi di un regime, Daverio, Milano 1960; L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma cit.; M. Viganò, Mussolini e i colloqui di piazza san Sepolcro in «Nuova Antologia», gennaio-marzo 1999.
19 I relativi resoconti sono riportati in versione tradotta, in appendice al saggio di M. Sapio, Gli ultimi giorni di Mussolini tra storia e verità cit., pp. 70 e ss.
20 Il cardinale Schuster nel febbraio del 1945 scrisse una lettera a Mussolini nella quale lo supplicava di evitare la distruzione di Milano e della Lombardia che era di grande importanza per l'economia italiana e lo invitava a cessare le ostilità, offrendogli i suoi servigi per una trattativa di resa con gli Alleati. Dopo dieci giorni di silenzio, il presule fu contattato da Vittorio Mussolini il quale dichiarò che il Duce, suo padre, era determinato a difendere la Lombardia con tutte le sue forze e avrebbe portato a termine questi piani trattandosi di una misura disperata, salvo che gli Alleati avessero voluto venire incontro a certe condizioni che includevano la garanzia della salvezza per l'esercito neofascista e delle altre formazioni militari, la personale salvezza dei suoi ministri e delle loro famiglie e la garanzia per la sua vita e quella della sua famiglia. Il 13 marzo, Vittorio Mussolini ritornò dal cardinale con una lettera che contemplava le condizioni di resa offerte dal padre, condizioni che il cardinale inoltrò attraverso la Nunziatura Papale di Berna, alla Santa Sede e quindi agli Alleati, che, però, dichiararono di rifiutare ogni negoziato e di esigere la resa incondizionata. La corrispondenza tra l'Arcivescovado di Milano e le Autorità alleate, da un lato, e i rappresentanti della RSI nonché i dirigenti nazisti, dall'altro, è riportata in I. Schuster, Gli ultimi tempi di un regime cit., pp. 90 e ss. Schuster riferì a Mocarski di non aver comunicato la notizia a Mussolini, poiché temeva la sua reazione furibonda che lo avrebbe reso 'più determinato di quanto già non fosse nella difesa della Lombardia con il risultato della distruzione di questa importante provincia italiana'. La relazione dell'OSS conferma, dunque, che erano in corso trattative anche da parte dei dirigenti fascisti e, in particolare, informa di un tranello escogitato da un elemento dello staff di Mussolini, allo scopo di indurlo a entrare in diretto contatto col Cardinale nella speranza che quest'ultimo lo persuadesse ad arrendersi agli Alleati: il 23 aprile, infatti, qualcuno - ma il Mocarski non precisa chi - disse a Mussolini che il cardinale voleva vederlo. I successivi eventi sia a Milano sia a Como avrebbero provato, infatti, che 'i ministri di Mussolini tentarono disperatamente di provocare un qualche tipo di resa preordinata al fine di far salva la vita del Duce e la loro. Il cardinale non aveva inviato alcun messaggio a Mussolini […] ma, ciononostante il duce rispose che sarebbe stato lieto di vederlo […] Due giorni dopo, un intermediario, (che secondo ciò che Cadorna riferì si trattava di un tale Cella), si recò dal Cardinale di primo mattino con la dichiarazione che Mussolini lo avrebbe incontrato alle 15,00 di quel pomeriggio perché, disse l'intermediario, egli voleva firmare una resa incondizionata.' Schuster fu naturalmente d'accordo a prestare i suoi uffici a tale scopo e subito ne informò il generale Raffaele Cadorna. V. Lada Mocarski, Last days of Mussolini and his Ministers cit., Meeting between Mussolini and CLNAI on April 25 1945 held at Cardinal Schuster's Palace in Milan.
21 Nel pomeriggio del 24 aprile, Carlo Silvestri contattò l'azionista Leo Valiani, del quale era un amico di gioventù e dichiarò che Mussolini era pronto a cedere il potere al partiti Azionista e Socialista poiché entrambe le formazioni politiche erano repubblicane e, pertanto, 'accettabili per il Duce che era stato il capo della Repubblica Italiana.' ma i dirigenti di entrambi i partiti respinsero tassativamente tali proposte. Per una narrazione più dettagliata si veda C. Silvestri, Nessuno poteva salvare Mussolini condannato a morte da Mosca, in 'Settimo Giorno', n. 10 del 1951, pp. 54 e 55. La missione Silvestri è confermata dal rapporto Mocarski che riporta, in particolare, l'incontro tra Silvestri e Valiani.
22 Angelo Tarchi, ministro dell'Economia Corporativa della Repubblica Sociale Italiana, fu autorizzato dal duce ad avviare segretamente le cosiddette 'trattative di Piazza San Sepolcro', condotte attraverso l'industriale Gallioli, il quale, a sua volta, instaurò contatti col CLNAI che nominò quale delegato l'avv. Giuseppe Brusasca nonché col Comando Alleato che delegò il suo emissario, colonnello italo-americano Max Salvador William, alias “Max Salvadori”. Tali trattative furono presto sospese poiché, come ha raccontato Tarchi, il Duce ritenne che la situazione non fosse così disperata e, nello stesso tempo, 'altre trattative […] sono in corso'. A. Tarchi, Teste Dure, Editrice S.E.L.C., Milano 1967, pp. 149-160. Per una trattazione ampia, sia pure con la parzialità che connota la fonte, si veda Gli ultimi giorni della Resistenza. Le trattative per la resa di Mussolini. Discorso del sen. Avv. Giuseppe Brusasca, Rotary, Roma, 13 maggio 1975, del quale una copia è conservata in Archivio Centrale di Stato (ACS), Archivi di famiglie e di persone, Fondo De Felice Renzo, B.10, F. 50.
23 Fu l'industriale Gian Riccardo Cella, dopo il fallimento della missione Silvestri, a indurre Mussolini a trattare la resa con il CLNAI, avvalendosi dei buoni uffici dell'Arcivescovo di Milano. Quindi il prefetto Gatti inviò il sig. Bruni, praticante in Prefettura, dal cardinale Schuster per avvertirlo che alle ore 15,00 del 25 aprile Mussolini sarebbe venuto lì e avrebbe voluto abboccarsi con Cadorna e Marrazza. I. Schuster, Gli ultimi tempi di un regime cit., p. 164.
24 Poco prima di partire dalla Prefettura per dirigersi alla sede arcivescovile, Mussolini estrasse da due casse zincate alcuni documenti e li trasferì in due capienti cartelle di cuoio. Secondo Silvestri, che lo assistette nell'operazione, si trattava d'importanti documenti di valore storico contenenti le prove di quello che Mussolini e la Repubblica di Salò avevano fatto per evitare la guerra civile e il completo asservimento ai tedeschi. Al figlio Vittorio che gli era accanto, Mussolini disse:'Dimostrerò con le lettere di Hitler che ho salvato la Svizzera dall'invasione. E ho le prove della malvagità degli inglesi che ha portato alla guerra'. P. Tompkins, Dalle carte segrete del Duce, Momenti e protagonisti dell'Italia fascista nei National Archives di Washington, Net, Milano 2004, p. 312.
25 Il generale Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate della RSI, ha raccontato, nel suo diario edito, di aver suggerito al Duce di non andare personalmente ma di delegare una commissione, soluzione che Mussolini pareva avesse accolto. Invece, poco prima delle ore 17,00, avviatosi verso l'ufficio di Mussolini per gli ultimi accordi, si avvide che questi, seguito da Barracu, Zerbino e Bassi, usciva senza preavvisarlo. Graziani, quindi, accompagnato dal generale Sorrentino, si unì agli altri in Arcivescovado e, accolto da monsignor Terraneo, al quale consegnò il cinturone con la pistola, attese nell'anticamera, mentre Mussolini era già a colloquio con Schuster. R. Graziani, Una vita per l'Italia cit., pp. 238 e ss.
26 Il colloquio privato tra Schuster e Mussolini è trattato in I. Schuster, Gli ultimi giorni di un regime cit., pp. 164-169. Di pari tenore, è la testimonianza del prelato a Lada Mocarski riportata nel resoconto sopra citato.
27 Lo schizzo mostra nell'ordine: Schuster, Mussolini, Lombardi, Arpesani, Cadorna, Marrazza, Barracu, Zerbino, Graziani, Bassi. V. Lada Mocarski, Last days of Mussolini and his Ministers cit., Meeting between Mussolini and CLNAI which took place on April 25, 1945 in Cardinal Schuster 's Palace in Milan.
28 Sulla reazione di Mussolini, mentre il prelato riferì che, a suo parere, Mussolini era sinceramente sorpreso, perché vittima di un inganno da parte di un membro del suo entourage, al contrario, Cadorna ritenne che il Duce si fingesse sbalordito e adirato ma, in realtà, si trattasse di una mera manovra. Di certo, Mussolini fu tenuto all'oscuro delle trattative che, sin dall'autunno '44, intercorrevano tra Wolff e Rahn e i servizi segreti americani nella persona di Allen Dulles e il suo segretario Gaevernitz. Il ministro Tarchi ha dichiarato che gli era trapelata la notizia, poi, confermata da Gallioli, che erano in corso contatti, per il tramite di Don Bicchierai, messo del cardinale Schuster, tra il CLNAI e i tedeschi Wolff e Rahn, per una resa separata della Germania, il tutto all'insaputa di 'Mussolini relegato a Gargnano'. Graziani, nel suo diario, affermò che, almeno sino al 22 aprile, giorno in cui si recò dall'Arcivescovo di Milano con l'incarico, sciente Mussolini, del generale Von Vietinghoff di investire il prelato dell'opportunità che 'il clero e la popolazione collaborassero a un'opera di salvezza in caso di ritirata tedesca: se i partigiani non avessero molestato le truppe, sarebbero stati risparmiati impianti, opere d'arte e industrie', i dirigenti fascisti erano inconsapevoli delle trattative dei rappresentanti tedeschi in Italia. 'Né dall'ambasciatore né dal generale Wolff, né da altri ne avevamo avuto il minimo indizio'. E, a ulteriore supporto che le direttive del comando superiore germanico erano di resistere ad oltranza e, solo dal 23/24 aprile, di ritirarsi dalla riviera per assestarsi sulla linea Po-Ticino, il Maresciallo d'Italia esibiva il documento recante l'ordine del generale Von Vietinghoff di procedere 'in comune con l'ambasciatore dott. Rahn e il generale delle SS Wolff, dando speciale premura di intavolare il collegamento con i rappresentanti della Chiesa'. R. Graziani, Una vita per l'Italia cit., pp. 231-237. Sappiamo, invero, che il generale Vietinghoff, come Himmler e Kesselring, sebbene messi al corrente da Wolff delle trattative di resa solo nell'aprile '45, non lo autorizzarono a procedere alla capitolazione incondizionata o, almeno, non apertamente sino al 2 maggio 1945. Sulla crisi interna agli Alleati a proposito della resa tedesca in Italia, cfr. E. Aga Rossi e B. Smith, La resa tedesca in Italia cit., pp. 96-188.
29 V. Lada Mocarski, Last days of Mussolini and his Ministers, Meeting between Mussolini and CLNAI cit.
30 Sui rapporti tra Mussolini e i tedeschi, in particolare con il dottor Rahn e il generale Wolff, che Mussolini definiva l'uno “Viceré d'Italia” e l'altro il “ministro dell'Interno per l'Italia“, le simpatie del duce erano rivolte al secondo più che al primo. Come Dolfin aveva osservato, Wolff era, infatti, considerato da Mussolini, al pari dell'ambasciatore giapponese Hidaka, 'amico del nostro Paese e suo personale' e, con lui, il Duce scambiava ogni tipo di confidenze, anche personali. G. Dolfin, Con Mussolini nella tragedia, Garzanti, Milano 1949-1950, pp. 49 e ss.
31 Convergenti le testimonianze degli astanti: e multis si cfr. A. Tarchi, Teste dure cit., p. 165. Inoltre l'unico racconto disponibile su ciò che fece Mussolini dopo essere partito dal palazzo della Prefettura di Milano è contenuto in un articolo scritto dall'industriale Cella e pubblicato su 'Il popolo' del 2 maggio 1945, in base al quale fu stilato dai servizi segreti inglesi un rapporto sugli ultimi giorni di Mussolini conservato in Public Record Office (PRO), Foreign Office (371/49872), una copia del quale è conservata in ACS, Archivi di famiglie e di persone, Fondo De Felice Renzo, B. 11, F. 53.
32 Sul punto va richiamata l'indagine condotta da F. Andriola in Appuntamento sul lago cit., pp. 41 e ss, ove si evidenzia un'evoluzione dei piani del Duce. Notizie e approfondimenti si rinvengono in M. Sapio, La morte di Mussolini tra storia e verità cit. Compie, inoltre, un'accurata analisi sull'attendibilità dell'ipotesi di una “fuga” in Svizzera, giudicandola poco verisimile e, al contrario, accreditando una precisa volontà di Mussolini di raggiungere Como quale località più favorevole per difendersi ovvero trattare con emissari inglesi o, infine, raggiungere il ridotto della Valtellina, in attesa dell'arrivo degli Alleati, M. Viganò, Mussolini, i gerarchi e la 'fuga' in Svizzera (1944-'45) in 'Nuova Storia Contemporanea', n. 3 del 2001.
Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012

Nel pomeriggio del 25 aprile si svolse, presso l’Arcivescovado di Milano, una riunione organizzata dal cardinale Ildegardo Schuster alla quale presero parte vertici del CLNAI (tra i quali Sandro Pertini, Riccardo Lombardi, Achille Marazza, Giustino Arpesani ed il generale Raffaele Cadorna comandante del CVL, da poco rientrato in Italia da Berna) ed esponenti fascisti, tra cui lo stesso Mussolini, accompagnato dal maresciallo Graziani, dal ministro dell’interno Zerbino, dal sottosegretario Barracu, dal prefetto Bassi e dall’industriale Cella (che avrebbe dato il via all’incontro). Prendiamo ancora nota di quanto riferisce Giovanni Pesce, e cioè che il 25 aprile, quando Marazza andò a cercare Cadorna per andare assieme alla riunione, lo trovò assieme al neo-questore Elia, Nemo <1.
Lo scopo della riunione era quello di salvare la vita dell’ex “duce”, consegnandolo agli Alleati, ed il cardinale Schuster aveva addirittura fatto preparare una stanza per ospitare Mussolini al sicuro prima di consegnarlo agli Alleati come prigioniero di guerra.
Nel corso della riunione Graziani si oppose a questa trattativa di “resa separata” <2, «affermando che principi di onore e lealtà impedivano al governo della Repubblica sociale di trattare all’insaputa dei tedeschi», ma a queste parole sarebbe intervenuto Marazza, «precisando che in realtà le autorità germaniche in Italia stavano negoziando la resa da oltre dieci giorni». Ciò avrebbe provocato l’abbandono della riunione da parte di Mussolini <3, e successivamente lo stesso Pertini avrebbe sintetizzato in questo modo l’esito della riunione, in una lettera inviata a Lombardi e resa nota dal ricercatore Manlio Cancogni nel 1996:
«Ricordo benissimo quanto avvenne all’Arcivescovado. Arrivato quando Mussolini aveva lasciato la riunione, il cardinale Schuster, presenti voi, mi mise al corrente dell’esito del vostro incontro con Mussolini e cioè Mussolini si sarebbe arreso al CLNAI e nei suoi confronti si sarebbero applicate le norme del diritto internazionale. Richiesto da me d’una più precisa spiegazione su codesto punto, soggiunse che avrebbe dovuto essere considerato prigioniero di guerra e quindi consegnato agli alleati. Questo il Cardinale, in vostra presenza, mi comunicò, soggiungendo che Mussolini si era recato in Prefettura, ove avrebbe telefonato la sua ultima decisione. Voi, appunto, eravate in attesa di codesta telefonata quando giunsi io. Dissi al Cardinale, che Mussolini arrendendosi al CLNAI, sarebbe stato da noi consegnato ad un Tribunale del Popolo. Ricordo benissimo che Tiengo <4 si alzò, allora, e, dopo un vivace battibecco con me, si precipitò al telefono. Rientrò poco dopo annunziando enfaticamente che “Mussolini non si sarebbe più arreso”. Ripetutamente, in seguito, su periodici e quotidiani si fece risalire a me “la colpa” se quell’accordo era andato a monte. Se da altri quel mio atteggiamento è stato giudicato una “colpa”, per me naturalmente è sempre stato considerato un merito. E lo rivendico a mio onore senza peccare di presunzione alcuna» <5.
[...] In serata partì pertanto da Como (in direzione Dongo, quindi deviata verso est rispetto alla Valle d’Intelvi) una colonna, guidata dal capitano Dessy (che sembra avere avuto direttamente da Dulles l’incarico di salvare Mussolini <18), comprendente anche Colombo, Romualdi, Vanni Teodorani (marito di una nipote di Mussolini), ed il sottotenente dei Carabinieri Egidio De Petra.
Il gruppo fu però fermato dai partigiani (alcune fonti dei reduci della RSI sostengono che sarebbe stata una manovra del “colonnello Valerio” per impedire il salvataggio di Mussolini) e, nonostante i documenti di Dessy che lo accreditavano come agente dei servizi statunitensi, fu impedito loro di proseguire; Colombo fu arrestato e fucilato il 28/4/45, mentre Romualdi e Teodorani riuscirono a salvarsi, non essendo stati riconosciuti.
[NOTE]
1 G. Pesce, “Quando cessarono gli spari”, Feltrinelli 1977, p. 26. Elia era il comandante della rete spionistica Nemo, organizzata dal SIM italiano in collaborazione con l’IS britannico (cfr. C. Cernigoi, “Alla ricerca di Nemo”, reperibile in http://www.diecifebbraio.info/2013/06/alla-ricerca-di-nemo-una-spy-story-non-solo-italiana-2/).
2 In realtà era da mesi in corso l’operazione Sunrise, lavoro di intelligence portato a termine dai servizi angloamericani con i servizi nazisti e l’appoggio dei servizi svizzeri e l’intervento di agenti italiani per giungere ad una “resa separata” (tagliando fuori da una parte l’URSS e dall’altra la scomoda Repubblica di Salò) che garantisse la salvaguardia degli stabilimenti industriali e delle infrastrutture italiane dalla minaccia nazista di fare “terra bruciata” al momento della ritirata, in cambio dell’impunità per molti gerarchi nazisti.
3 Luca Frigerio, “25 aprile 1945: il drammatico incontro fra il cardinal Schuster e Mussolini”, 24/4/15 (http://www.incrocinews.it/arte-cultura/25-aprile-1945-il-drammatico-incontro-br-fra-il-cardinal-schuster-e-mussolini-1.107599).
4 L’ex prefetto Carlo Tiengo «faceva parte di quei funzionari dello Stato inviati al confine orientale e scelti tra coloro che provenivano dalle fila del Partito Nazionale Fascista» (https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Tiengo, che cita Annamaria Vinci, “Sentinelle della Patria” Laterza 2011, p. 171); ricoprì la carica a Gorizia e a Trieste, dove entrò in conflitto con i vescovi sloveni delle due città, facendoli trasferire; fu inviato a Bologna, Torino e Milano, ed infine nominato Ministro delle Corporazioni nell’ultimo governo Mussolini.
5 http://archiviostorico.corriere.it/1996/maggio/09/Mussolini_Schuster_Pertini_scriveva_che_co_0_9605098884.shtml.
18 Cfr. http://www.corrierecaraibi.com/FIRME_MBarozzi_100818_Morte-Mussolini-28aprile45-La-strabiliante-giornata-di-Valerio-e-Guido.htm. Aggiungiamo qui per dovere di cronaca (ma in assenza di conferme) che secondo l’autore di questa ricostruzione sarebbe stato l’agente dell’OSS Emilio Daddario (colui che mise successivamente in salvo il maresciallo Graziani) a firmare il lasciapassare (poi consegnato da Vittorio Palombo) che permise al “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio (il dirigente garibaldino che ricopriva anche l’incarico di responsabile della polizia militare del CVL) di raggiungere il luogo dove era stato bloccato Mussolini in fuga, e procedere quindi alla sua esecuzione.

Claudia Cernigoi, Manovre di vari Servizi intorno alla cattura di Mussolini, Giuseppe Vergara, 29 aprile 2020

sabato 27 gennaio 2024

Il convento fiorentino di Santa Marta ospitò, oltre che i fratelli Pacifici, numerosi bambini ebrei


Lasciata la madre, Emanuele Pacifici e il fratello Raffaele vennero portati dallo Zio in un altro istituto religioso fiorentino dove speravano di trovare ospitalità: "Lo zio ci accompagnò a Settignano nel collegio di Santa Marta, ma non eravamo sicuri di essere accettati. Fortunatamente suor Marta Folcia, che faceva le veci della superiora momentaneamente indisposta, ci disse che potevamo rimanere e dopo aver brevemente parlato con lo zio, rivolgendosi a me e Raffaele, disse: «Allora ragazzi, salutate vostro zio e andate subito a mangiare nella sala refettorio». Era la domenica 21 novembre 1943: il mio destino mi imponeva ancora una volta una separazione dai miei cari, ancora una volta un ambiente estraneo". <98
Il convento fiorentino di Santa Marta ospitò, oltre che i fratelli Pacifici, numerosi bambini ebrei; fra questi per un periodo ci fu anche, il poco sopra citato Umberto Di Gioacchino. Inizialmente egli era stato lasciato dai genitori alle suore di Santa Marta già nell’ottobre del 1942, quando Umberto aveva solo un anno. Umberto era nipote del rabbino di Firenze, Nathan Cassuto, il quale da tempo si era prodigato nell’assistenza dei profughi israeliti provenienti dai paesi in cui la persecuzione antisemita aveva messo in pericolo la loro vita. Per questo motivo il rabbino di Firenze fu edotto molto presto delle drammatiche conseguenze alle quali andavano incontro gli ebrei capitati sotto il giogo nazista e, intuendo il possibile pericolo che correvano gli ebrei italiani, non aveva indugiato nel cercare di porvi rimedio in anticipo. Di Gioacchino ha raccontato a riguardo: "Lo zio, Nathan Cassuto, era in una posizione privilegiata per avere notizie, informazioni, che, ovviamente, all’epoca non c’erano o quanto meno non giravano tra il pubblico e quindi cominciò ad avvertire un po’ la situazione pericolosa. La prima cosa che fu decisa fu come sistemare il bambino che era quello più facilmente, in un certo senso, nascondibile, perché non c’erano documenti, non c’era la carta di identità ecc. I miei avevano lasciato la casa, erano andati ospiti di amici in un’altra casa e mi trovarono una sistemazione presso le suore di Santa Marta". <99
Poiché nell’ottobre 1943 la situazione a Firenze sembrava degenerare, il piccolo Umberto venne però ripreso dai genitori che ritennero più sicuro portare il figlio con sé a Colle di Compito, un paese nella campagna lucchese. <100
Dopo l’8 settembre, le famiglie di Guido Bedarida e del fratello, per il timore di essere stati individuate dai tedeschi, lasciarono la grande fattoria nella campagna grossetana, dove si erano sistemate sin dal ritorno dalla Francia avvenuto nel febbraio del 1943. La ricerca di un luogo sicuro li condusse a Radicondoli, uno sperduto paesino nella provincia di Siena. Qui, entrambe le famiglie trovarono alloggio in un piccolo albergo <101. Lasciata Radicondoli, dopo una tappa di qualche giorno presso dei contadini («gente poverissima che non si lavava perché non c’era acqua, gente analfabeta, però gente di cuore»), i Bedarida raggiunsero il paese di Montieri, tra la provincia di Grosseto e Siena. A Montieri c’era un convento di suore Stimmatine le quali accolsero solo Anna, la più grandicella dei tre figli di Guido Bedarida e Pia Toaff, poiché le suore non potevano tenere maschi. Lasciata Anna, il resto della famiglia Bedarida tornò indietro e trovò ospitalità nella fattoria del conte Pannocchieschi ad Anqua, sempre nel comune di Radicondoli. Intenzionati a salvare i figli, Guido Bedarida e la moglie affidarono Gabriele e Davide al parroco della piccola frazione di Anqua, don Mario Bracci, che li tenne nascosti nella propria casa, senza farli mai uscire e chiudendoli nella dispensa quando il pievano temeva visite dei militi fascisti <102. Tuttavia la madre di don Bracci che viveva insieme a lui si sentì investita di troppa responsabilità e così, dopo un paio di settimane, i due bambini vennero ricondotti dal conte Pannocchieschi. Il ritorno dai genitori fu caratterizzato da momenti di vero terrore; infatti, quando i due bambini, accompagnati dal fattore di un’anziana nobildonna che nel frattempo aveva preso a ben volere i coniugi Bedarida, incontrarono un prigioniero russo, anch’egli fuggitivo, temettero fortemente di poter essere aggrediti: "Durante quella fuga dalla prima casa nel senese con una persona di fiducia, mi ricordo a Radicondoli, passavamo per i boschi durante la notte e abbiamo incontrato un prigioniero russo che scappava e lì c’era da aspettarsi di tutto anche di essere aggrediti, di essere fatti fuori perché ognuno aveva paura dell’altro e mi ricordo la figura di quest’uomo che scappava e ha chiesto qualche cosa al nostro accompagnatore. Poi mi ricordo che siamo arrivati alla piazza di Radicondoli…" <103 Quella fuga notturna, per i piccoli Gabriele e Davide, prese tutti i connotati di un viaggio zeppo di immagini spettrali, e tale rimane fissato ancor oggi nella memoria: "Ecco bisogna immaginare questi paesini del senese arroccati sulle colline, la piazza centrale, la scarsa illuminazione la sera, e io mi ricordo che noi aspettavamo che il nostro accompagnatore sbrigasse delle cose e io guardavo su e c’era una persona che mi guardava, doveva essere una vecchia pazza, e questa donna mi faceva delle smorfie orribili. Quindi l’atmosfera era piuttosto cupa perché noi eravamo bambini e sapevamo, non so perché ma sapevamo, ma non ci rendevamo conto perché ci dovevamo nasconderci e oltretutto nella nostra solitudine vedere questa vecchia che ci faceva delle smorfie orribili e io non riuscivo a staccare gli occhi da questa vista… tremendo!" <104
Per loro fortuna i due bambini riuscirono a tornare dai loro genitori sani e salvi, dopo di che, sempre attraverso l’intercessione dell’anziana nobildonna senese, vennero accolti nel collegio vescovile di Montepulciano <105.
[NOTE]
98 E. Pacifici, «Non ti voltare», cit., p. 61.
99 Intervista a Umberto Di Gioacchino, Verona, 17 settembre 2007.
100 Ibidem.
101 Gabriele Bedarida descrive così il peregrinare in quei giorni: «Avevamo trovato un alberghetto in comune di Radicondoli, non so chi ce l’aveva consigliato. L’alberghetto era immerso nella foresta, senza luce elettrica, senza acqua corrente ma ‘fare buon viso a cattiva sorte!’. E così siamo stati lì qualche settimana, finché peggiorando la situazione abbiamo deciso di dividerci, perché cerano voci di rastrellamenti da parte dei repubblichini». Intervista a Gabriele Bedarida, Livorno, 10 settembre 2007.
102 «Lì» il pievano, racconta Davide Bedarida, «mi ricordo ci rinchiudeva nella dispensa e noi per passare il tempo si mangiava quest’uva secca!; lui poi ci lasciava un pochino per la casa ma le finestre erano chiuse, quando suonavano o si sentiva qualche macchina che generalmente le macchine erano dei repubblichini e allora ci rinchiudeva. Mi ricordo che questo pievano aveva scoperto che io cantavo bene e allora lui si metteva al piano e cantavo l’Ave Maria di Schubert!, me lo ricordo ancora… e mi piaceva, avevo sette anni». Intervista a Davide Bedarida, Livorno, 29 ottobre 2007.
103 Ibidem.
104 Ibidem.
105 «La Palazzuoli aveva arrangiato perché fossimo portati al Collegio vescovile di Montepulciano e mia madre aveva parlato con il vescovo Mons. Emilio Giorgi, e così finimmo prima a Siena a casa di Monsignor Petrilli, che era uno della curia arcivescovile di Siena e, molto gentile, ci dette da mangiare, ci fece passare una mezza giornata piacevole in attesa dell’autobus per Montepulciano, poi il fattore Filippini ci portò a Montepulciano e lì ci lasciò». Intervista a Gabriele Bedarida, Livorno, 10 settembre 2007.
Paolo Tagini, "Le prefazioni di una vita". I bambini ebrei nascosti in Italia durante la persecuzione nazi-fascista, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, 2011

domenica 21 gennaio 2024

Durante la Presidenza Johnson la MLF sarebbe divenuta ormai un’ipotesi irrealizzabile


La stretta connessione quindi tra questione economica e il progetto di MultiLateralForce era fondamentale per il funzionamento di una simile politica. La MLF, secondo l’amministrazione Kennedy, costituiva in qualche modo la chiave alla soluzione sia del problema tedesco, sia atlantico che bipolare.
Concepita durante la II amministrazione Eisenhower, la MLF avrebbe dovuto essere un organismo militare atlantico in grado di conferire una sorta di status nucleare a tutti gli alleati partecipanti senza che questi acquisissero e utilizzassero indipendentemente dagli Usa armi nucleari, sebbene questo implicasse una sorta di riarmo per la RFT. D’altronde non c’era più ragione to keep the Germans down, dato anche il ruolo di Bonn sempre più centrale nell’Alleanza. La MLF, una volta realizzata, avrebbe dovuto essere una flotta di superficie composta di 25 unità navali, ciascuna delle quali avrebbe portato 8 missili nucleari Polaris e sarebbe stata gestita da equipaggi multinazionali, la cui responsabilità però sarebbe stata assegnata al Comandante Supremo alleato NATO. Gli Stati Uniti avrebbero comunque mantenuto il potere di veto sull’uso delle armi nucleari della MLF, sottraendo quindi agli alleati qualsiasi velleità decisionale <32.
Sebbene fosse parsa un’efficace soluzione affinché gli europei si occupassero della propria difesa, facendo addirittura arrivare l’amministrazione Kennedy a definire la questione della difesa convenzionale in mano agli europei “a matter of highest priority” <33, nel ’66, durante la Presidenza Johnson la MLF sarebbe divenuta ormai un’ipotesi irrealizzabile, sia per le difficoltà incontrate con gli alleati, sia per il disappunto di Mosca, che vedeva nel progetto il pericolo di un riarmo (nucleare) tedesco34. Il dibattito che sarebbe derivato dalla presa d’atto della sua irrealizzabilità, avrebbe seguito strade molto diverse.
Tra il ’65 e il ’66 Johnson dopo aver abbandonato in maniera ufficiale il progetto di MLF, avrebbe dato avvio alla realizzazione del Nuclear Defense Affairs Committee e del più importante Nuclear Planning Group <35. Due organismi la cui concezione sarebbe passata inevitabilmente per la questione di un “relativo riarmo” della Germania federale, molto più soft (sarebbe infatti stato un “finto riarmo”: nessun grilletto atomico sarebbe passato per la mano di Bonn!), grazie alla successiva adozione della dottrina della flexible response in ambito NATO. Una dottrina che, oltre la sua connotazione militare, aveva una rilevante prerogativa politica <36.
L’adozione della risposta flessibile da parte degli alleati NATO avrebbe infatti permesso alla Casa Bianca di continuare il dialogo con Mosca sfrondato da tutta una serie di implicazioni sul ruolo degli alleati nella gestione del condominio bipolare, e avrebbe altresì acconsentito a risolvere l’inveterata diatriba transatlantica sull’uso delle armi nucleari. Un uso che comunque sarebbe rimasto in mano a Washington, fugando le paure dei sovietici per una Germania “nuclearizzata”.
Nel dibattito transatlantico infine giaceva da tempo la necessità di una ristrutturazione graduale e concettuale dell’Alleanza Atlantica finalizzata alla riconferma da parte degli alleati del Trattato nel 1969; necessità che divenne urgenza nel corso del 1966 e con cui Johnson dovette rapidamente fare i conti, proprio a causa della “scossa di de Gaulle al sistema”.
Sotteso al quadro delle sfide che attendevano il Presidente in questo secondo scorcio degli anni sessanta era l’impegno nel Sud Est asiatico. Gli anni che videro un maggior coinvolgimento statunitense coincisero proprio con il biennio ’66-’68, gli ultimi due dell’amministrazione Johnson e i più densi di significativi avvenimenti. L’impatto che ebbe il conflitto del Vietnam sulla conduzione della politica estera americana e sulla percezione in patria dell’impegno statunitense a livello internazionale, fu cruciale.
A causa della sovraesposizione militare di Washington nel Sud Est asiatico, la crisi in Vietnam si legò presto alle altre problematiche in gioco: sul fronte europeo in misura principalmente negativa, su quello sovietico più positivamente. Innanzitutto gli europei iniziarono a perdere stima nei confronti dell’alleato senior proprio a causa del conflitto vietnamita, arrivando addirittura a divenire teatro di manifestazioni e a forme più o meno forti di anti-americanismo, Francia in particolare. Se da una parte ancora nell’agosto del ’67 gli Stati Uniti avevano bisogno, secondo le stime del Pentagono, di oltre 200 000 uomini per continuare quella escalation volta a fiaccare il nemico Vietcong; dall’altra si trovavano a dover negoziare con la RFT sulla quantità di truppe americane su suolo tedesco. In altre parole, Washington era incastrata nell’annosa questione dell’offset agreement e la necessità di avere forze nuove nel Sud est asiatico. Il dispiegamento delle truppe americane nella RFT aveva un costo e un significato: il secondo aspetto del problema aveva la sua ragion d’essere nel principio di base di alleanza, nello spirito che l’aveva informata. Il costo delle truppe per Washington invece era connesso con quanto i tedeschi sarebbero stati disposti a pagare per esse, dando così respiro alla bilancia dei pagamenti statunitensi. Laddove parte dei costi non potevano essere garantiti da parte tedesca, Washington era costretta a ritirare le forze e/o a disporne una diversa gestione (rotazione di divisioni, partecipazione di brigate britanniche, etc.).
In questo senso sicuramente il conflitto vietnamita accelerò, tra il ’66 e il ’67, il trend che avrebbe portato ad un diverso tipo di impegno americano in Europa, più defilato e sottotono, ma la questione sarebbe comunque rimasta una problematica con cui la Casa Bianca aveva a che fare da tempo e di cui avrebbe continuato a preoccuparsi negli anni a venire <37.
Dinnanzi alla prospettiva di un’Europa in forte crescita, proiettata verso la realizzazione di una se pur ancora lontana, unione economica e politica che travalicasse i confini della embrionale CEE, i governi alleati europei non erano del tutto disposti ad aumentare il proprio impegno economico e finanziario a favore della loro difesa. Piuttosto guardavano al proprio interno cercando di tirare le somme di una politica di welfare state costruita negli anni precedenti, e preferivano, anzi insistevano, affinché all’aspetto militare pensasse ancora Washington. E questo inevitabilmente creava difficoltà alla Casa Bianca, già sotto pressione per la richiesta di riduzione delle forze sia da parte dell’opinione pubblica che dal Congresso, con quella che in agosto sarebbe diventata la Risoluzione del Senatore Mike Mansfield.
Perché - si chiedevano nell’amministrazione Johnson e una parte crescente dell’opinione pubblica - Washington doveva continuare a fare sacrifici per la difesa dell’Europa se gli europei non volevano prestare un aiuto al loro alleato in tempo di guerra? Allo stesso tempo però i partners europei s’interrogavano se fosse corretto e accettabile che il conflitto in Vietnam diventasse un issue atlantico.
La discussione, com’era prevedibile, avrebbe riacceso il dibattito sul burden sharing e una buona dose di ostilità, contribuendo a scavare ulteriormente nelle crepe del rapporto transatlantico.
Al contrario, con i sovietici, il “fattore Vietnam” non incideva negativamente. Il riavvicinamento e la gestione di questo nuovo rapporto tra le due superpotenze, ancora molto cauto ma più rilassato, influiva tuttavia su quello che Mosca aveva con il “fratello minore” cinese, che appunto accusava l’URSS di tradire il socialismo con l’apertura ad ovest.
Una diretta conseguenza del miglioramento di questi rapporti si ebbe nell’avvio di una serie di contatti e scambi sia commerciali che culturali tra i paesi dell’Est e quelli dell’Ovest, finalizzati, da parte di Washington, ad influenzare il comportamento dei paesi comunisti verso l’esterno (verso i paesi occidentali) e l’interno (provocando criticità e dissenso verso i rispettivi governi e la società, all’interno della stessa compagine alleata comunista).
Nell’ambito degli accordi sulle riduzioni delle armi nucleari il riavvicinamento tra Usa e URSS si consumò contemporaneamente al conflitto e al dibattito sull’accesso alle armi nucleari nel blocco occidentale transatlantico.
Nel bel mezzo del 1966 Mosca avrebbe dichiarato alla Casa Bianca che non avrebbe voluto collegare alcun accordo sulle riduzioni di forze o sul disarmo con la questione del Vietnam e che su questo non sarebbe stata ostaggio della Repubblica Popolare Cinese <38. In sostanza Mosca non voleva mostrarsi troppo pronta a concludere un accordo che addirittura andava contro gli interessi di indipendenza nucleare dell’ormai antagonista cinese, ma ammetteva indirettamente che ormai era pienamente coinvolta in un processo irreversibile, peraltro già inaugurato dal Limited Test Ban Treaty.
Per il Cremlino il percorso che avrebbe condotto al Non Proliferation Treaty del ’68 - inaugurato dalla politica sul controllo degli armamenti - partiva dall’assunto (comune con la Casa Bianca) per cui non si dovevano permettere ulteriori sviluppi di armi né proliferazione nucleare, compreso (soprattutto) lo sviluppo della capacità atomica da parte della RPC che ormai s’avviava a far parte del club nucleare mondiale, grazie al primo test del ’64. Altrettanto divieto doveva sussistere per gli alleati degli Stati Uniti, la RFT, prima tra tutti. Nella seconda metà degli anni ’60, e in particolar modo a seguito della Peace Note del marzo del ’66, che aprì una nuova fase nella politica estera americana e tedesca, la Presidenza Johnson riuscì a legare concettualmente i negoziati per il Non Proliferation Treaty con gli obiettivi dell’Alleanza.
In pratica Washington doveva fare in modo di riportare gli alleati europei sul terreno degli interessi comuni, da cui in realtà si erano distanziati da tempo, quello cioè della conduzione delle relazioni Est-Ovest come sfida futura dell’Alleanza, togliendo terreno a chi in Europa, invece - e qui il riferimento alla Francia era esplicito - avrebbe voluto condurre una politica distensiva bilaterale. Quello che però avrebbe permesso all’amministrazione di portare a compimento un simile percorso e di concentrarsi sulla politica estera per l’Europa in stretta connessione con quella concepita per l’URSS, fu la realizzazione di una minaccia palesata da tempo, se non nelle sue estreme misure quanto meno nella sua intenzione: il ritiro francese dalla struttura integrata di comando.
La crisi di fiducia che a seguito dell’uscita di Parigi si determinò all’interno dell’organizzazione, come vedremo più avanti, avrebbe tuttavia determinato condizioni più favorevoli all’Alleanza stessa e a Washington, palesandosi più come un’opportunità che come una semplice minaccia.
[NOTE]
32 Stanley Sloan, NATO’s Future. Toward a New Transatlantic Bargain, National Defense University Press, Washington DC, 1985, pp. 40-43; M. Trachtenberg, A constructed peace, op. cit. pp. 310-315; Paul Hammond, LBJ and the Presidential Management of Foreign Relations, University of Texas Press, Austin, 1992.
33 FRUS, 1961-1963, Vol. XIII, “Policy Directive: NATO and the Atlantic Nations”, 20 April 1961, p.288.
34 Le difficoltà da parte degli alleati sulla MLF, come vedremo più in là nel nostro studio, scaturivano soprattutto dalla criticità di Francia e Gran Bretagna. La prima puntava a realizzare un deterrente nucleare autonomo e quindi non voleva impegnarsi in un progetto multinazionale come la MLF; la seconda non voleva abbandonare la sua pur limitata capacità atomica coadiuvata precedentemente dall’aiuto americano e proponeva invece la formazione di un Allied Nuclear Force, in cui a contare sarebbe stato la forza aerea britannica e gli Jupiter rimossi dalla Turchia e dall’Italia. De Gaulle, che in linea di massima avrebbe contribuito all’ANF senza rinunciare alla force de frappe, riteneva che lo schema di nuclear sharing proposto e personificato dal progetto di MLF non fosse altro che un mezzo per gli Stati Uniti per tenere sotto controllo le politiche nucleari occidentali e allo stesso tempo un espediente per farla figurare come un’occasione di condivisione in ambito strategico e nucleare con gli alleati. Vedi Stanley Sloan, op. cit.
35 Il Nuclear Planning Group fu un organismo interno all’organizzazione atlantica creato nel novembre del 1965 su proposta del segretario alla difesa americano McNamara, il quale, dapprincipio ne suggerì la creazione per ovviare al problema della pianificazione nucleare tra gli alleati, e solo in seguito realizzò che la proposta poteva andare a sostituire il progetto di MLF. Il Comitato del NPWG (Nuclear Planning Working Group) o anche NPG, riuniva i ministri della Difesa di Belgio, Canada, Danimarca, Germania Federale, Gran Bretagna, Grecia, Olanda, Turchia e ovviamente Stati Uniti. Al suo interno si suddivideva in tre sottogruppi di lavoro, di cui uno che si occupava della pianificazione nucleare, costituito da Usa, Gran Bretagna, Italia, Germania Federale e Turchia. Vedi H. Haftendorn, NATO and Nuclear revolution, A Crisis of Credibility, 1966-67, Clarendon Press, Oxford, 1996, soprattutto sulla sostituzione della MLF con il NPG; T.C. Wiegele, Nuclear Consultation Processes in NATO, in “Orbis”, vol. 16, No.2, Summer 1972, pp. 462-487; P. Buteux, The Politics of nuclear Consultation in NATO, 1965-1980, Cambridge, Cambridge University Press, 1983. Il Nuclear Defense Affaire Committee fu creato in seguito al NPG, nel dicembre del ’66, allorché si rese necessario, su proposta italiana, la creazione di un più ampio gruppo di lavoro, un organo dal carattere generale “che sarebbe stato formato da tutti quei membri dell’Alleanza che avessero mostrato interesse a discutere le linee di fondo della politica nucleare NATO, mentre un gruppo più ristretto, il NPG appunto, avrebbe costituito la sede adeguata per le discussioni più dettagliate dei problemi nucleari. L’obiettivo generale del NDAC “era la condivisione delle informazioni di base relative alle armi nucleari e ai piani di impiego, ma non della tecnologia dei sistemi d’arma”. Con l’occasione della creazione del NDAC la costituzione del NPG subì una importante modifica: gli stessi membri, Usa, Germania federale, Gran Bretagna e Italia ne divennero membri permanenti e di volta altri tre membri del NDAC vennero nominati temporaneamente. Essi avrebbero preso parte ai lavori del NPG. Vedi, Leopoldo Nuti, La sfida Nucleare, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 281-286.
36 La dottrina della flexible response, come vedremo più avanti nella trattazione, rappresentava un grande cambiamento dal punto di vista militare per la NATO, ma la sua incisività si dispiegava maggiormente in ambito politico. Era infatti uno strumento finalizzato a fare accettare agli Europei la politica americana di centralizzazione del controllo atlantico.
37 Hubert Zimmermann, The Improbable Permanence of a Commitment. America’s Troop Presence in Europe during the Cold War, in Journal of Cold War Studies, Vol. 11, No.1, Winter 2009, p.14.
38 Hal Brands, Progress Unseen: US Arms Control Policy and the Origins of Dètente, 1963-68, Diplomatic History, Vol. 30, No.2, April 2002, p. 260.
Chiara Organtini, "1963-1968. Dall’avvento dell’amministrazione di Lyndon. B. Johnson al Trattato di non Proliferazione: gli Stati Uniti, la Francia, la NATO e l’Europa agli esordi della distensione. Storia di una “non-crisi” transatlantica e della riorganizzazione dell’Alleanza", Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2011

giovedì 18 gennaio 2024

A rammentarci il dinamismo relativo della società italiana è il fenomeno dell’immigrazione


L’Italia, un Paese dove si diventa adulti sempre più tardi e non si invecchia mai, paradossalmente, ma non troppo, in questa società protesa all’eterna giovinezza si assiste alla progressiva eclissi dei giovani veri, anagraficamente, e, insieme, delle donne <42. Senza immaginare il futuro, però, l’arte di arrangiarsi si riduce a una tecnica di sopravvivenza circoscritta all’immediato, il che risulta particolarmente evidente (e problematico) in ambito socioeconomico.
Nel corso del secondo dopoguerra, infatti, gli italiani hanno migliorato costantemente la loro posizione sociale, di generazione in generazione; ogni generazione adulta ha investito nei giovani come mezzo di autopromozione sociale, certa che i figli avrebbero raggiunto traguardi ulteriori rispetto ai genitori. Ogni fase si è tradotta quindi in un obiettivo, capace di garantire sviluppo sociale e benessere individuale: negli anni Cinquanta la ricostruzione; negli anni Sessanta e Settanta l’istruzione e la cultura di massa; negli anni Ottanta e Novanta i consumi vistosi e il “capitalismo popolare”, espresso da una larga base costituita da piccoli imprenditori e da lavoratori autonomi.
Negli ultimi due decenni, però, questa spinta collettiva sembra essersi smorzata e quasi spenta; al di là dei dati economici e del mercato del lavoro, possiamo coglierne segnali importanti nella percezione diffusa che si traduce nel senso e nel linguaggio comune. A questo proposito, risulta particolarmente significativo il successo, nel dibattito pubblico ma anche nella vita quotidiana, di parole come declino e decrescita, usate in ambiti molto diversi - così nel contesto economico e di mercato come in quello politico, nello sviluppo territoriale come nella struttura sociale - anche prima della grande crisi finanziaria che ha investito l’economia e la società globale nel 2008.
1.2.2. La “smobilitazione sociale” in Italia
In tal senso gli anni Duemila sono sicuramente l’età del declino e della decrescita; idee che si sono ormai insinuate nelle pieghe della vita quotidiana, minando la capacità delle famiglie e delle persone di adattarsi e di reagire ai problemi e ai cambiamenti. Lo conferma, di nuovo, la percezione dei cittadini, in questo caso riguardo alla posizione e ancor più alle aspettative di mobilità sociale, percezione che si potrebbe riassumere in una formula: “smobilitazione sociale”.
Le auto-definizioni espresse dagli italiani, d’altronde, rivelano una distanza notevole dalle rappresentazioni diffuse, che richiamano una società “liquida” dove i confini e i riferimenti sociali si perdono, secondo l’immagine felice e fortunata di Bauman (2002), e una società “cetomedizzata”, secondo il neologismo coniato dal sociologo De Rita (2002), dove la classe operaia è un residuo ideologico del passato. Piuttosto che “liquida” e “cetomedizzata”, la società appare “vischiosa” e “stagnante”; una strada in salita su cui molti temono di scivolare ricadendo indietro. Anzitutto, la “classe operaia” non sembra scomparsa, nella percezione sociale, visto che circa il 40% degli italiani continua a utilizzare questa definizione per catalogare la propria posizione nella stratificazione sociale. Semmai, la associano e talora la sostituiscono con un’altra formula, più suggestiva che descrittiva, ma, proprio per questo, molto diffusa: “ceti popolari” (Magatti, De Benedittis, 2006) <43.
Oltre metà delle persone continua a riconoscersi nel “ceto medio”, dove confluiscono le professioni libere e quelle intellettuali: i professori e gli impiegati di concetto; fra i lavoratori autonomi: i commercianti più degli artigiani. Nella borghesia e nelle classi più elevate, com’era prevedibile, si collocano invece in pochi: il 6% degli italiani, per lo più dirigenti privati, funzionari pubblici, imprenditori e, in misura limitata, i liberi professionisti. I lavoratori atipici e flessibili si distribuiscono fra ceti popolari e medi, sebbene in effetti siano ancora pochi a definirsi in questo modo, poiché la flessibilità, pur essendo una condizione diffusa che caratterizza ampie fasce di
persone, giovani e meno giovani, non è considerata una professione o una categoria specifica.
Tuttavia, oltre alla professione, sembrano caratterizzare la posizione di classe e di ceto delle persone anche altri aspetti, legati alle risorse individuali e familiari disponibili; l’aspettativa di mobilità, anzitutto. Fra i ceti popolari la quota di coloro che sostengono di aver migliorato la propria posizione è molto esigua, meno del 10%, simile al peso di coloro che immaginano possibile migliorarla, nel prossimo futuro <44. Le persone che dichiarano di aver migliorato la loro posizione negli ultimi anni, infatti, si dicono certe di ereditare in futuro proprietà immobiliari e altri patrimoni.
Il capitale familiare (non solo immobiliare ed economico, ma anche di relazioni) nella percezione comune sembra quindi più importante di quello culturale, come risorsa di mobilità sociale (Carboni, 2007).
La percezione sociale del declino, peraltro, si è ulteriormente e rapidamente deteriorata a partire dal 2008, a causa dell’impatto della crisi che ha investito le borse, la finanza e, in parallelo, anche l’economia (Demos, 2008). La scala sociale costruita in base all’auto-collocazione degli italiani nell’ultimo periodo rivela, infatti, un sensibile slittamento; dal 2006 al 2008 le persone che considerano bassa la posizione della propria famiglia sono raddoppiate: dal 7 a oltre il 15%. Nello stesso tempo è aumentata anche la componente di coloro che definiscono medio-bassa la posizione sociale della propria famiglia: dal 20 al 30%. Per cui lo spazio della classe media si è ridotto dal 60 a circa il 45%.
Il declino sociale, al di là delle misure fondate sul reddito e sul mercato del lavoro, si riproduce soprattutto in queste rappresentazioni, che condizionano le aspettative riguardo al futuro dei figli. Infatti, circa 7 persone su 10 risultano pensare che i giovani occuperanno, in prospettiva, una posizione sociale ed economica peggiore rispetto ai loro genitori <45. Si assiste, infine, al declino della fiducia nei riferimenti che hanno caratterizzato e accompagnato lo sviluppo e il benessere nel corso del dopoguerra e, soprattutto, fra gli anni Settanta e Novanta, ossia le organizzazioni che rappresentano i lavoratori dipendenti e gli imprenditori, che hanno visto scendere il consenso sociale nei loro riguardi in modo rapido e profondo.
1.2.3. L’immigrazione e il “particolarismo sociale”
A rammentarci il dinamismo relativo della società italiana è il fenomeno dell’immigrazione, che è cresciuto in misura enorme negli ultimi 30 anni. Intorno alla metà degli anni Novanta, infatti, il tasso di stranieri sulla popolazione era inferiore all’1%, mentre alla fine del primo decennio degli anni 2000 è salito oltre il 6%; in termini quantitativi quasi 4milioni («Caritas-Migrantes», 2008). Nelle regioni del Nord e in particolare nelle province caratterizzate da uno sviluppo di piccola impresa l’incidenza degli stranieri sale oltre il 10% della popolazione. Naturalmente, il fenomeno è il prodotto di numerose cause che hanno investito i Paesi da cui provengono gli immigrati, come instabilità globale, guerre, conflitti diffusi, crisi economiche e povertà; tuttavia, i percorsi dell’immigrazione non sono mai casuali. L’Italia, per decenni luogo di emigrazione e, in seguito, area di passaggio per immigrati diretti verso altri Paesi d’Europa, a partire dalla fine degli anni Novanta è divenuta essa stessa destinazione di un’immigrazione ampia e stabile richiesta dal mercato e dalle trasformazioni demografiche e sociali.
[NOTE]
42 L’età media dei dirigenti pubblici dello Stato ma anche degli enti locali supera i 50 anni (indagine Università Bocconi, 2004, confermata ancora oggi).
43 Tali si considerano, in gran parte, gli operai; ma anche le casalinghe e i pensionati, così come quote rilevanti (superiori al 40%) di impiegati e di artigiani.
44 Peraltro, la stratificazione sociale mostra una geografia urbana e una distribuzione delle risorse ben definita: i ceti popolari abitano nelle periferie, i ceti medi nei quartieri residenziali, la borghesia nei centri storici. Gran parte degli italiani vive in una casa di proprietà, ma una persona su due, fra i borghesi, e una su quattro, fra i ceti medi, ne possiede almeno due. Nei ceti popolari questa componente si riduce invece al 14% e quella di chi è in affitto sale al 20%, ossia quasi il doppio della media generale. Ciò chiarisce quale sia la principale risorsa a cui si affidano le speranze di mobilità: la famiglia, i circuiti parentali e amicali.
45 Soltanto due anni prima questa convinzione veniva espressa da una quota di persone ampia ma molto più limitata: il 45%. Il senso di declino, inoltre, non si distribuisce in modo omogeneo ma si addensa con particolare intensità in alcuni punti della società. Per esempio, tra le donne, tra gli operai, tra le persone con un titolo di studio basso, nel Mezzogiorno. Quindi, dal punto di vista della stratificazione, tra coloro che si collocano nei ceti bassi e medio-bassi. Espresso in altri termini, tra le componenti socialmente più deboli.
Marco Schiavetta, Il bisogno sociale di orientamento permanente come risposta al fenomeno dei NEET. Una teoria emergente per un “modello di orientamento permanente ed inclusivo”, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2019

mercoledì 10 gennaio 2024

Si iniziò a parlare del New Federalism di Nixon


Il fatto che l’era della Great Society stesse oramai giungendo al termine, si colse, in modo evidente, dal tono del discorso sullo stato dell’Unione che Lindon Johnson pronunciò nel 1967. In modo afflitto il Presidente uscente si rifece al pensiero di Thomas Jefferson, asserendo che: “È una triste regola delle società umane quella che a volte le costringe a scegliere un grande male per scongiurarne uno ancora più grande .. Vorrei potervi dire che il conflitto volge al termine. Non posso farlo. Ci attendono nuovi costi, nuove perdite e nuove sofferenze, perché non siamo ancora alla fine” <58. La Guerra in Vietnam divenne una delle ragioni politiche principali della sconfitta democratica, della mancata ricandidatura di Johnson e della vittoria repubblicana, nella cornice di quello che era diventato un Paese diviso <59.
Alle origini del neoconservatorismo, che si affermò nel corso degli anni Settanta, si collocano due importanti scuole di pensiero. La prima capeggiata da Milton Friedman, uno dei maggiori esponenti della Scuola monetarista di Chicago e la seconda, guidata da Irving Kristol, un sociologo legato alla rivista “The Public Interest”. L’intellighenzia conservatrice emerse dapprima in ambito economico, laddove fu agevole per i monetaristi mettere a nudo le derive negative di una politica smodata di deficit spending che li aveva indotti a ripudiare l’immagine di uno Stato interventista negli affari economici e sociali al fine di restituire al libero mercato i naturali andamenti. Friedman e Joseph Stigler criticarono il ruolo e le misure deliberate dal Regulatory State, giungendo, addirittura, a sostenere che la Grande Depressione era stata il risultato del fallimento del Governo e non del mercato. Il ritorno al fondamentalismo liberista e alla retorica della mano invisibile, in grado di auto-correggere i fallimenti del mercato, aveva addirittura condotto la Scuola monetarista ad una reiezione del corpus normativo del New Deal e, addirittura, quello precedente della Progressive Era <60.
La rivolta sociologica avvenne, invece, dopo il ritorno in auge del fondamentalismo liberista e rinvenne in Krystol uno dei suoi maggiori teorizzatori. Lo studioso si ribellava cinicamente alla poderosa costruzione welfaristica della Great Society, ritenuta un “assurdo esercizio di ingegneria sociale, conseguenza dell’accettazione generale delle teorie sociologiche della sinistra incorporate nel programma Guerra alla Povertà” <61. Nel solco di questa ‘nuova’ corrente di pensiero si poneva l’ascesa sulla scena politica di Richard Nixon che, appellandosi alla “maggioranza silenziosa” degli americani socialmente conservatori che rifiutavano la cultura hippie e il grave conflitto in Vietnam, riuscì a vincere con una larga maggioranza le elezioni presidenziali del 1968 e del 1972, che determinarono la rimonta della destra ultraconservatrice negli Stati Uniti d’America.
Nixon promise al Paese una “pace con onore” e congiuntamente al Segretario di Stato Henry Kissinger, diede una svolta alla politica americana, facendo perno sulla dottrina di Truman che credeva in un mondo bipolare <62. Nell’ambito della politica interna Nixon tentò di instaurare un equlibrio tra la retorica conservatrice e l’utilizzo di ogni prerogativa presidenziale, maturando un approccio liberale nel campo della tutela dei diritti civili e delle libertà economiche. Ma il suo mandato presidenziale si concluse con la rassegnazione delle dimissioni per evitare la condanna a seguito della procedura di impeachment avviata nei suoi confronti a causa dello scandalo Watergate <63.
L’epiteto di “Presidenza Imperiale” con cui Arthur Schlesinger Jr. fregiò il mandato di Richard Nixon, era motivato dall’uso che egli fece delle prerogative presidenziali, stravolgendo l’impianto della Costituzione, tanto sul piano della politica estera quanto su quello della politica interna. Richard Nixon seppe strumentalizzare le divisioni razziali, la preoccupazione cagionata dai cambiamenti sociali e le minacce provenienti dall’estero al fine di allontanare la classe lavoratrice bianca dalle conquiste del New Deal. L’astuzia del Presidente fu costituita dalla sua capacità di manipolare i media <64. Sul piano della politica interna Nixon adottò, comunque, delle misure invise alla destra ultraconservatrice, aumentando il prelievo fiscale, rafforzando la tutela ambientale e introducendo una nuova assicurazione sanitaria nazionale, considerati dei programmi sin troppo “liberal” <65.
In effetti, gli anni Settanta furono il periodo dell’elevato progresso scientifico e teconologico, ma furono anche gli anni degli shocks petroliferi del 1973 e del 1974 che cagionarono il diffondersi di una pericolosa spirale inflazionistica, mettendo a nudo l’inattititudine delle ricette economiche di deficit spending nel sanare la crisi. Gli Stati Uniti conobbero un nuovo grave e preoccupante fenomeno congiunturale noto come stagflazione, costituente una situazione di crisi dovuta alla compresenza di un elevata inflazione e di una economia reale stagnante e non in crescita <66. Una delle prime misure approntate dal Governo federale per affrontare la crisi fu costituita dalla sospensione della convertibilità del dollaro in oro nel 1971 <67.
La teoria monetarista di Milton Friedman non solo criticò l’efficacia delle ricette keynesiane, ma mise anche in evidenza il ruolo chiave svolto dalle politiche monetarie nella stabilizzazione macroeconomica. Secondo tale Scuola di pensiero un incremento proporzionato dell’offerta di moneta avrebbe condotto nel breve periodo ad un incremento del PIL nominale, in modo tale che nel lungo periodo si potesse assicurare una stabilizzazione dei prezzi e dei salari. A parere degli studiosi della Scuola di Chicago l’iniziativa economica privata, lasciata libera di operare in modo autonomo, non tendeva all’instabilità dal momento che le fluttuazioni del PIL nominale erano dovute ad un intervento dello Stato nell’economia. In tal modo, la moneta acquisiva un ruolo fondamentale nella determinazione della domanda aggregata e nella flessibilizzazione dei prezzi e dei salari.
La congiuntura economica influenzò notevolmente l’azione del Presidente Nixon e radicalizzò i tratti distintivi della sua “Imperial Presidency”, influendo in modo inevitabile sulle dinamiche intergovernative <68. Non costituisce una circostanza trascurabile il fatto che nel corso degli anni settanta i grants-in-aid ed i federal mandates siano aumentati notevolmente. Accanto al classico sistema di sovvenzioni federali, si pose una nuova categoria di sussidio finanziario, meglio noto come "Cross-over-sanctions". Questi ultimi imponevano un obbligo positivo di realizzazione in capo agli Stati, sul modello dei "Federal Mandates", il cui inadempimento comportava la immediata riduzione dei finanziamenti già concessi agli Stati. L’incisività di tale meccanismo risiedeva nel fatto che agli Stati non era concessa alcuna facoltà di scelta, costringendoli ad accettare la sovvenzione federale per evitare la sospensione, se non addirittura la revoca di aiuti finanziari già concessi e destinati, spesso, ad altri settori <69.
Alle "Cross-over-sanctions" si aggiunse una espansione della "Federal Preemption" che consentiva al Governo federale di conservare un ruolo di indirizzo e di controllo nei confronti delle realtà periferiche senza doverne, però, subire il conseguente onere finanziario, nella cornice legittimante della "Supremacy Clause". Nel corso degli anni settanta furono approvati una serie di atti normativi rientranti sia nella categoria della "Total Preemption" sia della "Partial Preemption" <70, a sostegno di una riduzione della spesa pubblica federale a favore degli Stati, pur mantenendo in vita dinamiche relazionali collaborative. Il modello dei "conditional grants-in-aid", visti gli alti costi per il bilancio federale, cedette gradualmente il posto al sistema della "federal preemption" che consentiva al Federal Government di avocare a sé la disciplina di rilevanti materie, spesso di rilievo e di competenza statale, senza però doversene accollare i relativi costi. Quando alla semplice invasione della competenza normativa statale si associò l’imposizione di un obbligo di positiva attuazione della misura federale, ci si trovò innanzi alla categoria dei "federal mandates", in cui la facoltà di adesione degli Stati era sostanzialmente annientata. Si trattava, comunque, di strumenti di coazione piuttosto che di programmazione messi in atto dal Federal Government che alterarono le dinamiche e gli equilibri delle relazioni intergovernative, tinteggiando il federalismo cooperativo di sfumature coercitive <71. Qualora, poi, la legge federale non contenesse una "saving clause" che legittimasse il concorrente intervento normativo statale, era compito della Corte Suprema appurare la sussistenza di un conflitto tra fonti e verificare quale fosse il "determining intent" perseguito dal legislatore federale nel momento in cui aveva deciso di legiferare in un ambito di acclarata competenza statale. Se questo intento non era enucleabile né in modo espresso né in modo tacito, la Corte non avrebbe potuto dichiarare preminente la disciplina federale <72.
Come ebbe modo di affermare Elazar, la "federal preemption" e i "federal mandates" consentirono la realizzazione di un “coercive or prefectorial Federalism” in cui il ruolo cooperativo e variamente partecipativo dei singoli Stati risultava, oltremodo, ‘compresso’ e ‘compromesso’ <73. A siffatto "federal coercive trend" fece da contraltare lo sviluppo di una nuova categoria di grants, erogati a favore degli Stati. Si diffusero così i cd. block grants, ossia sovvenzioni federali dall’ampia connotazione teleologica che conferivano una maggiore flessibilità, in capo ai singoli Stati, nella predisposizione ed attuazione dei singoli programmi. I block grants, a differenza dei categorical grants, non si prefissavano la realizzazione di obiettivi puntuali, ma stanziavano cospicue sovvenzioni federali per l’attuazione di ampi progetti e per il perseguimento di plurime finalità in vasti ambiti di intervento <74. Ne era derivata una maggiore semplificazione amministrativa nella gestione dei programmi di intervento socio-assistenziali, accorpabili a pregressi programmi di tipo categorical, che fungerà da prodromo per la successiva deregulation degli anni Ottanta.
Come rileva Bognetti fu già nel corso degli anni settanta che alcune direttive presidenziali rivolte alle agenzie amminstrative, misero in mostra la volontà di agire a livello federale solo nei casi comprovata insufficienza degli Stati, pur trattandosi ancora di intenti cristallizzati per lo più in fonti regolamentari, aventi un rango inferiore a quello delle leggi <75. Uno dei più importanti campi di applicazione della nuova categoria di sovvenzioni fu, soprattutto, quello dell’edilizia popolare attraverso il programma "Community Development Block Grants" che si dimostrò molto più duttile del pregresso progetto "Model Cities" <76. Il modello dei block grants fu riproposto anche nel corso della Presidenza di Carter al fine di promuovere gli investimenti privati nelle aree urbane, nell’ottica di quel “Piano Marshall per le città” invocato da anni dalla Conferenza dei sindaci <77.
Si approntarono scelte politiche mirate che palesavano l’intenzione di ripensare le relazioni intergovernative al fine di evitare derive coercitive nell’azione di programmazione federale. Per tali motivi, si iniziò a parlare del "New Federalism" di Nixon che poggiava sulla devoluzione di maggiori competenze a favore delle entità decentrate e da queste ultime a favore delle realtà locali e delle istituzioni appartenenti al "Third Party of Government". In tal modo, si tentò di ripristinare un nuovo balancing tra Stato federale e singole entità statali, fondato su di una suddivisione delle sfere di competenza secondo le logiche di una ‘recuperata’ ottica cooperativa. Nel corso della Presidenza di Richard Nixon, il termine "New Federalism" era stato più volte utilizzato con riguardo ai finanziamenti federali erogati a favore dei singoli Stati senza vincoli di destinazione, attraverso il "General Revenue Sharing", avente il fine precipuo di ridare vigore alla discrezionalità statale nella conduzione delle politiche di spesa, in virtù dell’eliminazione di una serie di conditions apposte ai categorical grants che fu implementato nel corso della Presidenza di Gerald Ford <78. Si trattò di una forma di cooperazione sul piano fiscale, che riuscì ad esaltare la libertà e la creatività simultanea di tutti i livelli di govenro coinvolti, vivacizzando le dinamiche federali. Sempre in quegli anni, Nixon provvide a ridurre il “potere della borsa” del Congresso incardinato in apposite previsioni costituzionali. Il Presidente, inaugurando la prassi dell’impoundment, si rifiutò di spendere fondi stanziati in via formale dal Congresso per il settore edilizio, per il disinquinamento dell’acqua e dell’istruzione, temendo che il Congresso potesse assumere condotte irresponsabili nel coordinare i programmi di spesa con i piani delle entrate. <79
Occorre poi, rammentare le importanti modifiche occorse al settore bancario che rivisitarono taluni assunti di base del corpo normativo del New Deal. Infatti, virtù di una interpretazione estensiva di una legge del 1970 si determinò una ibridazione tra modelli e comparti del settore creditizio sino ad allora molto delimitati e delineati. <80
[NOTE]
58 La citazione è rinvenibile nell’opera di P. KRUGMAN, La coscienza di un liberale …cit., p. 93.
59 La nozione di “division in the American house” è rinvenibile nel discorso che Lindon Johnson fece alla Nazione il 31 marzo del 1968, in occasione del quale rese nota la sua volontà di non ricandidarsi. Il testo dell’annuncio è integralmente consultabile sul sito internet: http://millercenter.org/, correlato al Miller Center of Public Affairs della University of Virginia.
60 In particolare, P. KRUGMAN, “Who Was Milton Friedman”, in New York Review of Books, 15 febbraio 2007.
61 Sul punto, I. KRYSTOL, “American Conservatsim, 1965-1995”, in The Public Interest, (Autumn 1995), pp. 80 e ss.
62 L’Amministrazione Nixon si fece portatrice di un programma di realpolitik che induceva gli Stati Uniti ad intervenire militarmente solo quando fossero stati messi in gioco i loro interessi nazionali. Ma non bisogna tralasciare l’ingerenza, strategica e gravida di tristi conseguenze, negli affari politici dell’America Latina.
63 Quando rassegnò le proprie dimissioni, l’8 agosto del 1974, Richard Nixon affermò: “Continuare la mia battaglia nei mesi a venire per difendermi dalle accuse, assorbirebbe quasi totalmente il tempo e l’attenzione del Presidente e del Congresso, in un momento in cui i nostri sforzi devono essere diretti a risolvere le grandi questioni della pace fuori dai nostri confini e della ripresa economica, combattendo contro l’inflazione al nostro interno. Ho deciso, perciò, di rassegnare le dimissioni da Presidente”. Il Presidente non ammise la sua responsabilità e celò le ragioni delle sue dimissioni sulla necessità che un Paese in difficoltà avesse un full-time Congress ed un full-time President. Per una consultazione della versione scritta e della versione orale del discorso del Presidente, si rimanda al sito internet: http://millercenter.org/ , correlato al Miller Center of Public Affairs della University of Virginia.
64 Come evidenzia Krugman, Roger Ailes, Presidente di Fox News era consigliere di Richard Nixon per i mezzi di comunicazione e di informazione ed è un personaggio centrale nel libro di Joy McGinniss del 1969, Come si vende un Presidente. I media costituirono un ottimo strumento di propaganda politica e di repressione del dissenso. Sul punto, P. KRUGMAN, La coscienza di un …cit., p. 116. Nixon manifestò, del resto, una certa riluttanza nei confronti delle agenzie amministrative indipendenti, firmando una serie di ordini esecutivi aventi il fine di accentrare nelle mani del Presidente il potere di direzione dell’attività regolatoria. Sul punto, si veda il contributo di C.R. SUNSTEIN, “Constitutionalism After the New Deal”, in Harvard Law Review, Vol. 101, (1987), p. 454.
65 Si trattava del Federal Health Insurance Plan varato nel 1970, il quale estendeva una copertura sanitaria uniforme su tutto il territorio nazionale a favore delle famiglie povere con bambini. Fu anche approvato il Family Assistance Plan. Le politiche di Nixon erano dirette, comunque, a garantire una razionalizzazione della spesa pubblica ed una riduzione dei costi. Sul punto, per una accurata analisi ricostruttiva, si rinvia al contributo di G. AMATO, Democrazia e redistribuzione …cit., pp. 80 e ss.
62 L’Amministrazione Nixon si fece portatrice di un programma di realpolitik che induceva gli Stati Uniti ad intervenire militarmente solo quando fossero stati messi in gioco i loro interessi nazionali. Ma non bisogna tralasciare l’ingerenza, strategica e gravida di tristi conseguenze, negli affari politici dell’America Latina.
63 Quando rassegnò le proprie dimissioni, l’8 agosto del 1974, Richard Nixon affermò: “Continuare la mia battaglia nei mesi a venire per difendermi dalle accuse, assorbirebbe quasi totalmente il tempo e l’attenzione del Presidente e del Congresso, in un momento in cui i nostri sforzi devono essere diretti a risolvere le grandi questioni della pace fuori dai nostri confini e della ripresa economica, combattendo contro l’inflazione al nostro interno. Ho deciso, perciò, di rassegnare le dimissioni da Presidente”. Il Presidente non ammise la sua responsabilità e celò le ragioni delle sue dimissioni sulla necessità che un Paese in difficoltà avesse un full-time Congress ed un full-time President. Per una consultazione della versione scritta e della versione orale del discorso del Presidente, si rimanda al sito internet: http://millercenter.org/ , correlato al Miller Center of Public Affairs della University of Virginia.
64 Come evidenzia Krugman, Roger Ailes, Presidente di Fox News era consigliere di Richard Nixon per i mezzi di comunicazione e di informazione ed è un personaggio centrale nel libro di Joy McGinniss del 1969, Come si vende un Presidente. I media costituirono un ottimo strumento di propaganda politica e di repressione del dissenso. Sul punto, P. KRUGMAN, La coscienza di un …cit., p. 116. Nixon manifestò, del resto, una certa riluttanza nei confronti delle agenzie amministrative indipendenti, firmando una serie di ordini esecutivi aventi il fine di accentrare nelle mani del Presidente il potere di direzione dell’attività regolatoria. Sul punto, si veda il contributo di C.R. SUNSTEIN, “Constitutionalism After the New Deal”, in Harvard Law Review, Vol. 101, (1987), p. 454.
65 Si trattava del Federal Health Insurance Plan varato nel 1970, il quale estendeva una copertura sanitaria uniforme su tutto il territorio nazionale a favore delle famiglie povere con bambini. Fu anche approvato il Family Assistance Plan. Le politiche di Nixon erano dirette, comunque, a garantire una razionalizzazione della spesa pubblica ed una riduzione dei costi. Sul punto, per una accurata analisi ricostruttiva, si rinvia al contributo di G. AMATO, Democrazia e redistribuzione …cit., pp. 80 e ss.
66 La stagflazione era stata pronosticata da Milton Friedman nei libri, Capitalism and Freedom e nella Storia Monetaria degli Stati Uniti Sul punto, si rimanda al contributo di A. PIERINI, Federalismo e Welfare State nell’esperienza giuridica …cit., pp. 158 e s.
67 Fu così posta fine al regime del Gold Exchange Standard, messo a punto nel 1944 e si istituì un nuovo regime monetario di tipo ibrido. Il nuovo sistema consentì ad ogni Stato di governare la propria liquidità interna. Nell’ambito del commercio internazionale, la ragione di scambio di una moneta nei confronti di altre era determinata dal libero mercato ed era fluttuante. Solo che i numerosi impegni contratti all’estero dagli Stati Uniti per la conduzione della politica di difesa contro il comunismo e il conflitto in Vietnam, contribuirono ad aumentare la massa monetaria in circolazione e ad indebolire il dollaro sul piano internazionale. Il sistema monetario internazionale si era connotato per le sue intrinseche trasformazioni strutturali. Alle origini, venne utilizzato il sistema di Gold Standard o sistema aureo o dei cambi fissi in cui i Governi specificavano la loro moneta nei termini fissati di una quantità fissa di oro. La scelta dell’oro era motivata in ragione della preziosità e scarsità del metallo e per la sua limitata utilizzazione industriale. Negli anni ’30 e ’40, il sistema aureo mostrò i suoi lati deboli, dovuti al disordine economico e alla svalutazione a fini anticoncorrenziali. Fu così che sotto la guida intellettuale di John Maynard Keynes, i rappresentanti di molte Nazioni si riunirono a Bretton Woods, nel New Hampshire, nel 1944 e siglarono l’accordo costitutivo del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e firmarono il General Agreement on Tariff and Trade, meglio noto con la sigla GATT. Si dette così vita al Gold Exchange Standard, che si fondava su di un regime di tassi fissi, ma aggiustabili in caso di eccessivo squilibrio. Il sistema di Bretton Woods istituiva una parità, per ciascuna moneta, rispetto al dollaro statunitense e all’oro. L’abbandono del sistema di Bretton Woods, negli anni settanta, fu seguito dall’introduzione del sistema ibrido odierno che conta sulla presenza di Paesi che consentono una libera fluttuazione monetaria, di altri che possiedono tassi di cambio amministrati, altri ancora agganciano la loro valuta ad una moneta forte o ad un paniere di monete forti secondo il sistema di parità strisciante e, infine, vi sono Paesi che si uniscono in blocco per stabilizzare i rispettivi tassi di cambio, come accadeva nell’ambito del sistema monetario europeo. Ogni Paese si riserva, comunque, di intervenire sui tassi di cambio, qualora i mercati diventino turbolenti. Sul punto, si leggano i contributi di G. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano …cit., p. 178 e ss., nonché di R. SALOMON, The International Monetary System, 1945-1976: An Insider’s View, New York, 1977, pp. 2 e ss.
68 Come rileva Arthur Schlesinger, l’esaltazione dei poteri presidenziali, imposta dall’emergenza bellica e dalla Guerra Fredda degli anni Quaranta e Cinquanta, si sarebbe accentuata progressivamente nei due decenni successivi, in particolare con Richard Nixon, il quale, per uno “strano accidente storico”, fece confluire, in modo singolare, la carica e l’uomo. In particolare, A.M. SCHELISNGER, La presidenza imperiale, ed. it., Milano, 1980, p. 255 nonché K.E. WHITTINGTON, “The Buger Court, 1969-1986. Once More in Transition”, in The United States Supreme Court. The Pursuit of Justice (a cura di C. TOMLINS), New York, 2005, pp. 301 e ss.
69 Un tipico esempio di Cross-over-sanctions fu costituito da una legge federale del 1974 che introduceva l’embargo contro i Paesi esportatori di petrolio ed imponeva agli Stati federati di ridurre la velocità massima consentita alle automobili al fine di diminuire il consumo eccessivo di carburante, minacciando la riduzione dei fondi federali per la costruzione della rete autostradale. Si trattava, non solo di un mandato imperativo imposto ai singoli Stati, da adempiere in modo puntuale, pena la riduzione dei fondi federali, ma costituiva anche una intromissione nella sfera d’azione del police power statale, da sempre legittimato alla regolazione della materia della circolazione stradale. Analogamente, si comportò il Congresso federale nel 1991, quando approvò una legge che imponeva agli Stati di disporre la sospensione della patente, per sei mesi, ai soggetti condannati per reati correlati all’uso di sostanze stupefacenti. Sul punto, si rimanda al contributo di M. COMBA, Esperienze federaliste tra garantismo e democrazia. Il «judicial federalism» negli Stati Uniti, Napoli, 1996, p. 191.
70 Basti rammentare lo U.S. Grain Standard Act del 1968 e il Federal Rail Road Safety Act del 1970, costituenti casi tipici di Total Preemption con radicale esclusione di una concurring legislation statale in materie, di norma, sottoposte al police power degli Stati. Mentre il Safe Drinking Water Act del 1974, in materia di protezione ambientale, fu sottoposto ad una forma di Partial Preemption, in cui lo Stato federale imponeva solo degli standards generali di disciplina della materia. In particolare, A. PIERINI, Federalismo e Welfare State nell’esperienza giuridica …cit., pp. 108 e s.
71 Come affermò Elazar, dal 1965 al 1985, il trend federale fu centralizing, anche se in modo altalenante. In particolare, D.J. ELAZAR “Opening the Third Century of American Federalism: Issues and Prospects”, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 509, (May 1990), p. 12. L’autore rileva anche che gli eventi congiunturali negativi che connotarono l’Amministrazione di Nixon, paralizzarono, pur tuttavia, il Federal Government, spingendo i singoli Stati a provvedere in modo autonomo. Come sottolinea Elazar, gli Stati riscoprirono di avere un potere che derivava dalla loro condizione di “States as States and did not need to wait for federal iniziative or permission, in other words, that the States are indedd polities”, ibid. p. 14. Sul fenomeno della centralization of power, considerata strumento indispensabile per risolvere i problemi nazionali, si rimanda anche al contributo di M.F. LASLOVICH, “The American Tradition: Federalism in the United States”, in Comparative Federalism and Federation, Competing Tradittions and Future Directions (edited by M. Burgess and A.G. Gagnon), New York, 1993, pp. 188 e ss., il quale richiama più volte il pensiero di Elazar espresso in materia.
72 Caso E.G. Malone v. White Motor Corporation, 435 U.S. 497 (1978).
73 In particolare, D.J. ELAZAR, “Is Federalism Compatible with Prefectorial and Administation?”, in Publius, Vol. 11, (Spring 1981), pp. 4 e ss. nonché dello stesso autore, il citato “Opening the Third Century of American Federalism: Issues and Prospects”, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 509, (May 1990), p. 12.
74 Come rileva Pierini, si trattava di finanziamenti in blocco che lasciavano ai singoli Stati percipienti ampia discrezionalità nella individuazione dei problemi, nell’articolazione dei programmi, nelle modalità di intervento e nella allocazione delle risorse. I requisiti di natura amministrativa e fiscale, fissati dal Federal Government, avevano un carattere eminentemente principiologico. Di norma la legge federale provvedeva a fissare un apposito tetto di spesa. Tra i primi rilevanti esempi di atti normativi istitutivi dei block grants, si colloca l’Ominibus Crime Control and Safe Streets Act del 1968, destinato a ridurre il numero di regulations e di conditions federali. In particolare, A. PIERINI, Federalismo e Welfare State nell’esperienza giuridica …cit., pp. 100 e s.
75 Sul punto, G. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano …cit., p. 208.
76 Il programma aveva il duplice scopo di eliminare il degrado urbano e la frammentazione burocratica, ma si attrasse le critiche di chi temeva che il nuovo assetto decentrato potesse disperdere gli obiettivi nazionali. Il programma federale venne stilato nel 1974 e proponeva sussidi generalizzati agli affittuari e block grants per finanziare piani di sviluppo comunitari, iniziati e decisi in sede locale. L’intento era quello di incrementare la domanda per la riabilitazione e per l’uso degli immobili urbani che era il cuore del problema delle case in città. Nixon intendeva estirpare gli abusi perpetrati nel programma di assistenza alla proprietà, che favorivano le speculazioni dei costruttori e provocavano disparità di trattamento. Il programma non sortì, però, gli effetti sperati. In uno studio effettuato dal Brookings nel 1978 per conto del Governo, si dimostrò che i rapporti tra i differenti livelli di governo non era affatto mutato. L’intervento federale era nuovamente aumentato e il conflitto con gli enti locali in merito alle scelte di assetto territoriale era diventato ampio. Sul punto, si rimanda al contributo di G. AMATO, Democrazia e redistribuzione …cit., pp. 90 e ss. Per un’analisi delle critiche mosse al programma normativo federale, si legga la relazione al disegno di legge redatta dal Banking Housing and Urban Affairs Committe del Senato.
77 In particolare, G. AMATO, Democrazia e redistribuzione …cit., p. 94. Anche Elazar evidenzia i limiti dell’Amministrazione Carter, ma sottolinea come il Presidente ebbe il merito di sviluppare relazioni simpatetiche con i singoli Stati, sviluppando una trama relazionale che gli valse l’epiteto di ideatore della “federalism partnership”. Fu proprio in quel periodo che le Corti Supreme statali svilupparono un nuovo e vibrante diritto costituizionale statale, “building state constitutional foundations for public policy in everytthing from individual rights to relations between religion, state and society, and to fairer distribution of public services”. Si trattò di un atteggiamento che si riflettè sugli indirizzi pretori della Corte Suprema e si manifestò in quel leading case, isolato nell’oceano degli indirizzi pretori contrastanti, in materia anche nel futuro, che sarà come vedremo costituito dal National League Cities case del 1976. Sul punto, D.J. ELAZAR “Opening the Third Century of American Federalism: Issues and Prospects”, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 509, (May 1990), p. 15.
78 Sul punto, A. PIERINI, Federalismo e Welfare State nell’esperienza giuridica …cit., p. 186 nonché S. KOFF, “Il sistema federale americano e la Presidenza”, in Federalismo, regionalismo, autonomismo (a cura di E.A. Albertoni e M. Ganci), Tomo II, Enna, 1987, p. 347.
79 Si trattò di uno dei tanti esempi di quella Presidenza Imperiale che avocava a sé poteri di protezione e direzione dell’economia e della società che ebbe rilevanti ripercussioni nell’ambito dell’equilibrio tra poteri sull’asse orizzontale. Fu solo l’indebolimento del Presidente, a seguito dello scandalo Watergate, che spinse il Congresso ad approvare il Budget Reform Act, nel 1974, che conferì ad entrambe le Camere il potere di veto sugli impoundments, denominati poi recisions, e istituì speciali commissioni per il bilancio in ambedue le camere, congiuntamente al Congressional Budget Office. Le due Commissioni provvedevano a curare il coordinamento tra introiti e spese. In particolare, M.A. KRASNER, S.G. CHABERSKI, Il sistema di governo degli Stati Uniti d’America. Profili istituzionali, Torino, 1994, p. 164, gli autori rilevano come gli stanziamenti del Congresso, anche se stabiliti per legge, divennero meri suggerimenti forniti al Presidente, ibid., p. 165.
80 Le casse di risparmio furono anche autorizzate ad emettere particolari depositi a risparmio detti now accounts che offrivano ai depositanti tassi di interesse simili a quelli concessi su altri depositi e conferivano la possibilità di emettere assegni. Le riforme esautorarono le banche commerciali del potere di controllo del sistema dei pagamenti. Di rilievo, sono anche due provvedimenti normativi approvati nel 1978, l’International Banking Act che pose le banche straniere sullo stesso piano di quelle domestiche ed implementò la capacità delle banche statunitensi di competere nel circuiti internazionale ed il Financial Institutions Regulatory and Interest Rate Control Act con cui vennero perseguiti taluni abusi finanziari e vennero rafforzati i poteri delle autorità di controllo nel prevenire pericolose operazioni di concentrazione bancaria.
Giuseppina Passarelli, Il "Federalizing process" tra dinamismo ed evoluzionismo negli Stati Uniti e nell'Unione Europea. La "Commerce Clause" in prospettiva comparata, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, Anno Accademico 2008-2009