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domenica 15 settembre 2024

La risposta di Kennedy non tardò ad arrivare


Conseguenza, anche in questo caso, della Destalinizzazione fu la frattura tra le due potenze comuniste maggiori: Unione Sovietica e Cina. Più che per le critiche apertamente rivolte a Stalin, Mao Zedong criticò amaramente la debole posizione di Chruščëv avuta nella gestione delle relative conseguenze a livello globale. La Cina era anche convinta di aver svolto un ruolo cruciale nella crisi dei Paesi centro-orientali, salvando la Polonia dall'estremo nazionalismo sovietico e l'Ungheria dal pericolo di una controrivoluzione, suggerendo al leader sovietico come agire. Chruščëv, infatti, era apparso molto sensibile ai consigli di Mao Zedong. Dopo la scomparsa di Stalin e la guerra in Corea, Mosca aveva cominciato a investire molto nel rapporto con Pechino, con cospicui aiuti economici mirati a una modernizzazione tecnologica della Cina che, in quanto grande Paese comunista nell'Estremo oriente, poteva avere un ruolo direttivo tra i partiti comunisti africani e asiatici. Il leader cinese riconosceva il ruolo centrale dell'URSS per il movimento comunista e permetteva quindi l'esistenza di una “special relationship” paragonabile a quella anglo-americana. A differenza di Mao, Tito continuò a rifiutare l'idea che il socialismo dovesse essere assimilato a un particolare modello di Stato: perseguì sulla strada di rottura dei rapporti soprattutto in seguito all'invasione ungherese, ottenendo dall'Occidente una garanzia di protezione e mandando così in fumo il tentativo di Chruščëv di ricucire le divergenze.
Ad ogni modo, le differenze ideologiche tra URSS e Cina emersero molto velocemente: nel 1957 fu proprio il PCC a spingere per una conferenza del comunismo internazionale, non volta a sostituire il di recente sciolto Comintern, ma per ristabilire la leadership sovietica sul Movimento. Il ruolo guida dell'URSS fu certamente riconosciuto dai partiti comunisti, ma l'evento memorabile della Conferenza fu il discorso di Mao Zedong. Con un'implicita ma evidente critica alla leadership di Chruščëv, Mao Zedong riportò il discorso su un tema che anni prima era stato particolarmente sensibile: la possibilità di una guerra nucleare. Secondo il leader cinese una catastrofe termonucleare avrebbe potuto distruggere anche la metà della popolazione mondiale, ma andava presa in considerazione per perseguire l'obiettivo di costruire un mondo socialista. Con questo assunto, Mao intendeva criticare poco velatamente la “coesistenza pacifica” di Chruščëv, ma evidenziava anche le differenze incolmabili tra le due potenze comuniste. Mao stava ereditando in modo completo il pensiero politico di Stalin sull'inevitabilità della guerra e, al contempo, si prefigurava come leader nell'Estremo Oriente dove si era da poco creato il Movimento dei non allineati, movimento il cui scopo centrale era quello di non schierarsi nella logica della contrapposizione, ma il loro forte carattere antimperialista li avvicinava più al mondo comunista che a quello americano. <12 La posizione radicale che la Cina stava assumendo metteva a serio rischio la special relationship tra le due potenze, anche se in questi anni Mosca contribuiva ancora in modo cospicuo alla crescita economica del Paese: Mao stava allora preparando il terreno per il “grande balzo in avanti”, che si rivelò tuttavia un fallimento per la popolazione e che mise la Cina in una grave condizione di carestia. Nonostante la difficile situazione interna, Mao mirava a collocare Pechino alla guida del mondo asiatico e per questo la sfida con Mosca era necessaria. L'obiettivo era quello di ottenere l'appoggio di altri partiti comunisti poiché la relazione con l'URSS veniva considerata a un punto di stallo, anzi si inasprì con il peggioramento della situazione cinese. Nei primi mesi del 1960 Cina e Unione Sovietica erano ai ferri corti, dopo accuse reciproche, tanto che nel luglio dello stesso anno l'URSS accusò la Cina di avventurismo e di “nostalgie staliniste” e ritirò i propri tecnici dal Paese, riducendo il supporto economico. Per l'intera durata del 1960 e del 1961 i due Paesi non scesero a patti e continuarono ad allargare il proprio divario, nel mentre della crisi di Berlino del '61 che vedeva la costruzione del simbolo per eccellenza della Guerra Fredda: il Muro di Berlino. La crisi non servì alla distensione tra le due potenze comuniste, anzi, Chruščëv contribuì a gettare benzina sul fuoco con il rilancio della Destalinizzazione e della “coesistenza pacifica” durante il XXII Congresso nel novembre del '61. L'anno successivo lo stesso Mao individuò tra i principali nemici della Cina Chruščëv, insieme a Kennedy, Nehru e Tito. <13 Il divario ideologico tra i due Paesi era ormai lampante e dimostrava due idee di comunismo molto diverse: da una parte, la prospettiva di una “coesistenza pacifica” con il capitalismo, dall'altra una guerriglia antimperialista. Il Terzo Mondo, con il processo di decolonizzazione ben avviato, diventava così un terreno di scontro della Guerra Fredda, segnando anche la fine dell'unità comunista internazionale. Tra i Paesi che attraversarono la decolonizzazione ce ne furono alcuni che in modo particolare vennero attratti dal mito della modernizzazione sovietica per uscire dall'arretratezza: nello specifico, l'India di Nehru, l'Indonesia di Sukarno e alcuni Paesi dell'Africa. Alla fine degli anni '50 i vari movimenti comunisti ottennero anche qualche vittoria, come quella dei comunisti vietnamiti che misero fine al dominio coloniale francese nel '54. La politica nel Terzo Mondo acquisì maggiore importanza con Chruščëv, rispetto che con Stalin, e insieme alla “coesistenza pacifica” e alla Destalinizzazione sarà un punto cardine della sua leadership, tanto che si parlò di “terzomondismo sovietico”. In risposta, i Paesi del Terzo Mondo non si tirarono indietro rispetto a questo nuovo ruolo: in alcuni di questi, come ad esempio in Congo o a Cuba, ci furono anche dei forti movimenti comunisti. Le divergenze tra Cina e Unione Sovietica divennero abbastanza chiare proprio nel teatro del Terzo Mondo, dove si scontrarono gli ideali di coesistenza pacifica sovietico e di inevitabilità della guerra cinese. Entrambi i partiti comunisti delle due potenze cercavano di conquistare i partiti comunisti extraeuropei: lo sfortunato caso del Vietnam mise finalmente in luce la questione. Con la fine del colonialismo francese, il Vietnam venne diviso in due con la stessa logica della Corea: la parte superiore diventò comunista, nel Sud invece si instaurò un governo filoccidentale. Nel 1959 il governo comunista di Hanoi, guidato da Ho Chi Minh, scelse di non rinunciare alla riunificazione, come era invece nei piani sia di Mosca sia di Pechino, e passò all'azione sostenendo la resistenza armata che combatteva nel Sud filoccidentale. Se Chruščëv vedeva questa guerra nel più ampio scenario di Guerra Fredda, Mao vide invece un'occasione per sottolineare la sua strategia antimperialista da contrapporre alla coesistenza pacifica e accusò Mosca di aver perso la sua spinta rivoluzionaria. A scatenare il conflitto non fu però la situazione vietnamita, bensì quella cubana, nell'ottobre del 1962: Cuba e Mosca avevano stretto un forte legame che per l'URSS significava un forte segnale di potenza verso gli Stati Uniti. <14 Con la mossa dei missili nucleari a Cuba, Chruščëv intendeva ribadire la centralità del comunismo e la presa di potere che teneva su qualsiasi Paese antimperialista. Oltre al segnale indirizzato agli americani, Chruščëv mirava anche al contenimento dell'influenza cinese, che a Cuba era molto forte. L'esito della crisi di Cuba non fu proprio quello che i sovietici avevano immaginato e creò non poca tensione con il partito comunista cubano e con i cinesi, che indicarono nel comportamento di Chruščëv una sottomissione ai giochi di potenza della Guerra Fredda. Il 29 ottobre del 1962 la prima pagina de “L'Unità” descrive la trattativa che salvò “la pace nel mondo”: Chruščëv accettò le controproposte del presidente americano John F. Kennedy, al fine di salvare l'indipendenza di Cuba senza usare mezzi violenti che mettessero in pericolo il Paese con un conflitto locale o, peggio, atomico e quindi mondiale. Chruščëv ritirò le armi missilistiche non appena avuta la sicurezza che gli USA non avrebbero attentato all'indipendenza cubana dimostrando così: «ridicole le speculazioni propagandistiche alle quali si sono senza ritegno abbandonati anche nel nostro paese quasi tutti gli oratori democristiani sulla volontà aggressiva del comunismo internazionale. Il comunismo internazionale aveva ed ha il sacrosanto diritto, e dovere, di difendere l'indipendenza e la libertà del popolo cubano.» <15 La questione cubana rese urgente una trattativa tra le due superpotenze volta ad evitare lo scoppio di un conflitto atomico che in quei giorni di ottobre si era paventato, spaventando l'intero mondo. Il quotidiano del 19 ottobre riporta anche le lettere che si sono scambiati i due leader delle potenze sovietica e americana. Il primo a scrivere è Chruščëv che si rivolge a Kennedy esprimendo soddisfazione e riconoscimento per come si è giunti alla trattativa sui missili nucleari: «al fine di liquidare con la massima rapidità questo pericoloso conflitto, di servire la causa della pace, di dare fiducia a tutti i popoli desiderosi di pace e rassicurare il popolo americano, il governo sovietico in aggiunta alle istruzioni precedentemente impartite per la cessazione di ulteriori lavori per la costruzione di basi per la installazioni di armi, ha impartito un nuovo ordine perché le armi da voi definite offensive vengano smantellate e riportate nell'Unione Sovietica.» <16 La risposta di Kennedy non tardò ad arrivare e concordò con il leader sovietico sull'inevitabilità di porre fine alla corsa agli armamenti per «ridurre la tensione mondiale.» <17
[NOTE]
12 Pons S., 2012, La rivoluzione globale: storia del comunismo internazionale, 1917-1991, Torino, Einaudi, pp.280-286
13 Ivi, p.295
14 Pons S., 2012, La rivoluzione globale: storia del comunismo internazionale, 1917-1991, Torino, Einaudi, pp.298-302
15 Alicata M., 29 ottobre 1962, La trattativa, in L'Unità, n.43 (285)
16 La lettera di Chruščëv, 29 ottobre 1962, Prossima trattativa sulle basi nel mondo e altre questioni decisive per la pace, in «L'Unità», n.43 (285)
17 Ivi, La risposta di Kennedy
Serena Nardo, Il ruolo del Partito Comunista Italiano nella guerra fredda: lotta per l'autonomia dalle superpotenze, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

giovedì 5 settembre 2024

Oggi alle ore una, i partigiani attaccavano il posto di Carcare

Carcare (SV). Foto: Arri87. Fonte: Wikipedia

Nell'ordine del giorno 13 ottobre 1944 alle sue truppe, firmato dal Farina, troppo particolareggiato, perchè potesse essere stato dettato dal Comando tedesco, il Farina, premesso che l'ordine stesso doveva avere integrale appìicazione, formulava, fra l'altro, quale compito essenziale, quello di causare continuamente al nemico (bande partigiane) perdite di uomini e materiali, e quanti più feriti fosse possibile.
Ricordato  poi il metodo della esecuzione programmatica, il Farina ordinava che appartenenti a banda, presi prigionieri durante il combattimento, o per i quali potesse essere dimostrata una partecipazione attiva nella lotta delle bande, dovevano essere fucilati, e che altrettanto si dovesse fare per disertori presi con le armi in pugno, mentre disertori disarmati e renitenti di leva dovevano essere inoltrati in campi di raccolta.
Il Farina ordinava infine che nelle località ove fossero apparse bande in maggior numero, si dovevano prendere ostaggi fra personalità di maggior rilievo che, nel caso di successive azioni violente, dovevano essere fucilati, previo un giudizio sommario ma soltanto in seguito ad ordine di un ufficiale rivestito almeno del grado di generale di divisione.
Gli stessi ordini tassativi furono ripetuti dal colonnello comandante del nucleo segreto del servizio informazioni divisionale, con sede in Loano, con altro ordine del giorno in data 30-12-1944 che rappresenta una derivazione e conferma conseguenziale dell'ordine programmatico antecedente.
La Divisione fanteria marina 'San Marco' e la lotta partigiana in Liguria [La sentenza contro il gen. Farina e il diario della Divisione presentati da Mario Dal Pra], Italia contemporanea, 5 - 1950, Istituto Parri

Il diario della “San Marco”, stilato dallo Stato Maggiore e caduto in mano partigiana il 25 aprile 1945, è fitto di notizie riguardo i continui scontri che la divisione dovette affrontare nei suoi ultimi giorni di permanenza nel Savonese. Basti citare, a puro titolo di esempio, quanto riferito il 1° e il 2 aprile: “1° aprile 1945: - oggi alle ore una, i partigiani attaccavano il posto di Carcare. La pronta reazione del presidio e l’intervento del treno armato fugavano gli attaccanti. Nostre perdite: 1 marò del treno armato caduto. Perdite nemiche: non accertate (vale a dire zero, NdA). Ieri, partigiani facevano saltare il ponte stradale nelle località a sud di Moncucco. Danni in via di accertamento. Ieri, alle ore 13, due autocarri civili venivano fatti segno a colpi di arma da fuoco nella località a sud di Cogoleto. Questa notte un marò della Compagnia Panettieri, in permesso nella zona di Ghioni, è stato catturato dai partigiani. Effettuata ricognizione nella zona con esito negativo. Deceduto un marò del treno armato in seguito ad attacco di partigiani”. “2 aprile: - ieri, forte nucleo di partigiani attaccava la zona Ovest - Sud - Ovest di Monastero (Monastero Bormida, NdA). Pronta reazione del presidio del Gruppo Esploratori fugava gli attaccanti. Ieri, partigiani attaccavano il Comando del III/6 Fanteria (terzo battaglione del sesto reggimento, NdA) nella località a 2 Km. Est - Sud - Est di Vene (Vene di Rialto, NdA). Pronta reazione fugava gli attaccanti. In corso contromisure. Ieri, partigiani prelevavano in località Marghero due marò del II/3 Rgt. Art.”
Tra un agguato e l’altro, alla data del 31 marzo 1945 la divisione ammetteva ufficialmente non meno di 318 caduti (di cui 6 “camerati”, cioè tedeschi) e 103 dispersi (tra cui un tedesco: ma in buona parte si trattava di disertori). Quanto alla disciplina interna, anch’essa aveva richiesto il suo prezzo: al 28 febbraio risultavano già fucilati ben 40 “marò”, di cui 29 passati per le armi dopo regolare procedimento giudiziario e 11 direttamente sul campo. In queste condizioni anche il diario personale del generale Farina trasudava, al di là della fermezza delle intenzioni, grande preoccupazione. L’11 aprile Farina scriveva: “Chiedo al generale Hildebrandt (ufficiale tedesco di collegamento, NdA) il massimo interessamento del Corpo di Armata Lombardia per me e per il generale Meinhold”.
Emergevano in modo grottesco le diffidenze reciproche tra italiani e tedeschi. Il 19 il comandante della “San Marco” scrisse: “Con il generale Hildebrandt (DVK 182) stiamo esaminando il piano di ripiegamento e la necessità di avere il gruppo Squadroni Arditi (Marcianò) quando uno degli ufficiali tedeschi afferma che un ufficiale italiano, non di Stato maggiore, sotto il vincolo del giuramento gli ha comunicato che il generale Farina, il maggiore Viviani, il tenente Herming e una batteria costiera stanno complottando per uccidere tutti i camerati germanici! Accade una scena infernale. Il generale Hildebrandt caccia il suo ufficiale violentemente trattandolo da pazzo furioso”. L’episodio si commenta da sé.
Ma non era tutto. In novembre lo stesso Farina era stato infastidito dai tedeschi, i quali pretendevano che facesse togliere dal cimitero delle Croci Bianche di Altare, dove venivano seppelliti i caduti della “San Marco”, le salme di alcuni partigiani che egli, con postumo senso di umanità, aveva voluto porre accanto a quelle dei suoi soldati uccisi. Per quanto possa parere incredibile, il 2 novembre Farina commentava la questione sul suo diario in questi termini: “[…] Il Comandante della Divisione San Marco non lascia insepolti coloro che ci combattono contro, che battendosi sono Caduti pensando anch’essi all’Italia”.
Dopotutto i fascisti, essendo in minoranza, potevano permettersi di riconoscere che quella che combattevano era una guerra civile.
[...] In seguito alle ripetute azioni di sabotaggio e agli agguati compiuti dalla “Chiarlone” tra Montechiaro e Ponti, i repubblicani effettuarono un forte rastrellamento accompagnato da artiglieria leggera nella zona di Serole e Roccaverano (Alta Langa astigiana), venendone respinti nel pomeriggio. E’ interessante notare la differenza nei resoconti di parte fascista e partigiana. A detta degli insorti vi sarebbe stato un solo volontario caduto (Dario Paita, ex “marò” inquadrato nella brigata “Uzzone - Lichene”) e tre nemici uccisi. Il diario divisionale della “San Marco” riporta invece: “13 aprile: ieri, reparti del Gruppo Valli effettuavano il rastrellamento della zona tra Suole (sic) e Roccaverana (sic) incontrando forte resistenza. Perdite nemiche accertate: 7 morti (di cui uno sottufficiale della 2a Batteria del 3° Artiglieria promotore della diserzione dei 39 marò [altra discrepanza significativa, NdA] segnalata il 4 corr.) e 17 feriti. Perdite nostre: 3 morti e 2 feriti. Catturati 1 partigiano e due pistole. Durante il rastrellamento una stazione radio del Gruppo Valli ha intercettato un marconigramma nemico teso a sviare ordini prestabiliti”. Dunque i repubblicani avevano largamente sopravvalutato l’esito della loro azione, oppure i partigiani taciuto perdite pesanti: quest’ultima ipotesi è tuttavia improbabile, giacché sei caduti in più non avrebbero fatto altro che arricchire il martirologio antifascista con evidente vantaggio propagandistico a posteriori. E’ un fatto, comunque, che da lì in avanti la brigata non si impegnò più in grossi scontri. Da notare, nel resoconto di parte fascista sopra riportato, il riferimento ai messaggi radio della parte avversa: ormai, grazie all’appoggio delle missioni alleate, le formazioni autonome delle Langhe potevano condurre una loro personale “guerra delle onde” che il nemico si affrettò a stroncare.
La principale base radiotelegrafica alleata in zona era a Monesiglio, come verificarono i repubblicani durante un rastrellamento. Del Gruppo Valli (Battaglione Raccolta), impegnato in questa e in numerose altre azioni antipartigiane, va detto che durante l’inverno aveva registrato l’afflusso nelle sue file di non pochi ex partigiani sbandati, allettati dalla promessa dell’immunità (generalmente mantenuta) e, soprattutto, di pasti caldi e una branda decente per dormire.
[...] Lo stesso 18 aprile 1945 al Comando di Zona di Savona e al Comitato militare giunse una lettera del Comando SIP (Servizio Informazioni e Polizia) che conteneva le linee essenziali del piano di difesa germanico per il capoluogo, abilmente carpite dallo spionaggio partigiano. Uno dei punti chiave che i nazifascisti intendevano tenere più a lungo possibile era la collina di San Lorenzo (quota 191) sopra il quartiere di Villapiana. La resistenza attuata dai capisaldi doveva consentire alle truppe italiane e tedesche presenti in zona di raggrupparsi a nord del capoluogo per combattere sulla direttrice di Montenotte. La difesa della collina di San Lorenzo era costituita sul versante a mare da reparti di Pubblica Sicurezza e della Compagnia ordine pubblico della GNR, e su quello a monte, dotato di trincee e di una galleria per il comando e i servizi, da soldati dell’11° Comando militare provinciale. Almeno nei piani questa piccola Festung (fortezza) avrebbe dovuto usufruire di un ottimo armamento, con tanto di Panzerfaust e mitragliatrici pesanti. Al momento di agire le truppe effettivamente impiegate nella difesa del caposaldo dovevano essere quelle del Comando provinciale, poste agli ordini di un ufficiale italiano a sua volta sottoposto alla Platzkommandantur (comando piazza tedesco), mentre i questurini e le guardie repubblicane avrebbero dovuto fungere da riserva. In realtà il piano poggiava sull’idea che questo velo di truppe fosse in grado di respingere i partigiani (o, caso improbabile, gli americani eventualmente sbarcati), ma su questo punto nessun ufficiale si faceva troppe illusioni: gli uomini erano pochi, demotivati e nel complesso tutt’altro che affidabili. I comandanti delle grandi unità impegnate nel Savonese, la “San Marco” e la 34a divisione tedesca, si affannavano invece ad ultimare i preparativi per una rapida ritirata verso Alessandria e il Po. A questo scopo erano stati da tempo minati il porto, le centrali dei servizi pubblici, le industrie, la via Aurelia, la strada del colle del Giovo e tutto il materiale rotabile delle ferrovie.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000

martedì 27 agosto 2024

Qualunquismo, populismo, antipolitica in Italia dal 1945 al 1970


In realtà Guglielmo Giannini non fu mai un vero nostalgico: riuscì invece a tradurre con grande abilità questo malcontento attraverso epiteti dissacranti e una satira feroce, procurandosi notevoli consensi. Tuttavia quando fondò il Fronte dell'Uomo Qualunque la sua originale idea subì continue oscillazioni e forti cambiamenti. In partenza la sua idea vedeva la “Folla”, insieme di individui di buonsenso, buon cuore e buona fede, sempre sotto scacco dei “Capi”, degli “Uomini Politici Professionali” che la sfruttavano e la sacrificavano per pura sete di potere. Aspirava quindi ad uno “Stato amministrativo” gestito da un buon ragioniere, che lasciasse ad ognuno la propria tranquillità nella vita e nel lavoro. La sua era «una difesa iperbolica della società civile e soprattutto dell'individuo» <124. Il qualunquismo divenuto partito politico «insabbierà le tinte anarcoidi che costituivano la genuina essenza del pensiero del suo capo, metterà da parte l'agnosticismo ideologico dandosi vesti liberali e cattoliche, rifiuterà di considerare sullo stesso spregevole piano tutti gli uomini politici e tutti i partiti cercando alleanze e intese in funzione antimarxista, con monarchici, liberali, democristiani» <125.
I qualunquisti non furono i soli a tentare di interpretare il rifiuto del nuovo sistema: i monarchici insistettero nella loro propaganda sul ruolo della Corona come istituzione al di sopra delle divisioni e garante dell'interesse nazionale <126. Neanche la Chiesa, secondo Truffelli fu esente da sentimenti antipolitici, retaggio di una avversione alla modernità e alla democrazia che non riconosceva alla politica la capacità di individuare i bisogni reali della collettività e che in molti ambienti ecclesiastici non era ancora stata superata <127. La Confindustria dal canto suo espresse una visione negativa della politica come incompetente e lontana dai veri problemi, sempre sul punto di soffocare la libera iniziativa imprenditoriale <128. Vittorio Valletta espresse alla Costituente queste aspirazioni tecnocratiche con l'idea di affidare l'industria e l'economia ad alti commissari tecnici sottraendole al controllo di ministeri politici <129. Infine non mancarono partigiani delusi dalle miserie della neonata repubblica contrapposte all'eroismo della Resistenza: questo accadde a personalità diverse, di tutte le forze, dagli azionisti ai marxisti fino ai liberali <130. Edgardo Sogno si dipingeva così in quel periodo: "Io, idealista, pensavo che, finita la guerra, dovesse cominciare il lavoro, mi nauseava che tanta gente attorno a me non pensasse più alla politica, se non come strumento per fare soldi, accumulare potere. Erano arrivati i professionisti della politica, della raccomandazione, dell'arricchimento personale. Così sono tornato all'amministrazione dello stato per andare in un posto pulito". <131
Di forte carica antipolitica e più propriamente populista, furono la figura e l'opera di Achille Lauro, monarchico ex qualunquista, «plebeo nello stile e autoritario nel temperamento» <132 che fu eletto sindaco di Napoli la prima volta nel 1952. La sua retorica privilegiò al massimo la personalizzazione. Prima ancora che per un clientelismo estremo la sua affermazione si fondò sulla ostentazione delle capacità imprenditoriali come armatore di successo. A questa immagine il “comandante” affiancò quella di sciupafemmine, meridionale che avrebbe vendicato i torti dell'Unità, uomo ricco abbastanza da non dover rubare e da poter pagare di tasca propria opere pubbliche costruite al di là dei regolamenti, in spregio alle istituzioni e al mondo politico professionale da cui pretendeva di essere estraneo. Inoltre ascoltava i poveri in Comune come Evita Peron, trovando magari un posto nella sua azienda per i disoccupati più disperati. Non guastava che fosse presidente della squadra di calcio cittadina e fra i maggiori finanziatori delle feste popolari <133.
Un pensiero antipolitico fu espresso negli anni Cinquanta e Sessanta da alcuni scrittori e giornalisti. Primo fra tutti Giovanni Guareschi, che ne diede prova nei racconti di “Don Camillo” già alla fine degli anni Quaranta. Il “Mondo piccolo” vagheggiato dallo scrittore era una società semplice e solidale, governata da una codice di onestà e dalla saggezza popolare, senza ricorrere alla politica <134. Che persone come Don Camillo e il sindaco Peppone esistessero veramente da qualche parte è improbabile e irrilevante: la cosa significativa è che la loro esistenza paradossale fosse accettata dai lettori <135. Il frequente scontro fisico fra i due personaggi (e le idee che rappresentano) non è mai determinante, «non perché le forze siano pari ma perché davanti all'essenziale, le forze degli avversari si congiungono» <136. Secondo Gian Franco Vené, Guareschi voleva comporre "un piccolo borghese ideale che ora ha la faccia di Don Camillo, ora di Peppone, e che pur politicizzato in un senso o nell'altro è equidistante dall'astrazione schematica e dottrinaria dei due opposti schieramenti. La politica in sé non vive è antiumana; esiste e vive solo nel momento in cui è adeguata alle circostanze contingenti, che possono essere controllate direttamente dagli uomini che fanno politica. L'impegno politico reale, per Guareschi, e per i suoi piccoli borghesi, non va mai al di là delle possibilità di ottenere un risultato immediato e concreto". <137 L'obiettivo polemico dello scrittore è la “troppa cultura” che sottintende all'equazione: troppa cultura-macchinismo-industria-vita di città-politica astratta. Questa è incarnata, indipendentemente dalla condizione sociale e dall'appartenenza ideologica, da “quelli di città” <138. Sono spesso citati come pervasi da un sentimento antipolitico anche Leo Longanesi, Edilio Rusconi e Indro Montanelli. Riguardo a quest'ultimo, viene ricordato come si fosse messo in luce già nel 1945 con il libro "Qui non riposano", sorta di autobiografia romanzata in cui si esaltava lo stare alla finestra e il diritto di non pensare alla politica <139. Più duri altri giudizi che identificano l'opera di Montanelli e Longanesi come espressione di un anticomunismo viscerale proveniente «dalle acque profonde di una politica di destra, poco visibile ma ben presente sulla scena italiana una cultura che è, più in generale, quella dell'antipolitica» <140. Nicola Tranfaglia, in maniera ancora più netta, dice che i due giornalisti sarebbero stati portatori di «una cultura antidemocratica legata al fascismo» <141.
Anche intellettuali più raffinati affrontarono questi temi. Giuseppe Maranini, politologo di formazione liberale, si lanciò in una battaglia culturale contro la partitocrazia (termine la cui invenzione pare vada attribuita proprio a lui). Panfilo Gentile che pure era stato un antifascista liberale si allontanò dalla politica denunciando la trasformazione dei sistemi politici in “democrazie mafiose”, regimi nei quali la scelta popolare ricadeva sul gruppo dirigente più demagogico e più imperioso <142.
Nel contrastare un sistema dei partiti ritenuto inefficiente e dannoso per le istituzioni, un gruppo tutto sommato ristretto fu affascinato dalla svolta presidenzialista della Quinta Repubblica francese. Fra questi sostenitori del gollismo il più eminente fu Randolfo Pacciardi che ruppe con il PRI per fondare l'Unione Democratica per la Nuova Repubblica, diretta a raccogliere consensi a destra come a sinistra. L'esperimento non decollò, mentre sul fondatore pesarono accuse di golpismo che ne mirarono la credibilità. La sua branca giovanile “Primula goliardica”, fu quasi un caso a sé, facendo concorrenza a destra alle organizzazioni universitarie missine <143. Non mancarono ammiratori del generale francese anche nel campo degli eredi del fascismo. Almirante ebbe una certa simpatia per una repubblica presidenziale, Giorgio Pisanò se ne fece entusiasta propugnatore con il suo "Secolo XX". Altri invece come Ordine Nuovo, legati all'oltranzismo algerino, erano nemici di De Gaulle <144.
Discusso è il carattere populista che viene contestato al MSI, soprattutto nel periodo della lunga segreteria Almirante. Su questo Tarchi è scettico, affermando con un’ottica di lungo periodo che questa connotazione era «fin dalle origini, e resterà sino alla trasformazione in Alleanza Nazionale, parziale e intermittente, comunque assai ridotta rispetto alla sua matrice fascista». Tuttavia ci sono da considerare che non solo l'eredità degli spunti antipolitici del fascismo corporativista e “sociale”; ma, soprattutto nel decennio '70, l'insistenza di toni ribellistici al Sud, sulla scorta delle posizioni conquistate nella Rivolta di Reggio Calabria, e le proposte di legge di iniziative popolare come quella sulla pena di morte. Del resto era quello il tempo della politica almirantiana del doppio binario: «populista nel Sud dove il malcontento è meno facilmente gestibile dai sindacati a causa della peculiare atomizzazione del tessuto sociale,[...] partito d'ordine al Centro-Nord, saldando la sua politica solo nei confronti delle riforme.» <145. Piero Ignazi non solo concorda sul fondo populista della “alternativa al sistema” e sulle modalità della ricerca del consenso nelle regioni meridionali <146, ma trova sentori di qualunquismo nell'idea di destra che propose Armando Plebe come retroterra culturale della nuova Destra Nazionale <147.
[NOTE]
124 M. Truffelli, L'ombra della politica, cit., p.53
125 S. Setta, L'Uomo Qualunque. 1944-1948, Roma-Bari, Laterza, 1975, p.50
126 M. Truffelli, L'ombra della politica, cit., p.54
127 Ivi, p.57
128 A. Agosti, B. Bongiovanni, “Traiettorie dell'anticomunismo”, in Quaderno di storia contemporanea, n.38, Recco, Le Mani, 2005, p.19
129 M. Truffelli, L'ombra della politica, cit.,, pp.56 e 99
130 Ivi, p.58
131 E. Sogno, A. Cazzullo, Testamento di un anticomunista, Milano, Mondadori, 2000, p.89
132 M. Tarchi, L'Italia populista, cit, p.95
133 Ivi, pp.96-99; M. Truffelli, L'ombra della politica, cit., pp.48 e 99
134 M. Truffelli, L'ombra della politica, cit., p.47
135 G. F. Vené, L'ideologia piccolo borghese. Riformismo e tentazioni conservatrici di una non classe dell'Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1980, p.44
136 Ivi, p.57
137 Ivi, p.59
138 Ivi, pp.91-92
139 M. Truffelli, L'ombra della politica, cit., p.51
140 A. Agosti, B. Bongiovanni, “Traiettorie dell'anticomunismo”, in cit, p.18
141 N. Tranfaglia, “Come nasce la Repubblica”, in Quaderno di storia contemporanea, n.38, Recco, Le Mani, 2005, pp.22-23
142 M. Truffelli, L'ombra della politica, cit., pp.49-50; M. Tarchi, L'Italia populista, cit, p.102
143 M. Tarchi, L'Italia populista, cit, p.103
144 P. Ignazi, Il polo escluso: profilo del Movimento Sociale Italiano, Bologna, Il Mulino, 1989, pp.104-105; M. Tarchi, L'Italia populista, cit, p.103
145 G. S. Rossi, Alternativa e doppiopetto. Il MSI dalla contestazione alla destra nazionale 1968-1973, Roma, ISC, 1992, p.191
146 P. Ignazi, Il polo escluso, cit., p.163
147 Ivi, p.155
Alberto Libero Pirro, La “maggioranza silenziosa” nel decennio '70 fra anticomunismo e antipolitica, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Anno Accademico 2013-2014

mercoledì 21 agosto 2024

Il mattone, a Milano, in fondo paga sempre


L’eccezionalità della pandemia ha costretto Milano a fermarsi, benché la sua classe dirigente non ne volesse sapere. D’altronde, nessuno poteva sospettare l’enormità di quel che poi sarebbe accaduto. Il 27 febbraio 2020, a 4 giorni dall’annuncio del primo caso di contagio da covid-19 in Lombardia, sui canali social del Sindaco di Milano Beppe Sala628 comparve un video di 38 secondi corredato dal messaggio Milano non si ferma! e dal relativo hashtag #milanononsiferma. Lo script del video, che ha fatto il giro del mondo ed è stato visto da milioni di persone, recitava: «Milano. Milioni di abitanti. Facciamo miracoli ogni giorno. Abbiamo ritmi impensabili ogni giorno. Portiamo a casa risultati importanti ogni giorno. Perché ogni giorno non abbiamo paura. Milano non si ferma». Seguiva una sequenza in cui i nomi delle principali città italiane (in minuscolo) si alternavano nell’hashtag, con una chiusura a effetto: l’italianonsiferma che subito si trasformava in #milanononsiferma.
Ecco, basterebbero questi 38 secondi per identificare i tratti essenziali della cultura milanese: il culto dell’efficienza, del pragmatismo, della professionalità, il mito della velocità, nonché l’esaltazione della propria tradizione civica e la rivendicazione del proprio ruolo di capitale economica che può fregiarsi del titolo di metropoli globale. Tratti che vengono rilevati pressoché immutati nei secoli dai vari osservatori e che nell’Ottocento, come abbiamo visto, erano alla base mito della capitale morale.
Cosa potrà accadere nel medio-lungo periodo è quasi impossibile da prevedere, a causa della natura stessa di questa crisi economica, che dipende da fattori non economici. Se lo chiedono anche gli ‘ndranghetisti, che sono divenuti più prudenti rispetto allo «shopping selvaggio» in città che tutti si aspettavano: la domanda è diventata anche per loro «ma ci conviene?» <629. Dalle indagini in corso emergerebbe un dato controintuitivo, cioè che quello shopping «matto e disperato» di imprese, esercizi commerciali e immobili non sarebbe in corso nella capitale economica d’Italia. Il condizionale è naturalmente d’obbligo, perché le indagini sono in corso, però dai discorsi degli uomini delle ‘ndrine emergerebbe una stasi momentanea degli investimenti in città in attesa di capire il futuro dell’economia milanese.
Uno scenario quindi non molto diverso da quello degli investitori tradizionali e legali dei due settori trainanti dell’economia milanese. In un’intervista al Corriere della Sera <630 l’immobiliarista Manfredi Catella, allievo di Salvatore Ligresti <631, a luglio 2020 ha fatto sapere che i principali investitori internazionali istituzionali, come i fondi sovrani di Singapore e Abu Dhabi, hanno deciso di sospendere qualsiasi operazione in qualsiasi parte del mondo fosse stata pensata.
Nel 2020 Milano è la città che ha perso più di tutti, con un calo del PIL pari al 10%, un dato allarmante se si pensa che con i suoi 367 miliardi di dollari l’area metropolitana del capoluogo lombardo è la prima in Italia e l’undicesima al mondo per prodotto interno lordo, nonché il sesto polo in Europa per investimenti stranieri <632. La città, complice anche il dilagare dello smart working, a giugno 2020 è tornata poi sotto quota 1 milione e 400mila abitanti <633.
Non stupisce, quindi, che i principali investitori legali e illegali siano in attesa, benché sul fronte grandi eventi emerga dalle indagini in corso un interesse delle organizzazioni mafiose per le opere connesse alle Olimpiadi 2026 che partiranno a breve <634. Il mattone, a Milano, in fondo paga sempre e gli investimenti immobiliari importanti, soprattutto quelli legati alle cosiddette rigenerazioni urbane degli ex-Scali ferroviari, non sembrano volersi fermare, ad oggi. Anzi, nota Peroni sul Sole 24 Ore:
«Milano intanto vive di pensieri, progetti verticali. Anche quando la stagnazione economica farebbe pensare a rielaborazioni orizzontali. Cioè manutenzione del preesistente, pragmatismo, cautela sui grandi investimenti sfidanti ed imponderabili» <635.
Stefano Boeri, l’architetto che ha realizzato i grattacieli green di Bosco Verticale e ora ha firmato il progetto del nuovo Pirellino di Catella che divide la politica milanese <636, lega proprio l’uscita dalla crisi economica alla realizzazione di questi imponenti investimenti immobiliari <637. Che rischiano tuttavia, in una città senza certezze, di fare la fine dei grandi non-luoghi partoriti negli anni ’80, soprattutto se lo smart working diventerà un elemento strutturale della nuova economia post-covid.
Per l’Avvocato Isolabella «il covid è arrivato a puntino» nello svelare che in realtà a Milano «stanno arruffianando la facciata» <638, cioè stanno facendo «un po’ come i russi ai tempi del viaggio della grande Caterina di Russia verso il Mar Nero: lungo tutto il viaggio prepararono una serie di facciate di legno di finti palazzi per mostrare alla sovrana che il suo paese era pieno di città e palazzi». Allo stesso modo, il covid ha smascherato l’inconsistenza politica e culturale dell’idea di città portata avanti negli ultimi trent’anni. Il punto, ragiona Umberto Ambrosoli, sarà riuscire a condividere in maniera più efficace i valori storici alla base della convivenza civile milanese che hanno fatto grande la città:
«Se non saremo nelle condizioni di condividere in una maniera più efficace i valori della nostra convivenza, le tipologie di danno che ne possono derivare sono enormi. Se nei valori della nostra convivenza passerà in secondo piano quello dell’interesse collettivo e del rapporto tra l’interesse individuale e quello collettivo, o meglio dell’esigenza di un’armonia tra questi due, e passerà l’idea che si è liberi di coltivare il proprio interesse individuale a prescindere da tutto, è ovvio che poi sarà molto più facile che qualcuno sfrutti l’innovazione (dalle cripto-valute alla blockchain) per farsi gli affari propri, a danno degli altri» <639.
Su un punto concordano i vari osservatori intervistati: la forza di Milano risiede nel fatto che ha sempre saputo attrarre, assorbire e valorizzare il resto d’Italia. E la sua storia, come abbiamo visto, ci insegna che è sempre stata in grado di ripartire prima, facendo di un volano di crescita quella concezione «antica» dell’impresa che affondava le sue radici nell’illuminismo lombardo.
L’Avvocato Isolabella lo ha potuto constatare direttamente con l’evoluzione della composizione del suo studio: su una ventina di avvocati, solo 4 sono «milanesi doc», e si tratta, ci tiene a precisarlo, «di avvocati penalisti, cioè di persone che affrontano o imparano ad affrontare la realtà più cruda della società. Milanese, ma non solo milanese, che però ha un riferimento a Milano» <640. I «nuovi milanesi», cioè quelle persone originarie di altre regioni che hanno studiato e attualmente lavorano a Milano, si sentono più milanesi che italiani, perché Milano ha una grande vis attractiva e storicamente deve la sua forza propria alla contaminazione di idee e persone diverse.
Sotto questo punto di vista, emblematica è l’intervista rilasciata l’11 giugno 2020 da Andrée Ruth Shammah, che nel 1972 a Milano fondò una delle istituzioni cittadine, il teatro Pier Lombardo, oggi intitolato alla memoria del suo compagno di una vita, Franco Parenti, che nel gennaio 1983 raccolse in una sei giorni di dibattiti, film e spettacoli migliaia di studenti contro la mafia:
«Di colpo durante il lockdown mi sono chiesta chi sono veramente. Io vengo dalla Siria, i miei genitori sono scappati sui tetti di Aleppo quando nel 1948 è nato Israele. Sono nata a Milano ma mio padre poteva scappare in Giappone. Ebrea, ho studiato in una scuola francese cattolica. Non ho mai fatto i conti con questo casino. È stata Milano a darmi un’identità che ha coinciso con il fare teatro. Facevo e dunque ero. Quando il fare si è interrotto di colpo, è diventato lampante che quando penso a Milano penso a delle persone che fanno delle cose, che occupano delle posizioni. Forse la novità sta proprio qui: non chiedere alle persone solo cosa fai ma avere la curiosità di capire cosa sente, chi è. Milano a differenza di altre città ha costruito cose che durano, ha costruito dei muri. Ma i muri non servono a niente se non hanno dei contenuti vivi» <641.
Milano grande perché a farla grande non sono tanto i milanesi, ma la loro capacità di dare identità attraverso il fare e il saper fare alle persone, valorizzandole. All’ombra di una narrazione che ha sempre puntato sugli elementi di successo, che indubbiamente ci sono e ci sono stati, cresceva e cresce però l’anima nera di Milano, come la definisce Antonio Calabrò, di cui si trova traccia oggi solo nella letteratura, in particolare nei noir dei vari Robecchi, Biondillo e Colaprico:
«Tutti i luoghi di accelerazione della ricchezza hanno un’anima nera, da New York a Londra, fino a Milano. Il problema è la consapevolezza della sua esistenza, dietro lo scintillio della città e l’enfasi sui grattacieli peraltro pienamente fondata. Vi è un’accelerazione della frenesia del vivere, dove conta il consumo di cocaina. Questo significa che esiste un nesso di causalità stretto tra successo, cocaina e criminalità organizzata? No, però nell’accelerazione si aprono spazi per il mondo della cocaina e quindi della criminalità organizzata. È un ragionamento che vale per tutte le grandi metropoli oggi. È vero però che non è più un problema di magistratura, ma di coscienza civile. Sarebbe utile che più gente leggesse Robecchi» <642.
Assistiamo oggi quindi a un processo simile a quello del 1881, quando venne fondato il mito della capitale morale che oscurò la «Milano in ombra» che emergeva nelle inchieste giornalistiche di Ludovico Corio, Francesco Giarrelli, Paolo Valera. È sicuramente in corso un nuovo scontro tra le due anime della borghesia milanese, quella democratico-repubblicana e quella reazionaria-conservatrice: dall’esito dipenderà la forma che assumerà l’habitus milanese e il modello di sviluppo post-covid. Nonché la capacità di reazione alle organizzazioni mafiose nella futura economia.
[NOTE]
629 Il dato è emerso nell’intervista alla dott.ssa Alessandra Dolci all’autore, 15 febbraio 2021.
630 Dario Di Vico, La nuova edilizia cambia le città e traina tutto il Pil, Corriere della Sera, 20 luglio 2020.
631 Nel 2010 dichiarò in un’intervista: «dopo la scomparsa di mio padre, sei anni fa, mi sono rimasti tre mentori: mia moglie, Gerald Hines e Ligresti», salvo dichiarare quattro anni dopo «con Ligresti c'è stato un rapporto limitato e puntuale». Citato in Vittorio Malagutti, Renzi, Ligresti e il nuovo che avanza, Espresso Online, link: http://malagutti.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/11/06/renzi-ligresti-e-il-nuovo-che-avanza/. Per approfondire, si veda anche STEFANONI, F. (2014). Le mani su Milano, Milano, Laterza.
632 Citato in Giulio Peroni, Il dilemma del nuovo San Siro nella Milano ferita dal Covid, Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2021.
633 Alessia Gallione, Milano, la metropoli si spopola. Dopo anni di record, arriva la frenata, La Repubblica, 16 luglio 2020.
634 Il dato è emerso nell’intervista alla dott.ssa Alessandra Dolci all’autore, 15 febbraio 2021.
635 Giulio Peroni, Il dilemma del nuovo San Siro nella Milano ferita dal Covid, Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2021.
636 Francesco Floris, I grattacieli “green” di Catella spaccano la politica milanese a pochi mesi dalle elezioni: tutti contro tutti sull’aumento delle volumetrie, Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2021.
637 Intervista rilasciata a Fabio Massa, nel suo libro Fuga dalla Città, Chiarelettere, pp. 102-103.
638 Lodovico Isolabella, intervista all’autore, 6 giugno 2021.
639 Umberto Ambrosoli, Intervista all’autore, 4 febbraio 2021.
640 Lodovico Isolabella, intervista all’autore, 6 giugno 2021.
641 Maurizio Giannattasio, Andrée Ruth Shammah e «un Canto per Milano»: «Lavoro per fare spazio a persone e volti nuovi», Corriere della Sera, 13 luglio 2020.
642 Antonio Calabrò, Intervista all’autore, 3 febbraio 2021.

Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020 

domenica 11 agosto 2024

Rientrati vittoriosi in Popoli, i partigiani della banda vennero organizzati in pattuglie

Popoli Terme (PE). Fonte Wikipedia

Il mese di giugno 1944 si aprì con l’uccisione da parte dell’Orsini e del Sanvitale di un ufficiale tedesco che fu privato dell’arma e poi seppellito in una buca da mina nel tratto di strada Raiano-Castelvecchio <1400; e la cattura di un sergente tedesco operata da Renzo Della Rocca <1401 e da Arsenio Fracasso nella notte tra il 9 ed il 10 giugno <1402. Fu portato anche a termine un intervento contro i tedeschi razziatori che coadiuvati da carabinieri locali stavano procedendo al rastrellamento di parecchi capi di bestiame; buona parte di questi vennero liberati dai partigiani e riconsegnati ai legittimi proprietari <1403.
Intanto - scrisse il Camarra - «gli eventi precipitavano» tanto da convincere i due capi della formazione a radunare tutti i G.A.P. in previsione di un’azione di massa su Popoli <1404. Due però i dati di fatto che gli consigliarono cautela: l’inadeguato rapporto tra partigiani ed armamenti «le armi conservate in località Fossa non erano sufficienti per l’armamento di tutti gli uomini, [della] deficienza di armi pesanti» <1405 e la presenza di due compagnie tedesche attestate nella gola di Popoli a difesa dei guastatori già in azione contro obiettivi civili e logistici <1406. Orsini e Sanvitale decisero quindi di posporre l’attacco, fino a che «almeno fossero saltati i ponti» <1407, condizione questa che a loro parere avrebbe reso impossibile il rientro delle autoblinde tedesche nell’abitato di Popoli, lasciando così ai partigiani libertà d’azione e ponendo al sicuro la popolazione da possibili rappresaglie <1408.
All’alba del 10 giugno <1409 pattuglie d’avanguardia della banda si «attestarono sul fiume Pescara [agganciando] le retroguardie nemiche», mentre il grosso della formazione penetrò in paese occupandolo in breve tempo senza incontrare nessuna resistenza <1410. Per prima cosa i partigiani assaltarono la locale caserma dei carabinieri repubblichini impossessandosi tra l’altro di due mitragliatori Breda 37 <1411, quindi si occuparono dell’arresto «di collaborazionisti e fascisti pericolosi o ritenuti tali» <1412. Preso possesso del paese, si divisero in due squadre formate ciascuna da 12 elementi e con in dotazione un fucile mitragliatore: la prima, al comando di Nicola Fistola e si pose a difesa dell’abitato, mentre la seconda guidata da Giuseppe Orsini e Alfredo Caramante <1413 si diresse alla volta di Bussi con l’ordine di attaccare il presidio tedesco ancora colà distaccato <1414. La missione non ebbe successo: il violento fuoco «di altre armi tedesche già in postazione sull’altro versante della collina» costrinse il gruppo a ritirarsi <1415. Di fronte al posizionamento del nemico disposto «in maniera da poter battere tutto il terreno scoperto della valle, allo scopo di poter mantenere il più a lungo possibile il controllo della importante posizione strategica della gola dei Tremonti» <1416, il comando della banda inviò immediatamente rinforzi proprio in quell’area. Ne seguirono quasi cinque ore di combattimento decisamente impari se si considera che il battaglione della Wehrmacht colà distaccato, fu stimato nella relazione De Feo-Salvadori di «una forza di 120 armati, con mitragliatrici ed un mortaio» <1417, mentre i partigiani popolesi, benché coadiuvati da elementi di formazioni viciniori di cui a breve si dirà, erano nel complesso ben inferiori sia numericamente che in equipaggiamento. Al termine dei combattimenti «il nemico veniva costretto ad abbandonare le posizioni ritirandosi verso Bussi-Capestrano, lasciando sul terreno quattro morti ed una mitragliatrice» <1418. Tra i partigiani furono registrati sette feriti di cui uno, il Brenno Berluti Lorenzini <1419, morto successivamente in seguito alle lesioni riportate <1420.
Agli scontri di quel giorno parteciparono anche partigiani di altre formazioni già in rapporti con la banda Popoli ed ora accorsi a sostenere lo sforzo bellico dei compagni: la banda Conca di Sulmona inviò 20 uomini armati alle dipendenze di Ercole Pizzoferrato, e tutte le squadre che Claudio Di Girolamo e Enzo Sciuba riuscirono a formare nella difficile congiuntura <1421; stesso dicasi per le bande G.A.P. Aterno <1422 e Santa Croce di Corfinio <1423 quest’ultima con 21 partigiani attivatisi in seguito alle notizie portate dal partigiano Luigi Giulio Masella <1424. Anche da Castelvecchio Subequeo si mosse in direzione Popoli una squadra di partigiani su richiesta di Felice Arquilla del G.A.P. raianese, ma giunse solo ad attacco completato <1425.
Mentre ancora era in atto lo scontro tra partigiani e tedeschi, a Popoli venne affisso in diverse copie un manifesto a nome del Comitato Nazione di Liberazione e firmato da Nicola Sanvitale:
«POPOLESI
Il Comitato locale di Liberazione Nazionale, costituito da un gruppo di patrioti, vostri concittadini, alle dipendenze del Centro Militare di Roma e già da tempo operante con atti di sabotaggio ed azioni di molestia contro le belve nazi-fasciste
ASSUME
da oggi, fino ad eventuali altre disposizioni, il Comando Militare del territorio del paese come l’unica forza armata riconosciuta legale dal Governo dell’Italia Libera e dal Comando Alleato
INVITA
tutti i cittadini a ritornare calmi e fiduciosi alla proprie ordinarie occupazioni ed a collaborare attivamente per la tutela dell’ordini e per la consegna alla giustizia di tutti coloro i quali, approfittando della protezione del nemico che ora fugge, hanno contribuito, con il tradimento e con l’opera nefasta, a peggiorare la già grave situazione cittadina
AVVERTE
Che l’ordine pubblico sarà tutelato dagli uomini armati alle dipendenze del Comitato stesso i quali saranno riconoscibili dal bracciale bianco con la sigla C.L.N. Ogni infrazione da parte di elementi facinorosi verrà inesorabilmente e severamente repressa.
Con fervore e serenità, all’opera, per la ricostruzione materiale e morale del nostro martoriato paese.
Viva L’Italia Libera!» <1426.
Rientrati vittoriosi in Popoli, gli uomini della banda vennero organizzati in pattuglie dislocate sia in postazioni fisse che mobili, adibite al controllo del territorio. Fu proprio da una di queste postazioni che il giorno 11 intorno alle ore 10.30, fu fatto fuoco a scopo intimidatorio contro un reparto motorizzato che stava avvicinandosi alla cittadina. Grande sollievo fu provato nell’accorgersi che non si trattava di tedeschi, come inizialmente temuto, bensì «di motociclisti della 134^ Comp. Divisione Nembo al comando del Capitano Nicoletti Altimare» <1427, che fecero il loro ingresso in paese con i partigiani di Popoli tra l’esultanza della popolazione <1428. Segnalato un unico caso di reazione avversa: un tale Luigi Cavalli lanciò da un balcone al primo piano di un’abitazione in via San Rocco due bombe a mano contro i partigiani, ferendo un motociclista. Immediatamente catturato per ordine del capitano Nicoletti, venne fucilato il giorno 12 giugno nella piazza principale del paese <1429.
La banda, messasi quindi a disposizione del Nicoletti, fu organizzata in squadre ed in plotoni: alle prime fu affidato il compito di svolgere i servizi utili alla popolazione <1430, mentre i secondi furono accorpati ad un plotone della Nembo, con cui provvidero a liberare Bussi, arrestando le residue forze repubblichine, e stanziandovi un presidio di partigiani <1431.
Il giorno 13 giugno giunse in paese un plotone della Brigata Maiella comandato da Nicola De Ritis <1432 che circondò la caserma e «ci rese noto che dietro ordine verbale da parte di tale capitano inglese LAMB doveva procedere al nostro disarmo. Malgrado l’ordine intimidatorio venisse fatto in una forma del tutto irregolare, il disarmo avvenne senza incidenti» <1433. Furono lasciati in servizio solo pochi uomini scelti della banda con mansioni provvisorie di polizia <1434 che nulla però poterono fare per frenare gli uomini della Brigata Maiella che - almeno stando a quanto riferito dal Camarra e dal Nuccitelli - si appropriarono delle «armi migliori», e si lasciarono andare a «ruberie varie» <1435. Nel clima non certo di concordia di quei giorni, venne ad inserirsi il 21 un fatto accaduto nella vicina Bussi che convinse i partigiani popolesi a riprendere le attività benché con altro e ben diverso scopo. Secondo quanto riferito sia dal Camarra che dal Nuccitelli - ma si segnala in proposito una diversa versione riportata dalle fonti del Costantino Felice <1436 - i «nuovi Reali Carabinieri» giunti in paese, provvidero a rimettere in libertà i loro commilitoni repubblichini di cui uno schiaffeggiò un patriota <1437. Nonostante la scellerata decisione venisse immediatamente rettificata dagli agenti di F.S.S. di stanza a Popoli che ne riordinarono l’immediato riarresto, il danno alla fiducia era fatto e così il comando della banda provvide al riarmo dei suoi elementi per vigilare a che tali iniziative non potessero essere poste in essere anche nella cittadina <1438. I partigiani popolesi rimasero quindi attivi fino al 23 giugno, giorno in cui consegnarono definitivamente tutte le armi dietro ordine della F.S.S. e dell’ufficiale dell’A.M.G., e la banda venne ufficialmente sciolta <1439. Solo un piccolo contingente di sei elementi rimase «alle dipendenze del Comune in servizio di guardie campestri» <1440. In seguito molti partigiani della banda passarono nella Brigata Maiella e si recarono a Chieti «per essere inquadrati nelle truppe regolari del C.I.L.» <1441.
[NOTE]
1400 Durante la colluttazione il Sanvitale Nicola riportò una ferita al mento, guarita in dieci giorni. Cfr. ivi, certificato del dott. Fracasso Arsenio del 26 novembre 1944.
1401 Nato a Popoli (PE) il 4 dicembre 1924, ha svolto attività partigiana nella banda dal 12/10/43 al 23/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
1402 Cfr. ivi, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale. Detto sergente, unitamente ad altri tre militi tedeschi furono poi consegnati dal Fracasso, il 10 giugno, ad un ufficiale australiano che rilasciò «ricevuta», ibidem.
1403 Cfr. ibidem.
1404 Cfr. ibidem.
1405 Ibidem.
1406 Cfr. ibidem.
1407 Ibidem.
1408 Cfr. ibidem.
1409 Cfr. Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 198.
1410 Fu riferito di un unico colpo sparato da tal carabiniere Fiore, che sfiorò «la giacca di un partigiano», ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale.
1411 Il numero esatto della armi asportate fu di 2 mitragliatrici Breda mod. 39, n. 100 bombe a mano e n. 15 moschetti. Cfr. ivi, Patrioti Marsicani, relazione Attività Patriottica della Banda Popoli a firma di Nannicelli Pietro, allegato n. 2 della relazione De Feo-Salvadori.
1412 Ivi, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale.
1413 Nato a Napoli il 27 settembre 1921, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 23/06/44. Cfr. ibidem.
1414 Cfr. ivi, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capobanda Camarra Natale.
1415 Cfr. ibidem.
1416 Ibidem.
1417 Ivi, Patrioti Marsicani, relazione De Feo-Salvadori.
1418 Ivi, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capobanda Camarra Natale. La ricostruzione sintetica degli eventi di quel giorno si rinviene anche nella relazione De Feo-Salvadori. Cfr. ivi, Patrioti Marsicani.
1419 Nato a Senigallia (AN) il 1° gennaio 1899, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 23/06/44, ferito il 10 giugno 1944 sulla strada Popoli-Bussi. Morì il 24 luglio 1944 a causa delle ferite riportate. Riconosciuto partigiano combattente caduto per la lotta di Liberazione. Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario caduti e feriti. Cfr. ivi, anche Banda Popoli, certificato di morte.
1420 Secondo i certificati medici rilasciati dal dott. Fracasso Nicola, responsabile sanitario della banda, durante l’azione del 10 giugno restarono feriti: Caramante Alfredo, D’Amato Oscar, Orsini Giovanni, Pallotta Armando, Tatangelo Antonio e Visconte Gaetano. Caramante Alfredo, nato a Napoli il 27 settembre 1921, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 23/06/44; D’Amato Oscar, nato a Popoli (PE) il 3 giugno 1910, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 23/06/44; Orsini Giovanni, nato a Popoli (PE) il 30 maggio 1921, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 23/06/44; Visconte Gaetano, nato a Popoli (PE) il 3 giugno 1927, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 23/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario caduti e feriti.
1421 Cfr. ivi, Banda Conca di Sulmona.
1422 Cfr. ivi, Bande Castelvecchio Subequo, Molina Aterno e S. Croce Corfinio.
1423 Cfr. ibidem.
1424 Cfr. ivi, Banda Popoli, relazione attività di Masella Luigi Giulio.
1425 Cfr. ivi, Bande Castelvecchio Subequo, Molina Aterno e S. Croce Corfinio.
1426 Ivi, Banda Popoli, allegato 5 alla relazione della banda.
1427 Ivi, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale.
1428 Cfr. ibidem. Cfr anche Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 198.
1429 Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale e ivi, Patrioti Marsicani, relazione De Feo-Salvadori. Cfr. anche Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 198.
1430 Tra queste, squadre di lavoratori impiegati nello sgombero delle macerie. Va ricordato che Popoli fu infatti uno dei paesi più bombardati della zona e - si legge nella relazione - «tenute presenti le condizioni del paese […] è necessario dire subito che gravi difficoltà si presentano per il riassetto interno malgrado tutti gli sforzi delle nuove Autorità civili e dei membri del Comitato locale», ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale.
1431 Cfr. ibidem.
1432 Cfr. Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 198.
1433 ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale.
1434 Cfr. ibidem.
1435 Ibidem e ivi, Patrioti Marsicani, relazione Attività Patriottica della Banda Popoli a firma di Nannicelli Pietro, allegato n. 2 della relazione De Feo-Salvadori.
1436 Secondo cui: «Al momento della liberazione la piccola pattuglia [di partigiani] procede all’arresto di un paio di centinaia di collaboratori fascisti, tra cui 11 carabinieri. Ma questi ultimi reagiscono arrestando a loro volta i partigiani. La paradossale situazione si risolve grazie a un intervento della banda di Popoli, che riaffida l’ordine pubblico a Pascale e compagni», in Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 198.
1437 ACS, Ricompart, Abruzzo, Patrioti Marsicani, relazione Attività Patriottica della Banda Popoli a firma di Nannicelli Pietro, allegato n. 2 della relazione De Feo-Salvadori e ivi, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale.
1438 Cfr. ibidem.
1439 Cfr. ivi, Banda Popoli, relazione della banda a firma del responsabile militare e capo banda Camarra Natale.
1440 Ibidem.
1441 Ibidem.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

mercoledì 31 luglio 2024

Per Marco Innocenti

vedere n.d.r.

vedere n.d.r.

Per Marco Innocenti
Caro Marco / anche questo
Terzo Flugblätter è meraviglioso ­-
È pieno come un cocco
Di poesia
Sul termine cartiglia
Non mi sembra sia chiaro a tutti, perciò lo spiego qui, in una cartiglia,
appunto,
che il termine cartiglia, ovverosia - piccola carta, foglietto - è un omaggio
alla Carte e cartigli, collana di saggistica del meraviglioso editore
lepómene, ideato da Marco Innocenti, che adoro
Sugli orcoclasti
Orcoclasti ci chiama Marco
Siamo quelli che scrivono haikai
O almeno ci si prova
E in fondo ci prova anche lui
Per Marco Innocenti
Sono commosso, Marco mi ha regalalo il suo Catalogo delle opere
grafiche, piango
Per Marco Innocenti
Io lo invidio con tutte le mie forze,
Marco Innocenti
È lì che ti arriva gaudioso,
con tutti quei libretti fatti in casa, con tutta quella roba dentro
e quelle copertine un po' così,
collage, frottage, mai visti e mai sentiti
Da Dante a Topolino, non c'è quasi argomento, con grazia e levità, che non
abbia trattato
È la sua forza
Io lo amo e lo odio, il caro Inno
e lo adoro
Fabio Barricalla, Cinque cartiglie in (a cura di) Alfredo Moreschi, Marco Innocenti, Quaderno del circolo lepómene stampato a Sanremo, aprile 2021

n.d.r.: di seguito si riportano gli accrediti delle immagini qui pubblicate, così come registrate nel citato Quaderno:
in copertina: Rebus, (giugno 2003)
retro di copertina: Doppio autoritratto, 1973, due immagini bianco e nero, stampate il 28 agosto 1973, pellicola Ilford 35 mm. con fotocamera Zeiss Ikon

giovedì 18 luglio 2024

A febbraio, a Robilante, si svolge un convegno per la difesa dei danni della silice

Robilante (CN). Foto: Giuliav92. Fonte: Wikipedia

PCI e PSI alle soglie del centrosinistra
A) Il PCI cuneese dopo la sconfitta
La grave sconfitta nel '58 riapre nel PCI cuneese un grosso dibattito sulla gestione degli ultimi anni e sulle immediate prospettive. Sono sotto accusa la scelta per cui si sono privilegiate le lotte contadine e la debolezza mostrata sul caso Giolitti, il cui ingresso nel PSI è commentato dalla Voce con insolito livore (1). Riassume i motivi di critica Gino Sparla, da sempre avversario della politica di Rinascita. "Sul risultato del voto hanno influito la scelta di Giolitti, ma soprattutto una politica errata nei grossi centri, l'incapacità di conquistare gli elettori all'ideologia e alle posizioni del PCI. Per recuperare il terreno perduto è necessario respingere l'analisi della struttura economica di Cuneo, secondo cui il tessuto sarebbe caratterizzato da scarsi nuclei operai e dal prevalere del ceto medio e rurale. Cardine dell'azione del partito debbono tornare ad essere i lavoratori di fabbrica, sommati ai pensionati e ai disoccupati. Anche la politica di alleanza verso i ceti urbani e rurali non è praticabile se si è deboli nelle fabbriche. Le forze operaie sono concentrate in 23 comuni nei quali il PCI raccoglie il 60% della propria forza. Verso questi centri deve, quindi, essere rivolto il grosso dell'attività politica ed organizzativa" (2).
La successiva nomina a segretario di Giovanni Nestorio, vercellese, da alcuni anni funzionario a Cuneo, significherà una profonda modificazione del modo di essere del partito, dei suoi rapporti con le altre forze politiche e con la gente, un serrare le fila su cui, ancora oggi, a distanza di oltre 30 anni, divergono le valutazioni degli stessi dirigenti comunisti.
B) Autonomisti e carristi nel PSI cuneese
La fase di maggior crescita e maggior successo del PSI si accompagna, però, alle prime consistenti divergenze interne. Se la grande maggioranza si schiera su posizioni autonomistiche (Nenni), la sinistra auspica una politica unitaria con il PCI, accusando la nuova dirigenza di essere scivolata a destra e di avere ridotto l'alternativa socialista ad uno slogan. Più sfumate, quasi uno sforzo di mediazione, le posizioni di chi si richiama a Lelio Basso.
Al congresso provinciale del dicembre 1958, la corrente autonomista ottiene una grande affermazione. I più votati nel direttivo sono Cipellini, Giolitti, La Dolcetta, Boselli, Brizio, Achino. Eletti anche Cogo, Belliardi, Vineis, Nardo, da poco confluiti nel partito. Per la sinistra, che elegge Balsamo, Giacosa e Zonta, la vittoria della corrente nenniana apre la strada alla rottura con il PCI, alla frattura nella CGIL, alla collaborazione con la DC. Per i bassiani Tarrico e Sciolla è, invece, necessario frenare la spinta correntizia e la lotta interna.
Se la Sentinella delle Alpi plaude alla svolta e polemizza contro i filocomunisti, molte sono, invece, le preoccupazioni in casa comunista (3). Nella primavera del '59, Mario Pellegrino lascia la direzione di Lotte Nuove che viene assunta da Roberto Balocco. La maggioranza autonomista è in contraddizione con un quindicinale diretto da un leader della sinistra. A giugno confluisce il MUIS, ennesima frazione staccatasi dal PSDI. Tra i suoi componenti l'ex deputato Chiaramello, uno dei maggiori esponenti socialdemocratici della provincia. Nasce e si estende la componente socialista nella CGIL. Nelle maggiori città vengono lanciati i festival dell'Avanti, assidua la presenza di Giolitti sulla stampa e nelle iniziative locali.
C) Il governo Tambroni e l'antifascismo. Nasce il centro sinistra
Il 16 e 17 gennaio 1960 si svolge a Cuneo il 6° congresso provinciale comunista. Gaetano Amodeo ricorda, in apertura, la figura di Giovanni Germanetto, morto a Mosca pochi mesi prima, comunista sin dalla fondazione, antifascista, segretario della federazione della Camera del lavoro. Al suo ricordo vengono associati quelli di Ermes Bazzanini, partigiano, vicesegretario della federazione al tempo di Germanetto, e di Sibilla Aleramo: "anima ardente e appassionata e di scrittrice che, specialmente nelle sue opere degli ultimi 15 anni, mostrò come si possa coltivare un'arte al tempo stesso libera espressione di umanità e di impegno sociale". (4)
La relazione di Giuseppe Biancani passa in rassegna i fatti internazionali ed interni. "L'inizio della conquista del cosmo, da parte della scienza socialista dell'URSS, è un segno dell'inarrestabile processo di sviluppo del mondo socialista e delle prospettive di pace, di distensione, di competizione pacifica di sviluppo, in senso socialista, del resto del mondo, le cui ripercussioni si avvertono anche nel nostro paese. A questo deve corrispondere, anche da noi, un mutamento dello schieramento politico su scala nazionale e provinciale che rompa con le forze del monopolio economico e con quelle (la DC) del monopolio politico. Le due maggiori direttrici su cui il partito deve impegnarsi sono la questione contadina e quella operaia, in una fase in cui non sono ancora chiuse le lotte contadine e in cui la provincia va industrializzandosi. Per favorire l'industrializzazione occorrono iniziative quali l'acquedotto delle Langhe, l'utilizzazione delle acque del Tanaro, il ripristino delle vie di comunicazione, la riattivazione della Cuneo-Nizza, la creazione di moderne autostrade. Strumento per questa politica deve essere un partito più forte: obiettivi immediati sono i 7.000 iscritti e la ricostruzione della FGCI". Molti gli interventi, tutti proiettati verso il futuro e nessuno centrato sulla gravissima crisi che il partito ha alle spalle. Intervengono Panero, segretario della CGIL, Borgna sul mondo contadino, Antonietta Squarotti sulla partecipazione delle donne, Cipellini per il PSI. Per Giacomo Capellaro, la commissione federale di controllo ha dimostrato debolezza di fronte all'offensiva revisionista: "Oggi che le posizioni revisioniste sono state battute, uno dei compiti principali ... dovrà essere la lotta contro le manifestazioni di settarismo che ancora permangono in diversi strati del partito". (5) Molti i richiami alla tematica dell'antifascismo, molti i segni dell'affiorare di nuovi quadri (gli interventi di Anna Graglia e di Primo Ferro) e di ripresa delle lotte operaie (la Ferrero di Alba). Le difficoltà incontrate paiono potersi superare o per gli effetti della situazione mondiale o con grande sforzo attivistico ed organizzativo. Per Mario Izzi: "Si tratta, per i militanti, di essere consapevoli, fino in fondo, di una realtà evidentissima, ripetuta tutti i giorni dalla stampa e al centro dell'opinione pubblica mondiale che consiste nell'affermazione che il capitalismo ha cessato di essere, nel suo complesso, forza dominante. Non solo, ma a conclusione del piano settennale sovietico cesserà anche di essere la forza economica dominante nel mondo". (6). Per Mario Romano, il rinnovamento del partito è stato inteso come rinnovamento di quadri e allargamento delle sue file. Necessaria è l'unità concreta. Il congresso si chiude con l'impegno di favorire larghe alleanze, di cercare una alternativa democratica al monopolio della DC, per la conquista di nuove maggioranze alle, ormai prossime amministrative. (7) Il 24 marzo, ad Alba, vengono processati 54 contadini della Valle Bormida, in seguito alle lotte e alle manifestazioni del '57 contro i danni provocati dalla Montecatini di Cengio. Tra i processati, Giuseppe Biancani, segretario della federazione comunista di Cuneo, Giovanni Crosio dell'INCA provinciale, Guido Veronesi, segretario nazionale dell'Alleanza contadini, Walter Audisio, parlamentare di Alessandria. È un vero e proprio processo politico contro la parte più avanzata del movimento contadino che si è espressa in una battaglia che tornerà di drammatica attualità alla fine degli anni '80 e coinvolgerà una valle intera, facendo dei suoi abitanti un reale soggetto politico.
Riferendosi al democristiano Adolfo Sarti, scrive La Voce: "Ha un bell'imbrattare i muri con l'immondo manifesto sui 150 ragazzi impiccati a Budapest il nostro onorevole untorello, ora elevato ai fasti del SPES centrale! Lui e i suoi amici non riusciranno certamente, con le vecchie e nuove infami menzogne, a deviare la pubblica opinione dal pronunciare una condanna che non è certamente a carico dei contadini della valle Bormida, ma della Montecatini". (8).
Gli imputati vengono assolti. Gli interventi della difesa (gli avvocati Frau, Viglione, Beltrand, Fratino) ricordano che i danneggiati vengono trascinati davanti a un tribunale in forza di una legge eccezionale, mentre per gli oppressori non c'è legge. Si passano in rassegna i danni della Montecatini all'agricoltura, alla valle, alla salute degli stessi lavoratori. Colletta per le spese del processo e per il pranzo agli imputati. Le offerte vanno dalle 500 alle 5.000 lire. Bartolo Mascarello offre 6 bottiglie di barolo.
Il tema dell'ambiente, visto soprattutto come difesa della salute degli occupati, impegna la sinistra locale. A febbraio, a Robilante, si svolge un convegno per la difesa dei danni della silice. Sotto accusa le condizioni di lavoro (e i danni provocati all'agricoltura) in 5 fabbriche: la Mineraria di Limone, la Silice di Vernante, la SI.RO. e la SIES di Robilante, la Pepino-Audisio di Roccavione.
I temi dell'agricoltura sono anche al centro del 1° convegno femminile socialista. Alla presenza di Antonio Giolitti e di Giuliana Nenni, tutti gli interventi toccano i problemi della montagna, dello spopolamento, dell'abbandono della terra, dello specifico ruolo della donna: "Ai nostri figli facciamo mangiare il pane secco, altrimenti ne mangiano troppo e i soldi non bastano per comprarne dell'altro". (9).
[NOTE]
1) Cfr. Giuseppe BIANCANI, Sull'ingresso degli autonomisti nel PSI, in La Voce, n. 12, 6 luglio 1958
2) Cfr. Gino SPARLA, Considerazioni sui risultati elettorali del 25 maggio, in La Voce, n. 12, 6 luglio 1958
3) Cfr. Grio e gli autonomisti in La sentinella delle Alpi n. 1, 31 gennaio 1959, Ai compagni socialisti per il loro 9° congresso in La Voce n. 22, 14 dicembre 1958, Mila MONTALENTI: Sul congresso provinciale del PSI in La Voce n. 23, 28 dicembre 1958
4) Il 6° congresso provinciale del PCI in La Voce n. 1, 31 gennaio 1960
5) Giacomo CAPELLARO, in Interventi al 6° congresso provinciale del PCI in La Voce n. 1, 31 gennaio 1960
6) Mario IZZI, ivi
7) Al termine dei lavori, la mozione è stata approvata all'unanimità ed è stato rivolto un caldo saluto al Comitato Centrale del nostro partito ed al compagno Palmiro Togliatti in Conclusioni, La Voce, n. 1, 31 gennaio 1960. Lo stile retorico e formale di questa prosa comunista pare accompagnarsi al persistente moralismo dei fogli cattolici. Nel gennaio 1960, commentando l'improvvisa morte di Fausto Coppi, scrive La Guida settimanale delle diocesi di Cuneo: "Aveva errato assai. Aveva errato pubblicamente, offrendo grave motivo di scandalo alle folle. Vorrei perfino dire che, talvolta, anche gli applausi per Coppi, in questi ultimi anni, parevano avere un sapore polemico nei confronti della legge divina che egli aveva calpestato così clamorosamente ... Le folle hanno narrato di due donne attorno alla salma del campione. Una, la moglie, silenziosa, pudica ... un'altra donna, quella dell'errore, che non ha saputo o voluto evitare manifestazioni clamorose e indubbiamente inopportune di dolore ... C'è un bimbo che desta la pena di tutti. Il piccolo frutto dell'errore. Forse la maggiore vittima del grave trascorso dello scomparso. Ci auguriamo che a lui ... si evitino le tristi conseguenze del male che egli non compì e di cui, purtroppo, sembra oggi umanamente destinato a portare il maggior peso, ELLEESSE: Fausto Coppi in La Guida n. 2, 8 gennaio 1960
8) 54 contadini della Valle Bormida saranno processati ad Alba il 24 marzo in La Voce n. 2, 21 febbraio 1960
9) Agire in modo cosciente per migliorare le condizioni di vita della campagna in Lotte Nuove, n. 10, 14 marzo 1960
Sergio Dalmasso, I rossi nella Granda, la sinistra nella provincia di Cuneo, Quaderno CIPEC n° 21, maggio 2002

sabato 6 luglio 2024

Dopo la fine della guerra Tito voleva conquistare il nostro partito non solo a Trieste, ma nel Friuli e altrove


Nei giorni del viaggio di Nikita Chruščëv a Belgrado (maggio 1955), che doveva sancire la ricomposizione della frattura tra l’Urss e la Jugoslavia <148, la direzione del Pci motivava il suo assenso al nuovo indirizzo dimostrando piena comprensione del significato dei passaggi internazionali in atto. Fatto per nulla casuale, dell’incontro di Belgrado si parlò in un tutt’uno con la stipula del trattato di Stato austriaco <149. Mentre Scoccimarro dava fondo a tutte le riserve di continuismo marxista-leninista per spiegare il voltafaccia sovietico verso Tito (“Non si tratta di una nuova politica ma di fasi nuove della politica di pace dell’Urss”), Longo si concentrava sull’esigenza di “combattere la tendenza a recriminare” <150.
Ma non passarono neppure cinque giorni che Vidali ritenne di far conoscere pubblicamente i perché e la misura delle sue rabbiose recriminazioni. Lo fece con un gesto politicamente disperato, che alla radice racconta, oltre i suoi contenuti più immediati, lo smarrimento e lo scompiglio in cui era stato gettato il mondo comunista dopo la morte di Stalin. Nell’articolo "La dichiarazione del comp. Kruscev ed i comunisti triestini", comparso sul ‘Lavoratore’ il 30 maggio, dapprima egli dichiarava che il suo partito aveva “salutato con gioia” l’incontro tra Tito e il neosegretario del Vkp(b), condividendone gli obiettivi. Poi però, piuttosto contradditoriamente, si lanciava in un attacco inaudito contro Chruščëv, che nel suo discorso al cospetto di un compiaciutissimo Tito aveva rinnegato le risoluzioni del Kominform del 1948 e 1949, scaricando ogni responsabilità per le accuse allora formulate su Beria e Abakumov (vittime della recente resa dei conti nel gruppo dirigente sovietico poststaliniano). Affermava Vidali: "La nostra sorpresa per questa affermazione è stata enorme ed ha scosso il nostro partito come la bora scuote i nostri alberi. Tutti sanno che il nostro partito e tutti i democratici triestini, italiani e slavi, all’annuncio della risoluzione dell’Ufficio d’informazione manifestarono la loro gratitudine in forma clamorosa ed unanime. Essa rifletteva una situazione che da anni perdurava nel nostro territorio. Un documento simile, nelle sue parti fondamentali, si elaborava da anni nelle menti di tutti noi, sulla base delle esperienze, di ciò che si vedeva e si udiva, di ciò che si faceva e che si era obbligati a fare. Tutti noi eravamo convinti da tempo che non era marxismo-leninismo quello che si applicava nel nostro territorio, ed anche nel Paese vicino […]. Era sfrenato nazionalismo camuffato da socialismo, avventurismo, settarismo, terrorismo politico e fisico. Noi avallammo quella risoluzione […] con nostre sofferenze, con nostre esperienze, senza interventi di un Beria e di agenti dell’imperialismo. […] Perciò noi non possiamo solidarizzare con la dichiarazione del compagno Kruscev e sebbene siamo profondamente addolorati e dispiaciuti di questa divergenza di giudizio preferiamo esprimere francamente la nostra opinione perché siamo convinti che essa, almeno per le nostre esperienze, corrisponde alla verità obiettiva. Sia chiaro per tutti che se nel giugno del 1948 noi fossimo stati convinti - perché le relazioni del nostro partito con il partito jugoslavo erano strettissime e di dipendenza assoluta - che in Jugoslavia, che nella zona B si praticava il socialismo […] l’atteggiamento dei comunisti triestini sarebbe stato differente. Quell’atteggiamento fu meditato, cosciente e non un puro atto di cieca disciplina. […] Se essere pagliacci, settari, cocciuti dannosi, testardi incorreggibili significa avere principii, carattere, dignità, onestà politica e morale, ebbene allora dichiariamo di non sentirci offesi da tali aggettivi. Preferiamo essere tutte queste cose piuttosto che dei venduti e dei mercenari" <151. In margine all’articolo, era pubblicata una nota del Cc del PcTT che dichiarava di sentirsi “fier[o] delle lotte combattute in questi ultimi anni per ricostruire il partito sulle basi del marxismo-leninismo-stalinismo” <152.
In conversazioni interne con i dirigenti nazionali, Vidali si difendeva raccontando che nel corso di un soggiorno a Mosca in aprile era stato informato sui preparativi del viaggio di Chruščëv, ma nessuno aveva accennato a un rovesciamento di politica tanto grossolano; anzi era stato messo in guardia dalle manovre disgregatrici che i titini avrebbero ripreso nei confronti del suo partito e del Pci, ricevendo la direttiva di “difendersi con fermezza” <153. Non che i membri della segreteria a Roma fossero insensibili alla minaccia di un rilancio dell’attività eversiva dei comunisti jugoslavi nel loro partito. Scoccimarro espresse timori condivisi da Longo e prospettati anche da Pellegrini in direzione, quando affermò: “Dopo la fine della guerra Tito voleva conquistare il nostro partito non solo a Trieste, ma nel Friuli e altrove. Non è escluso che essi riprendano ora i loro tentativi, ma noi daremo battaglia” <154. Ma il punto, come rilevò ancora Scoccimarro rivolgendosi a Vidali e ad altri rappresentanti del PcTT, era che “malgrado la vostra autonomia la responsabilità del vostro partito ricade su di noi” e “non è concepibile che si prenda posizione contro il Pc dell’Unione Sovietica” <155.
Di fronte a simili assunti, le argomentazioni di Vidali non avevano modo di fare breccia. Convocato in segreteria a Roma, addusse con toni drammatici che nella zona B “continua la snazionalizzazione con metodi nazisti”, che “fin dall’agosto 1947 dichiarai che erano una banda di nazionalisti e rimasi a Trieste solo dietro vostra insistenza”, che ora i titini volevano la testa sua e degli altri dirigenti più compromessi nella lotta kominformista (Maria Bernetich) per “conquistare il comune […] e poi riporre il problema del passaggio di Trieste alla Jugoslavia” <156. Anche questa sua autodifesa, appassionata ma inevitabilmente perdente, rivelava una richiesta ormai esasperata di protezione, emessa da un organo dipendente al proprio centro politico. Vidali aveva tentato più volte di condizionare e anche di modificare la posizione del centro in relazione alle esigenze del suo partito, e dal 1948 si era adeguato alle istruzioni provenienti da Roma con qualche riluttanza politica, ma sempre con sostanziale lealtà ideologica. Aveva operato in condizioni locali avverse, che risentivano del grave retaggio lasciato dalla linea seguita dal movimento comunista a Trieste prima del suo arrivo; tuttavia era riuscito largamente a compattarlo, mantenendo unitaria la sua base binazionale e preservando la maggioranza degli sloveni comunisti dalle suggestioni panjugoslave promanate dagli avversari titini. Aveva ripristinato l’allacciamento con il Pci puntando tutto sul richiamo della fedeltà sovietica, e ora il suo lavoro rischiava di essere spazzato via. I comunisti titini avevano sempre potuto contare sul forte sostegno di Lubiana e Belgrado; Vidali pretendeva, così come aveva preteso in passato, di ricevere un sostegno pari da Roma, che forse in questi anni gli era parsa paradossalmente più lontana di Mosca.
Ma la vittoria di Tito nella circoscritta ‘guerra fredda’ combattuta nel campo socialista tra l’Urss e la Jugoslavia imponeva a lui e al PcTT di rassegnarsi. Come disse un suo sconsolato delegato, dopo la visita di Chruščëv a Belgrado esso non era più che un “distaccamento sacrificato del comunismo internazionale” <157. Nella doppia seduta di segreteria del 7 e 8 giugno 1955, si consumò la messinscena di un processo politico nel perfetto stile della terza internazionale. L’accusa, pronunciata con particolare veemenza da Edoardo D’Onofrio e da Pajetta, era quella di aver commesso un “errore dal punto di vista della disciplina, del costume comunista”, di aver dato “prova di malcostume politico”, essere “venuti meno alla solidarietà del movimento comunista internazionale”, aver compiuto insomma una “porcheria” e una vera e propria “provocazione” (specie in riferimento, notava con arguzia Pajetta, all’accenno di Vidali alle “basi del marxismo-leninismo-stalinismo”) <158. In più tappe, fu redatta una dichiarazione di pentimento totale che Vidali, malgrado le proteste <159, fu costretto a firmare e portare a Trieste per ottenere l’approvazione del Cc del suo partito <160.
Il rito dell’autocritica poteva dirsi completato.
[NOTE]
148 L.M. Lees, Keeping Tito Afloat: the United States, Yugoslavia, and the Cold War, Pennsylvania State University Press, University Park, Pa. 1997, pp. 155 ss.; B Heuser, Western ‘Containment’ Policies in the Cold War: the Yugoslav Case 1948-1953, Routledge, London-New York 1989, pp. 200 ss.; Service, Compagni cit., p. 394.
149 Apc, Fondo M, ‘Verbali della direzione’, riunione del 26 maggio 1955, mf. 195. Valgano per tutti gli interventi di Negarville: “L’esempio dell’Austria e della Jugoslavia dimostra che Paesi con i più diversi sistemi sociali possono convivere con l’Urss”, e di Sereni: “Ciò che importa è che si stanno creando gruppi di Stati in Europa e nel mondo che vogliono restare estranei ai blocchi militari contrapposti”.
150 Ibidem.
151 V. Vidali, La dichiarazione del comp. Kruscev ed i comunisti triestini, ‘Il lavoratore’, 30 maggio 1955.
152 Intensificare la lotta - Respingere la provocazione, ivi.
153 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunione del 7 giugno 1955, Note sulla discussione col Pc di Trieste (riservato), autore Luigi Amadesi, 5 giugno 1955, allegati, b. 324, mf. 194.
154 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunione del 7 giugno 1955, cit. Poco prima, Pellegrini aveva paventato che “i titini potrebbero tentare di rifare la fila della loro organizzazione a Trieste e anche nella provincia
di Udine e pretendere di dirigere il nostro movimento a Trieste”: Apc, Fondo M, ‘Verbali della direzione’, riunione del 28 maggio 1955, cit.
155 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunione del 7 giugno 1955, cit.
156 Ibidem.
157 Note sulla discussione col Pc di Trieste (riservato) cit. L’(in)felice espressione è di Giovanni Postogna.
158 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunioni del 7 giugno 1955, cit. e dell’8 giugno 1955, b. 324, mf. 194. Anche: Gozzini, Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., pp. 384-85.
159 “Non me la sento di accettare la vostra critica di malcostume. Sono rimasto molto scosso della discussione di ieri. In trent’anni di vita politica non ho mai sentito affermazioni così aspre, nei confronti di un compagno come nei vostri discorsi”: ibidem.
160 “Il Cc riconosce francamente che le riserve contenute nell’articolo de ‘Il lavoratore’ sulla dichiarazione del comp. Krusciov costituiscono un grave errore, determinato da un’interpretazione errata e affrettata della dichiarazione stessa, a cui si è stati tratti dalla situazione locale esasperata della lotta che ha diviso per tanti anni il movimento operaio e democratico triestino e dalle provocazioni di chi ha interesse a questa esasperazione. Il modo con cui si è reagito è contrario ai rapporti fraterni e solidali che devono intercorrere tra partiti fratelli, soprattutto quando sono in gioco interessi fondamentali della pace e del movimento democratico e operaio internazionale. Partendo da questa considerazione e ispirandosi agli accordi di Belgrado, i comunisti si impegnano a sviluppare sulla base dei principi marxisti-leninisti la politica del Pc di Trieste, allo scopo di consolidare le posizioni della classe lavoratrice, di rafforzare l’unità antifascista e democratica, di continuare e di cementare la fratellanza italo-slava, ampliando ancora l’azione e le iniziative già prese in questo senso”: ibidem, allegati.
Patrick Karlsen, Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale (1941-1955), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2007-2008