Powered By Blogger

lunedì 26 settembre 2022

La missione "Spring" riuscì a trasmettere ben 682 messaggi


Il 24 maggio 1944 una PT americana trasportò a Levanto la missione Spring [n.d.r.: organizzata dai servizi segreti della Marina del Regno del Sud], formata dal sottotenente delle Armi Navali Carlo Milan, Augusto, e dal sergente radiotelegrafista Bruno Bartoli, Nello, e un’altra missione formata da un tenente colonnello degli alpini e da un radiotelegrafista. Fu costituita la rete “Stella”, che operò in Piemonte fino al 27 aprile 1945. (115)
(115) Per la sua attività Milan fu decorato di Medaglia d’Argento al Valore Militare “sul campo”.
Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale,  Anno XXIX, 2015, Editore Ministero della Difesa

Scrive Cavalleri che “nel corso del lavoro di queste 300 missioni (organizzate dal SOE) si formò, a causa della perdita della radiotrasmittente, una formazione autonoma, la Franchi di Edgardo Sogno”; all’interno di questa operava la missione Spring, composta dal guardiamarina Carlo Milan Augusto ed il radiotelegrafista Bruno Bartoli Nello, sbarcati presso Levanto (Liguria) il 24 maggio 1944 e poi stabilitisi a Torino con incursioni in Liguria e nel Veneto. La missione Spring si trova nell’elenco delle missioni di Nemo [n.d.r..: soprattutto perché Carlo Milan, dopo e/o con la missione Spring, passò ad altri incarichi, come si può leggere, del resto, nel libro alla cui stesura partecipò: L. Marchesi-E. Sogno-C. Milan, “810° Italian Service Squadron. Per la libertà”, Mursia, 1995] e Milan a Genova prese successivamente accordi con un sottotenente della Decima, Roberto Adorni, che collaborò alla missione con il nome di Pancino [253]. [253] Giorgio Cavalleri, La Gladio del lago, ed. Essezeta, 2006, p. 120. Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana, La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013


All'interno della stessa "Franchi" operava la Missione Spring, composta da due membri, il guardiamarina Carlo Milan "Augusto" e il radiotelegrafista Bruno Bartoli "Nello".
Venne sbarcata da un Mas americano mei pressi di Levanto la notte del 24 maggio 1944 e poi si stabilì a Torino, compiendo incursioni a Genova e nel Veneto.
In una puntata in Liguria Carlo Milan incontrò il sottotenente del Genio Navale Roberto Adorni, vice comandante della Scuola Mezzi d'Assalto della Decima Mas di Portofino.
Adorni si dichiarò pronto a disertare; fu invitato, invece, a restare al suo posto e, in missione, ricevette il nome di "Pancino". Le sue informazioni permisero di elaborare uno schema concernente le opere difensive in costruzione da Sestri Levante a Genova. Inoltre, riuscì a fornire documenti atti alla "copertura" degli uomini ruotanti intorno alla missione, segnalò i preparativi di un'operazione speciale che da La Spezia avrebbe dovuto puntare al Sud e gli orari di partenza delle motozattere da La Spezia a Genova. In caso di necessità gli era stato dato l'incarico di comunicare via radio con un sommergibile alleato.
"Pancino" riuscì anche a mettersi in licenza e lavorò per giorni a fianco degli uomini della "Spring", guidando una "Topolino" che trasportava le valigie delle ricetrasmittenti ed i quarzi.
In uno di questi rischiosi spostamenti venne incontrato da un ufficiale della Decima, armatissimo, che si dirigeva verso La Spezia, al fine di crearsi un appoggio per oltrepassare le linee del fronte a scopo di sabotaggio. Con probabilità era un uomo del "Vega". Inconsapevolmente, il giovane graduato diede una serie di informazioni utili alla missione "Spring".
Le lunghe assenze e i ripetuti viaggi di Adorni insospettirono i suoi superiori che lo misero agli arresti. Riuscì, però, a carvarsela.
Nel dicembre '44 la missione "Spring" disponeva di due reti: la prima con 9 cellule (compreso "Pancino") e 41 informtori; la seconda con 7 cellule e 12 informatori. I vari collegamenti erano estesi sino al Veneto, Bologna e Torino. Nel corso della sua attività la "Spring" riuscì a trasmettere ben 682 messaggi con informazioni di vario genere al Sud. Alla fine del conflitto la missione raggiunse un totale di 118 cellule, di una delle quali il capo era "Pancino", che era stato liberato e inviato a Milano.
Giorgio Cavalleri, La Gladio del lago, ed. Essezeta, 2006

[...] Mentre a Torino diventa sempre più forte l’opposizione al regime fascista, il cardinale arcivescovo Maurilio Fossati può contare su validi e coraggiosi collaboratori: don Vincenzo Barale, segretario particolare, arrestato dai fascisti che non osano arrestare l’arcivescovo. Don Giuseppe Garneri, parroco del Duomo e futuro vescovo di Susa: nella sacrestia sono catturati i componenti del Cln piemontese, sottoposti a un processo farsa e fucilati al Martinetto all’alba del 5 aprile 1944. Don Pompeo Borghezio e con Eraldo Canale, parroco e viceparroco di San Massimo, incarcerati più volte dai nazifascisti. Don Giuseppe Pollarolo, religioso tortonese, nel settembre 1943 è autorizzato da Fossati e da mons. Giacomo Rosso, vescovo di Cuneo, ad andare sulle montagne cuneesi tra i partigiani di Duccio Galimberti.
Don Borghezio e don Canale, pur spiati dai fascisti, contattano gli agenti segreti angloamericani e ottengono un'in­sperata entratura nel comando tedesco all'hotel Nazionale in via Roma dove operano come interpreti gli altoatesini Joseph Joas e Karl Drescher. Don Borghezio ricorda che dal 21 marzo 1945 una radio ricetrasmittente a onde corte è installata al quarto piano della canonica di San Massimo. Se ne occupa Joseph Palek, originario della Moravia, che si fa passare come sordomuto e uomo di fatica, in realtà è giornalista e conosce sette lingue.
A fine marzo 1945 - ricorda Sergio Favretto - al comando tedesco giunge un plico sigillato. Don Borghezio e Palek riescono a carpirne il contenuto senza rompere i sigilli: un piano di rastrellamento contro i partigiani, con una mappa. Il sacerdote  ricompone il plico ma senza la mappa che gira agli Alleati. In una riunione a San Massimo, don Canale dà 400 mila lire, che provenivano dalla IV Armata americana, a un capo partigiano [...]
Pier Giuseppe Accornero, La Resistenza bianca da Torino a Casale, La Voce e il Tempo, 25 aprile 2017

A Valdocco operava un’altra radio, sotto la vigilanza del salesiano don Luigi Cocco, vicedirettore dell’Oratorio. Don Cocco era stato cappellano militare e dopo l’armistizio, rientrato a Torino, si era messo in contatto con i militari entrati nella Resistenza nelle valli di montagna. Con don Cocco operavano alcuni salesiani cecoslovacchi, che avevano preso contatti con truppe di loro connazionali, arruolate inizialmente dai tedeschi, poi passate alla Resistenza in Val Sangone. La radio al Valdocco era nascosta nell’intercapedine di un muro utilizzato anche per nascondere i ricercati dai tedeschi. Trasmetteva informazioni al governo di Roma e agli alleati. L’apparecchio fabbricato in America, era arrivato a Torino nei primi mesi del 1945, fatto sbarcare in Liguria dopo un viaggio avventuroso; accompagnava la «Spring», una missione dei servizi della Marina Militare italiana. Don Cocco imparò a cifrare e a trasmettere. Un giorno gli informatori gli notificarono un notevole concentramento di mezzi tedeschi nella zona boschiva a ridosso di Villastellone, verso il Parco dei De Maistre. Toccava a lui diffondere l’informazione, ma decise di non farlo: sapeva che gli aerei alleati non sarebbero andati troppo per il sottile e avrebbero devastato Villastellone con tutta la popolazione. Scelte difficili. Giorni tragici. I tedeschi sapevano dell’esistenza della radio di Valdocco, la cercavano, ma non la trovarono mai. Così questa radio poté salvare la vita a tanti partigiani e fiancheggiatori della Resistenza.
Luca Rolandi, Le radio clandestine al tempo della Resistenza - Corriere Torino, Salesiani Don Bosco Piemonte V. Aosta, 15 aprile 2021  

[...] A Torino le radio della Resistenza a sostegno della lotta di Liberazione erano diverse come spiega il direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e della storia contemporanea Luciano Boccalatte: “Le radio erano diverse, sia di missioni inglesi sia di missioni americane. Da ricordare vi sono sicuramente quella nella Conceria Fiorio, una delle sedi del Cnl. L’altra si trovava nel sottotetto della chiesa di San Massimo, ed è stata donata all’Istituto da Luigi Segre, assieme a una mole importante di documenti. «In quella chiesa, attraverso il parroco, due interpreti del comando hanno consegnato l’organigramma delle SS dell’Albergo Nazionale, aggiungendo delle note». Tra l’autunno e l’inverno 19143-1944 la chiesa di San Massimo a Torino, grazie al parroco don Pompeo Borghezio, ospitò alcune riunioni del Cln. Il ruolo di don Cocco è illustrato da una relazione di Carlo Milan, responsabile della Missione “Spring”, la stazione radio fissa operativa che fu installata presso l’Oratorio di don Bosco.  
Luca Rolandi, Radio e Resistenza, le due R della Liberazione, TOradio  

Torino: Museo Casa Don Bosco. Fonte: Google Maps/Moreno Filipetto

[...] Così don Luigi Cocco iniziava la sua storia.
Bambini e partigiani
Divenne un magnifico prete d'oratorio. I superiori per evitargli il servizio militare gli avevano anticipato l'ordinazione di un anno, e lui già prete ma ancora studente e senza la patente di confessione, poteva solo dire messa e far giocare i ragazzi.
«In sua presenza il cortile si animava» ricorda un oratoriano di quei tempi «partite a non finire a palla in campo, ancor più appassionate a guardie e ladri. Lui giocava come uno di noi, ce la metteva tutta. Quand'era guardia, un mastino mai visto più feroce e più allegro. Quand'era ladro, succedevano scene epiche: al fischio che apriva le ostilità tutte le guardie piombavano come un sol uomo su di lui, non gli lasciavano fare più di dieci passi e lo catturavano. Allora un urlo di trionfo, e le guardie fiere e felici lo scortavano trafelato e sorridente in prigione. Una volta alla settimana affittava dall'azienda municipale un tram e trasportava tutti in collina a giocare a tattica. Ricordo gli attraversamenti di Porta Palazzo mentre i ragazzi cantavano a squarciagola e il tranviere strillava con il campanello: il mercato per un attimo sospendeva i traffici, e tutti salutavano sorridenti».
Il suo oratorio fu pieno di ragazzi fino all'estate 1943. Il 13 agosto Torino conobbe il primo tremendo bombardamento, anche l'Oratorio ne uscì molto malconcio, tutte le famiglie che poterono sfollarono dalla città. Don Cocco, rimase quasi senza ragazzi nei cortili pieni di macerie.
Dal novembre 1943 l'Oratorio diventa il punto di convergenza dei partigiani dei più vari schieramenti politici. L'Oratorio per sua natura è un porto di mare, dove chiunque può entrare e uscire senza dare nell'occhio. I capi partigiani arrivano di sera, alla chetichella, don Cocco li porta in camera sua, o da qualche altra parte, e quelli tengono le loro riunioni segrete [...]
B.F., Don Luigi Cocco, Bollettino Salesiano 

La parrocchia di San Massimo era un centro importante della Resistenza. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 il parroco don Pompeo Borghezio mise a disposizione la canonica per le riunioni clandestine del Cln. Era un prete combattivo, durante tutta la guerra prestò aiuto agli ebrei, ai renitenti e ai partigiani. Finché nel marzo 1945 - nelle fasi decisive della liberazione - don Borghezio accettò di ospitare nella casa parrocchiale l’apparecchio radio ricetrasmittente della missione americana «Pom». Le trasmissioni furono affidate al sergente cecoslovacco Joseph Panek. Scopo della missione era fornire agli alleati informazioni circa la consistenza numerica delle formazioni partigiane e i loro fabbisogni, e inoltre trasmettere notizie riservate sui tedeschi. Proprio dalla postazione radio di San Massimo, con l’aiuto di due interpreti, fu possibile conoscere e diffondere l’organigramma delle SS tedesche di stanza nel famigerato Albergo Nazionale dietro a piazza San Carlo.
A Valdocco operava un’altra radio, sotto la vigilanza del salesiano don Luigi Cocco, vicedirettore dell’Oratorio. Don Cocco era stato cappellano militare e dopo l’armistizio, rientrato a Torino, si era messo in contatto con i militari entrati nella Resistenza nelle valli di montagna. Con don Cocco operavano alcuni salesiani cecoslovacchi, che avevano preso contatti con truppe di loro connazionali, arruolate inizialmente dai tedeschi, poi passate alla Resistenza in Val Sangone. La radio al Valdocco era nascosta nell’intercapedine di un muro utilizzato anche per nascondere i ricercati dai tedeschi. Trasmetteva informazioni al governo di Roma e agli alleati. L’apparecchio fabbricato in America, era arrivato a Torino nei primi mesi del 1945, fatto sbarcare in Liguria dopo un viaggio avventuroso; accompagnava la «Spring», una missione dei servizi della Marina Militare italiana. Don Cocco imparò a cifrare e a trasmettere. Un giorno gli informatori gli notificarono un notevole concentramento di mezzi tedeschi nella zona boschiva a ridosso di Villastellone, verso il Parco dei De Maistre. Toccava a lui diffondere l’informazione, ma decise di non farlo: sapeva che gli aerei alleati non sarebbero andati troppo per il sottile e avrebbero devastato Villastellone con tutta la popolazione. Scelte difficili. Giorni tragici. I tedeschi sapevano dell’esistenza della radio di Valdocco, la cercavano, ma non la trovarono mai [...]
Luca Rolandi, Fabbriche, oratori e parrocchie a Torino: ecco dove erano nascoste le radio partigiane clandestine, Corriere della Sera, 14 aprile 2021

giovedì 22 settembre 2022

Nel corso della primavera del ’44 fecero ritorno sulle montagne emiliane

Lizzano in Belvedere (BO). Fonte: Mapio.net

Dei sei che avevano animato il primo tentativo di insediamento sugli Appennini bolognesi a La Ca’ [n.d.r.: località di Lizzano in Belvedere (BO)], tre (Lossanti, Venzi e Fergnani) andarono a combattere in Veneto, raggiunti da altri giovani bolognesi che fecero la stessa scelta su indicazione del PCI bolognese (come Sergio Galanti, Luciano Romagnoli, Gino Monti, Vincenzo Toffano, per citare tra gli altri, nomi che ritroveremo in queste pagine. Anche Rino Gruppioni (Spartaco), che era riuscito a mettersi in salvo dal rastrellamento tedesco di Ca’ Berna, si unì a Lossanti e De Luca ad Erto, nella valle del Vajont.
Innocenzo Fergnani (nome di battaglia “Tino”), che era stato in aeronautica come sergente maggiore dal maggio ’42 all’8 settembre ’43, abbandonata Vidiciatico, dopo una breve parentesi nel Modenese, rimase in Veneto a combattere nella valle del Vajont tra gli uomini della brigata Buscarin, della divisione Belluno, perdendo poi la vita nel gennaio 1944 a Forno di Zoldo, senza che per diverso tempo a Bologna si risapesse della sua fine, per un equivoco sulle sue reali generalità, essendo conosciuto in Veneto come ‘Tino Ferdiani’.
Libero Lossanti (nome di battaglia “Capitan Lorenzini”)  e Venzi (“Nino”), invece, dopo essere stati impiegati in Veneto in zone diverse, si ritrovarono a combattere insieme nella valle del Vajont, poi nel corso della primavera del ’44 fecero ritorno sulle montagne emiliane nella zona del Monte La Faggiola, nella casa abbandonata “La Dogana”, dove dettero vita a quella 4a brigata partigiana, che poi divenne la 36a brigata Bianconcini Garibaldi, una delle più numerose e meglio organizzate tra le formazioni partigiane, che entrambi guidarono rispettivamente come  comandante e vicecomandante fino alla metà di giugno. Il 14 giugno ’44 Lossanti fu ucciso ed il comando della brigata passò a Bob Tinti, fino alla Liberazione.
Umberto Rubbi (“Sergio”, “il vecchio”), il più anziano del gruppo (classe 1895) tornò a Bologna ed entrò a far parte della 7a Gap, di cui divenne uno degli artificieri, rifornendo di bombe a tempo ed esplosive, bottiglie incendiarie e tritolo non solo la formazione bolognese, ma nei primi tempi anche Toscana e Romagna, preparando le bombe sia per l’attentato al bordello di via San Marcellino sia al ristorante Diana e, nel gennaio, entrando in azione come vedetta esterna in via Zamboni, durante l’attentato diretto contro Eugenio Facchini.
Giorgio Frascari, invece, dal febbraio ’44 lavorò come tipografo alla stamperia clandestina di via Bengasi con Dalife Mazza e Vittorio Gombi, per pubblicare la rivista clandestina comunista La lotta, manifestini e materiale informativo interno ed esterno, fino al ’45, quando la tipografia fu spostata in via Belle Arti 7 fino alla Liberazione.
Monaldo Calari, in qualità di commissario politico, sarà tra gli animatori e le colonne portanti della 63ª brigata Garibaldi, che si andò formando tra la primavera/estate del ‘44, chiamata “Bolero” alla morte in combattimento del suo comandante Corrado Masetti (nome di battaglia Bolero), il 30 ottobre 1944. Nella 63ª confluirono infatti molti degli uomini presenti nell’autunno ’43 sull’Alta Valle del Reno e altri la brigata ne raccolse combattenti in pianura e nelle valli di montagna comprese nella zona ad ovest di Bologna, tra Sasso Marconi e Casalecchio. Calari cadde assieme al suo comandante Bolero, altra medaglia d’oro al valor militare, sterminato con l’altra ventina di uomini della brigata Comando, dai Paracadutisti Tedeschi nella battaglia di Casteldebole, mentre tentavano di attraversare il Reno in piena per unirsi alle forze partigiane chiamate in città in vista dell’insurrezione, che avrebbe dovuto avvenire in novembre, ma che non ci fu per l’arresto dell’avanzata degli alleati sulla Linea Gotica.
Redazione, I sei de La Ca’, più uno, Memorie Resistenti 

[...] Dare la libertà alle vittime delle rappresaglie fasciste, ai partigiani fatti prigionieri ed ai tanti oppositori civili, fu il compito che il Comando Unico Militare Emilia Romagna (CUMER) affidò alla 7ª Brigata GAP di Bologna.
Ricevuto l’incarico si doveva decidere come realizzare l’impresa. Il carcere di San Giovanni in Monte era situato al centro della città, a pochi passi dalle caserme della brigata nera, dal comando tedesco e dagli uffici della Questura e Prefettura, ai quali competeva la vigilanza sul reclusorio.
Il primo passo fu quello di darne avviso ad alcuni esponenti di primo piano della Resistenza, lì rinchiusi, con la collaborazione di guardie carcerarie amiche.
La prima idea fu quella di entrare attraverso la parte lesionata della struttura carceraria a causa del bombardamento del 29 gennaio ’44, ma venne presto abbandonata, dopo una perlustrazione, per le difficoltà intrinseche e perché si sarebbe riusciti a liberare solo un numero limitato di reclusi.
Si pensò quindi ad un escamotage per potere entrare nel carcere con piena libertà di movimenti. L’idea vincente venne infine concepita: inscenare la consegna di partigiani fatti prigionieri.
Dodici i gappisti impegnati nell’operazione: cinque vestiti da repubblichini: Massimo Barbi, Nello Casali “Romagnino”, Bruno Gualandi “Aldo” , Roveno Marchesini “Ezio” e Vincenzo Sorbi “Walter” ; tre con divisa tedesca: Berardino Menna “Napoli”, Lino Michelini “William” e Arrigo Pioppi “Bill”; quattro i partigiani “catturati”: Giovanni Martini “Paolo”, Renato Romagnoli “Italiano”, Dante Drusiani “Tempesta” e Vincenzo Toffano “Terremoto”.
Giunti sul piazzale fronteggiante il carcere a bordo di due millecento, sequestrate, “Napoli”, ex prigioniero di guerra fuggito da un campo di concentramento in Germania, in un improbabile tedesco e con voce rombante nel silenzio della notte, ormai erano le dieci di sera, convinse i poliziotti di guardia ad aprire il portone esterno e poi il secondo che da accesso  al carcere vero e proprio. Lasciati all’esterno tre partigiani a fare la guardia con il compito di disarmare i militi di guardia al momento opportuno, nove partigiani, assunta la loro vera veste di liberatori, si palesarono ai secondini di servizio i quali guidarono i partigiani nei vari reparti ed in poco tempo tutte le porte delle celle furono aperte ed i detenuti, comuni compresi, si riversarono nell’ampio cortile interno. A questo punto due contrattempi si frapposero allo svolgersi del colpo di mano. Il primo era che non si trovavano le chiavi del portone interno e il secondo che si udì una sparatoria proveniente dall’esterno che fece temere il peggio. Per quanto riguarda la chiave, con la forza convincente dei mitra, sortì all’improvviso e l’esodo di massa ebbe luogo.  Si chiarirono poi le ragioni della sparatoria. Mentre i militi fascisti di guardia all’esterno non avevano fatto opposizione al disarmo, un poliziotto sopraggiunto aveva reagito. Nella sparatoria conseguente lui stesso rimase ucciso mentre “William” fu ferito ad una gamba in modo tale da portarne le conseguenze per tutta la vita.
Mentre i prigionieri politici e comuni (liberati anche per far confusione), si allontanavano lungo le vie di accesso al reclusorio, quattro partigiani prigionieri ai quali eravamo particolarmente interessati: Monaldo Calari “Enrico”, Amos Facchini “Joe”, Nerio Nannetti “Sergio” e Sonilio Parisini “Sassi” presero il posto di quattro partigiani che avevano partecipato all’assalto i quali si allontanarono a piedi mentre le auto raggiungevano le basi di partenza: la Bolognina.
Alcune considerazioni finali. Vi è una particolarità in quella sera che non è stata mai messa in evidenza. Nonostante l’ora tarda, i prigionieri non erano a letto ma tutti furono pronti ad uscire celermente. Quindi bisogna supporre che l’incursione fosse già nota ed i reclusi preparati all’evento nella massima segretezza.
Dall’attiguo carcere femminile, non interessato all’operazione, era stato dato l’allarme ma nessuno intervenne accampando banali scuse del tipo la mancanza di benzina. Circolò anche la notizia che i partigiani che assaltarono il carcere fossero molti di più di quello che erano: dodici combattenti per la Libertà. Naturalmente ci fu anche un rimbalzo di responsabilità per l’insufficiente vigilanza ed il mancato intervento.
Come sempre i commenti dei tedeschi non furono resi noti ma si percepì la rabbia per lo “smacco” subito. Comunque nessuna notizia ufficiale fu diramata.
Dopo qualche giorno in trafiletto sul locale giornale  “il Resto del Carlino” invitava i detenuti evasi a presentarsi spontaneamente poiché sarebbero stati trattati con benevolenza [...]
Redazione, 9 agosto 1944. Una giornata di gioia nella tragedia della guerra, ANPI Provinciale di Bologna

La 63a brigata Garibaldi fu costituita nella primavera-estate 1944 quando furono accorpati numerosi nuclei armati che operavano nella zona ad ovest di Bologna, in pianura e in montagna.
I nuclei più grossi erano quelli di Monte San Pietro guidato da Amleto Grazia "Marino" e Monaldo Calari "Enrico". Comandante fu nominato Corrado Masetti "Bolero".
La brigata nell'autunno contava oltre 230 uomini, molti dei quali disertori dell'esercito tedesco o ex prigionieri sovietici.
Ai primi d’ottobre la brigata fu attaccata da ingenti forze tedesche a Rasiglio (Sasso Marconi), perché occupava un'importante posizione strategica alle spalle della linea del fronte.
Lo scontro durò più giorni, con gravi perdite partigiane, sia in caduti sia in prigionieri, 13 dei quali furono trasferiti a Casalecchio di Reno e trucidati nei pressi del ponte della ferrovia.
Verso la fine d’ottobre, quando alla brigata giunse l'ordine di convergere su Bologna, per prendere parte a quella che si riteneva l'imminente insurrezione, fu deciso di inviare in città il distaccamento del Comando, forte di una ventina d’uomini, al comando di Masetti e Calari. Dopo essersi aperto la strada combattendo, il gruppo non poté attraversare il fiume Reno in piena e a Casteldebole fu attaccato e distrutto dalle SS tedesche.
Nell'inverno la brigata fu ricostituita con la nuova denominazione di 3a brigata Nino Nannetti. Renato Capelli "Leo" fu nominato comandante, Raffaele Vecchietti "Gianni" commissario politico e Adelfo Maccaferri "Brunello" e Bruno Corticelli vice comandanti. Dopo l'arresto di Capelli, in marzo il comando fu assunto da Beltrando Pancaldi "Ran".
La brigata - che ai primi d’aprile assunse il nome di 63a brigata Bolero Garibaldi - era organizzata su sei battaglioni intestati a caduti: Nello Zini a Bazzano; Gastone Sozzi a Monteveglio; Angelo Artioli a Calderara di Reno; Umberto Armaroli a Sala Bolognese; Antonio Marzocchi ad Anzola Emilia, San Giovanni in Persiceto, Sant'Agata Bolognese e Crevalcore e Monaldo Calari a Monte San Pietro.
Era inquadrata nella divisione Bologna montagna “Lupo”.
La brigata ebbe 1.548 partigiani e 706 patrioti.
I caduti furono 242 e i feriti 69.
Nazario Sauro Onofri, 63a brigata Garibaldi Bolero, Storia e Memoria di Bologna

mercoledì 14 settembre 2022

Togliatti a Radio Mosca


Nelle città dell’Italia settentrionale, oltre a Radio Londra, avevano riscosso molto favore anche Radio Mosca e, ancora di più, Radio Milano-Libertà, l’emittente che, gestita direttamente dal Partito comunista italiano, a partire dal luglio 1941 aveva trasmesso regolarmente quattro volte al giorno da Mosca, fingendo di operare dal territorio italiano come stazione radiofonica clandestina di un gruppo di antifascisti. Più politicizzate rispetto alle trasmissioni della BBC, che erano rivolte soprattutto alle classi medie, le trasmissioni in lingua italiana da Mosca ebbero larga risonanza fra le masse popolari e influenzarono a fondo i quadri comunisti <37. Molti degli articoli dell’«Unità» clandestina e dei volantini di propaganda antifascista furono elaborati infatti sulla base dei programmi di Radio Milano-Libertà. Dirette dal segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, autore anche di molti dei testi mandati in onda, le trasmissioni delle due radio moscovite furono imperniate sulla medesima direttiva di fondo antigermanica che contraddistingueva la propaganda angloamericana. Iniziati subito dopo l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, i commenti di Togliatti, il compagno Ercoli (noto come Mario Correnti agli ascoltatori di Radio Mosca), furono focalizzati sulla condanna del carattere insensato e «antinazionale» della guerra contro la patria del socialismo cui Mussolini aveva associato l’Italia, una guerra che il popolo italiano e i soldati italiani venivano invitati a contrastare con ogni mezzo.
I temi cui Togliatti ricorreva riecheggiavano in buona parte quelli utilizzati da Stevens, da Candidus e dagli altri commentatori italiani di Radio Londra.
In primo luogo, anche Togliatti tracciava una netta distinzione tra il fascismo e il popolo italiano. Era stato il primo, espressione delle «ristrette cerchie plutocratiche», a volere la guerra in corso, «ingiusta e antinazionale» <38. «La popolazione italiana - diceva Togliatti ai microfoni di Radio Milano-Libertà - è contro questa guerra, non solo perché soffre delle conseguenze di essa, ma perché comprende che gli scopi di guerra della Germania di Hitler sono contrari agli interessi vitali della nazione» <39.
«Il popolo italiano - insisteva il leader comunista da Radio Mosca - non partecipa alla guerra. Soffre della guerra, è ferito e lacerato nell’intimo suo dalle infinite sofferenze ch’essa gli impone, ma è, nella sua enorme maggioranza, estraneo alle avventure militari in cui il fascismo lo ha gettato» <40.
Il primo responsabile delle sofferenze degli italiani era additato in Mussolini, colpevole di avere messo il destino della nazione nelle mani del tradizionale nemico dell’Italia: «il Tedesco». «Mussolini - affermava Togliatti - è il servo di Hitler e dei tedeschi. Mussolini è il tiranno che porta la nazione alla rovina per servire una fazione, una cricca, una banda, un imperialismo straniero» <41.
«Governatore d’Italia per conto di Hitler» <42, il duce non faceva che «servire i piani briganteschi» del Führer volti «a fare di tutta l’Europa una sola grande colonia della Germania» <43. Nel «Nuovo Ordine Europeo» propagandato dai nazisti, all’Italia non sarebbe stato garantito alcun trattamento privilegiato. Tutt’altro: essa sarebbe stata «la Cenerentola, la serva, la colonia riservata per gli svaghi della razza superiore» <44. Ne costituiva già un’anticipazione la politica che la Germania stava svolgendo verso l’alleato fascista. «Tutta la vita italiana, economica, politica, ideale - osservava Togliatti nel giugno 1942 -, è soggetta oggi a un continuo e umiliante intervento straniero» <45. Con la complicità di Mussolini, tutte le risorse industriali e alimentari erano state messe infatti al servizio dei tedeschi che - si faceva notare - «ci disprezzano e ci vogliono rendere schiavi» <46. «Schiavi» dei tedeschi erano già gli operai italiani mandati a lavorare in Germania <47 e «al servizio dei generali hitleriani» erano i soldati inviati da Mussolini lontano dall’Italia a combattere una guerra non sentita, a vantaggio della Germania.
Numerosi furono i commenti di Togliatti sulle vicende dolorose dell’Armir, accorato il suo appello perché gli italiani fossero informati della tragedia ed esprimessero il loro sdegno e la loro protesta <48. «Ricordate ancora una volta - egli diceva - il quadro delle colonne italiane avanzanti, a piedi, scalze, sfinite, sulle strade dell’Ucraina, mentre accanto a loro passano i granatieri di Hitler superbamente installati sui camion, e guardano con sprezzo e ridono dei poveri italiani» <49.
Nei suoi interventi Togliatti sottolineò più volte come Mussolini avesse trascinato l’Italia alla rovina perché aveva voluto capovolgere la saggia e tradizionale politica nazionale che aveva sempre mirato a impedire «l’arrivo al Brennero delle armi della Germania» <50. Togliatti, non diversamente dai commentatori britannici ma con insistenza ancora maggiore, si richiamava alla tradizione del Risorgimento e, in nome di Mazzini e Garibaldi, invitava gli ufficiali del regio esercito, i giovani soldati, l’intero popolo italiano a rivoltarsi contro Mussolini, a chiedere la pace, a porre fine alle angherie tedesche <51.
[NOTE]
37 Sull’attività e l’ascolto di Radio Milano-Libertà si veda l’introduzione di Gerardo Chiaromonte a Togliatti, Da Radio Milano-Libertà cit., pp. xvii-xviii. Sull’ascolto in Italia delle stazioni alleate, fra cui Radio Mosca e Radio Milano-Libertà, cfr. Piccialuti Caprioli, Radio Londra 1939-1945 cit., pp. 31-32.
38 Cfr. ad esempio P. Togliatti, È finito un anno di lutti e di miserie (Radio Milano-Libertà, dicembre 1941), in Id., Da Radio Milano-Libertà cit., pp. 174-175.
39 P. Togliatti, Sta maturando la rivolta contro il fascismo (Radio Milano-Libertà, senza data ma del luglio-agosto 1941), in Id., Opere cit., p. 149.
40 P. Togliatti, Lettere dei soldati italiani in Russia (24 aprile 1942), ivi, p. 204.
41 P. Togliatti, I giovani non credono più a Mussolini perché egli non ha fatto altro che tradire (Radio Milano-Libertà), ivi, p. 437.
42 L’espressione ricorre più volte. Cfr. ad esempio P. Togliatti, L’Italia fascista è un vassallo della Germania hitleriana (Radio Mosca, 29 giugno 1941) e Id., Il nuovo governo Mussolini (Radio Mosca, 7 febbraio 1943), ivi, rispettivamente p. 98 e pp. 408-409.
43 P. Togliatti, Cacciare Mussolini per cacciare la rovina (Radio Mosca, 19 giugno 1942), ivi, p. 215.
44 P. Togliatti, La verità sul fronte orientale (Radio Mosca, 10 gennaio 1943), ivi, p. 401.
45 Ivi, p. 216.
46 La frase è tratta dall’intervento su Radio Milano-Libertà intitolato Via dal fronte russo i soldati italiani!, del luglio 1941 (cfr. ivi, p. 147). L’attenzione di Togliatti allo sfruttamento economico dell’Italia da parte della Germania fu costante. Cfr. ad esempio: Perché i tedeschi mangiano il doppio di noi? (Radio Milano-Libertà, 26 giugno 1942); I tedeschi aumentano le loro razioni alle nostre spalle (Radio Milano-Libertà, 17 settembre 1942); Un nuovo tradimento del governo di Mussolini. Il nostro migliore macchinario industriale viene mandato in Germania (Radio Milano-Libertà, 24 aprile 1943), in Togliatti, Da Radio Milano-Libertà cit., rispettivamente pp. 169, 199-200, 296-297.
47 I discorsi radiofonici di Togliatti contengono numerosi accenni a questo tema, cfr. ad esempio P. Togliatti, Un gruppo di italiani liberi dalle catene fasciste (Radio Mosca, 28 giugno 1942), in Id., Opere cit., p. 218.
48 Cfr. ad esempio La verità sul fronte orientale cit. e L’armata italiana in Russia è stata distrutta (Radio Milano-Libertà, 5 gennaio 1943), in Togliatti, Da Radio Milano-Libertà cit., pp. 241-242.
49 Togliatti, La verità sul fronte orientale cit.
50 P. Togliatti, Colonie tedesche in Europa (Radio Mosca, 18 luglio 1941), in Id., Opere cit., p. 104.
51 Per quanto riguarda i Discorsi agli italiani pronunciati da Radio Mosca, cfr. Balilla (20 luglio 1941); Gruppi di partigiani alle porte di Trieste (19 maggio 1942); Mussolini e i giovani italiani (31 maggio 1942), in Togliatti, Opere cit., rispettivamente pp. 106-109, 207-209, 209-212. Per quanto riguarda Radio Milano-Libertà cfr. ad esempio Una parola aperta a tutti gli ufficiali (1° marzo 1943), in Togliatti, Da Radio Milano-Libertà cit., pp. 440-442.
Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, 2013


Come ricorda Dimitrov nel suo diario, le nuove indicazioni tattiche post-cominterniste seguivano dei dettami programmatici che erano già stati progettati nella primavera del 1941 dalla dirigenza sovietica e da questa condivisi con i principali leader comunisti occidentali, Togliatti e Thorez: “cessazione dell’attività dell’IC come istanza dirigente dei partiti comunisti nel breve periodo, (...) attribuzione della piena autonomia ai singoli partiti comunisti, la loro trasformazione in autentici partiti nazionali dei comunisti nazionali di un dato paese, guidati da un programma comunista, ma capaci di risolvere i loro compiti alla propria maniera, in base alle condizioni del proprio paese <48”. Su questi indirizzi (che, peraltro, soprattutto nella delicatissima fase bellica, erano accompagnati da una costante azione di controllo, da parte dei vertici moscoviti, sulla concreta produzione propagandistica degli organi di comunicazione comunisti <49), tra il 1941 e il 1943, si modellò anche la preziosa azione divulgativa e informativa del PCI elaborata dai centri sovietici. Paradigmatico il caso delle trasmissioni radiofoniche di Radio Mosca nelle quali Togliatti compariva con l’emblematico pseudonimo di Mario Correnti: una scelta apparentemente ermetica, ma assai ricca di significato sul piano dei riferimenti politico-culturali, poiché combinava il ricordo del liberale milanese Cesare Correnti, protagonista delle insurrezioni lombarde negli anni ’40 del diciannovesimo secolo, con quello del Mario, dittatore democratico della Roma antica <50. Nei difficili mesi dell’incubazione politica della Resistenza italiana, il “problema nazionale” si affermò, dunque, in un modo quasi naturale nella propaganda clandestina del PCI, sotto la spinta degli input tattici provenienti da Mosca, ma anche in relazione a precise necessità ambientali sui vari fronti bellici. D’altra parte, quello rappresentato da un eterogeneo sentimento patriottico era un richiamo valoriale assolutamente ineludibile per tutto il movimento resistenziale italiano <51.
[NOTE]
48 DIMITROV G., Diario. Gli anni di Mosca (1934-1945), Torino, Einaudi, 2002, p. 302. La linea fu esposta per la prima volta da Stalin a Dimitrov il 20 aprile 1941 e, pochi giorni dopo, fu riportata anche a Togliatti e Thorez, che prontamente approvarono.
49 Ad esempio, ancora Dimitrov, in data 4 maggio 1941 ricorda la redazione a Mosca del testo definitivo di un appello “del Partito comunista italiano sull’attuale fase della guerra”; mentre in data 24 aprile 1943, il dirigente bulgaro annota l’introduzione di “modifiche sostanziali” in un importante articolo di Togliatti su «lo Stato Operaio» (numero di maggio-giugno 1943) “per non sopravvalutare l’isolamento di Mussolini in Italia e non dare l’idea che tutta la
borghesia si è orientata contro Mussolini”: Ibidem, rispettivamente pp. 307 e 606. Nel primo caso si tratta dell’appello Per mettere fine alla guerra! Per salvare l’Italia da una catastrofe, ora nella raccolta Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, Roma, Editori Riuniti, 1963; nel secondo, si riferisce allo scritto Sulla situazione italiana, ora in TOGLIATTI P., Opere, cit., Vol. IV, pp. xx
50 CERVETTI G., Togliatti: Mario e Cesare Correnti, in “Studi storici”, anno 47, n. 2 (aprile-giugno 2006), pp. 421-435. Come nota l’autore, da questa e da altre scelte politico-comunicative adottate da Togliatti in questi anni, emerge un’impostazione di fondo per cui “tra propaganda, politica e cultura si stabilisce un rapporto circolare per cui dall’una si passa all’altra e viceversa” (p. 431). Sul dettaglio di questa produzione propagandistica, cfr. CORRENTI M., Italiani, Italiani ascoltate. Discorsi da Radio Mosca 1941-1943 di Palmiro Togliatti, Milano, edizioni del Calendario, 1972 (a cura di Paolo Bufalini).
51 Inevitabile il rimando ancora all’opera di Pavone e alla sua interpretazione della guerra di liberazione come guerra patriottica (oltre che “civile” e “di classe”): PAVONE C., Una guerra civile., cit., pp. 169 ss.; sul tema cfr. anche BARBERIS W., Il bisogno di patria, Torino, Einaudi, 2004, pp. 76-91.

Fabio Calugi, Il tricolore e la bandiera rossa. Patria e interesse nazionale nel discorso pubblico del PCI togliattiano (1944-1947), Tesi di dottorato, IMT Institute for Advanced Studies, Lucca, 2010

[...] un’attenzione particolare va riservata all’opera che Togliatti promulga dalla Russia, con la sua importantissima partecipazione alle trasmissioni di Radio Mosca. Questa emittente, i cui contenuti erano direttamente promossi e vagliati dal Comintern, trasmetteva inizialmente in lingua tedesca, inglese e francese. Per avere trasmissioni in lingua italiana bisognerà attendere il 1933, con il primo lancio di dispacci ufficiali della durata di 10-15 minuti provenienti dalla TASS, l’agenzia ufficiale sovietica. Nel 1937 la strutturazione della “Sezione italiana” diverrà più complessa, con un editing ufficiale e la segreteria di redazione riservata al comunista Del Magro, altro esule fuggito dall’Italia a causa delle persecuzioni fasciste. Nel 1969 su “Rinascita” l’articolo di Luigi Amadesi “Italiani a Radio Mosca” cita tutta una serie di collaboratori comunisti italiani che negli anni Trenta e Quaranta collaboravano allo sviluppo dell’emittente, da Giuseppe Amoretti a Giovanni Farina, da Clarenzo Menotti a Ettore Fiammenghi, passando a Sergio Di Giovanni e molti altri. Con lo pseudonimo di Mario Correnti, a Radio Mosca lavorerà anche Palmiro Togliatti, con un commento del giorno tre volte alla settimana, dal luglio 1941 al maggio del 1943, ovvero fino al suo ritorno in Italia per guidare le fasi più calde della Resistenza. Oltre ai dispacci sovietici, la radio offriva anche lo spazio per trasmettere i documenti e i comunicati del clandestino Partito Comunista d’Italia, e i tutto sommato cordiali rapporti diplomatici tra l’Italia fascista e l’Unione Sovietica attorno al 1937 permettevano anche in Italia di ricevere il segnale radio della stazione moscovita, con la partecipazione di interventi provenienti anche dalla penisola.
Con l’aggressione all’Unione Sovietica da parte italiana il 22 giugno del 1941, i rapporti tra i due paesi ovviamente subiscono un crollo, e anche a Radio Mosca si studia un metodo per utilizzare al meglio quel canale, al fine di influenzare i rapporti con l’Italia e il suo popolo. Sulle sorti di questo dialogo, ci informa lo stesso Luigi Amadesi: “Si tenne una riunione ad alto livello per discutere la questione e diede precise direttive. Per noi esse si potevano riassumere nella formula: attaccare in tutti i modi il fascismo, non dire nulla che potesse urtare il sentimento e la dignità nazionale del popolo italiano, chiamare gli operai, contadini, tutti gli italiani alla lotta più decisa contro il regime fascista. Questa linea fu seguita in modo coerente fino al termine della guerra.” <1
Dal 27 giugno 1941 l’interlocutore principale in questo tipo di operazione diventa Palmiro Togliatti. Se l’influsso delle esigenze belliche sovietiche diventa la principale fonte d’ispirazione per la composizione dei discorsi in questione, va detto che questa fascia oraria concessa al leader comunista italiano sulle frequenze russe fornisce un grande bacino politico ed ideologico per comprendere l’atteggiamento stesso che in Togliatti va maturando nei confronti del fenomeno fascista, un sentimento che, come vedremo, è tarato su un antifascismo incapace di tregue o concessioni, applicabile a qualsiasi contesto della vita civile e sociale italiana e tendente a smascherare le nefandezze e le mancanze del governo mussoliniano. Se la ragion d’essere principale della trasmissione in questione è, come facilmente comprensibile, il fornire un seppur labile e lontano megafono di convincimento e propaganda rivolto all’Italia, vi si ritrovano tutte le caratteristiche strategiche che si erano sviluppate nelle precedenti esperienze politiche togliattiane, e che costituiranno la principale direttrice tenuta dal leader comunista durante e dopo il suo ritorno in Italia per dirigere la Resistenza partigiana.
II) Tradizione nazionale, propaganda popolare e lotta antifascista. Analisi degli interventi radiofonici
La prospettiva fondamentale dalla quale prende le mosse l’azione di Togliatti su Radio Mosca è la presentazione del fascismo come un traditore degli interessi nazionali italiani. <2 Se la risposta russa a fronte dell’invasione italo-tedesca risiede anche in una riscoperta del patrimonio nazionale offerto dalla propria storia, anche Togliatti durante le sue invettive radiofoniche si esibisce in una netta opera di analisi della storia italiana e delle strategie politiche che hanno sempre portato le fortune del proprio popolo. L’Unione Sovietica che celebra l’anniversario della battaglia di Borodino contro Napoleone, trova in Togliatti un pronto promotore di quello storico spartiacque militare, <3 così come un leader capace di riagganciare questa riscoperta sovietica del proprio orgoglioso passato nazionale ad una ritrovata coscienza patriottica italiana, da strappare alle falsità e ipocrisie fasciste. Una analisi svolta su base plurisecolare, che coinvolge specialmente il Risorgimento e le figure di Garibaldi e Mazzini in primis, in una vivace retorica in chiave nazionalpatriottica, popolare e interclassista. L’auspicata Resistenza del popolo italiano a fronte delle vessazioni nazifasciste viene paragonata proprio al Risorgimento, e si pone addirittura, per bocca di Togliatti, come una continuazione dello stesso, <4 continuazione che deve risiedere principalmente nella cacciata dello straniero e dell’influenza delle altre potenze dominanti sul paese. Il triste status coloniale dell’Italia, con un paese privo di una propria autonoma e indipendente linea diplomatica e diventato un’innaturale succursale di interessi stranieri è un altro elemento sempre presente nelle disamine togliattiane. Interessante è in tal senso il parallelismo che, nelle trasmissioni radio, viene effettuato con l’esperienza della napoleonica Campagna di Russia; anche in tal caso l’Italia, soggiogata dalla potenza francese, dovette fornire uomini a Napoleone per la propria avventura militare, in un comportamento che per Togliatti è identico a quello dell’Italia mussoliniana, costretta nel suo status a sovranità ridotta a fornire materiale umano per la guerra di Hitler. I richiami all’epoca moderna e all’Ottocento sono essenziali in queste trattazioni, e la politica di amicizia verso i “popoli danubiani” <5 fatta ricondurre a Mazzini e al Risorgimento è ripescata auspicando una continuazione della naturale diplomazia italiana, naturalità interrotta proprio dalla dissennata diplomazia fascista. L’Italia per un classico interesse storico ha da sempre riservato una attenzione speciale ai rapporti d’amicizia con i popoli slavi, e la causa dei disastri bellici dell’Italia, seguendo la lettura del leader comunista, derivano proprio dall’innaturale scelta di combattere dei popoli tradizionalmente amici.
Singolare per le posizioni comuniste è anche l’analisi che Togliatti compie riguardo l’aggressione all’Austria, all’atteggiamento verso il cattolicesimo e verso le nazioni comuniste. Con una visuale quasi esterna, capace di cablarsi nella mentalità di un italiano medio non comunista, la lettura del comportamento fascista riguardo queste tre operazioni si snoda infatti in atteggiamenti inconsueti. Riguardo all’Austria, Togliatti ne condanna l’annessione hitleriana
stigmatizzandola non tanto come un attacco imperialista, quanto come una aggressione ad un paese cattolico. <6 E’ possibile notare, nella critica a quest’attacco, un ulteriore collegamento all’interesse geopolitico nazionale, per una Italia che da sempre, anche su idea dello stesso Mussolini, provava scetticismo verso quell’atto di aggressione ad un paese limitrofo, la cui utilità di stato-cuscinetto era ben nota a tutti i livelli diplomatici, e con un Dolfuss direttamente dipendente dalle direttive e dalla protezione, poi mancata, di Benito Mussolini. Una sensibilità verso la religione cristiana e cattolica che in Togliatti è profondissima, e che viene utilizzata anche per contestare la “barbarie pagana” <7 portata dalle armate hitleriane. Influenzato forse eccessivamente dal peso della cultura germanica e dagli influssi neo-pagani dei vari Himmler e Rosenberg, Togliatti fa spesso trasparire l’attacco delle armate hitleriane ai popoli europei e ai popoli sovietici come l’attacco di una nazione non cattolica, non cristiana. La stessa Unione Sovietica per il comunista italiano è, addirittura, una garante della religione cristiana più di quanto lo fosse stata la Russia zarista, dove solo il clero ortodosso era tutelato. <8
La crociata hitleriana contro l’URSS, quindi, prende piede da un grande fraintendimento, derivante dal non aver compreso come in realtà i primi difensori del cattolicesimo e della libertà di culto cristiana europea siano gli stati democratici e l’Unione Sovietica. Se il cattolicesimo diventa uno dei temi essenziali nel messaggio nazionalpopolare togliattiano durante le sue trasmissioni a Radio Mosca, un’attenzione particolare merita anche il più sottile, ma non meno importante, atteggiamento nei confronti dell’anticomunismo. Così come la crociata cristiana nazista sarebbe un falso, altrettanto falso sarebbe il paravento di antibolscevismo dato da Hitler alle proprie azioni contro l’Unione Sovietica, visto che la sua azione bellica è indirizzata anche contro nazioni e strati sociali non comunisti. <9 Interessante il fatto che nelle sue trasmissioni Togliatti dedichi l’attenzione non a contrastare in sé l’anticomunismo, lodando altresì il socialismo realizzato e l’ideologia marxista-leninista, quanto a far notare, praticamente, che esso è solo mal applicato da Hitler e dai suoi scherani, nonché inautentico. Una operazione di non trascurabile empatia, svolta certamente proiettandosi all’interno di ideologie e atteggiamenti politici alieni dai propri, e spinta fino a lidi inverosimili, quasi comprendendo la natura dell’atteggiamento anticomunista presente in certe nazioni, ma smascherando l’inadeguatezza contenutistica e pratica di quello nazifascista.
Il confronto con il fascismo, come detto, si gioca sulla grandezza nazionale e sull’incapacità da parte del regime mussoliniano di portarla in dote al proprio paese. Ancora nel 1942 si ripescherà in questi discorsi Garibaldi, che mai si arrese o arretrò per difendere il suolo patrio, a differenza dell’atteggiamento vile e rinunciatario dei quadri militari fascisti, colpe che Togliatti fa sempre ricadere, quando possibile, sui grandi responsabili e generali.
Arrischiando una analisi militare, il nostro arriverà pure a lodare il comportamento della divisione Pasubio sul fiume Bug, notando, nel 1941, come essa abbia combattuto “con valore”. <10 A livello militare Togliatti criticherà anche il preteso paragone che le milizie fasciste arrischiano con il passato romano, e proprio prendendo piede dalla politica d’interesse nazionale ideale, Togliatti abilmente rinfaccia a Mussolini la capacità di Cesare di “fermare l’avanzata del mondo germanico verso i paesi latini.” <11 Un fremito di rivolta che Togliatti promuove contro l’”odiato straniero” <12 tedesco, in una linea di continuità e tradizione storica che inizia dagli albori della civiltà italica e trova il suo culmine proprio nel Risorgimento, fattore di coesione nazionale per Togliatti, ritrovato nell’Italia di Mazzini, di Garibaldi e delle Cinque Giornate, un’Italia tradita da Mussolini. <13 Una lotta verso l’invasore tedesco che farà cadere su Togliatti, come più avanti vedremo, delle accuse di sciovinismo piccolo-nazionale, accuse lanciate dalla dissidenza comunista italiana.
Quel che è certo è che la retorica patriottica conosce in Togliatti un culmine singolare, con un Metternich presentato come precursore di Hitler <14 e l’attacco frontale a Benito Mussolini, la cui bandiera “nel 1948 era la bandiera di Radetzky” <15 Il Risorgimento viene nuovamente riproposto come esempio di sacra resurrezione dei popoli europei, con le nazioni slave e l’Italia come vecchi e nuovi grimaldelli per scompaginare il nuovo ordine mondiale voluto da Hitler. In questa lettura, anche lo Zar Alessandro I trova spazio in qualità di difensore degli interessi italiani al Congresso di Vienna, a rimarcare un’amicizia che, tra il popolo italiano e il popolo russo, è iscritta nella storia. <16 Così come Gramsci viene piegato ed utilizzato come alfiere per una politica comunista su base nazionale, ecco che Mazzini, Garibaldi e il Risorgimento, assieme a diverse parti della storia italica, sono abilmente (pur se in maniera spesso superficiale) utilizzate da Togliatti per incitare alla resistenza tutto il popolo italiano. Così come l’URSS stalinista riscopre la propria storia combattendo Hitler, <17 così il popolo italiano e specialmente la gioventù deve “riprendere la tradizione nazionale italiana” <18 riscoprendo gli eroi risorgimentali e gli autentici interessi patriottici. Hitler secondo questa lettura altri non è che la figura sbiadita degli imperatori germanici, soliti scendere in Italia per chiedere tributi agli stati loro soggetti. Un sentimento riallacciabile anche alla ben nota poesia di Trilussa sulla “Roma de travertino, rifatta de cartone” e sulla sempre latente sensazione che l’Italia stesse subendo in maniera spropositata i diktat del senior partner tedesco, nella conduzione di una guerra tragica. Anche la campagna di Grecia viene valutata da Togliatti, in maniera ovviamente pessima, e sempre facendo leva sul rapporto di storica amicizia intercorrente tra l’Italia e il popolo greco, dai tempi di Missolungi e dalla comune lotta contro una tirannia straniera. Un esempio di indipendenza nel cui ricordo trovano spazio le lodi a Carducci e a Nievo, e che proprio in relazione all’indipendenza greca vedono l’affermazione del Risorgimento come un “principio di nazionalità per tutti i popoli”. <19
La propaganda culturale tuttavia ricopre un ruolo sempre finalizzato, nella retorica togliattiana, alla promozione di quella che verrà chiamata una “guerra di insurrezione per bande” <20 che sappia riscattare il vassallaggio al quale sono costretti i popoli europei. L’esempio qui è fornito sia dalla storia che dall’attualità; se le esperienze storiche dei volontari in camicia rossa, del Garibaldi emancipatore di popoli e lavoratori, del Balilla partigiano <21 (altra “smentita” per la cultura fascista) sono utili come rimando storico e popolare, l’esempio bellico odierno viene fornito dalla resistenza russa nelle retrovie e dai partigiani jugoslavi. Coi primi attacchi partigiani compiuti a Trieste, Togliatti a mo’ di incoraggiamento per gli insorti fornirà come esempi proprio Garibaldi e i partigiani russi, di cui sempre è lodato il coraggio, la semplicità, l’attaccamento alla propria patria. Il partigiano per Togliatti è colui che lotta per la propria patria, una lotta “popolare e nazionale” <22 contro il fascismo e i suoi alleati. Nel citare l’esempio fornito dai partigiani di altre nazioni, può venire naturale il chiedersi come sia possibile, per i comunisti italiani, incitare i propri compatrioti a prendere le armi assieme a chi, in quegli anni, combatteva una guerra spietata contro i propri militari al fronte. Togliatti, conscio evidentemente di questo problema, nel ritrarre l’esperienza bellica dei militari antifascisti stranieri, fa leva proprio sul sentimento patriottico che li muove, sulla parità di umili condizioni che li accomuna ai soldati italiani spediti al fronte a combattere guerre per procura, e su atteggiamenti empatici che provino a far riflettere l’ascoltatore sulle similitudini intercorrenti tra il soldato italiano e quello sovietico, piuttosto che jugoslavo. Il rimando al “valore” col quale combatté la divisione Pasubio, in tal senso, va scorto come un richiamo allo spreco di vite ed energie che i soldati italiani stanno compiendo, loro malgrado, nel combattere un popolo fondamentalmente amico, quando quelle stesse energie e quello storico valore andrebbero usati per combattere il nazismo e i propri alleati minori in Europa.
L’antifascismo è in questi discorsi assunto a orizzonte non solo primario, ma unico, senza lasciare spazio ad altre tentazioni. La gravità del momento e gli stimoli al combattimento contro il nazifascismo sono tali che, seguendo anche in questo caso gli indirizzi staliniani, non vengono lesinate neppure diverse lodi alle democrazie occidentali. Il capitalismo americano assurge a sistema industriale degno d’invidia, contro il quale la Germania hitleriana nulla può fare, e la democrazia americana a sistema pluralistico al quale gli emigrati italiani sono grati. <23 Anche commentando il patto di reciproca alleanza tra URSS e Gran Bretagna del 1942 Togliatti si spende in un elogio alle “libere potenze democratiche”. <24 Una politica ben definita di unità democratica, nella quale la democrazia popolare viene intesa quasi in un modo completamente sovrapponibile a quello della democrazia borghese di stampo capitalistico. Un percorso che proprio l’esperienza antifascista porta inevitabilmente a promuovere, e a fare di Togliatti uno dei più accaniti difensori di quella che lui stesso chiamerà “questa nostra vecchia civiltà europea, cristiana, liberale, democratica e nazionale.” <25 E’ una visione politica in cui l’antifascismo ha già preso il sopravvento nel suo carattere interclassista e nazionalpopolare, che si rifletterà per altro nella prossima opera di conduzione della Resistenza italiana che il Togliatti di Russia si appresta a prendere in carico. Una resistenza nella quale il PCI si porrà, primariamente, come l’alfiere della cultura e della tradizione nazionale italiana, con il compito di ricercare un comune tessuto connettivo con il proprio popolo consegnando lui una identità spirituale e morale al tempo stesso nuova e antica, capace di tuffarsi in tutti i rimandi storici che nell’esperienza a Radio Mosca Togliatti già evidenzia.
[NOTE]
1 Sulla storia dell’emittente radiofonica “La voce della Russia”, articolo del 25 gennaio 2007 reperibile su it.sputniknews.com/italian.ruvr.ru/2007/01/25/397083.html
2 Palmiro Togliatti, Italiani, italiani, ascoltate!, Roma, Teti, 1972, pag. 7
3 Cit., pag. 268-269
4 Cit., pag. 8
5 Palmiro Togliatti, Italiani, italiani, ascoltate!, Roma, Teti, 1972, pag. 35-36
6 Cit., pag. 36
7 Cit., pag. 115
8 Cit., pag. 112-113
9 Palmiro Togliatti, Italiani, italiani, ascoltate!, Roma, Teti, 1972, pag. 28
10 Cit., pag. 201
11 Cit., pag. 53
12 Cit., pag. 130
13 Cit., pag. 33
14 Cit., pag. 104
15 Cit., pag. 218
16 Palmiro Togliatti, Italiani, italiani, ascoltate!, Roma, Teti, 1972, pag. 119
17 Eloquente in questo caso il celebre film di Sergej Eisenstein Aleksandr Nevskij del 1938 (in un clima in cui, con la Conferenza di Monaco, l’URSS sembrava già abbandonata da britannici e francesi al bersaglio dell’espansionismo
hitleriano), dove il medievale principe di Kiev e Novgorod viene presentato come precursore o addirittura come personificazione di Stalin nella guerra “nazionale” russa contro i crociati teutonici da un lato e i traditori collaborazionisti dall’altro.
18 Palmiro Togliatti, Italiani, italiani, ascoltate!, Roma, Teti, 1972, pag. 220
19 Cit., pag. 207
20 Cit., pag. 169
21 Cit., pag. 162
22 Cit., pag. 279
23 Palmiro Togliatti, Italiani, italiani, ascoltate!, Roma, Teti, 1972, pag. 58-59
24 Cit., pag. 226
25 Cit., pag. 346
Alessandro Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015/2016

venerdì 9 settembre 2022

La fine del secondo conflitto mondiale rappresenta per Venezia un momento di cruciale importanza


Piuttosto che costituire una semplice fase di transizione e ricostruzione, il periodo che segue la fine del secondo conflitto mondiale rappresenta per Venezia un momento di cruciale importanza, dove vengono posati i binari politici su cui la progettualità urbana correrà nei decenni successivi. Se infatti fino a questo momento si era protratto «anche se con segni progressivi di notevole difficoltà, il tentativo di mantenere nella città storica tutte le funzioni direzionali, gran parte dei servizi e di concentrare, nella stessa, lo sviluppo economico e quello demografico»; è a partire dal 1951 che essa tocca il suo «punto critico», avviluppandosi in un rapido e inarrestabile processo di decadenza <1.
In questi anni, infatti, si rinsalda progressivamente quell’intreccio tra sviluppo edilizio, scelte urbanistiche, sfruttamento turistico, espulsione delle classi medie e produttive, ghettizzazione del sottoproletariato urbano, deindustrializzazione e ipertrofia della rendita immobiliare, le cui premesse erano state poste nei decenni precedenti <2. Anziché utilizzare la cesura costituita dal disordine post-bellico per un effettivo rinnovamento del discorso pubblico e delle pratiche di progettazione della città, si ritessono quindi senza soluzione di continuità le fila del disegno volpiano, mantenendolo come criterio orientativo fondamentale della ricostruzione e avviandolo perciò a definitiva concretizzazione <3. «Quasi tutti i grandi progetti degli anni successivi sono infatti riproposizioni (talvolta neppure aggiornate) di quelli elaborati negli anni Trenta» <4.
La stessa giunta guidata dal sindaco comunista Giobatta Gianquinto (1948-1951), espressione di una coalizione delle sinistre, non risulterà in grado di operare una rottura con le precedenti amministrazioni, cedendo infine definitivamente terreno alla Democrazia Cristiana, che con le elezioni del 1951 darà inizio ai suoi venticinque anni di governo ininterrotto della città lagunare. Espressione diretta del precedente blocco d’ordine, il partito costituiva del resto il «riferimento obbligato sia per le forze economiche interessate all'ulteriore sviluppo industriale della città sia per i ceti medi legati alla vocazione turistica del centro storico e delle isole» <5.
A prevalere in modo trasversale in questo periodo sarà comunque lo spontaneismo, ovvero la ricerca di soluzioni rapide ai gravi e urgenti problemi della città, avente come criteri esclusivi la ripresa economica, qualunque essa fosse, e il massimo incremento possibile dei redditi. Un atteggiamento politico che condurrà ad una situazione di "anarchia spesso irreparabile dell’iniziativa privata, confusione incredibile di iniziative dei pubblici poteri, incapacità degli addetti ai lavori di mettere mano autorevolmente al problema generale della pianificazione e della disciplina urbanistica [...]. Se ne conclude che dal 1945 al 1955, gli anni chiave della ricostruzione, il periodo in cui sarebbe stato tutto sommato facile imporre una disciplina e adottare una pianificazione, la chiarificazione del problema urbanistico veneziano, che sembrava possibile e matura alla vigilia del conflitto, si perdeva nei meandri paludosi di una serie incontrollabile di interessi particolari, di visioni ristrette, di croniche incapacità direttive" <6.
Incapacità che si cercherà di mascherare tramite la pressante richiesta di aiuti governativi. Il sindaco democristiano Angelo Spanio, in una conferenza stampa nel Maggio del 1952, poteva così dichiarare che:
"la città unica […] minaccia di soccombere all’offesa delle maree, delle correnti, della salsedine. […] Venezia è patrimonio comune, e questo patrimonio si trova sotto la perenne minaccia di fenomeni lenti ma continui e inesorabili che, se non si provvede in tempo, la trasformeranno in una città morta. […] Siamo certi che le legittime aspirazioni di questa ‘regina’ malata troveranno nel Governo, e nel mondo intero, pronta comprensione" <7.
Più delle maree, il problema enorme che vive la città è in realtà ancora lo stato drammatico delle sue abitazioni, che coincide con il picco storico del sovraffollamento urbano. Nel 1948, da un’ulteriore inchiesta di Vivante, la situazione si rivelerà addirittura peggiore rispetto a quella registrata nel 1909, con un aumento degli alloggi al piano terra. Al 1952, i tre quinti della popolazione risultavano sistemati in «misere abitazioni», mentre 50.000 persone vivevano in «baracche, tuguri malsani, in case pericolanti» <8. Vista l’urgenza di una capillare operazione di risanamento edilizio, la soluzione venne ancora una volta individuata nello sfollamento della città storica verso la terraferma; laddove la logica seguita, in linea con il Piano Fanfani del 1949, era quella di assegnare all’iniziativa privata il compito di risolvere la questione, garantendole un’adeguata remunerazione e incentivi statali. Principio che si tradusse in un ipertrofico moto edificatorio nelle aree periferiche, che il Comune si impegnava a concedere a prezzi irrisori e ad urbanizzare, «valorizzando aree altrimenti poco redditizie per investimenti del capitale privato e fornendogli, a spese della collettività, una rendita aggiuntiva» <9. La scelta dell’amministrazione cadrà quindi sull’area di San Giuliano, posta sul margine lagunare, in quanto consentiva una replica del meccanismo edificatorio che aveva caratterizzato Porto Marghera e garantiva una sorta di continuità simbolica quale stimolo al trasferimento, nella speranza che la presenza di un ambiente lagunare avrebbe reso «più facile lo spostamento dei veneziani, notoriamente ‘riluttanti’ ad abbandonare la loro città» <10.
Altro punto di convergenza trasversale nell’immediato Dopoguerra sarà l’incentivazione dello sviluppo turistico, percepito come fondamentale strumento di rilancio della città, nonostante esso non avesse all’epoca un ruolo così centrale e si inserisse piuttosto nel progressivo processo di terziarizzazione dell’economia urbana <11. L’importanza del turismo nella ripresa post-bellica fu però particolarmente enfatizzata a livello pubblico, in modo ben più evidente rispetto agli altri settori, tanto che nel 1948 in un comizio pre-elettorale il democristiano Giovanni Ponti poteva dichiarare che «l’industria del forestiero è la vita di Venezia […]. A chi vuol mostrarsi superiore disprezzando dollari e sterline è bene dire: vengano i dollari, le sterline, i rubli: si tratta del pane di Venezia» <12.
Una visione sposata e promossa anche sul piano nazionale, al punto che il sindaco Gianquinto stesso si trovava a lamentarne l’ostinata pervicacia. "Non c’è volta in cui io mi rechi a Roma per parlare ai vari membri del governo di questioni di vitale importanza per Venezia, che non mi senta dire ‘Venezia è città di turismo; voi avete nel turismo grandi risorse e, quindi, una situazione diversa dalle altre città. I bisogni di Venezia sono meno pressanti che altrove’. Ciò non è vero. Non nego che il turismo costituisca una attività economica cospicua della città, ma che Venezia possa essere vista e ritenuta UNICAMENTE come città di turismo internazionale è una ingiustizia e l’asserirlo una menzogna" <13.
Al più presto furono quindi riprese le attività culturali, con la riapertura della Mostra del Cinema nel 1946 e della Biennale d’arte nel 1948. Specialmente sulla prima le categorie puntavano per dilatare la stagione turistica, e ad essa fu richiesto di spostare il proprio calendario da Agosto a Settembre. Se sulla centralità strategica del turismo si conveniva, aperto restava invece il dibattito circa la sua connotazione. Obiettivo principale della giunta di sinistra era infatti quello di incrementare un turismo di massa a favore dei ceti meno abbienti. Si auspicava cioè che «la nostra città d’arte e di storia e la stazione balneare del Lido servano all’elevazione culturale e allo svago di larghe masse popolari» <14. Una visione cui si opponevano invece DC e categorie commerciali, in primis la CIGA, che deteneva il monopolio delle strutture alberghiere e prediligeva un turismo di lusso, percepito come assai più remunerativo e idoneo al tenore della città, che soggiornasse a lungo e fosse distribuito nel corso dell’anno.
In ogni caso, nel 1952, con il riavvio del ciclo economico e produttivo della città, il movimento turistico supererà l’apice raggiunto nel 1938, contando 651.036 arrivi e 1.670.085 presenze. Le strutture alberghiere, invece, passarono dai 151 esercizi con 9.075 posti letto del 1958 ai 188 esercizi con 10.954 posti letto del 1972 (+20%), concentrati in larga prevalenza nelle zone centrali e in quelle prossime ai terminal <15, con un’apertura stagionale di sette mesi l’anno. Si tratta dell’incremento di offerta «più ampio della storia recente, superato soltanto da quanto sta accadendo in questi ultimi anni», che corrisponde ad un parallelo sviluppo della domanda, aumentata in un solo decennio (1957-67) del 70% <16. L’espansione più rilevante delle strutture alberghiere si riscontra tuttavia nella terraferma (+ 70%), con Mestre che comincia proprio in questa fase ad assumere un «ruolo di supporto per le carenze del sistema ricettivo, sia quantitative, sia tipologiche, che cominciano ad essere avvertite nel Centro Storico, [presentandosi come] destinataria di un flusso “frettoloso ed economico” che non trova accoglienza nella Città Antica» <17. In generale, la Terraferma veneziana nello stesso periodo vedrà incrementare le presenze del 90%, gli arrivi del 130% <18.
[NOTE]
1 G. Zanon, “Popolazione, sviluppo economico, abitazioni: materiali per un confronto”, in E. Barbiani, Edilizia popolare a Venezia, op. cit., pp. 178-196, p. 179
2 Vedi M. G. Dri, op. cit., p. 50
3 Vedi L. Pietragnoli, M. Reberschak, “Dalla ricostruzione al ‘problema’ di Venezia”, in M. Isnenghi, “Il Novecento”, op. cit., pp. 2225-2277, p. 2234
4 Ibidem
5 G. Riccamboni, “Cent'anni di elezioni a Venezia”, in M. Isnenghi, “Il Novecento”, op. cit., pp. 1183-1250, p. 1229
6 Vedi W. Dorigo, Una legge contro Venezia, op. cit., p. 76
7 L. Pietragnoli, M. Reberschak, op. cit., p. 2225
8 Ivi, p. 2226
9 Ivi
10 Ivi, p. 36
11 «Nel centro esistevano, nel primo dopoguerra, una serie di attività terziarie connesse a grandi lavori di costruzione, attività di produzione e distribuzione di energia, banche e assicurazioni, attività cioè che erano proprie di tutti i grandi centri urbani e che avrebbero potuto costituire una base su cui innestare un processo di crescita che si poteva rivelare dinamico nel prosieguo del tempo come doveva accadere per altre importanti città. La presenza di elevate quote del terziario negli anni Cinquanta ha ben poco a che fare con la specializzazione turistica che si dovrà invece affermare per Venezia negli anni successivi e che ha costituito un aspetto particolarmente limitativo dello sviluppo della città negli anni più recenti», in G. Tattara, “Il mercato del lavoro nel veneziano”, in M. Reberschak, Venezia nel secondo dopoguerra, op. cit., pp. 51-72, p. 72
12 M. G. Dri, op. cit., p. 26
13 Ibidem
14 Cit. in P. Sartori, “La prima amministrazione comunale e la giunta Gianquinto”, in M. Reberschak, Venezia nel secondo dopoguerra, op. cit., pp. 157-182
15 Su 142 esercizi della città storica nel 1972, 84 erano infatti nell’area realtino-marciana e 40 tra la stazione ferroviaria e piazzale Roma.
16 E. Barbiani, G. Zanon, "Condizioni di competitività delle strutture ricettive del Comune di Venezia e della regione turistica", Rapporto COSES, 536, 2004, p. 6.
17 Ivi, p. 7
18 Ibidem
Clara Zanardi, La 'bonifica umana'. La Venezia degli esodi nello sguardo dei rimasti, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2018/2019

mercoledì 7 settembre 2022

Il caso Moro cambierà per sempre il modo di fare giornalismo e informazione


Rispetto alla stampa, più spesso analizzata nell’ambito della saggistica sul caso Moro, la fonte televisiva risulta molto meno esplorata e tuttavia particolarmente interessante poiché in grado di apportare ulteriori elementi di riflessione e di analisi sulla vicenda, agendo secondo molteplici prospettive.
Nell’immaginario collettivo, televisivamente parlando, la memoria visiva si muove tra due limiti temporali di riferimento: il servizio di Paolo Frajese in onda nell’edizione straordinaria del Tg1 la mattina del 16 marzo, con la ripresa della scena dell’agguato di via Fani, e le immagini riprese da Valerio Leccese del corpo di Moro in via Caetani, unica testimonianza filmata esistente che la Rai fu costretta a comprare da una piccola emittente privata romana, la Gbr.
Immediatamente emerge il legame forte che unisce l’evento all’immagine, l’accaduto alla sua rappresentazione iconica e, per altro verso, la grande carica semiotica che a sua volta l’immagine trasferisce all’evento stesso, influenzandone la percezione e dilatandone senso e significato.
[...] Il caso Moro è però il primo evento nella storia della Repubblica a rendere i media fortemente determinanti all’interno dello stesso processo di sviluppo della vicenda. Viene considerato come la prima grande tragedia nazionale dell’era televisiva, vissuta con intenso coinvolgimento emotivo da tutta l’opinione pubblica. È il primo episodio terroristico in Italia a svolgersi praticamente in diretta Tv: quei 55 giorni cambieranno per sempre il rapporto tra terrorismo e comunicazione e il modo di fare giornalismo e informazione. Da quelle immagini in diretta dei corpi a terra, del sangue sull’asfalto, delle auto crivellate dai colpi di mitra, non si tornerà più indietro. E poi ancora i botta e risposta tra i brigatisti e il governo, il susseguirsi di rivendicazioni e prese di posizione, le telefonate, i comunicati, le lettere: tutto passava attraverso i media e in particolare attraverso lo schermo televisivo e i Tg d’informazione.
Ciò che è interessante notare è proprio quella sorta di giostra mediatica che è nata con e intorno al caso Moro. Primo fra tutti lo stesso Aldo Moro e a seguire i suoi carcerieri, le Br, e ancora le istituzioni, il mondo dell’informazione e i giornalisti e, a chiudere il cerchio, i cittadini, l’opinione pubblica: cinque protagonisti della scena coinvolti in un gioco delle parti che si è svolto interamente in campo mediatico, legati a doppio filo tra loro in un intreccio comunicativo articolato su più livelli.
Uno degli aspetti più importanti da analizzare è il meccanismo di costruzione dell’informazione intorno a quegli avvenimenti che ha attuato di fatto la trasformazione da evento reale a evento mediale il quale, sotto forma di notizia e con il fondamentale ausilio delle immagini e del sonoro, “passava” attraverso la televisione e raggiungeva l’opinione pubblica con una forza di impatto mai sperimentata fino a quel momento.
L’assoluta centralità dei mezzi di comunicazione nell’evoluzione dell’intera vicenda è innegabile: gli stessi brigatisti facevano pervenire i loro comunicati - e le lettere dell’ostaggio - , non direttamente ai rispettivi destinatari (politici, familiari, istituzioni, ecc..), né alle questure o alle prefetture, ma alle redazioni dell’Ansa e dei quotidiani locali e nazionali, con modalità ed orari strategici, mostrando una certa capacità nel saper gestire le potenzialità dei media e nel riuscire a sfruttare gli organi di informazione pretendendo, nelle telefonate di rivendicazione, un’adeguata divulgazione e diffusione dei loro messaggi e in generale della loro azione.
La televisione, nel bene e nel male, ha contribuito ad amplificare in modo esponenziale tutti gli aspetti della vicenda, facendo da cassa di risonanza alle voci dei vari protagonisti. Certo, è necessario poi riuscire a valutare il peso di ciascuno: paradossalmente si è dato, se non più spazio, di sicuro maggior credito ai comunicati delle Br che alle lettere di Moro, di cui si metteva in dubbio la capacità di intendere e di volere; così come, per altro verso, nell’economia delle iniziative prese e delle operazioni svolte, i risultati dell’attività investigativa delle forze dell’ordine e delle istituzioni apparivano piuttosto deludenti rispetto alla spietata efficacia delle azioni dei terroristi, a partire dalla dinamica dell’agguato di via Fani.
Ora, i servizi degli inviati e dei corrispondenti dei Tg della Rai danno conto, o meglio cercano di dar conto, ad ogni edizione del telegiornale nel corso di tutti i 55 giorni, degli sviluppi delle indagini che corrono in due direzioni: da un lato la caccia ai terroristi delle Brigate rosse responsabili della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro, dall’altro la ricerca del covo dove il presidente della Dc è tenuto prigioniero. Molto spesso però i giornalisti si trovano a dover commentare la magra cronaca della giornata con un laconico “nessuno sviluppo nelle indagini su Moro” o, al massimo, “le indagini sono mantenute nel più stretto riserbo”, mentre a dare di tanto in tanto impulso alla vicenda e a fare davvero “notizia” sono gli stessi terroristi con i loro comunicati o lo stesso Moro con le sue lettere. <1
E sono proprio i media a dar voce a coloro che non appaiono fisicamente ma la cui assenza incombe pesantemente, per motivi opposti, non solo nella vita politica del paese, con uno Stato praticamente sotto assedio ma intenzionato a difendere la democrazia a tutti i costi, ma anche e soprattutto nel tessuto sociale, nella vita di tutti i giorni dei comuni cittadini, in un’opinione pubblica profondamente scossa dall’accaduto, in quanto già duramente provata da una lunga scia di azioni criminali che stava insanguinando il paese da circa un decennio. L’agenda setting è quasi completamente saturata dal caso Moro e si innesca un meccanismo per cui, seppur in assenza pressoché totale di novità importanti, anche quel “niente di nuovo” diventa notizia e qualsiasi considerazione, dubbio, illazione, supposizione o speranza è sufficiente a saziare la fame di informazioni dell’opinione pubblica che interroga ogni giorno giornali, radio e tv determinando impennate vertiginose nelle tirature dei quotidiani e negli ascolti dei telegiornali. Il Corriere della sera, il primo quotidiano in Italia, passò da una media di 560 mila copie al giorno a 738 mila copie il 17 marzo, per poi raggiungere le 825 mila copie il 10 maggio; La Repubblica (nata solo due anni prima) passò da 90 mila copie a 130 mila. La diffusione de L’Unità di domenica 19 marzo, con l’editoriale del segretario del Pci Enrico Berlinguer “Fare terra bruciata attorno ai terroristi”, toccò le 900 mila copie. L’edizione delle 20,00 del Tg1 del 16 marzo contò oltre 27 milioni di telespettatori, altri 3 milioni e mezzo erano sintonizzati sul Tg2, per un totale di 30 milioni e 700 mila telespettatori. L’edizione serale dei due Tg raggiunse l’apice il 9 maggio quando complessivamente l’ascolto salì oltre i 33 milioni. <2
È in particolar modo la televisione a dare il senso pieno della tragedia e, dopo la primissima notizia diffusa dal GR2, a renderlo tangibile attraverso la diretta e le immagini a colori delle auto di via Fani crivellate di colpi e del sangue rosso sull’asfalto e sui teli bianchi che ricoprono i corpi. <3 Immagini che resteranno impresse per sempre nella mente di uno spettatore del 1978 e nella memoria di chiunque ancora oggi abbia occasione di rivedere, per esempio, i già citati servizi di Paolo Frajese o le riprese di Valerio Leccese del cadavere di Moro in via Caetani, solo per richiamare i due filmati più noti. E ancora, le immagini della vasta distesa di ghiaccio e neve del Lago della Duchessa, dell’arsenale ritrovato nel covo dei brigatisti in via Gradoli, delle migliaia di poliziotti, carabinieri, finanzieri e soldati dell’esercito impegnati ogni giorno in controlli, perquisizioni e posti di blocco in quasi ogni strada di Roma. E poi le dichiarazioni, le smentite, i collegamenti, i resoconti dei seppur minimi passi avanti delle indagini: nella definizione di Aldo Grasso, uno sceneggiato in presa diretta dal triste epilogo. <4
Cronaca giornalistica allora ma fonte storica oggi. Una fonte televisiva che, come tutte le tipologie di fonti del genere audiovisivo, certo va pesata e valutata nel mondo giusto, smontata, esaminata e ricomposta con l’utilizzo di strumenti adeguati propri della ricerca sociologica e dell’analisi critica dei codici espressivi e delle teorie sul medium, sui suoi effetti e sulle sue relazioni con la realtà sociale, ma di sicuro una fonte che potrebbe rivelarsi utile nel lavoro di ricerca e di ricostruzione di una fase storica del nostro paese che, a partire almeno dagli anni ’60, ha visto proprio il mezzo televisivo sostituire di fatto quello cinematografico nell’opera di ripresa, raccolta, narrazione e conservazione della memoria visiva degli eventi.
[...] Non ci è stato permesso di verificare la consistenza della “terza fase” del pensiero politico di Aldo Moro. Ripropongo, in conclusione, la domanda cruciale che si pone De Felice, “una domanda a cui non esiste a tutt’oggi una risposta adeguata: perché questa soluzione che si delinea non regge? Perché anziché un attenuarsi si ha un’accelerazione brutale della crisi italiana, introducendo nella dinamica e nello svolgimento dello scontro politico un elemento di barbarie e di degenerazione?”. <76
Il terrorismo “rosso” si era riorganizzato prima della solidarietà nazionale, secondo modalità non ancora chiarite a sufficienza dagli studi né dalle successive inchieste parlamentari77, e infittisce le sue imprese nella seconda metà degli anni ’70, con una escalation di violenza che raggiunge l’apice proprio nel 1978 <78, quando la maggiore organizzazione terroristica italiana, le Brigate rosse, compie quello che sarà il culmine e insieme il declino dei terrorismi in Italia: il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro.
È opinione comune che l’obiettivo dell’iniziativa delle Br fosse quello di interrompere l’esperienza di solidarietà nazionale ma si tratta di un giudizio parziale e riduttivo che “rischia di marginalizzare il carattere di intervento politico, lucido e preciso, che quell’iniziativa esprimeva e la qualità della questione su cui si esercitava”. <79 De Felice sostiene che non si trattava solo di bloccare, condizionare e contenere il processo di convergenza tra Dc e Pci ma di rispondere alla novità dirompente registrata nel 1976, con l’esaurimento di un elemento essenziale del modello militarizzato (fine della delegittimazione del Pci), creando le condizioni per il maturare di una risposta diversa da quella che, pur con tutti i limiti e le contraddizioni si era avviata. Il problema dunque, prosegue De Felice, non era tanto bloccare la convergenza in atto, quanto escluderne la stessa possibilità: era necessario un intervento diretto sui protagonisti storici della vicenda repubblicana, facendone precipitare, o accelerandone, la crisi latente. <80 Conclude De Felice: “Con la fine dell’esperienza della solidarietà nazionale si ottiene molto di più del blocco del tendenziale ampliamento del ceto politico: vengono colpiti la credibilità della strategia comunista, il collante del blocco sociale che aveva nella possibilità e capacità di trasformare il paese le ragioni della propria coesione. Quello che cessa di operare è quel particolare tipo di rapporto che aveva fatto del Pci, pur nella sua delegittimazione politica, il fattore centrale della vita politica italiana, rispetto a cui si definivano le posizioni e le scelte di tutte le altre forze e, in primo luogo, della Dc: aveva assolto un ruolo fondamentale di dinamizzazione, in un rapporto continuo di sfida-risposta-sfida (assedio reciproco). La crisi del Pci si aggiunge a quella della Dc [...] Il quadro di riferimento complessivo, dopo il 1979, cambia completamente e si modifica il modo stesso di definirsi e di operare delle forze che assumono la direzione del paese”. <81
La mattina di quel giovedì 16 marzo 1978, il presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, esce dalla sua abitazione in via del Forte Trionfale 79 a Roma, per recarsi alla Camera dei Deputati dove è in programma il voto di fiducia al quarto governo monocolore Dc di Giulio Andreotti, con il sostegno diretto del Partito comunista per la prima volta, dal 1947, nella maggioranza parlamentare.
Alle 9.02 l’auto sulla quale Moro viaggia, una Fiat 130 blu, si blocca di colpo quasi tamponata dall’Alfetta della scorta che lo segue: a sbarrare la strada alle due vetture una Fiat 128 bianca, con targa diplomatica, ferma allo “stop” all’altezza di via Fani, all’angolo con via Stresa.
[NOTE]
Scrive Aldo Grasso: “Non restate passivi di fronte al televisore a aspettare l’ultimo comunicato delle Br! […] Il rapporto di fascinazione che lega il triangolo Br-Media-Massa crea nella società un clima irreale”, Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 1992, p. 351.
2 Cfr. Sergio Trasatti, Il Lago della duchessa, cit. e Sergio Flamigni e Ilaria Moroni, L’informazione durante il sequestro Moro, in Mirco Dondi (a cura di), I neri e i rossi. Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, Controluce, Nardò, 2008.
3 La radio è stato il primo mezzo a diffondere la notizia della strage e del rapimento con un breve flash del GR2 alle 9.25, circa venti minuti dopo l’accaduto. Un redattore del GR2, incrociando incidentalmente il luogo degli avvenimenti, ha potuto telefonare al proprio direttore, Gustavo Selva, che dopo un controllo presso la Questura centrale, ha trasmesso un flash di 1’30’’ circa. Il primo dispaccio dell’Ansa (i cui dipendenti hanno immediatamente interrotto uno sciopero in corso) è stato diramato alle 9.28. Sono le edizioni straordinarie, partite quasi in contemporanea, del Tg1 delle 10.00 e del Tg2 delle 10.01 a trasmettere le primissime immagini del luogo della strage, via Fani, con la cosiddetta crime scene ancora praticamente intatta.
4 Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, cit., p. 351.
76 Franco De Felice, Nazione e crisi, op. cit., pag. 78.
77 Nicola Tranfaglia, Parlamento, partiti e società civile, op. cit., pag. 323; cfr. anche N. Tranfaglia, Un capitolo del “doppio stato”. La stagione delle stragi e dei terrorismi, in Storia dell’Italia repubblicana,Vol. 3 L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio 2. Istituzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino, 1995.
78 Cfr. Donatella della Porta, Il terrorismo di sinistra, Il Mulino, Bologna, 1990 e Giorgio Galli, Storia del partito armato, Rizzoli, Milano, 1986.
79 Franco De Felice, Nazione e crisi, op. cit., pag. 78.
80 Ibidem, pag. 79.
81 Ibidem, pag. 80.
Ilenia Imperi, I 55 giorni del caso Moro: l'evento mediatico nella ricostruzione storica, Tesi di dottorato, Università degli Sudi della Tuscia - Viterbo, 2013

domenica 4 settembre 2022

Il comandante Fausto Cossu dopo la Liberazione fu inquisito per quell’episodio di sangue

Lago di Trebecco in Val Tidone (valle posta tra le province di Pavia e di Piacenza). Fonte: Wikipedia

Le prime repressioni nazifasciste
L’8 settembre 1943 anche in Val Tidone si era gioito all’annuncio che l’Italia era uscita dalla guerra e alla prospettiva quindi di un prossimo ritorno alle loro famiglie dei soldati che non avevano ancora perso la vita sui diversi fronti in Europa e in Africa. Il giorno dopo però, partite da Tortona ed entrate nel territorio piacentino proprio da Castel San Giovanni, arrivarono le truppe hitleriane ad instaurare  l’ancor più duro e sanguinoso regime nazifascista, di oppressione e di guerra.  I fascisti rimessi al potere dai nazisti provvidero fra l’altro a consegnargli i cittadini italiani di origine ebraica, per lo sterminio nelle camere a gas.  Nella Val Tidone toccò a Tina Pesaro: incarcerata a Piacenza nel dicembre ’43 e deportata poi in Germania morirà trentunenne nel lager di Dachau, mentre la zia Enrica si sottrarrà alla stessa fine con il suicidio. Le forze di polizia del regime intervennero inoltre nel gennaio ’44 a Castel San Giovanni contro “una vasta organizzazione  clandestina antifascista” colpevole di aver diffuso volantini portati li da Milano. Fra gli imputati Italo Tosca e Giuseppe Venerando che saranno poi in effetti due importanti protagonisti della lotta partigiana.
Il primo episodio di lotta armata partigiana: l’agguato a Vidiano di Piozzano
Cresceva intanto soprattutto una diffusa resistenza alla pretesa di Mussolini di riportare sotto le armi e nella guerra a fianco dell’esercito tedesco  gli ex militari italiani sfuggiti alla cattura e alla deportazione in Germania, ed arruolare per lo stesso fine  i nuovi giovani di leva delle classi 1924-‘26. La grande maggioranza dei precettati non si presentava e le locali Stazioni dei carabinieri - incorporati, contro il loro volere, nella Guardia Nazionale Repubblicana assieme alla Milizia fascista - assolvevano di malavoglia al compito di prelevare di forza i renitenti ed anzi spesso facevano preavvertire le famiglie in modo che i ricercati non si facessero trovare. Le autorità fasciste iniziarono quindi a organizzare direttamente da Piacenza delle spedizioni alla caccia dei renitenti. Appunto in occasione di una di queste avvenne, nel territorio della Val Tidone,  il primo episodio di resistenza armata popolare, con un esito funesto per gli incursori.
Era la mattina del 24 gennaio del 1944, un autobus militare, con 15 agenti della Gnr  (tutti carabinieri perché  i miliziani fascisti si erano sottratti alla spedizione), salendo da Piozzano stava raggiungendo la frazione di Vidiano per catturare i giovani di leva della zona,  quando ad una curva fu investito  da una nutrita scarica di fucileria che arrestò l’automezzo e colpì a morte due degli agenti mentre quattro rimasero feriti e gli altri nove si arresero. A tendere l’agguato erano stati abitanti della zona, una trentina, in gran parte genitori dei giovani di leva ricercati, muniti dei loro fucili da caccia, più alcuni ex militari a cui pure era arrivato il richiamo in servizio e che invece avevano cominciato a costituire un gruppo di resistenza, avevano reperito quattro moschetti e usavano ritrovarsi a La Sanese, un caseggiato posto in un punto strategico, al confine fra i comuni di Piozzano, di Pecorara, di Bobbio e di Travo.
L’agguato aveva peraltro un carattere di reazione improvvisata, tant’è che si incaricò l’autista dell’automezzo di ritornare subito a Piacenza  con i due cadaveri ed i feriti da curare, e cosi le autorità fasciste e naziste, chiedendo aiuto anche a quelle della provincia di Pavia, poterono organizzare già in giornata un poderoso rastrellamento della val Luretta, inviando centinaia di armati. Un rastrellamento che si protrasse per quattro giorni ma che non portò all’individuazione né dei partecipanti all’agguato né alla cattura  di renitenti alla leva, che avevano provveduto a nascondersi o al lasciare la zona, ma, dopo  atti di intimidazioni verso tutta la popolazione ed i suoi sei parroci, si concluse con l’arresto ed il trasporto nel carcere di Piacenza di 20 persone fra cui i sacerdoti don Varesi di Groppo e don Tinelli di Vidiano, accusati di connivenza con i ribelli.
I ribelli della “Compagnia Carabinieri Patrioti”
Il clamoroso fatto di Vidiano accelerò il processo di formazione del movimento partigiano, facendo fra l’altro comprendere ai carabinieri della Gnr che rischiavano di essere le vittime prese di mezzo fra la funzione repressiva che gli assegnavano le autorità fasciste e  la resistenza armata popolare che andava prendendo piede. Nello stesso mese di gennaio il gruppetto di resistenti di La Sanese fu raggiunto dal tenente Fausto Cossu con un primo gruppo di carabinieri che con lui, che aveva già conosciuto l’internamento in Germania, avevano abbandonato il corpo a Bologna. Per i primi mesi del ’44 l’attività di “Fausto”  fu rivolta essenzialmente a provvedersi delle prime armi e a convincere i carabinieri della Stazioni della Val Tidone e della Val Trebbia a disertare dalla Repubblica di Salò per unirsi al suo gruppo. Cercava di evitare nel frattempo attacchi e scontri con le forze di Salò. Riuscì in tal modo a costituire, con sede a La Sanese,  quella che denominò inizialmente la “Compagnia Carabinieri Patrioti”, una formazione partigiana che si distingueva dalle altre per le caratteristiche militari dell’addestramento e della disciplina.
La “Banda Piccoli” dell’antifascista Giovanni Molinari
Contemporaneamente, su indicazione dei dirigenti del partito comunista in via di organizzazione anche a Piacenza, si portò in alta Val Tidone un vecchio esponente dell’antifascismo piacentino, Giovanni Molinari, classe 1900, originario di Fiorenzuola d’Arda. Suo fratello Carlo nel 1921 era stato ucciso dai fascisti e lui stesso nel 1930 era stato inviato al confino nell’isola di Ponza. Il suo obiettivo era di aggregare i primi sparsi ribelli della zona e di farne una banda decisa a dare battaglia ai fascisti, militari o civili che fossero. Nel volgere dei primi mesi del ’44 si adunò attorno a lui una composita formazione di una sessantina di ribelli che dal suo nome di battaglia fu conosciuta come “Banda Piccoli”. Comprendeva soggetti spericolati e disinvolti quale il Giovanni Lazzetti di Castel San Giovanni  che diventerà in seguito noto come il “Ballonaio”. Fu questa banda a mettere in atto le prime sistematiche azioni di guerriglia nel territorio dell’alta Val Tidone, quali l’agguato mortale teso al commissario prefettizio e al segretario del fascio saliti da Pianello a Pecorara a rappresentavi l’autorità fascista, il disarmo del presidio militare a Passo Penice e della caserma di Pecorara, nel corso della quale perse la vita un sergente della milizia, il fallito attacco a quella di Pianello dove ad essere ucciso fu un partigiano. Quello di Piccoli, come altri dei primordi del movimento partigiano, era peraltro un raggruppamento con scarsa disciplina e insufficiente attenzione alle reazioni della popolazione locale. Suscitavano in particolare allarme e riprovazione le requisizioni compiute a carico d’imprese e persone accusate di trascorsi e simpatie fasciste.
Molinari e i più stretti compagni avevano come rifugio una tenda sul Monte Lazzaro e una vecchia casa sulle pendici, a circa tre chilometri di distanza da La Sanese dove stava il raggruppamento di Fausto. A questi, impegnato a favorire il processo di diserzione dalla Repubblica di Salò - anche l’intero presidio di Pianello passò infine a lui con tutte le armi in dotazione - non andavano a genio gli orientamenti e le azioni di Molinari e dei suoi uomini, nella stessa zona in cui operava il suo gruppo. Si arrivò, il 4 e 5 giugno del ’44, con la giustificazione di impedire ulteriori vessazioni sulla popolazione, all’uso delle armi contro la Banda Piccoli, all’uccisione di Molinari e di altri tre esponenti della stessa, e all’assorbimento di parte dei restanti, compreso il Ballonaio, nella formazione partigiana di Fausto.
[...] La Banda Piccoli e la sua eliminazione ad opera di “Fausto”: una memoria divisa nella storia della Resistenza piacentina
L’attività della Banda Piccoli e la sua dispersione da parte della Compagnia Carabinieri Patrioti al comando di Fausto Cossu, con la messa a morte dei componenti  Enrico Amboli, anni 24, di Castel S. Giovanni, Luigi Lodigiani, anni 22, di Piacenza, Giuseppe Gabrieli , anni 34, di Fiorenzuola, nonché del loro capo Giovanni Molinari, andò a costituire una ferita rimasta aperta nella storia della Resistenza piacentina, oggetto peraltro di una memoria divisa.  Gli storici piacentini del movimento partigiano, da Antonino La Rosa a Giuseppe Berti  - salvo il fiorenzuolano Franco Sprega nell’opera “Il filo della memoria” - hanno scelto di non soffermarsi sulla vicenda. Il doloroso episodio è invece presente nella memorialistica e nelle testimonianze dei partigiani protagonisti, con valutazioni appunto nettamente divergenti.
Nel volume “Il coraggio del No”, uscito a Pavia nel 1976, si può leggere la motivazione di Cossu: “La banda Piccoli si era data a fare delle razzie. Noi avevamo accertato molte rapine e violenze. La nostra condanna a morte dei responsabili ebbe un riflesso positivo nella popolazione e permise poi lo sviluppo del movimento partigiano in tutta la zona”. Anche tanti che fece il partigiano vicino a Fausto hanno espresso l’opinione che questi prese quella drammatica decisione per evitare che l’immagine della Resistenza fosse pregiudicata. Diverse testimonianze invece di chi aveva condiviso quei mesi del ’44 con Molinari convergono nel sottolineare che in quel tempo il loro era l’unico gruppo  in Val Tidone in campo a fronteggiare le forze nazifasciste, che le requisizioni fatte erano indispensabili per la loro sopravvivenza e che furti e violenze gratuite, in quella condizione di crisi della legalità, venivano semmai commesse da individui estranei alla Resistenza. Il parroco di Pecorara, don Arcelloni, nelle sue memorie, di recente ripubblicate su iniziativa dell’Anpi , scrisse “Sì, ci furono anche delle razzie, ma in parte spiegabili e scusabili, perché quelle prime piccole bande che non ricevevano ancora aiuti avevano pur bisogno di provvedere alle più elementari necessità”.
Il comandante Fausto Cossu dopo la Liberazione fu inquisito per quell’episodio di sangue dalla Procura militare di Torino che però, dopo aver ascoltato una trentina di testimoni, lo mandò assolto in istruttoria. Ma anche a Molinari, Amboli, Gabrieli e Lodigiani, fu riconosciuta dalla competente commissione ministeriale la qualifica di “partigiani combattenti” per il riscatto dell’Italia.
E’ stato infine lo storico bolognese Mirco Dondi nel volume “La Resistenza fra unità e conflitto” edito nel 2004, a ricostruire in dettaglio la vicenda , arrivando infine alla conclusione che la stessa va ricondotta a quella fase d’avvio della lotta partigiana, caratterizzata anche da conflitti ideologici e personali, nonché dalla mancanza di comuni regole di comportamento, fase che venne superata con la maturazione unitaria del movimento, politico e militare, di Liberazione.
Romano Repetti, Gli inizi del movimento partigiano in Val Tidone, Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza