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lunedì 24 febbraio 2025

Il rastrellamento del 23 settembre 1943 e la nascita della Resistenza in val Sangone

Giaveno (TO). Foto: Iron Bishop. Fonte: Wikipedia

Dopo l'armistizio dell'8 settembre e l'occupazione dell'Italia settentrionale da parte dei tedeschi, in molti valligiani [della Val Sangone] si sviluppa un diffuso sentimento di ostilità verso questi ultimi. A ciò si aggiunge la necessità, avvertita dalla popolazione, di trovare nuovi punti di riferimento. Dissolti lo stato e l'esercito, la comunità ha bisogno di sentirsi difesa. In val Sangone la figura e la fama del maggiore Milano rappresentano un ottimo punto di riferimento: lui è stato infatti un apprezzato ufficiale dell'esercito italiano e questa autorevolezza garantisce agli occhi dei soldati sbandati la bontà della scelta resistenziale e, contemporaneamente, rassicura la popolazione.
Intorno al 19 settembre i primi tedeschi giungono in valle e più precisamente a Giaveno, come testimonia il podestà del luogo Giuseppe Zanolli. "Alle ore 17 provenienti da Airasca giungono a Giaveno 6 SS tedesche guidate da un sottufficiale non che ventenne. Con un baccano indiavolato, invadono la mia casa ingiungendomi di seguirli. Calmo la mia famiglia intimorita, da un simile modo di procedere e li seguo. In pubblica via un di essi, un certo Ruf, che conoscendo un po' l'italiano funziona da interprete, mi consegna un plico di manifesti ordinandomi di affiggerli immediatamente. Seccato dal suo modo di agire, gli rispondo che io non sono l'attacchino comunale e che se hanno comunicazioni da farmi si presentino domani mattina nel mio ufficio Podestarile. Ruf digrigna i denti come una faina, ma fattosi consegnare l'occorrente da una famiglia vicina li affigge da sé. Ad operazione ultimata Ruf mi dice che devo provvedere al vitto ed all'alloggio, per lui e per i suoi compagni. Invano cerco di fargli capire che il paese è povero e che avendo io dovuto alloggiare per effetto dello sfollamento 5mila persone in più del normale, non saprei come dar loro decentemente da dormire." <20
La testimonianza di Zanolli, seppur scritta in un periodo successivo alla guerra, è fondamentale per ricostruire il clima che si respira in val Sangone durante il conflitto.
A Giaveno il fenomeno dello sfollamento è confermato dallo stesso podestà, che parla di 5.000 persone in più rispetto a quelle che risiedevano in paese prima dell'armistizio. Inoltre, indipendentemente dalla veridicità della sua ricostruzione, appare evidente che a Giaveno la presenza degli occupanti non è ben vista, ma accolta negativamente.
A ciò si aggiunge, il 20 settembre, il problema dei manifesti, in cui i tedeschi minacciano di fucilare 10 civili presi a caso per ogni soldato germanico ucciso. La popolazione risponde strappando i manifesti e scrivendo ingiurie contro gli occupanti. "Povero mi! ad eccezione di quelli affissi davanti alla casa del Signor Fasano che li aveva vegliati in piedi tutta la notte, gli altri sono tutti strappati e gettati in mezzo alla via, e la via Roma è tappezzata di manifesti con frasi ingiuriose contro i tedeschi e di lode verso il popolo russo". <21
Di fronte a questi comportamenti della popolazione, i tedeschi decidono di prendere provvedimenti e di sedare i primi possibili ceppi di ribellione. Il 23 settembre, intorno alle 5 del mattino, giunge a Giaveno una lunga autocolonna tedesca in azione di rastrellamento, appoggiata da mezzi corazzati. Superata Giaveno, l'autocolonna fa rotta verso Coazze, dove si divide in due per proseguire verso il Forno e l'Indiritto. A scopo intimidatorio alcuni civili vengono prelevati dalle abitazioni e fatti camminare alla testa delle pattuglie. Nessuno dei civili collabora: i militari tedeschi chiedono loro di indicare i luoghi in cui si nascondono i ribelli, ma ottengono solamente risposte evasive.
La prima vittima della Resistenza in vallata viene fatta presso la zona del Colletto del Forno. Si tratta di Maurizio Guglielmino, un pittore giavenese residente in un piccolo villino di montagna. Viene colpito da colpi di mitraglia senza apparente motivo, visto che non ci sono testimonianze sull'accaduto, ad eccezione di quella di Zanolli. " Alle 19 sono nuovamente chiamato in caserma e qui il maresciallo mi dice che al Colletto del Forno è stato fucilato Guglielmino perchè faceva segnali di intesa agli sbandati all'avvicinarsi delle truppe tedesche. “Impossibile - dico io - il Guglielmino ha il bestiame su quei colli e forse avrà dato il segnale dell'adunata del bestiame”. “No - dice il maresciallo - si tratta del pittore Maurizio Guglielmino”. “Peggio ancora, Maurizio è un vero galantuomo solo dedito al lavoro ed alla sua famiglia si tratta evidentemente di errore di valutazione”. Mi risponde l'interprete senza attendere la risposta del capitano “Sono stato io a fucilarlo, perché io stesso ho visto colla mano far cenni a ribelli rimasti invisibili, di allontanarsi; a bruciapelo gli ho sparato una raffica di mitra al cuore. Nei pressi della sua casa poi vi era un mulo carico di viveri e vestiario per gli sbandati e siccome ricalcitrava e non voleva seguirmi; subito ho dubitato che fosse anche quello uno sbandato e l'ho ucciso allo stesso modo” ". <22
Nel pomeriggio i tedeschi decidono di interrompere il rastrellamento e rientrare ma, arrivati al Forno, sparano ancora. La vittima è una donna di 18 anni, Evelina Ostoreto che, impaurita dalla presenza dei militari, si mette a correre <23. Lasciando la valle i militari ordinano al podestà di Giaveno di affiggere due manifesti. Nel primo si cita l'uccisione di Guglielmino, colpevole, secondo loro, di aver appoggiato i ribelli della montagna; il secondo contiene una minaccia esplicita: chi verrà sorpreso in abiti militari, sarà condotto alla corte marziale. Questa richiesta è importante e fa capire come l'offensiva non sia rivolta contro il maggiore Milano e gli uomini che si stanno radunando intorno a lui. Il vero obiettivo del rastrellamento è la popolazione civile. Proprio a quest'ultima il comando germanico intende “mostrare i muscoli”, per incutere paura e attuare una vera e propria strategia del terrore.
Ma proprio il rastrellamento e le due vittime civili che alimentano nella comunità un vivo sentimento antigermanico, finisce per favorire la Resistenza e la collaborazione fra la popolazione e i partigiani, identificati come validi oppositori degli occupanti. Scampato il pericolo, i partigiani possono continuare a organizzarsi.
Il gruppo del maggiore Milano conta ormai, a fine settembre, una sessantina di unità, dislocate tra le borgate Molé, Ciargiur, Palé e Dogheria. A metà ottobre, con la concentrazione dei gruppi tra Forno e Indiritto e l'afflusso di giovani provenienti da Avigliana, Buttigliera Alta, Reano e Grugliasco, la banda agli ordini di Milano conta su circa duecento uomini, capaci di azioni ad Avigliana, Orbassano e Beinasco, finalizzate all'approvvigionamento di armi, viveri e vestiario. Per rendere più efficace l'azione del suo gruppo, il maggiore decide di predisporre alcuni punti di osservazione e soprattutto di dividere gli uomini in tre formazioni, anche per facilitare le manovre militari.
Contemporaneamente allaccia rapporti di collaborazione con i partigiani di altre zone, in particolare con le formazioni della Val Susa.
Il 22 ottobre si manifesta la prima vera difficoltà per i partigiani valligiani. Il maggiore Milano si trova nell'albergo Lago Grande di Avigliana quando i tedeschi fanno irruzione. Egli viene arrestato e rinchiuso nelle Carceri Nuove di Torino, dove è torturato lungamente. Liberato nell'aprile 1944, appare gravemente minato nel fisico, tanto che a novembre è ricoverato nel tubercolosario di Quasso al Monte per tubercolosi polmonare sinistra con versamento <24. "Appena si è consegnato gli sono saltati addosso in cinque o sei, l'hanno pestato in tutte le maniere. Lui era alto, grosso, ma quelli non gli hanno dato tempo di muoversi, gli hanno tolto il fiato con un colpo alla pancia e poi gliene hanno date fin che hanno voluto. Quando l'hanno trascinato via su una macchina sanguinava dappertutto e non respirava quasi". <25 I soldati erano andati a colpo sicuro: erano a conoscenza della presenza di Milano proprio in quell'albergo, avvisati probabilmente dalla delazione di qualcuno. Prova ne sia che, catturato il maggiore, i tedeschi non continuano nell'ispezione nell'albergo, dove erano nascosti chili di dinamite e detonatori.
Il colpo per il movimento di Resistenza è durissimo. Il maggiore è l'uomo di maggior carisma e con le sue decisioni e la sua personalità è in grado contemporaneamente di attrarre nuove reclute e di unificare le diverse personalità del partigianato valligiano. Coprire il vuoto di potere da lui lasciato è una delle sfide più importanti da superare per la Resistenza in val Sangone. "Quando hanno comunicato a Crisciuolo e Asteggiano che Milano era stato preso, c'ero anche io, che ero arrivato su da poco. Ho visto che avevano tutti e due gli occhi che si chiudevano per la commozione, si vedeva che non sapevano più che cosa fare" <26.
Emergeranno però le figure di nuovi comandanti dalle diverse caratteristiche e personalità che, nel corso della Resistenza, prenderanno il comando delle bande: i fratelli Giulio e Franco Nicoletta, Nino Crisciuolo, Eugenio Fassino, Carlo Asteggiano, Sergio De Vitis.
[NOTE]
20 Giuseppe Zanolli, Diario del podestà di Giaveno, dattiloscritto conservato c/o l'Istituto Storico della resistenza in Piemonte, pp. 4-5.
21 Ivi, p. 5.
22 Giuseppe Zanolli, Diario, cit., p. 24.
23 G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 77.
24 http://valsangoneluoghimemoria.altervista.org/?p=1169.
25 Testimonianza di Italo Allais contenuta in G. Oliva, La Resistenza cit., p. 89.
26 Testimonianza di Carlo Suriani, contenuta in G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 91.
Francesco Rende, Mario Greco e la Resistenza in val Sangone, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2016-2017

giovedì 13 febbraio 2025

Il Pci si affacciava agli spartiacque della destalinizzazione e della rivolta ungherese


Il 1956 segnò un anno di svolta per gli equilibri della guerra fredda e l’inizio di una fase di crisi profonda per il movimento comunista internazionale. Dal 14 al 25 febbraio si tenne a Mosca il XX Congresso del Pcus, durante il quale il Segretario generale del partito comunista sovietico, Nikita Chruščëv, in un rapporto segreto denunciò le degenerazioni del sistema sovietico, contestando in particolare il “culto della personalità” e i crimini commessi da Stalin <544. Anche in politica estera, il XX Congresso del Pcus introdusse concetti nuovi e rivoluzionari: dalla “coesistenza pacifica” tra comunismo e capitalismo, all’importanza di evitare la guerra, dalla possibilità per le forze del socialismo di affermarsi per via parlamentare a quella per i vari paesi di trovare la propria via al socialismo <545. Fu tuttavia il discorso segreto di Chruščëv a produrre l’eco maggiore, a tal punto da generare ripercussioni in tutti i paesi a guida comunista. Da una parte, infatti, si ebbe lo scioglimento del Cominform, un segnale evidente della risolutezza della nuova dirigenza sovietica nel riconoscere la legittimità delle diverse vie al socialismo <546. In secondo luogo, fu dato impulso a quel processo di graduale destalinizzazione dell’Urss e dei paesi sovietici, avviato alla morte di Stalin e caratterizzato dalla distruzione delle eredità più opprimenti del vecchio regime totalitario <547. Parte di questo processo furono lo smantellamento dell'apparato repressivo staliniano, la destituzione dei funzionari più compromessi, la liberazione di molti prigionieri politici, la parziale liberalizzazione politica e culturale dei paesi satelliti. Tutti i limiti della destalinizzazione vennero drammaticamente alla luce durante la rivolta ungherese dell’ottobre 1956. La rivoluzione aveva avuto inizio come dimostrazione pacifica per la liberazione dalla dittatura di Rakosi in favore del leader liberale Imre Nagy, ma fu soffocata nel sangue dall’intervento della polizia segreta e delle truppe sovietiche. Gli Stati Uniti, che a loro volta avevano abbandonato ogni velleità di affrancare i paesi satelliti dal giogo sovietico in nome del più importante processo di distensione internazionale, non fecero nulla per impedire la repressione sovietica, perdendo la possibilità di dimostrare la concretezza del roll back e dimostrando ancora una volta l’impraticabilità e l’inconsistenza della dottrina anticomunista <548. Negli anni successivi alla rivoluzione, i sovietici giustiziarono Imre Nagy e riacquistarono il controllo del paese. Le vicende ungheresi dimostrarono quanto, a dispetto delle trasformazioni strutturali adottate dalla nuova dirigenza, fosse difficile sradicare il sentimento nazionale e le tradizioni politiche ed economiche, cui anzi il processo di destalinizzazione aveva dato nuova vitalità.
In Italia, gli effetti prodotti dal XX Congresso del Pcus vennero avvertiti in maniera drammatica. Il partito comunista italiano subì oltre 200.000 defezioni di iscritti, tra cui anche intellettuali ed esponenti di spicco della cultura italiana come Italo Calvino o Vezio Crisafulli, delusi dalla degenerazione della classe dirigente sovietica e dalla crisi del sistema politico di riferimento <549. Le rivelazioni di Chruščëv mettevano infatti in discussione l’ideologia e i miti attorno cui i comunisti avevano costruito la loro identità <550. Togliatti fu inoltre accusato di aver reagito agli errori di Stalin con eccessiva prudenza e cautela, e di non aver preso le dovute distanze dal dittatore sovietico dando scarso rilievo alle questioni sollevate dal Congresso. Un’altra critica rivolta al Segretario del Pci era quella di aver appoggiato la repressione sovietica in Ungheria, parlando della rivoluzione ungherese come un tentativo controrivoluzionario predisposto dai reazionari <551. La linea della Direzione comunista nei confronti della crisi ungherese fu duramente criticata anche nell’ambito del “Manifesto dei 101”, firmato da ex esponenti del Pci che negavano l’aspetto controrivoluzionario del movimento ungherese e si schieravano apertamente contro l’intervento militare sovietico <552. Infine, il 1956 significò per il Pci uno dei momenti di massimo isolamento politico: la crisi dello stalinismo diede stimolo a Nenni per denunciare il Patto d’unità d’azione con il Pci e per sancire la rottura definitiva con Togliatti. Per il Pci tramontò la possibilità di inserirsi nel processo di apertura a sinistra della maggioranza di governo <553.
[NOTE]
544 P. Ingrao, Il XX Congresso del PCUS e l'VIII Congresso del PCI, in R Spriano et. al., Problemi di storia del Partito Comunista Italiano, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 131-168.
545 È un’apertura verso la “via italiana al socialismo” di Togliatti, caratterizzata dall’esigenza di autonomia nelle scelte e dal rifiuto del concetto di partito guida. G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del Partito comunista. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, vol. VII, Torino, Einaudi, 1998, pp. 505 e ss.
546 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. pp. 850 e ss.
547 E. Di Nolfo, Lessico di politica internazionale contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2012.
548 M. Margiocco, Stati Uniti e Pci, cit. p. 68. Per la politica statunitense nei confronti dei paesi sovietici si vedano: National Security Council, NSC 174, United States Policy Toward The Soviet Satellites In Eastern Europe, Washington, 11 dicembre, 1953 disponibile al link: https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112620.pdf?v=966c61b5933a14faaea4321b9ed03d9c; Nsc, Nsc-5608, US Policy toward the Soviet Satellites in Eastern Europe, Washington, 3 luglio, 1956, disponibile al link: https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/114689.pdf?v=3a512e95f4e727e714213ee287fe8313; C. Bekes, Cold War, Détente and the 1956 Revolution, Working Paper, 2002, International Center for Advanced Studies, New York University, disponibile al link: http://coldwar.hu/publications/detente.pdf.
549 F. Malgeri, La stagione del centrismo. Politica e società nell'Italia del secondo dopoguerra (1945-1960), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 237.
550 P. Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano, Garzanti, 1986, pp. 196 e ss.
551 P. Ingrao, Il XX Congresso del PCUS e l'VIII Congresso del PCI, in R Spriano et. al., Problemi di storia del Partito Comunista Italiano, cit. p. 154; A.Höbel, Il Pci e il 1956. Scritti e documenti dal XX Congresso del Pcus ai fatti d'Ungheria, La città del sole, 2006.
552 A. Fejérdy (a cura di), La rivoluzione ungherese del 1956 e l'Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017.
553 J. Haslam, I dilemmi della destalinizzazione: Togliatti, il XX Congresso del PCUS e le sue conseguenze (1956), in R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani (a cura di), Togliatti nel suo tempo, Annali della Fondazione Istituto Gramsci, XV, Roma, Carocci Editore, 2007, pp. 215-38.

Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

Il 1956, per altro, coincideva con altri due importanti avvenimenti, ovvero l’VIII° Congresso del PCI e, ben più degna di nota, la rivolta ungherese contro l’occupazione sovietica in ottobre e novembre, presto soffocata dall’intervento militare dell’URSS. Proprio questo importante fatto segnerà, sommato ai travagli della destalinizzazione, un appuntamento nodale della storia comunista, con una prima ed importante divisione nel campo degli aderenti al PCI. In questo settore, la polemica contro l’intervento sovietico e la difesa dello stesso rispecchiano, nel bacino degli aderenti e dei quadri di partito, una divisione che non è solo generazionale, coi vecchi convintamente schierati sul campo della repressione. Vi è anche una divisione tra chi è più legato all’eredità e alla prassi stalinista e chi, invece, promuove un superamento netto e radicale di quella stagione, con la condanna per i metodi di governo usati nelle esperienze socialiste orientali. Un importante asse programmatico che va defilandosi contro l’appoggio ufficiale, da parte del partito, alla repressione ungherese, è quello tra il segretario della CGIL Di Vittorio e tutta quella classe intellettuale piuttosto benestante e tutto sommato ben inserita nei gangli della democrazia occidentale capitalista che il PCI aveva raccolto proprio grazie alla politica di avvicinamento ai ceti medi promossa da Togliatti. Una classe che, beninteso, è in nettissima contrapposizione con il radicalismo di una base che vive ancora il fascino messianico dell’URSS quale baluardo di socialismo e riscatto, e che da sempre promuoveva quella politica antipacifista e nettamente schierata nel campo staliniano che parecchi imbarazzi creava ad un partito che tutto faceva per cercare di rendersi presentabile agli occhi della buona società e della buona politica italiana. Centrale in tal senso è la figura di Italo Calvino <49 che proprio con Di Vittorio costituirà l’asse della condanna più forte, assieme all’astro nascente del PCI Enrico Berlinguer. Va detto che la questione della legittimazione all’interno del mondo liberale o addirittura nei confronti degli Stati Uniti d’America è particolarmente sentita proprio da quel ceto intellettuale che, attirato all’interno del partito, è in grado di influenzarne sempre di più le inclinazioni, e che non sente, comprensibilmente, la necessità di una reale svolta rivoluzionaria e filosovietica per il paese, al contrario dei vecchi militanti e della base del partito, in cui queste tendenze continuano a permanere seppur a diversi livelli di intensità. È proprio questa situazione a far emergere la contraddizione tra la presenza, nello stesso partito, tra una classe intellettuale di stampo liberale e progressista (ricordiamoci il Calvino come cantore della Resistenza partigiana) e le tendenze rivoluzionarie presenti nello stesso. Una deriva rispetto ai dettami socialisti e alla difesa del campo sovietico che inizia viepiù a sgretolarsi, e che a fronte delle rivolte oltrecortina che nei decenni a seguire compariranno sulla scena geopolitica mondiale, farà rivolgere simpatie di primo piano a questa o a quella insurrezione. Già durante la rivolta di Poznan, coeva a quella ungherese, vediamo un Romano Bilenchi, dalle colonne del “Nuovo Corriere” di Firenze (finanziato dal PCI) schierarsi contro la repressione, e scrivere che i morti operai caduti durante la repressione “sono morti nostri”. <50 Il partito che si affaccia quindi agli spartiacque della destalinizzazione e della rivolta ungherese, è un partito in cui si denotano delle spinte dicotomiche pure piuttosto forti. L’errore, tuttavia, sarebbe quello di pensare che la residuale difesa del campo socialista per quel che riguarda l’Ungheria possa essere sufficiente a consegnarci l’immagine di un partito pienamente ottemperante gli interessi di campo; <51 al contrario, sono importanti le iniziali scelte operate da quel ceto intellettuale, fatto spesso di giovani che in futuro si troveranno a dirigere le leve del partito, che colgono l’occasione della rivolta ungherese proprio per far sentire come pressante da un lato il distacco dal campo moscovita, e dall’altro come palese la diversità del Partito Comunista Italiano, col suo carattere interclassista, occidentale e fondamentalmente liberale, diversità che ora va non inventata, ma solamente rinfocolata e rafforzata, scegliendo di tralasciare quelle posizioni rivoluzionarie e barricadiere che, a ben vedere, sono già destinate a divenire una minoranza fattuale all’interno della cultura e della strategia del partito. I fatti d’Ungheria in particolare daranno fiato all’emergente destra amendoliana (e peraltro anche alla sinistra di Ingrao) per spostare il baricentro del PCI sulla lotta esclusivamente indirizzata ai settarismi e agli estremismi sovietici interni al partito. Alla riunione dei segretari regionali comunisti del 1956, addirittura, Antonio Banfi solleverà in maniera critica la questione dei diritti umani nei paesi dell’est. <52 Lo stesso XX° congresso del PCUS viene usato dall’ala amendoliana, ma in generale dal partito, per rivendicare con orgoglio il percorso di rinnovamento interno al partito, proseguendo sul solco del rinnovamento interno e marginalizzando sempre più i dissidi dell’ala secchiana. <53 Anche Togliatti, maggiormente impegnato a difendere, più che una scelta di campo, la sua biografia politica, nel nodale 1956 ammetterà che “La via che battiamo noi, quella che battono i compagni francesi, non hanno, praticamente, molti punti di contatto con quella dei partiti che da circa dieci anni esercitano il potere nell’Europa Orientale.” <54
[NOTE]
49 Giovanni Gozzini, Renzo Martinelli, Storia del Partito Comunista Italiano, dall’attentato a Togliatti all’VIII
congresso, Torino, Einaudi, 1998, pag. 591
50 Cit., pag. 546
51 Cfr. Cit.
52 Giovanni Gozzini, Renzo Martinelli, Storia del Partito Comunista Italiano, dall’attentato a Togliatti all’VIII
congresso, Torino, Einaudi, 1998, pag. 613
53 Cit., pag. 520
54 Palmiro Togliatti, Cit. in Giovanni Gozzini, Renzo Martinelli, Storia del Partito Comunista Italiano, dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso, Torino, Einaudi, 1998, pag. 520

Alessandro Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015-2016