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domenica 8 giugno 2025

La Perego era diventata un’azienda mafiosa fino alle fondamenta

Erba (CO). Fonte: Wikipedia

La «mutazione genetica» della Perego
Il 25 aprile 2009, mentre in centro a Milano si svolgeva il tradizionale corteo per festeggiare la Liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo, gli investigatori intercettarono una lunga conversazione tra Salvatore Strangio e Mario Polito, un «compare» calabrese, che permette di comprendere la portata complessiva della missione del boss all'interno della Perego. Strangio si lamentava per le continue interferenze di Pasquale Varca, capo della Locale di Erba <1100, che lo costringevano a numerosi viaggi in Calabria per mantenere gli equilibri interni all'organizzazione. La Perego Strade, infatti, si trovava sul territorio di competenza di Varca, che non accettava questa invasione di campo da parte di Strangio nel suo territorio, a maggior ragione perché vantava un rapporto con l'azienda precedente: «nella Perego lavoretti ne ho… e quando lo voglio, ce l'ho sempre io…» <1101.
Strangio, dal canto suo, rivendicava il suo ruolo all'interno dell'azienda, cioè quello di salvarla dalla crisi senza perdere soldi ma anzi, riorganizzarla per procurare immediati vantaggi alle aziende della 'ndrangheta in Lombardia, in vista dei più lucrosi affari immaginati con Expo2015. Nella conversazione, a un certo punto Polito gli fece notare che «il problema è che qua ci sono centocinquanta famiglie da pagare… no una famiglia sola… qua c'è tutta la Calabria da pagare…», e proseguiva elencando tutti i territori a conoscenza degli affari della Perego, citando addirittura Reggio Emilia, con evidente implicito riferimento ai Grande Aracri <1102. «Tutta la Calabria!», gli faceva eco Strangio, che a un certo punto disse: «La volete sapere? Il primo lavoro dell'Expo, al 99% lo prende la Perego» <1103. E quindi, giù in Calabria, «loro questo stanno aspettando, l'Expo...» <1104.
Quel dialogo, più di ogni altra conversazione intercettata, restituì agli inquirenti e all'opinione pubblica la dinamicità e la disinvoltura con cui i boss della 'ndrangheta, pur in assenza di competenze professionali specifiche, sapevano muoversi nell'economia legale, colonizzandola progressivamente. La Perego da società brianzola si ritrovò in nemmeno sei mesi ad essere un'azienda calabrese, dove lavoravano maestranze calabresi e dove vigeva un clima di assoggettamento e omertà tra i dipendenti lombardi, costretti a violare le leggi sotto la minaccia del licenziamento in un periodo di grave crisi economica: non erano cambiati solo gli amministratori, si potrebbe dire che l'intera azienda venne mutata geneticamente fino alle fondamenta, poiché l'habitus imprenditoriale alla base della filosofia aziendale divenne un habitus essenzialmente mafioso.
Ivano Perego, infatti, rimase Presidente dell'azienda solo sulla carta. Tanto che quando un imprenditore della zona si rivolse a lui per ottenere dei lavori in subappalto, lo indirizzò a Strangio, al quale poi riferì ossequioso la conversazione, per ribadire per l'ennesima volta la sua fedeltà: «lui m'ha detto: fammi lavorare... e io gli ho detto: io non centro, devi chiedere a Salvatore!» <1105.
A cambiare tuttavia non fu solo la filosofia aziendale, lo fu anche l'habitus di Perego. L'assimilazione da parte dell'imprenditore delle regole non scritte della galassia 'ndranghetista emerse in maniera cristallina in una conversazione con Strangio intercettata il 12 giugno 2009: di fronte alla possibilità di subentrare a un'azienda nel secondo lotto di un appalto in Liguria, Perego si preoccupò di chiedere al boss calabrese «se c'è di mezzo qualcuno di voi», perché in quel caso «dobbiamo metterci a tavolino a ragionarci… io gli lascio il lavoro […] la quota e noi gli diamo il lavoro sennò vado giù e facciamo il lavoro noi… giusto?» <1106.
Tradendo anche una certa insicurezza sui passi da seguire, Perego chiamò poco dopo anche Pavone, riferendogli della telefonata a Strangio e chiedendo ulteriori conferme anche a lui se si fosse comportato in maniera corretta: «gli ho detto: Salvo, allora, qui a Genova c'è un bel lavoro, ho detto, però c'è Biella Scavi… […] informatevi, prima che c'è dietro qualche calabrese o qualcuno… che io vado a schiacciare i piedi… giusto, no? […] se non c'è dietro nessuno io vado avanti faccio il mio… bon basta… giusto?» <1107.
Illuminante sotto il profilo della «mutazione genetica» è la conversazione intercettata tra Strangio e Pavone del 15 aprile 2009, dove Pavone disse esplicitamente che «una volta che il virus è dentro, iniettato... è destinata a morire, una persona, non c'è un cazzo da fare...» <1108. In queste parole emerge il modus operandi tipico della 'ndrangheta: fingendo l'apporto di nuovi capitali, l'organizzazione entra nell'azienda e da quel momento è finita, la vecchia società non esiste più e l'impresa, per usare le parole del GIP, diventa «uno zombie a disposizione delle esigenze e degli interessi della componente 'ndranghetista» <1109.
La lotta interna alla 'ndrangheta: da Strangio a Cristello
Un'ulteriore prova della «mutazione genetica» la diede la lotta tutta interna alla 'ndrangheta per il controllo della Perego, incardinata nelle rigide regole gerarchiche dell'organizzazione mafiosa.
Il dominio assoluto di Strangio nell'azienda durò poco meno di un anno. Verso la metà del 2009, infatti, iniziò un lento processo di allontanamento tra Perego e Pavone dal boss che alla fine portò in sella come referente della 'ndrangheta Rocco Cristello, capo Locale di Mariano Comense, che come abbiamo visto deteneva una quota della Perego del 10% tramite prestanome.
L'accelerazione si ebbe quando sul Corriere della Sera del 21 agosto comparve un articolo a firma di Cesare Giuzzi intitolato «I cantieri dell'Expo, il nuovo business della 'ndrangheta», con tanto di mappa delle 'ndrine presenti nella provincia di Milano, dove si riportava la notizia che anche gli Strangio erano in procinto di entrare negli appalti dell'Expo2015. Benché gli Strangio di cui parlava l'articolo fossero quelli di San Luca, coinvolti nella Strage di Duisburg del 15 agosto 2007, e non quelli di Natile di Careri di cui faceva parte Salvatore, questi si convinse di essere lui l'oggetto delle indiscrezioni giornalistiche e iniziò ad allarmarsi. Nella disperata ricerca di informazioni, moltiplicò le conversazioni con affiliati e parenti, rivelando più di un dettaglio agli investigatori. Perego e Pavone, che già avevano allentato i rapporti con Strangio nei mesi precedenti, colsero la palla al balzo, facendogli credere, tramite un amico poliziotto del fratello di Perego in servizio a Lecco, di essere sotto osservazione dei Carabinieri <1110. In una conversazione col figlio Domenico, subito dopo aver ricevuto la notizia da Perego di indagini su di lui il 15 settembre, Strangio rivelò qual era la sua vera preoccupazione:
«devo vedere per questo discorso Mimmicé... devo vedere di andare a parlare con questo avvocato prima che facciano qualcosa questi... sennò sai che succede bello mio... io apposta me ne voglio andare dalla Perego… perché se importano a fare qualche associazione con il 416 bis sai che significa? […] significa che sequestrano […] fanno subito il sequestro dei beni, immediatamente…» <1111
Quello stesso giorno Strangio decise di licenziarsi, insieme a Pasquale Nocera, dalla Perego, restituendo tutto: l'auto di lusso, le utenze cellulari, oltre a tutti gli uomini riconducibili a lui. Il 22 settembre però venne a sapere da fonti romane che era tutto inventato, ma a quel punto la sua estromissione dalla Perego era definitiva: Perego, dopo aver permesso per un anno che la sua azienda fosse governata da Strangio, assunto come semplice geometra, sbatté la porta in faccia a Strangio, insieme a Pavone, forte del supporto di Rocco Cristello <1112. Ecco come Perego si rivolgeva al suo ex-padrone, nella telefonata in cui Strangio lo informava di voler ritornare nell'azienda:
«Basta mi sono rotto i coglioni io... portatemi indietro la macchina e vi licenzio tutti, mi sono rotto i coglioni! Salvatore portami su la macchina, che ti firmo il licenziamento... prendi e vai fuori dai coglioni anche te... anche Simone... no, non ragiono io [...] perché io in mezzo per voi non vado più... va bene?... Tra un'ora se non c'ho la macchina... denuncio tutti io [...] perché io mi sono rotto i coglioni che sono andato di mezzo per voi, va bene? Io tra un'ora sono a dire tutto» <1113.
Nel raccontare l'accaduto al fratello Antonio, Strangio rivendicò quanto aveva fatto per Perego, evocando il fattore calabrese che aveva permesso all'azienda di non fallire:
«il mio reato è che io ho un sacco di contatti con tutta sta gente... questo sai cos'è, il fattore calabrese... perché ti volevano fare del male... ed io ho cercato di calmarli e dirgli che li pagavamo... che li pagavi tu un po' alla volta […] hai detto […] di vedere queste persone e di dirgli di stare calmi che… che gli davi i soldi... e c'è telefonate, fotografie, c'è questo e c'è...» <1114
Perego però si sentiva al sicuro, come rivelò lui stesso in un'altra conversazione intercettata: «io c'ho un altro calabrese più forte...» <1115, mentre Pavone, conoscendo il suo ex-socio, dimostrava maggiore preoccupazione. E in effetti fu lui il destinatario di un atto di intimidazione in pieno stile mafioso: l'apposizione di una croce di grosse dimensioni davanti al portone di casa. Tuttavia, l'episodio si risolse con una vena, si può dire, comica, con Pavone che interpretò quel fatto come la minaccia non di Strangio ma di altri, tale Oricchio, e non gli diede alcun peso. L'indifferenza di Pavone fece infuriare ancora di più Strangio che, consapevole della situazione finanziaria dell'azienda, voleva ricevere immediatamente i pagamenti arretrati per i lavori eseguiti dalle sue aziende, a rischio fallimento anche loro.
Estenuato dalle discussioni con Rocco Cristello, Strangio decise di passare a modi meno diplomatici, ma nel pieno e assoluto rispetto delle regole e della gerarchia della 'ndrangheta: si rivolse così a Domenico Pio, capo della Locale di Desio, e a Salvatore Muscatello, capo della Locale di Mariano Comense cui Cristello era affiliato, per avviare azioni ritorsive contro di lui. In questo modo Strangio rendeva palese lo scontro ai vertici dell'organizzazione, interamente interessata alla questione Perego come si è visto per via di Expo.
Al di là dell'esito dello scontro, che si risolse a favore di Strangio, il punto da sottolineare qui è che nel novembre 2009, cioè esattamente 14 mesi dopo l'ingresso della 'ndrangheta nell'azienda per risolvere una crisi di liquidità, la Perego era diventata un'azienda mafiosa fino alle fondamenta, tanto che una questione di pagamenti mancati finì sul tavolo dei massimi vertici della 'ndrangheta in Calabria. Non solo, il 21 dicembre 2009 l'azienda veniva dichiarata fallita e, stando alle indagini della magistratura, quella dichiarazione sarebbe avvenuta già a fine 2008, dopo appena 3 mesi di attività, e se ciò non accadde fu solo perché vennero falsificati i bilanci dell'azienda <1116.
La Perego General Contractor era quindi un'azienda nata senza passività finanziarie ma anche senza reali capitali, che gli uomini della 'ndrangheta finsero di mettere a disposizione di Ivano Perego, il quale si mise nelle mani dell'organizzazione mafiosa per poter continuare a fare la bella vita, come vedremo, senza doversi più preoccupare della sua azienda. Pavone, con Strangio prima e Cristello poi, puntava a far affluire nuovi capitali all'azienda tramite le incorporazioni, poi non andate in porto, come quella con il colosso delle costruzioni Cosbau, sulla base di falsi bilanci.
Il potenziamento del capitale sociale di Ivano Perego
La gestione, secondo lui a «a costo zero», non fu l'unica cosa che Ivano Perego guadagnò dal rapporto con la 'ndrangheta. Per il giovane imprenditore brianzolo, legato alla locale realtà territoriale, fu un mezzo per potenziare il proprio capitale sociale ed espandere il reticolo di relazioni nel campo dell'economia, della politica e del mondo delle professioni.
[NOTE]
1100 Si veda Ghinetti, A. (2009). Ordinanza di applicazione di misura cautelare personale e contestuale sequestro preventivo - Procedimento Penale n. 41849/07 R.G.N.R., Tribunale di Milano - Ufficio GIP, 26 ottobre., p. 622 e ss.
1101 Gennari, G. (2010). Ordinanza di applicazione di misura cautelare personale e contestuale sequestro preventivo - Procedimento Penale n. 47816/08 R.G.N.R., Tribunale di Milano - Ufficio GIP, 6 luglio. (TENACIA), p. 57.
1102 Gennari, op. cit., p. 186.
1103 Ivi, p. 187.
1104 Ivi, p. 188.
1105 Ivi, p. 169.
1106 Ivi, p. 194-195.
1107 Ivi, p. 195.
1108 Ivi, p. 75. 
1109 Ivi, p. 76.
1110 Ivi, p. 238.
1111 Ivi, p. 238-239.
1112 Ivi, p. 245.
1113 Ivi, p. 243-244.
1114 Ivi, p. 240.
1115 Ivi, p. 262.
1116 Ivi, p. 365.
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020  

lunedì 2 giugno 2025

Anche dopo le elezioni amministrative del 15 giugno 1975, continuerà l’azione del Pci contro gli scandali


Nella fase che precede le elezioni amministrative, anche le vicende dell’inquirente, in particolare quelle relative allo scandalo dei petroli, tornano nel dibattito pubblico. Nell’aprile 1975 il Pci prepara un documento che denuncia le «ingiustificate lungaggini» della commissione <189 e poi prepara una conferenza stampa (presieduta da Natta e Perna, capigruppo alla Camera e al Senato) per divulgarlo <190. Spagnoli protesta per l’atteggiamento della Dc: «abbiamo lavorato per 15 mesi sul caso del petrolio per sentirci dire dalla maggioranza che l’attività dei ministri non è sindacabile. E allora quale dovrebbe essere l’attività della nostra commissione?». Con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale del 15 giugno 1975, l’azione dei comunisti si fa più intensa. A fine maggio Spagnoli partecipa ad un programma televisivo e afferma: «posso affermare serenamente che i petrolieri, con versamenti in denaro, hanno negoziato almeno una legge, sei decreti e otto decreti ministeriali, ottenendo vantaggi di diverse centinaia di miliardi in contributi e agevolazioni fiscali» <191. In seguito, intervistato da La Stampa, spiega che «…l’indagine della commissione, come istruttoria, era finita nell’ottobre dello scorso anno. Dal 13 novembre al 21 febbraio di quest’anno c’era stata la discussione generale. Tutto era chiarito. Gli elementi in mano alla commissione per decidere c’erano […] vogliamo che tutti sappiano quello che non si vuol dire […] Ferri ha fatto bene a protestare…» <192.
Qualche giorno prima i commissari comunisti avevano preparato un documento d’accusa che sottopongono alla commissione, la quale lo respinge (votano a favore solo i comunisti e Galante Garrone); il settimanale L’Espresso però pubblica ampi stralci del documento <193 divulgandone i particolari e questo solleva una aspra polemica con la Dc. La situazione appare tesa anche in virtù del fatto che la commissione inquirente ha deciso di avocare un inchiesta condotta dalla procura di Roma su imputati non politici per reati legati allo scandalo. Il consigliere istruttore Gallucci si dice d’accordo con l’avocazione, ma il sostituto procuratore Enrico Di Nicola <194 chiede alla Cassazione di rivolgere un ricorso alla Corte Costituzionale <195. 
Anche dopo le elezioni amministrative del 15 giugno 1975, l’azione del Pci continuerà: a novembre riuscirà a far riesaminare le posizioni già archiviate dei quattro ministri, e Spagnoli farà notare che per Ferri (sotto inchiesta) le risultanze sono esattamente uguali a quelle di Preti, la cui posizione era stata invece archiviata. A dicembre i comunisti proporranno di restituire alla procura di Roma parte dell’inchiesta ma tutti gli altri partiti voteranno contro. A marzo del 1976, il partito insisterà per dare pubblicità ai lavori della commissione inquirente <196 (dopo aver predisposto e presentato, a febbraio, un disegno di legge per la completa riforma della normativa circa la commissione <197). Sull’altro versante, a maggio, la Dc chiederà l’archiviazione per i due ex ministri ancora sotto inchiesta.
Nel corso degli oltre due anni tra l’inizio dell’inchiesta e le elezioni politiche del 20 giugno 1976, l’atteggiamento del partito socialista è di grande prudenza. Sull’Avanti i pochi articoli sullo scandalo invitano, in maniera piuttosto astratta, a fare chiarezza, affermano l’estraneità di esponenti socialisti alle pratiche di malaffare emerse con lo scandalo, ma sostengono con energia l’esigenza di evitare «scandalismi» <198. In occasione della pubblicazione da parte dell’Espresso del documento elaborato dai comunisti, l’organo del Psi appare decisamente irritato e afferma di «non credere alla fuga di notizie» <199 (i comunisti avevano sostenuto di essere totalmente estranei alla divulgazione del documento <200). Un fatto certo è che i socialisti votano quasi sempre con la Dc: quando si tratta di archiviare la posizione dei quattro ex ministri, quando si tratta di respingere documenti d’accusa. Una delle cause di tale atteggiamento è, probabilmente, il coinvolgimento del segretario amministrativo del Psi, Augusto Talamona, nell’inchiesta; ma, soprattutto vi è un altro scandalo di cui si occupa l’inquirente parallelamente a quello del petrolio e che vede sotto inchiesta un esponente di primo piano del partito: l’ex segretario Mancini (e con lui l’ex ministro Dc Natali). Si tratta dell’affare “Anas”. Il caso era sorto a causa della denuncia da parte di un costruttore che, nel 1971, aveva segnalato turbative d’asta ed episodi di corruzione sistematica nell’assegnazione degli appalti da parte dell’Anas, l’ente pubblico gestore delle strade, nei cinque o sei anni precedenti. Le accuse erano corroborate dalle intercettazioni fatte clandestinamente da un avvocato, Marino Fabbri, e coinvolgevano i ministri dei Lavori pubblici dell’epoca, Giacomo Mancini e Lorenzo Natali, democristiano. L’inchiesta si era trascinata fino al settembre 1974, quando il consigliere istruttore Gallucci l’aveva trasmessa per intero (senza cioè trattenere gli atti per gli imputati non ministri) alla commissione inquirente. Nella vicenda si erano dimostrate determinanti le intercettazioni effettuate e, probabilmente, ciò era stato tra le cause del disegno di legge presentato da Vincenzo Balzamo, responsabile del settore giustizia del Psi, nel 1973 <201, che prevedeva sanzioni penali per chiunque eseguisse intercettazioni ed attribuiva unicamente alla magistratura, con vari limiti, la capacità di effettuarle. Tale disegno di legge, insieme ad altri e con alcuni emendamenti, aveva poi determinato l’approvazione della legge citata (la N. 98 del 8 aprile 1974) sulle intercettazioni. In base ad essa le intercettazioni effettuate dall’avv. Fabbri non sono più utilizzabili ma, secondo un’interpretazione <202 (d’accordo con la quale le registrazioni sarebbero ammesse se effettuate secondo la normativa in vigore al momento della loro esecuzione) esse potrebbero ancora essere usate in dibattimento.
Nuovamente, sempre con l’iniziativa del Psi, come tiene a sottolineare un articolo del Popolo <203, il Parlamento pone fine alla questione con una modifica alla legge che rende utilizzabili solamente le intercettazioni autorizzate dalla magistratura. D’altra parte l’atteggiamento del partito socialista sulla normativa relativa alle intercettazioni era stata chiarita al di là di qualsiasi dubbio dal ministro Zagari fin da febbraio <204. Alcuni suggeriscono che i socialisti siano arrendevoli e seguano la Dc in commissione inquirente sul caso petroli in cambio di un analogo aiuto da parte dei colleghi di governo sul caso Anas <205.
Il partito comunista appare decisamente cauto quando si tratta della politica del Psi in commissione inquirente: l’Unità non si esime certo dall’informare circa i voti espressi dai commissari socialisti, ma tende a non darvi troppo rilievo, anche quando appaiono in contrasto con la linea del Pci; si occupa pochissimo dell’affare Anas e quando lo fa <206, si esprime con estrema cautela a proposito del ruolo di Mancini.
A complicare la campagna elettorale della Dc intervengono anche alcuni sviluppi dell’inchiesta su Michele Sindona, che nei primi mesi del 1975 aveva acquisito nuovi impulsi grazie ai giudici di Milano. Essa era cominciata nel 1974, e riveste una notevole importanza non solo per le conseguenze immediate ma, in misura ancora maggiore, per l’evoluzione che essa avrà tra la fine del decennio e l’inizio degli anni Ottanta, visto che porterà ad uno dei maggiori contrasti tra alcuni partiti politici e la magistratura, oltre a dare, nel 1981, un contributo fondamentale all’esclusione, per la prima volta dal 1945, della Dc dalla presidenza del consiglio.
L’Unità aveva seguito con una certa attenzione l’evoluzione degli affari di Michele Sindona e già prima del crollo delle sue principali aziende e del mandato di cattura per bancarotta emesso a suo carico dalla procura di Milano (ottobre 1974) e aveva sottolineato l’inopportunità del prestito di 100 milioni di dollari da parte del Banco di Roma guidato da Ferdinando Ventriglia alla banca del finanziere siciliano <207. Sindona era identificato dai comunisti come il finanziere che aveva offerto un milione di dollari per la campagna elettorale di Richard Nixon, ed era ritenuto molto vicino agli ambienti della destra italiana. Anche l’organo del Psi si dimostra sempre molto attento all’evolversi dell’affaire Sindona e non esita a denunciare quelle che appaiono come complicità dell’alleato di governo nel fiancheggiare o coprire le sue imprese. L’inchiesta del giudice istruttore Ovidio Urbisci e del sostituto procuratore Guido Viola di Milano era nata in seguito alla denuncia di azionisti della Banca Privata Italiana che si erano sentiti defraudati per la perdita di valore delle azioni da loro detenute a causa della bancarotta del gruppo, ed avevano sostenuto che la dirigenza aveva deliberatamente nascosto loro informazioni. A ottobre il settimanale Panorama <208 aveva pubblicato un articolo in cui un anonimo collaboratore di Sindona denunciava il sostegno dato da partiti governativi al finanziere in cambio di denaro (si parlava di 750 milioni al mese alla Dc); l’intervista aveva suscitato l’attenzione della procura romana che però aveva immediatamente affermato di non voler di interferire nelle indagini dei colleghi milanesi. Nel frattempo l’ufficio economico del Psi aveva emesso un comunicato in cui elencava i momenti salienti del fallimento delle banche di Sindona affermando, tra l’altro: “emergono domande preoccupanti circa il comportamento dei pubblici poteri, i metodi con i quali viene esercitato il controllo del sistema bancario, le motivazioni con cui vengono autorizzate operazioni finanziarie…” <209. Da parte sua il ministro Emilio Colombo si limitava ad osservare che, dopotutto, il Banco di Roma non aveva subito perdite <210 (ma le perdite contabili emergeranno in seguito).
[NOTE]
189 “Accuse del Pci: insabbiate le inchieste parlamentari?”, La Stampa del 25 aprile 1975.
190 “I procedimenti contro i ministri, le accuse del Pci alla commissione”, La Stampa del 30 aprile 1975.
191 Tribuna elettorale, Rai Uno, ore 22:00 del 30 maggio 1975. Vedere anche “I comunisti denunciano in televisione le cifre dello scandalo petrolifero”, La Stampa del 31 maggio 1975.
192 “I comunisti denunciano in televisione le cifre dello scandalo petrolifero”, La Stampa . Cit.
193 “20 miliardi a 6 ministri per 4 partiti”, L’Espresso, N. 23 del 1975,
194 Secondo L’Espresso di «idee socialiste», vedere, “E anche Gallucci prova a insabbiare”, N. 23 del 1975
195 “Un nuovo contrasto per il caso petrolio”, La Stampa del 04 giugno 1975.
196 U. Spagnoli, “Come impedire l’affossamento degli scandali”, Rinascita, 20 febbraio 1976.
197 Vedere “Ventriglia: «Carli chiede direttive per salvare le banche di Sindona»”, L’Unità del 21 febbraio 1976
198 Vedere, ad esempio, “La segreteria del Psi sull’inchiesta per i petroli”, L’Avanti del 15 febbraio 1974, o “Scandali e scandalismo”, L’Avanti del 07 marzo 1974.
199 “Inquirente, accusatori e giudici”, L’Avanti del 06 giugno 1975.
200 “E’ più che mai necessaria una corretta informazione”, L’Unità del 04 giugno 1975.
201 Camera dei Deputati, disegni di legge e relazioni N. 1482 del 17 gennaio 1973.
202 Vedere “Lo scandalo Anas in Parlamento”, l’Avanti del 14 settembre 1974, in cui si afferma che l’interpretazione della legge sulle intercettazioni «lascia attoniti» e che «la prassi consente alla nostra magistratura le interpretazioni più aberranti».
203 “Intercettazioni, più precise le norme”, Il Popolo del 31 ottobre 1975.
204 “Lo scandalo delle intercettazioni”, L’Avanti del 07 febbraio 1974, o “Il PG conferma gli abusi delle intercettazioni”, L’Avanti del 14 marzo 1974
205 Lo suggerisce apertamente l’articolo “Istruzioni: prendi l’Anas e affogala nel petrolio”, l’Espresso, N. 6 del 1976,
206 “Dalla magistratura al Parlamento gli atti sull’istruttoria Anas”, l’Unità del 14 settembre 1974.
207 “Al finanziere Sindona 100 milioni di dollari di una banca pubblica”, l’Unità del 06 luglio 1974, in cui si parla di «motivi politici poco chiari».
208 Panorama del 12 ottobre 1974
209 “Un’inchiesta per sapere se Sindona finanziava la Dc”, l’Unità del 16 ottobre 1974.
210 “Colombo su Sindona”, Discussione del 11 novembre 1974
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza - Università di Roma, 2013

sabato 24 maggio 2025

Al primo piano erano ospitati alcuni esponenti del CLN


Il ruolo del Vaticano fu un ruolo da intermediario. I tentativi erano volti a tenere Roma lontana dalla violenta guerra che imperversava ormai in tutta italia, e furono tentativi che si concentrarono su tre aspetti: iniziative diplomatiche per evitare i bombardamenti della capitale, sostegno alla popolazione e assistenzialismo, in una rete che si allargò capillarmente proprio durante gli anni dell’occupazione nazifascista.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la Santa Sede propose la completa smilitarizzazione della città in cambio dell’assicurazione che nessuna bomba sarebbe stata mai sganciata su Roma. Come ben si sa, questo accordo non venne mai rispettato: la capitale, a partire dal 19 luglio 1943, verrà colpita ben 51 volte dall’aviazione alleata. Settemila furono le vittime. Queste azioni costrinsero il Vaticano, ancora una volta, a mantenere una sorta di neutralità, per poter trattare sia con gli angloamericani che con i tedeschi: con i primi che avanzavano verso Roma divenne necessario trovare un modo per far sì che i tedeschi retrocedessero. Come si sa, nessuno dei due schieramenti accettò di trovare un compromesso, Roma fu occupata e, con l’approssimarsi dell’arrivo degli Alleati, nessuno ebbe riguardo per le preoccupazioni della Chiesa e di Papa Pacelli.
L’opera di sostegno alla popolazione si intensificò proprio a partire dal bombardamento del quartiere Tiburtino del 19 luglio, quando i cittadini rifiutarono qualsiasi accoglienza dei vari esponenti politici, ma si strinsero calorosamente attorno a Pio XII nel momento della sua visita. Fu un’opera che continuò intensamente nei mesi a venire: oltre al territorio di Città del Vaticano, vi erano anche delle aree extraterritoriali, come ad esempio quelle circostanti le basiliche di San Paolo fuori le mura e San Giovanni in Laterano, che, in quei lunghi nove mesi (e anche oltre), accolsero le migliaia di sfollati, civili e anche militari, che si rifiutarono di collaborare con l’invasore o di arruolarsi con l’esercito della Repubblica di Salò, e preferirono la clandestinità.
L’azione della Chiesa era talmente radicata che il numero delle Guardie Palatine crebbe da trecento a duemila uomini tra il 1942 e il 1943: l’aumento dei soldati impiegati si spiega con il reclutamento dei fuggiaschi che venivano così protetti dalle rappresaglie dei nazifascisti.
La necessità di essere accanto a malati, feriti, anziani e orfani, e assisterli, si concretizzò con la fondazione, il 14 marzo 1944, della Pontificia Commissione Assistenza Profughi (Pcap) che inizialmente ricoprì le zone prossime al Vaticano per poi allargarsi verso le periferie, fino alla zona dei Castelli Romani, interessando anche le postazioni e le caserme militari. Le azioni fondamentali di questa associazione furono due: vettovagliamento e censimento dei profughi. Sotto quest’ultimo punto di vista, la conta rilevò che c’erano circa 70mila profughi dei quali prendersi cura, nella speranza di poter in seguito assicurare a ciascuno il ritorno nelle zone d’origine. A proposito del vettovagliamento, invece, il coordinamento venne affidato a Monsignor Ferdinando Baldelli, che gestì il traffico da un luogo all’altro, occupandosi di non far intercettare le vetture vaticane agli occupanti. Soprattutto, agì in coordinazione con gli istituti religiosi che ospitavano i ricercati, e con servizi mensa che davano cibo agli sfollati. Non è stato possibile, negli anni, dare una cifra definitiva di quanti sono stati soccorsi e aiutati dalla Pontificia Commissione Assistenza Profughi: non vi erano registrazioni di soccorritori e soccorsi, il tutto avveniva sommessamente e di nascosto dai nazifascisti, la scomparsa dei protagonisti dell’epoca hanno reso ancora più arduo questo compito.
Seminari, conventi e parrocchie: il ruolo degli istituti religiosi
Seminario lombardo e Seminario Romano Maggiore sono tra quelli che diedero il loro contributo nell’accoglienza e nella difesa della popolazione della Roma occupata. "Un giorno mi chiamò monsignor Ronca che mi disse: «vai alla fermata del tram numero 16 in Piazza San Giovanni e stai lì senza dire niente, si avvicinerà a te una persona che tu non conosci, ti dirà una parola, tu devi rispondere soltanto: 'vieni via con me'». Io non sapevo di che si trattasse ma ebbi forti dubbi durante il tragitto verso il seminario. Questa persona tremava continuamente, era impallidito, bianco come un cencio. Lungo la strada stazionavano le SS tedesche con il fucile spianato, un soldato ogni 15-20 metri. Vedendo questo spiegamento di forze naziste la persona da me accompagnata si impressionò e mostrava segni di grande paura. Vedendolo così abbattuto e timoroso provai a scherzare un po’ con lui, cercando di scambiare qualche parola in allegria, ridevo anche con ostentazione per far capire ai tedeschi che non avevo nulla da nascondere, volevo evitare sospetti e mostrare sicurezza. Finalmente arrivai in Seminario. Il rettore lo accolse e fu salvo. Solo in seguito seppi che si trattava di un ebreo, perché a circa 40 anni di distanza l’Ambasciata di Israele presso il Vaticano mi inviò una lettera invitandomi a ricevere la medaglia dei Giusti tra le Nazioni" <69. È la testimonianza del cardinal Fagiolo, all’epoca uno dei seminaristi di monsignor Ronca, che aveva istituito un centro di accoglienza nel Seminario Romano Maggiore, nei pressi della Basilica di San Giovanni in Laterano.
Il Laterano, sotto la guida di monsignor Ronca, venne quindi trasformato in un centro di assistenza, suddiviso in tre livelli: al piano terra erano ospitati gli uomini del governo Badoglio, al primo piano alcuni esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale (tra cui: Ivanoe Bonomi, che ne era presidente, il democristiano Alcide De Gasperi, i socialisti Giuseppe Saragat, che sarebbe diventato il quinto Presidente della Repubblica, e Pietro Nenni) e, all’ultimo piano, perseguitati, ex ufficiali ed ebrei (tra cui il matematico Federigo Enriques, i fratelli Olivetti e la famiglia Sonnino).
La stessa funzione venne ricoperta dal Seminario Lombardo, della Basilica di Santa Maria Maggiore: vi trovarono rifugio famiglie di ebrei, ufficiali italiani, studenti e sindacalisti. Per poterli nascondere, venne loro concesso di indossare l’abito ecclesiastico e rispettare un apposito regolamento, che vietava loro di andare in cortile e di allontanarsi senza autorizzazione, così come l’obbligo di rispettare gli orari stabiliti, di tenere le stanze in ordine e di evitare la presenza di oggetti o di comportamenti che potessero tradirne la laicità. Inoltre, vennero istituiti un apparato di vigilanza, che aveva la funzione di fare la ronda e segnalare qualsiasi minaccia, e un sistema di regole locali che avrebbe dovuto favorire la fuga in caso di incursioni. Purtroppo tutto ciò fu abbastanza inutile la notte tra il 21 il 22 dicembre 1943, quando la banda Koch, insieme ai poliziotti italiani, entrò nel Seminario Lombardo e in altri istituti vicini, arrestando decine di rifugiati.
La stessa sorte toccò al Monastero di San Paolo nella notte tra il 3 e il 4 febbraio 1944: "Verso la mezzanotte e mezza venni svegliato da ripetuti colpi alla porta della camera e compresi subito che qualcosa di grave succedeva in Monastero. Mi vestii in fretta e uscito nel corridoio un converto mi avvertì che erano entrati vari poliziotti per arrestare il generale Monti. Dopo poco incontro nel corridoio del refettorio due persone alle quali domando chi sono, come erano entrati, perché erano qui. Mi rispondono che cercavano il generale Monti ed altri ufficiali. Replicai che qui eravamo in zona extraterritoriale e che non avevano nessun diritto di entrare e fare ricerche di persone. Insistei per sapere come erano entrati e mi risposero: 'perché ci avete aperto' " <70. Gli ospiti furono picchiati selvaggiamente, e molti furono anche i furti, principalmente di oggetti lasciati in deposito dalla popolazione della zona limitrofa.
Queste continue irruzioni costrinsero i Seminari a chiedere ai rifugiati di scegliere se restare oppure tentare la via della fuga, non potendo più garantire la sicurezza, nonostante vigesse l’extraterritorialità. Furono in molti a tentare di andar via, per cercare un modo per tornare a casa: alcuni vi riuscirono, altri no.
Anche gli istituti monastici femminili si adoperarono per aprire le proprie porte e offrire ospitalità ai fuggiaschi, anche se va sottolineato come le difficoltà, in questo caso, furono più numerose: indubbiamente vi fu una maggiore apertura delle suore che avevano già un contatto con il mondo esterno, a differenza delle suore di clausura che con estrema difficoltà riuscirono talvolta a portare sconosciuti tra le proprie mura. Dover infatti tradire il voto di obbedienza, senza il permesso esplicito del Vicariato, era un ostacolo altissimo da superare e, ovviamente, la Santa Sede non poteva esprimersi esplicitamente a favore dell’accoglienza: «Sarebbe stato pericoloso, infatti, per la Santa Sede e per gli istituti lasciare tracce compromettenti della loro attività in favore dei perseguitati. Si suppone perciò che l’invito ad aprire le porte giunse o tramite la Santa Sede stessa oppure una specie di passaparola fra le madri superiori delle diverse case; dopo che una di loro ricevette il beneplacito del papa lo trasmise alle altre» <71. Loro stesse compresero quanto potesse essere importante il loro compito, nella speranza che gli occupanti avrebbero portato rispetto e, anche per una forma di pudore, non si sarebbero presi la responsabilità di irrompere nei luoghi di preghiera abitati da donne religiose. Quest’ultimo, fra l’altro, fu anche il motivo per cui esse preferirono ospitare donne e bambini, raramente uomini e comunque solo nel caso in cui essi fossero gravemente malati o feriti.
Anche le parrocchie ebbero un ruolo fondamentale: furono infatti il luogo in cui i perseguitati cercavano un primo ricovero, sapendo di non potervi rimanere a lungo a causa dell’esiguità degli spazi. Molti furono i preti che si adoperavano per trovare centri di accoglienza di dimensioni maggiori, ovviamente grazie alla rete che era stata improntata nei mesi. Spesso, si occuparono anche di procurare ai malcapitati dei finti documenti di identità, nel tentativo di metterli al riparo da possibili torture o fucilazioni nel caso in cui fossero stati fermati e perquisiti dai tedeschi.
Ma quali furono i motivi che spinsero gli istituti religiosi a operare in questo modo? Le varie testimonianze hanno evidenziato come la causa principale fosse il semplice rispetto del Vangelo, che richiede un comportamento cristiano e l’accoglienza del proprio prossimo, in questo caso il rifugiato. Altre ancora hanno chiarito che anche la sensibilità personale ha influito su queste scelte: davanti alle crudeltà a cui stavano assistendo era per loro spontaneo e naturale tendere una mano verso i perseguitati.
Per evitare possibili incursioni tedesche, la maggior parte di questi istituti espose il cartello con il messaggio trasmesso loro dalla Segreteria di Stato, mentre altri ancora richiesero protezione a Stati che erano rimasti neutrali, nella speranza che i nazisti rispettassero la loro condizione di non belligeranti e mantenessero buoni rapporti diplomatici. Molte suore pensarono di far “infiltrare” i fuggiaschi tra le educande, le cuoche o collaboratrici varie, facendo loro indossare le rispettive divise. Un altro escamotage era quello di intrattenere i tedeschi nel momento in cui chiedevano di poter ispezionare gli istituti, per dare modo ai rifugiati di andare via.
Furono mesi di paura e di terrore, che comunque non impedirono loro di aprire le porte dell’accoglienza, di aiutare e fare rete contro l’invasore nazista.
[NOTE]
69 A. Gaspari, 1943, La lista del Laterano, «Avvenire», 11 febbraio 1998, p. 23.
70 A. Riccardi, La Chiesa a Roma durante la Resistenza, in «Quaderni della Resistenza laziale», a cura della Regione Lazio, Roma, 1977, p. 115.
71 Balzarro, Roma durante l’occupazione nazifascista: percorsi di ricerca, cit., p. 251.
Cristiana Di Cocco, L'occupazione tedesca di Roma. Il diario di Giulio Di Legge, Università degli Studi "Roma Tre", 2023

mercoledì 14 maggio 2025

Sulle pendici del Monte Bavarione cade il partigiano Arnaldo Ceccherini, Tenente Pascoli


Pubblicato sul n. 3/2024 di “Nuova Resistenza Unita”
Nell’attacco all’Ossolalibera che si sviluppa inizialmente da est lungo la Val Cannobina a partire dalla notte fra l’8 e il 9 ottobre ‘44 vengono giustamente ricordati quali primi difensori caduti al Sasso di Finero il 12 ottobre Attilio Moneta e Alfredo Di Dio, mentre perlopiù si ignorano Aldo Cingano e Arnaldo Ceccherini caduti due giorni prima sull’altro versante della Cannobina, a ridosso dello spartiacque con le vallate del Verbano.
Aldo Cingano riposa nel Cimitero di Intra nell’area riservata ai partigiani; di lui e del contesto in cui è caduto sotto il fuoco tedesco, su questa rivista, è stato scritto in due occasioni, sia pur all’interno del ricordo di altri partigiani della Cesare Battisti[i]. Di Arnaldo Ceccherini si trova traccia solo all’interno dell’elenco di oltre mille caduti del Novarese pubblicato nel 1970[ii].
[...] Gli archivi della resistenza ci dicono che Arnaldo era nato a Milano il 17 febbraio 1921. Il Padre Mario, originario della Toscana, si era infatti trasferito a Milano e successivamente a Como. Una importante ricerca di studenti e docenti del Liceo Parini di Milano[v] sulle conseguenze delle leggi razziali per docenti e studenti della scuola ci segnala la presenza di Ceccherini:
“Cesare Cases (Milano, 1920 - Firenze, 2005), germanista, saggista e critico letterario. È studente del Parini fino al 1937/38, anno in cui frequenta con esito positivo la II liceale A, ma viene espulso a causa delle leggi razziali. Già negli anni del Parini ha modo di mostrare le proprie capacità letterarie, spronato da un’accesa rivalità con un compagno di classe, Arnaldo Ceccherini, che lo scrittore ricorderà con ironia nel saggio del 1978 'Cosa fai in giro'.”
Il saggio di Cases, un piccolo gioiello letterario[vi],ripercorre il suo rapporto laico con la cultura ebraica prima e durante le leggi razziali e Ceccherini, a cui dedica tre pagine, vi rappresenta un antisemitismo letterariamente ingenuo, ma anche l’evoluzione di una generazione che prende consapevolezza degli inganni del regime. Ne riporto alcuni passi.
“No, si può dire tutto di Milano, non che fosse una città an­tisemita. L’unico antisemita che avevo trovato a scuola non era milanese, e poi non era nemmeno antisemita. Si chiamava Arnaldo Ceccherini ed era toscano. Era un ragazzo biondastro, un po’ flac­cido e esangue, molto educato e ben curato, che perseguiva un culto della toscanità nutrito di letture principalmente di Papini. Il suo antisemitismo, del tutto libresco, veniva di li, da quel nazio­nalismo regionalistico e terragnolo che prosperava solo tra i toscani maledetti e per cui gli ebrei erano i prototipi degli uomini sradi­cati, cosmopoliti […]. In realtà era­vamo profondamente affini, due intellettuali in erba maldestri e in­troversi che si trovavano male nel loro ambiente e che fuggivano in un mondo che per me era astrattamente culturale mentre per lui assumeva i contorni dell’anticapitalismo romantico e del ritorno alle origini. […]
Dopo la guerra seppi che era morto, partigiano. Addio, caro nemico, riposa in pace finché le tombe non si scoperchieranno e noi torneremo sul ponte di San Marco a picchiarci per l’eternità. Forse è solo per ritrovarti che sono sceso nel pozzo del passato.”
Ceccherini dopo il liceo frequenta la facoltà di Giurisprudenza e, prima di laurearsi in Legge, viene richiamato in qualità di ufficiale della Guardia alla Frontiera (GAF), il corpo militare istituito da Mussolini nel 1934 accorpando reparti del Genio, Artiglieria e Fanteria, denominato ironicamente dagli alpini “la vidoa” (la vedova) per il caratteristico cappello da Alpino, privo però della penna. Ceccherini è di stanza a Iselle quando, poco dopo l’8 settembre, il reparto si scioglie spontaneamente.
[...] “All’annuncio dell’armistizio e al dissolvimento del presidio […] ci si raccolse per la mesta cerimonia dell’ammainaban­diera. Erano circa le cinque del pomeriggio dell’11 settembre 1943. Ceccherini, il più giovane degli ufficiali, uno dei nuovi tenenti del caposaldo, raccolse fra le sue braccia il tricolore con al centro lo stemma sabaudo. Tutti erano profondamente abbattuti dopo tanti mesi di guerra[…] quella fine così ingloriosa riempiva tutti di umiliazione. […] Il Ceccherini, dopo un primo periodo di sbandamento nei dintorni di Domodossola, entrò in Svizzera uscendone alla liberazione del settembre 1944 e partecipando da allora in avanti alla lotta partigiana col nome di copertura di «Tenente Pascoli».”[vii]
Il “Tenente Pascoli” - da sottolineare il riferimento letterario non più all’oltranzista cattolico Papini, ma al socialisteggiante poeta romagnolo - si arruola nella “Cesare Battisti” come semplice partigiano e nei primi di ottobre è inquadrato nel “Plotone Esploratori” guidato da Nino Chiovini e dislocato da Piazza (sopra Trarego) al Bavarione in difesa dell’Ossola liberata.
L’attacco nazifascista alla “Repubblica ossolana” non inizia, come si prevedeva, sulla piana tra Mergozzo e Ornavasso, ma il 9 ottobre in Valle Cannobina coinvolgendo sia il fondovalle che entrambi i versanti ed è guidato (Operazione Avanti) dalle SS Polizei Rgt. 15 ritornate nel territorio dopo il rastrellamento di giugno[viii]. Per l’attacco, oltre le forze dislocate a sud nella bassa Ossola, in Cannobina sono impiegate quattro colonne: fondovalle, versante sinistro (nord) dove è schierata la “Perotti” di Frassati, versante destro e contemporaneo accerchiamento, con una colonna proveniente da Intra e Pian Cavallo, della postazioni della “Battisti” e della “Valgrande Martire” schierate da sopra Trarego al Vadàa. Di seguito il commento e i ricordi di Chiovini:
“Ai partigiani addestrati ai colpi di mano, alle azioni offensive, ai rapidi sganciamenti, si chiede questa volta un compito diametralmente opposto, difendere il terreno. Le piccole vecchie formazioni che in poche settimane sono diventate brigate e divisioni, si sono appesantite con l’adesione di giovani entusiasti ma ancora impreparati fisicamente, militarmente, moralmente. E le armi sono sempre quelle: buone per l’offesa e neppur tanto, ancor meno per la difesa.  Dobbiamo nel contempo ammettere che una proposta di abbandonare il territorio della Repubblica ossolana senza combattere, da qualsiasi parte fosse avanzata, è impensabile, acquisterebbe immediatamente il sapore della diserzione, forse del tradimento. Non è possibile altra scelta che la difesa dell’Ossola. È questo il prezzo politico e di sangue che la Resistenza è tenuta a pagare.”[ix]
Sul versante destro lo sfondamento avviene a Pian Puzzo tra il 9 e 10 ottobre.Questo il ricordo di Peppo nel suo diario partigiano:
“Il nemico attaccò la sera dell’otto ottobre in Valle cannobina, mentre il cielo cominciò a vomitare pioggia … Estenuanti turni di guardia venivano sostenuti sotto una pioggia incessante e gelida che ci faceva sentire liquefatti. Nel tardo pomeriggio del secondo giorno cominciarono ad affluire partigiani sbandati provenienti dall’alto, dall’asse Colle-Pian Puz. Dai loro racconti comprendemmo che una colonna tedesca aveva raggiunto inaspettatamente Pian Puz attraverso una marcia nel bosco e, insieme ad un reparto corazzato giunto in seguito lungo la rotabile, sotto una bufera di neve, aveva sorpreso alle spalle e sopraffatto il nostro schieramento, che aveva subito forti perdite. Contemporaneamente in valle Cannobina avevano ceduto le nostre difese del fianco sinistro; al nemico che aveva potuto raggiungere Cùrsolo, tutto diventava più facile. Era la rotta.”[x]
È durante questo attacco accerchiante che, il 10 di ottobre, sulle pendici del Monte Bavarione cade Arnaldo Ceccherini. Del suo rigoroso spirito partigiano e del suo sacrificio abbiamo il commosso ricordo di un suo commilitone.[xi]
Dalla lettera di un soldato del Tenente Pascoli:
"Lo conobbi che da poco era uscito dalla Svizzera, chiaro era dunque il suo scopo; da allora gli sono sempre rimasto vicino, dormivamo nella stessa stanza lassù a P. Cavallo, a causa della scarsità mangiavamo spesso con lo stesso cucchiaio, era tenente ma faceva tutto quanto gli veniva ordinato senza avan­zare alcun diritto, lo sentivo ritornare dalle lunghe ore di guardia notturna fra un clima impossibile, senza un lamento. Sempre pronto a descrivere con umorismo le cose più insopportabili come la fame, la pioggia, il freddo. Mentre ci avviavamo per dare il cambio alla pattuglia che stava presso una mitraglia sul monte di Archia (erano circa le due del pomeriggio e dalle due di notte eravamo in cammino) mi disse che se fossi andato a Milano lo avrei trovato sempre in pantofole, anche i suoi piedi erano pressoché laceri. Arrivati al punto stabilito trovammo soltanto i segni della postazione; fummo presi dal primo dubbio e ci avviammo verso la cima, certi che la pattuglia si fosse trasferita lassù. Io rimasi indietro qualche minuto e quando raggiunsi il gruppo egli era già presso l’arma con il moschetto puntato. Tutti erano calmi ma ciò che mi stupì fu il suo atteggiamento non solo calmo, ma come al solito pacifico. Sicuro di se stesso si accingeva a compiere l’estremo dovere.
Poi durante la sparatoria un compagno gridò: «Pascoli è ferito!». Pascoli non era ferito, era morto, questo potei constatare quando con un altro cercavo di trascinarlo in un luogo riparato. Non riuscimmo a smuoverlo, ebbi la sensazione che nel disperato tentativo si fosse aggrappato a quella terra pur di non abbandonarla. Tre colpi di mitraglia apparivano sulla sua gamba sinistra, certo era stato colpito anche al petto. Egli è rimasto là ad aspettarci. Come fu semplice nella vita, con semplicità seppe affrontare il sacrificio."
[NOTE]
[i] Resistenza Unita 11/1999 p. 6 e Nuova resistenza Unita 11/2007 p. 8.
[ii] Resistenza Unita 2/1970 p. 5-15. In alcuni testi il nome è erroneamente riportato come Ceccarini o Ceccarelli.
[v] Il dolore di avervi dovuto lasciare, Milano 2014, p. 21.
[vii] Paolo Bologna: “Cronaca di una fuga” in Sentieri della Ricerca, n. 6, 2° semestre 2007, p. 18.
[viii] Cfr. E. Massara, Antologia dell’Antifascismo e della Resistenza Novarese, Novara 1984 p. 377-379 e R. Rues, SS-Polizei. Ossola-Lago Maggiore 1943-1945, Insubria Historica, Minusio (CH) 2018.
[ix] I giorni della semina, Tararà 2005, p. 129-130.
[x] Fuori legge??? Dal diario partigiano alla ricerca storica, Tararà 2012 p. 131-132.
[xi] “Arnaldo Ceccherini. Dalla lettera di un soldato del «Tenente Pascoli»”, in Ossola insorta, Milano 23.09.1945.
Redazione, Arnaldo Ceccherini “Tenente Pascoli” caduto in difesa dell’Ossola Liberata, fractaliaspei. Frammenti silmilari di speranza, 21 ottobre 2024               

lunedì 28 aprile 2025

Solamente nel Comune di Valdobbiadene furono arrestati sette partigiani


Come già più volte sottolineato, in seguito alla pianurizzazione molti partigiani ritornarono dalle loro famiglie: una scelta azzardata, proprio nel momento di maggior forza dei nazifascisti; oltretutto, l'arrivo della Decima Mas a Valdobbiadene ed in alcuni paesi geograficamente strategici della sinistra Piave rese ancor più vulnerabile un movimento partigiano già fragile.
È inoltre importante precisare che, nell'inverno 1944-1945, un nuovo nemico era alle porte: i sempre più numerosi partigiani arrestati, disposti a tutto pur di salvare sé stessi. Sul confine tra la vita e la morte, nulla per loro aveva più importanza: fornire informazioni sul movimento partigiano e sui compagni divenne l'unica ancora di salvezza. In ragione di ciò, tra il dicembre 1944 ed il gennaio 1945, la Mazzini venne ripetutamente ferita: vertici militari e partigiani territoriali caddero per mano nemica.
Solamente nel Comune di Valdobbiadene, nei primi venti giorni di dicembre sette partigiani furono arrestati e, tra questi, tre rilasciati, quattro uccisi in seguito a delazione "amica". Si trattava di Italo (Zebra) e Romolo Bortolin, Isidoro Geronazzo dei "Batistèla" (Troi), Virginio Dorigo (Bruna), Ferruccio Nicoletti (Brich), Alberto Bortolin dei "Romolet" (Feroce) e Bernardino Vidori dei "Teloni" (Sauro) <129. In quel mese un solo partigiano perse la vita durante il primo rastrellamento condotto senza soffiate dal Battaglione N.P. della Decima Mas: il ventiquattrenne segusinese Gino Coppe (Grava), gravemente ferito l'11 dicembre 1944 a Segusino, perì il giorno successivo presso l'ospedale militare di Valdobbiadene <130.
Il 19 dicembre 1944 Francesco Sabatucci (Cirillo), comandante eroico nella zona di Pieve di Soligo, veniva ucciso a Padova. Il 25 ed il 26 gennaio 1945 a Pianezze di Miane ed a Pieve di Soligo cadevano altri due leader della Mazzini: Dionisio Munaretto (Danton) ed "Amedeo". Ultima vittima di spicco fu il medico Mario Pasi (Montagna): commissario della Mazzini e, provvisoriamente, del Comando Zona Piave, arrestato il 9 novembre 1944 e, dopo quattro mesi di torture, impiccato il 10 marzo 1945 presso la località Bosco delle Castagne, a meno di 10 chilometri da Belluno, insieme ad altri nove partigiani <131.
Come conseguenza di queste perdite, la Mazzini fu la Brigata della Divisione Nannetti maggiormente danneggiata dal rastrellamento del Cansiglio. Il Comando della Mazzini dovette essere completamente ripristinato e, in assenza di personalità locali di rilievo, nel febbraio 1945 (attorno al giorno 20) furono nominati comandante militare, vicecomandante e commissario politico tre partigiani sino ad allora attivi nel Bellunese: Paride Brunetti (Bruno), già comandante della Brigata Gramsci, l'altro gramsciano Egildo Moro (Romo) ed Eliseo Dal Pont (Bianchi), commissario politico della Brigata dell'Alpago "Fratelli Bandiera" ed uno dei primi membri del distaccamento Tino Ferdiani con "Bruno" ed "Amedeo". Capo di Stato Maggiore, al posto del deceduto "Marco", fu scelto Tiziano Canal (Mirko), giunto dalla Brigata Cairoli, afferente al Gruppo Brigate Vittorio Veneto. Il nuovo Comando fu affiancato da un numero significativo di fedelissimi non locali: i vittoriesi Domenico Bet (Monello), Arturo De Conti (Tarzan), Bruno Tonon (Bepi) ed il bellunese Enrico Piccolotto (Nevio) <132.
Ad eccezione di "Bruno", che, volutamente, lasciò Valdobbiadene per Belluno subito dopo la Liberazione (intorno al 4 maggio 1945), le altre sette persone, indirizzate dal nuovo Comandante militare Beniamino Rossetto (Mostacetti), saranno le "menti" ed i principali esecutori della "resa dei conti" mazziniana <133.
Elio Busato ("Nagy", poi "Nagi Niccoli"), Comandante della Brigata Tollot sino al grande rastrellamento del Cansiglio, dopo la partenza di "Mostacetti" (seconda metà del maggio 1945) fu chiamato a guidare la Mazzini. Liberato dal campo di concentramento di Bolzano ai primi di maggio del 1945, Lino Masin (Nardo) affiancò Busato come nuovo commissario politico della medesima Brigata, in seguito alla partenza di "Bianchi" (20 maggio 1945) <134.
[NOTE]
129 BIZZI, Il cammino di un popolo, vol. II, cit., p. 244.
130 AISRVV, II sez., b. 64, f. 3 sf. 1 Pratiche per pensioni di guerra, doc. 34; Archivio della Parrocchia di Segusino, Registro dei morti (1936-1961), anno 1944; ASDPd, b. Guerra 1940-1945: Relazioni parrocchiali, f. Vicariato di Quero, sf. Parrocchia di Segusino, Relazione di don Agostino Giacomelli, s. d.; BIZZI, La Resistenza nel Trevigiano, vol. II, cit., p. 13.
131 ACASREC, b. 57, Archivio CRV, f. Documenti vari schedati, sf. Relazione sull'attività militare svolta dalle Brigate della Divisione "N. Nannetti" dal mese di dicembre 1943 al mese di maggio 1945; AISRVV, II sez., b. 64, f. 3 sf. 1 Pratiche per pensioni di guerra, doc. 75, 94 e 121; BIZZI, Il cammino di un popolo, vol. II, cit., p. 251; BRESCACIN, Immagini della Resistenza nel Vittoriese, cit., p. 59; LANDI, Rapporto sulla Resistenza nella Zona Piave, cit., pp. 138-139; MASIN, La lotta di Liberazione nel Quartier del Piave, cit., pp. 144-145. N.B. Mario Pasi (Montagna) e Francesco Sabatucci (Cirillo) furono decorati di medaglia d'oro alla memoria, a Dionisio Munaretto (Danton) fu attribuita la medaglia di bronzo.
132 BIZZI, La Resistenza nel Trevigiano, vol. II, cit., p. 14; BRESCACIN, Immagini della Resistenza nel Vittoriese, cit., pp. 58-59; MASIN, La lotta di Liberazione nel Quartier del Piave, cit., pp. 76-77; MELANCO, Annarosa non muore, cit., p. 113; testimonianza di Sante Guizzo (Saetta) in BIZZI, La Resistenza nel Trevigiano, vol. II, cit., p. 70.
133 Cfr. il Rapporto n. 52 del Maresciallo Maggiore della Stazione dei Carabinieri di Valdobbiadene Giuseppe Sotgiu, depositato presso la Procura della Repubblica di Treviso il 17 giugno 1950 ed attualmente conservato presso la Procura Militare della Repubblica di Verona, oppure si veda una qualsiasi sentenza marziale, emessa dalla Comando della Brigata Mazzini in AISRVV, II sez., b. 64, f. 6, sf. 1 Sentenze.
134 ASCV, Cat. VIII, Leva e Truppa (1943-1950), f. anni 1946-1948, sf. Anno 1946, si veda il doc. Brigata Mazzini - Componenti il Comando di Brigata.
Luca Nardi, Storie di guerra: Valdobbiadene e dintorni dal gennaio 1944 all'eccidio del maggio 1945, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 2016

domenica 20 aprile 2025

L'operazione antimafia Crimine-Infinito

Fonte: Pierpaolo Farina, Op. cit. infra

La svolta: l'operazione Crimine-Infinito
L'alba del 13 luglio 2010 fu l'inizio di una nuova consapevolezza per Milano. Da quel giorno, nulla sarebbe stato come prima. Quella mattina le redazioni dei giornali vennero allertate da un comunicato della Procura che dava notizia di un'imponente operazione antimafia tra Milano e Reggio Calabria, dando appuntamento ai cronisti per la relativa conferenza stampa al Palazzo di Giustizia del capoluogo milanese. Presenti, a testimoniare l'importanza di quel lavoro congiunto tra le due procure, anche l'allora Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, i capi delle due Procure e il Procuratore Generale milanese Manlio Minale, oltre agli aggiunti titolari dell'inchiesta.
Con 154 arresti in Lombardia e 156 in Calabria, nell'operazione Crimine-Infinito per la prima volta venne accertata in maniera inequivocabile la tendenziale unitarietà della 'ndrangheta, pur nella sostanziale autonomia delle singole articolazioni territoriali, in un modernissimo e difficile equilibrio tra centralismo delle regole e dei rituali e decentramento delle ordinarie attività illecite.
Il filone lombardo, Infinito, era stato coordinato dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai sostituti procuratori milanesi Alessandra Dolci, Paolo Storari, Alessandra Cecchelli e dal sostituto procuratore di Monza Salvatore Bellomo, mentre la direzione del filone calabrese, Crimine, era stata affidata al procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale antimafia di Reggio Calabria Nicola Gratteri, al procuratore capo Giuseppe Pignatone e al procuratore aggiunto Michele Prestipino.
La sinergia tra le due Direzioni Distrettuali antimafia permise di accertare in maniera inequivocabile la struttura verticistico-orizzontale della 'ndrangheta, al cui vertice si trovava (e si trova) il Capo-Crimine, spazzando via la convinzione ultra-decennale di inquirenti e studiosi sulla struttura fluida e orizzontale dell'organizzazione calabrese, secondo cui ogni 'ndrina agiva in maniera autonoma l'una dall'altra.
Lo scenario descritto dall'operazione, infatti, era invece completamente diverso: non solo vi era una presenza radicata in tutti e cinque i continenti, ma anche un fortissimo legame con la «madrepatria», rinsaldato con la riunione annuale dei vertici in occasione della processione della Madonna di Polsi, alla fine di agosto. Il Capo-Crimine, ai tempi dell'inchiesta individuato nella persona di Domenico Oppedisano, fungeva da autorità morale e garante delle regole interne dell'associazione, ma non aveva i poteri di capo che aveva ad esempio Totò Riina all'interno di Cosa nostra.
In Calabria, l'operazione mostrò il consolidamento dei tre mandamenti - quello Tirrenico, quello Centrale e quello Jonico, composti da diverse locali - coordinate da una sorta di cupola, denominata la Provincia o il Crimine, che ha il pieno potere sulle 'ndrine che operano in Italia e all'estero, soprattutto per quanto attiene al narcotraffico e agli appalti pubblici. Secondo gli investigatori, le 'ndrine di Reggio Calabria erano il centro propulsore delle iniziative dell'intera organizzazione mafiosa, nonché il punto di riferimento di tutte le proiezioni extraregionali, nazionali ed estere.
Milano e la Lombardia, terra di conquista
La duplice inchiesta mostrava anzitutto una cosa: la conquista di Milano e della Lombardia non era avvenuta dalla finanza, ma dai territori, che avevano accettato e normalizzato la presenza mafiosa, anziché espellerla dal ricco tessuto socio-economico della regione.
Le indagini inoltre confermavano quanto era già emerso negli anni '90, cioè la centralità di Milano e delle altre province lombarde nello scacchiere 'ndranghetista, con un'ulteriore conferma giudiziaria: la persistenza di una Camera di Controllo, denominata La Lombardia, che serviva a coordinare le locali lombarde <1050.
L'esistenza di questa struttura intermedia di coordinamento emergeva già nell'indagine Nord-Sud, con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Saverio Morabito sugli affari e le vicende della locale di Buccinasco, all'epoca retta da Antonio Papalia, che come abbiamo visto gestiva insieme a Toni Carollo il traffico di stupefacenti nel «quadrilatero della droga» milanese. Già allora Morabito riferì agli inquirenti di aver appreso da Domenico Papalia che il fratello Antonio era il responsabile di tutte le locali lombarde, con la funzione di dirimere i contrasti <1051.
Parallelamente, anche nell'indagine calabrese Armonia si dava conto della lunga conflittualità tra la Lombardia e la «casa madre» calabrese, per via del fatto che per lungo tempo i vertici della 'ndrangheta si erano rifiutati di riconoscere pari valore alle doti concesse dalla struttura di coordinamento rispetto a quelle concesse direttamente da Reggio Calabria, finché in un summit tenutosi a Montalto, in Aspromonte, venne assicurata pari dignità agli affiliati insigniti al nord <1052.
Dunque, non sorprendeva l'esistenza di una camera di controllo bensì il fatto che esistesse almeno dal 1984, presieduta da Giuseppe Pino Neri <1053, e che avesse continuato ad operare anche negli anni dell'inabissamento a seguito delle migliaia di condanne rimediate al termine dei processi degli anni '90.
Le locali lombarde
Le indagini del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Monza partirono il 30 ottobre 2006 a seguito di una notizia confidenziale su una presunta importazione in Italia di un grosso carico di stupefacenti organizzata da Rocco Piscioneri e Alfredo Scarfò, sui quali gli inquirenti avevano già svolto indagini nell'ambito dell'Operazione Tequila <1054.
Dopo quattro anni di indagini, il filone lombardo permise di scoprire ben 16 locali nelle città di Milano, Bollate, Bresso, Cormano, Corsico, Legnano, Limbiate, Solaro, Pioltello, Rho, Pavia, Canzo, Mariano Comense, Erba, Desio e Seregno <1055. Ogni locale, con la sola eccezione di Rho, rispondeva a una propria locale madre in Calabria, mentre tutte erano coordinate dalla Camera di Controllo della Lombardia, in cui avevano rivestito un ruolo di vertice, nel corso del tempo, Cosimo Barranca (fino al 15 agosto 2007), Carmelo Novella (dal 15 agosto 2007 fino al giorno del suo omicidio, il 14 luglio 2008) e Pasquale Zappia (dal 31 agosto 2009 fino al blitz dell'operazione).
Il vertice della Lombardia era deputato a concedere agli affiliati «cariche» e «doti», secondo gerarchie prestabilite e mediante cerimonie e rituali tipici dell'associazione mafiosa, come per esempio la partecipazione a riunioni e/o incontri.
Le intercettazioni ambientali accertarono anche che il numero di locali scoperte era decisamente più basso rispetto a quelle realmente esistenti, come dimostrava un dialogo tra due affiliati, Saverio Minasi e Vincenzo Raccosta: «qua siamo venti "locali" siamo cinquecento uomini Cecè, non siamo uno... Cecè vedi che siamo cinquecento uomini qua in Lombardia, sono venti “locali” aperti» <1056.
Altre locali furono scoperte nell'ambito di successive operazioni antimafia (come Calolziocorte, Cermenate e Fino Mornasco <1057), fino a un totale odierno di ben 25 locali attive <1058.
[NOTE]
1050 Andrea Ghinetti, Ordinanza di applicazione coercitiva con mandato di cattura - Procedimento Penale n. 43733/06 R.G.N.R., Tribunale di Milano - Ufficio GIP, 5 luglio 2010, p.64
1051 Ivi, pp. 64-65.
1052 Ivi, p. 65.
1053 Ivi, p. 72.
1054 Ibidem
1055 Ibidem
1056 Ibidem.
1057 Furono scoperte nell'ambito dell'operazione Insubria del 18 novembre 2014, considerata la «prosecuzione - effettiva non solo ideale - della nota operazione “I fiori della Notte di San Vito”», come si legge a p. 21 nell'ordinanza di custodia cautelare (LUERTI, S. (2014). Ordinanza di applicazione di misure cautelari -Procedimento Penale n. N. 45730/12 R.G.N.R., Tribunale di Milano - Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, 14 novembre).
1058 Direzione Investigativa Antimafia (2020), Relazione Semestrale al Parlamento - II semestre 2019, p. 478.
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020 

domenica 13 aprile 2025

I fascisti romani nella scuola dei primi anni Settanta appaiono lontani da quelli di vent'anni prima


Contrariamente al vecchio RGSL [Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori], il FdG fu inoltre pensato come strumento di formazione politica, dal momento che tra i compiti che svolse si trova l'organizzazione di corsi annuali di aggiornamento politico per i dirigenti giovanili. Si venne a realizzare insomma quell'opera di formazione di quadri che Rauti ed i suoi andavano chiedendo negli anni Cinquanta, e non appare un caso che con il rientro dei rautiani si sia proceduto a tale ristrutturazione del settore giovanile. È interessante l'articolazione che venne prevista nello statuto per la “corporazione studentesca”, il principale dei due organismi dell'organizzazione “d'ambiente”. Oltre ad un fiduciario nazionale ed un fiduciario provinciale (speculari alla struttura di fondo del FdG) erano previsti dei nuclei d'istituto, costituiti “in tutti gli istituti e le scuole di istruzione secondaria in cui il Fronte della Gioventù annoveri non meno di cinque iscritti” a loro volta organizzati da un fiduciario di istituto e da uno di sezione o di classe <117. Vi si riscontra una ricerca di profondità in quanto alla penetrazione nel mondo scolastico, rispondente sia alla gestione sostanzialmente fallimentare della presenza nell'ambito universitario, sia all'elezione della scuola a luogo specifico di “raccordo tra la dimensione nazionale dello scontro fra neofascisti ed estrema sinistra e la sua diffusione a livello locale” <118.
Nel citato appunto del novembre 1971, viene osservato che nei primi mesi di esistenza del FdG, la sua attività era rimasta circoscritta ai tentativi di “richiamare l'attenzione degli studenti sulla necessità di frequentare responsabilmente le lezioni, respingere i tentativi di strumentalizzazione politica dell'estrema sinistra ed isolare le provocazioni “rosse”” <119. La nuova struttura attivistica giovanile, in sostanza, si mise nella posizione del tutore dell'ordine scolastico, andando anche ad inviare lettere a presidi e professori in cui offriva in tal senso la sua collaborazione, ma assicurando, allo stesso tempo, la disponibilità a “contrastare la violenza comunista” <120. La disponibilità a fare da contraltare alla “violenza comunista”, tuttavia, oltre ad essere in evidente contraddizione con il proposito di porsi come garanti della regolarità della vita scolastica, cozzava con la realtà di una popolazione studentesca in generalizzato fermento, in cui i giovani neofascisti si trovarono in una situazione di costante inferiorità numerica rispetto a quelli di sinistra, finendo per “subire quotidiane violente rappresaglie e soprusi, al limite del linciaggio, al punto che non furono pochi quelli che dovettero abbandonare le scuole pubbliche per iscriversi agli istituti privati” <121.
Soprattutto a partire dall'anno scolastico 1972-1973 si riscontra nelle scuole romane di diverse zone della città un crescendo di scontri tra studenti di sinistra e di destra. Nei mesi di ottobre, novembre e dicembre del 1972 la Questura segnalò due dozzine di scontri tra studenti nei licei classici Dante Alighieri e Tacito, in Prati, Augusto, all'Appio-Tuscolano, Giulio Cesare, al Trieste-Salario, Lucrezio Caro e Mameli, ai Parioli, Orazio, a Montesacro, Visconti e Virgilio, al centro, e Vivona, all'EUR; nei licei scientifici Plinio Seniore e Benedetto Croce, a Castro Pretorio e Malpighi, alla Pisana; e negli istituti tecnici industriali Giovanni XXIII, a Tor Sapienza e Genovesi, ai Parioli <122. Tra le dinamiche di questi scontri, può notarsi che non infrequentemente essi originavano dalla volontà di ostacolare i volantinaggi del Fronte della Gioventù, di concedere la parola ai fascisti nelle assemblee o di impedirne l'ingresso stesso nelle scuole. A metà novembre, ad esempio, la didattica venne sospesa per tre giorni al liceo Orazio in seguito all'iniziativa di "un gruppo di estremisti di sinistra [che] dopo aver tenuto un collettivo, effettuavano un corteo. Quindi una delegazione di partecipanti al corteo si faceva ricevere dal preside al quale avanzava la proposta di espellere dall'istituto tre studenti “perché di estrema destra”. Successivamente gli stessi estremisti di sinistra uscivano dall'edificio intenzionati ad aggredire elementi di estrema desta che sostavano nelle vicinanze del liceo […] Il giorno 16 quasi tutti gli studenti entravano nel liceo, ma l'attività didattica rimaneva completamente paralizzata da assemblee e collettivi, svoltisi ad iniziativa di estremisti di sinistra sul tema: “Fuori i fascisti dal liceo Orazio”" <123.
I fascisti romani nella scuola dei primi anni Settanta appaiono lontani da quelli di vent'anni prima, forti della baldanza degli irriducibili sconfitti. Egualmente disposti allo scontro, gli studenti della nuova generazione sembrano tuttavia impreparati a sostenerlo, nella necessità di mantenere il contraddittorio equilibrio tra l'opposizione frontale ai rossi e le indicazioni di rispettabilità impresse dal nuovo corso almirantiano. Ancora nel dicembre 1973 il SID informò di una riunione del FdG tenutasi a Roma in cui si era sottolineata la necessità di far sentire la propria presenza nelle scuole, settore che nella riunione venne definito “dominato dall'attivismo di sinistra” <124. Ma già con l'inizio del nuovo anno scolastico, nell'ottobre 1973 la Questura aveva annotato cinque pestaggi individuali a danno di tre studenti di destra al Virgilio e due nei pressi del Giulio Cesare <125. Colpiscono particolarmente questi ultimi due, avvenuti il 13 ottobre, quando all'uscita di scuola, a distanza di pochi isolati e di un quarto d'ora, due studenti vennero presi a bastonate da parte di studenti della sinistra rivoluzionaria (verosimilmente lo stesso gruppo), dopo che la mattina alle ore 8 un gruppo di studenti della sinistra rivoluzionaria e di quella parlamentare, si appostavano davanti all'ingresso del liceo “Giulio Cesare” per impedire l'accesso nell'istituto a studenti ritenuti di destra.
"Alle ore 8,15 un vivace tafferuglio si verificava quando questi ultimi tentavano di entrare nell'istituto. […] Successivamente alle 10,30 gli studenti di sinistra tenevano, nell'interno del liceo, un'assemblea, durante la quale si discuteva sul fascismo “come arma della borghesia e del padronato per stroncare i processi di crescita anticapitalistica all'interno della classe operaia”" <126.
Per tutto l'anno scolastico 1973-74, con maggiore frequenza rispetto all'anno precedente e con un crescente ricorso all'uso di armi improprie (principalmente bastoni di legno, spranghe di ferro, catene, martelli, pistole lanciarazzi e, in qualche caso, bottiglie molotov), si susseguirono incidenti nelle scuole romane: pestaggi di studenti fascisti, in quanto tali o perché sorpresi a volantinare <127, schieramenti per impedirne all'accesso nelle scuole <128, risse <129 e qualche aggressione alla sede del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna o ad altre sezioni missine <130.
Non sorprende il fatto che durante il quarto corso di aggiornamento politico per i dirigenti organizzato dal FdG nel settembre del 1974, nell'ambito della presentazione dei Nuclei d'istituto (previsti, come detto, all'atto di fondazione del Fronte), venisse diffuso una sorta di manuale di comportamento per l'attivismo nelle scuole, nell'ottica di una necessaria razionalizzazione dello scontro <131. Colpisce piuttosto che in esso, parallelamente all'invito allo sviluppo di un attivismo frontale nelle scuole tradizionalmente rosse, venisse previsto che i militanti missini dovessero imparare a “cavarsela da soli” in caso di incidenti, senza ricorrere, come in passato, al supporto di soggetti estranei all'ambiente scolastico di provenienza. Si tentava cioè di forgiare una nuova componente attivistica in grado di reggere lo scontro con gli studenti di sinistra. Ciò che tuttavia rese inattuabile tale intendimento era la percezione della stessa presenza dei fascisti all'interno delle scuole come provocatoria nei confronti di un movimento studentesco avviato a passo deciso verso assunti rivoluzionari. Già tra l'ottobre 1970 ed il gennaio 1971 l'allora quindicinale «Lotta Continua» pubblicò un servizio incentrato sul neofascismo romano (soprattutto su Avanguardia Nazionale) in cui era suffragata questa percezione, oltre che pericolosamente indicati nominativi ed indirizzi di diversi militanti di destra <132.
[NOTE]
117 M. Anderson, I percorsi della destra, cit., pp. 84-85.
118 G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., p. 154.
119 ACS, MI, PS, Cat. G (1944-1986), b. 325, fasc. “Azione Giovani (Fronte Nazionale della Gioventù)”, s.fasc. “Affari generali”, Appunto s.i., MSI - “Fronte della Gioventù”, 25/7/1973, allegato n. 1, appunto s.i., MSI - Costituzione del “Fronte della Gioventù”, 25/11/1971.
120 Ibidem.
121 G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., pp. 160-161.
122 Cfr. ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 52, fasc. “Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali. Statistica. Relazioni”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese
di ottobre 1972, 10/11/1972, pp. 72, 74, 76-83; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1972, 12/12/1972, pp. 104, 107, 109-111, 114; ivi, rapporto della
DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di dicembre 1972, 11/1/1973, pp. 84, 86.
123 Ivi, apporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1972, 12/12/1972, pp. 110-111.
124 ACS, MI, PS, Cat. G (1944-1986), b. 325, fasc. “Azione Giovani (Fronte Nazionale della Gioventù)”, s.fasc. “Roma”, circolare del SID s.n., 3/12/1973.
125 ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 51, fasc. “Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali. Statistica. Relazioni (1° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di ottobre 1973, 9/11/1973, pp. 51-54.
126 Ivi, pp. 52-53.
127 Cfr. ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, 7/2/1974, pp. 59, 63, 67; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti
riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, 6/4/1974, pp. 66, 75.
128 Cfr. ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, cit., p. 62; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, cit., pp. 65, 72, 75-76. In uno di questi rapporti, viene osservato con un certo sarcasmo che l'estromissione degli studenti di estrema destra dallo scientifico Benedetto Croce del 26/3/1974, durante la quale una studentessa del Fronte della Gioventù venne mandata al pronto soccorso, e a cui seguì l'occupazione della sede del liceo, venne effettuata “asseritamente in segno di protesta contro le “violenze fasciste””. Cfr. ivi, p. 72.
129 Cfr. ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di ottobre 1973, cit., p. 54; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1973, cit., p. 47; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, cit., p. 63; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, cit., pp. 71, 75; ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 53, fasc. “O.S.P. Incidenti - manifestazioni politiche (2° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di aprile 1974, 13/5/1974, pp. 69-70.
130 Cfr. ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 51, fasc. “Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali. Statistica. Relazioni (1° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1973, cit., p. 50; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, cit., p. 68; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, cit., pp. 72, 76; ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 53, fasc. “O.S.P. Incidenti - manifestazioni politiche (2° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di aprile 1974, cit., p. 64.
131 Il Nucleo d'Istituto: organizzazione e metodologia, Fronte della Gioventù, IV Corso di aggiornamento politico per dirigenti, Ostia (Roma), 19-22 settembre 1974, citato in G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., p. 160.
132 Rapporto sullo squadrismo. Chi sono, chi li comanda, chi li paga, in «Lotta Continua», a. II, nn. 18-21. 15/10/1970, 29/10/1970, 12/11/1970, 24/11/1970 e a. III, n. 2, 29/1/1971.
Carlo Costa, "Credere, disobbedire, combattere". Il Neofascismo a Roma dai FAR ai NAR (1944-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia - Viterbo, 2014