Powered By Blogger

sabato 6 luglio 2024

Dopo la fine della guerra Tito voleva conquistare il nostro partito non solo a Trieste, ma nel Friuli e altrove


Nei giorni del viaggio di Nikita Chruščëv a Belgrado (maggio 1955), che doveva sancire la ricomposizione della frattura tra l’Urss e la Jugoslavia <148, la direzione del Pci motivava il suo assenso al nuovo indirizzo dimostrando piena comprensione del significato dei passaggi internazionali in atto. Fatto per nulla casuale, dell’incontro di Belgrado si parlò in un tutt’uno con la stipula del trattato di Stato austriaco <149. Mentre Scoccimarro dava fondo a tutte le riserve di continuismo marxista-leninista per spiegare il voltafaccia sovietico verso Tito (“Non si tratta di una nuova politica ma di fasi nuove della politica di pace dell’Urss”), Longo si concentrava sull’esigenza di “combattere la tendenza a recriminare” <150.
Ma non passarono neppure cinque giorni che Vidali ritenne di far conoscere pubblicamente i perché e la misura delle sue rabbiose recriminazioni. Lo fece con un gesto politicamente disperato, che alla radice racconta, oltre i suoi contenuti più immediati, lo smarrimento e lo scompiglio in cui era stato gettato il mondo comunista dopo la morte di Stalin. Nell’articolo "La dichiarazione del comp. Kruscev ed i comunisti triestini", comparso sul ‘Lavoratore’ il 30 maggio, dapprima egli dichiarava che il suo partito aveva “salutato con gioia” l’incontro tra Tito e il neosegretario del Vkp(b), condividendone gli obiettivi. Poi però, piuttosto contradditoriamente, si lanciava in un attacco inaudito contro Chruščëv, che nel suo discorso al cospetto di un compiaciutissimo Tito aveva rinnegato le risoluzioni del Kominform del 1948 e 1949, scaricando ogni responsabilità per le accuse allora formulate su Beria e Abakumov (vittime della recente resa dei conti nel gruppo dirigente sovietico poststaliniano). Affermava Vidali: "La nostra sorpresa per questa affermazione è stata enorme ed ha scosso il nostro partito come la bora scuote i nostri alberi. Tutti sanno che il nostro partito e tutti i democratici triestini, italiani e slavi, all’annuncio della risoluzione dell’Ufficio d’informazione manifestarono la loro gratitudine in forma clamorosa ed unanime. Essa rifletteva una situazione che da anni perdurava nel nostro territorio. Un documento simile, nelle sue parti fondamentali, si elaborava da anni nelle menti di tutti noi, sulla base delle esperienze, di ciò che si vedeva e si udiva, di ciò che si faceva e che si era obbligati a fare. Tutti noi eravamo convinti da tempo che non era marxismo-leninismo quello che si applicava nel nostro territorio, ed anche nel Paese vicino […]. Era sfrenato nazionalismo camuffato da socialismo, avventurismo, settarismo, terrorismo politico e fisico. Noi avallammo quella risoluzione […] con nostre sofferenze, con nostre esperienze, senza interventi di un Beria e di agenti dell’imperialismo. […] Perciò noi non possiamo solidarizzare con la dichiarazione del compagno Kruscev e sebbene siamo profondamente addolorati e dispiaciuti di questa divergenza di giudizio preferiamo esprimere francamente la nostra opinione perché siamo convinti che essa, almeno per le nostre esperienze, corrisponde alla verità obiettiva. Sia chiaro per tutti che se nel giugno del 1948 noi fossimo stati convinti - perché le relazioni del nostro partito con il partito jugoslavo erano strettissime e di dipendenza assoluta - che in Jugoslavia, che nella zona B si praticava il socialismo […] l’atteggiamento dei comunisti triestini sarebbe stato differente. Quell’atteggiamento fu meditato, cosciente e non un puro atto di cieca disciplina. […] Se essere pagliacci, settari, cocciuti dannosi, testardi incorreggibili significa avere principii, carattere, dignità, onestà politica e morale, ebbene allora dichiariamo di non sentirci offesi da tali aggettivi. Preferiamo essere tutte queste cose piuttosto che dei venduti e dei mercenari" <151. In margine all’articolo, era pubblicata una nota del Cc del PcTT che dichiarava di sentirsi “fier[o] delle lotte combattute in questi ultimi anni per ricostruire il partito sulle basi del marxismo-leninismo-stalinismo” <152.
In conversazioni interne con i dirigenti nazionali, Vidali si difendeva raccontando che nel corso di un soggiorno a Mosca in aprile era stato informato sui preparativi del viaggio di Chruščëv, ma nessuno aveva accennato a un rovesciamento di politica tanto grossolano; anzi era stato messo in guardia dalle manovre disgregatrici che i titini avrebbero ripreso nei confronti del suo partito e del Pci, ricevendo la direttiva di “difendersi con fermezza” <153. Non che i membri della segreteria a Roma fossero insensibili alla minaccia di un rilancio dell’attività eversiva dei comunisti jugoslavi nel loro partito. Scoccimarro espresse timori condivisi da Longo e prospettati anche da Pellegrini in direzione, quando affermò: “Dopo la fine della guerra Tito voleva conquistare il nostro partito non solo a Trieste, ma nel Friuli e altrove. Non è escluso che essi riprendano ora i loro tentativi, ma noi daremo battaglia” <154. Ma il punto, come rilevò ancora Scoccimarro rivolgendosi a Vidali e ad altri rappresentanti del PcTT, era che “malgrado la vostra autonomia la responsabilità del vostro partito ricade su di noi” e “non è concepibile che si prenda posizione contro il Pc dell’Unione Sovietica” <155.
Di fronte a simili assunti, le argomentazioni di Vidali non avevano modo di fare breccia. Convocato in segreteria a Roma, addusse con toni drammatici che nella zona B “continua la snazionalizzazione con metodi nazisti”, che “fin dall’agosto 1947 dichiarai che erano una banda di nazionalisti e rimasi a Trieste solo dietro vostra insistenza”, che ora i titini volevano la testa sua e degli altri dirigenti più compromessi nella lotta kominformista (Maria Bernetich) per “conquistare il comune […] e poi riporre il problema del passaggio di Trieste alla Jugoslavia” <156. Anche questa sua autodifesa, appassionata ma inevitabilmente perdente, rivelava una richiesta ormai esasperata di protezione, emessa da un organo dipendente al proprio centro politico. Vidali aveva tentato più volte di condizionare e anche di modificare la posizione del centro in relazione alle esigenze del suo partito, e dal 1948 si era adeguato alle istruzioni provenienti da Roma con qualche riluttanza politica, ma sempre con sostanziale lealtà ideologica. Aveva operato in condizioni locali avverse, che risentivano del grave retaggio lasciato dalla linea seguita dal movimento comunista a Trieste prima del suo arrivo; tuttavia era riuscito largamente a compattarlo, mantenendo unitaria la sua base binazionale e preservando la maggioranza degli sloveni comunisti dalle suggestioni panjugoslave promanate dagli avversari titini. Aveva ripristinato l’allacciamento con il Pci puntando tutto sul richiamo della fedeltà sovietica, e ora il suo lavoro rischiava di essere spazzato via. I comunisti titini avevano sempre potuto contare sul forte sostegno di Lubiana e Belgrado; Vidali pretendeva, così come aveva preteso in passato, di ricevere un sostegno pari da Roma, che forse in questi anni gli era parsa paradossalmente più lontana di Mosca.
Ma la vittoria di Tito nella circoscritta ‘guerra fredda’ combattuta nel campo socialista tra l’Urss e la Jugoslavia imponeva a lui e al PcTT di rassegnarsi. Come disse un suo sconsolato delegato, dopo la visita di Chruščëv a Belgrado esso non era più che un “distaccamento sacrificato del comunismo internazionale” <157. Nella doppia seduta di segreteria del 7 e 8 giugno 1955, si consumò la messinscena di un processo politico nel perfetto stile della terza internazionale. L’accusa, pronunciata con particolare veemenza da Edoardo D’Onofrio e da Pajetta, era quella di aver commesso un “errore dal punto di vista della disciplina, del costume comunista”, di aver dato “prova di malcostume politico”, essere “venuti meno alla solidarietà del movimento comunista internazionale”, aver compiuto insomma una “porcheria” e una vera e propria “provocazione” (specie in riferimento, notava con arguzia Pajetta, all’accenno di Vidali alle “basi del marxismo-leninismo-stalinismo”) <158. In più tappe, fu redatta una dichiarazione di pentimento totale che Vidali, malgrado le proteste <159, fu costretto a firmare e portare a Trieste per ottenere l’approvazione del Cc del suo partito <160.
Il rito dell’autocritica poteva dirsi completato.
[NOTE]
148 L.M. Lees, Keeping Tito Afloat: the United States, Yugoslavia, and the Cold War, Pennsylvania State University Press, University Park, Pa. 1997, pp. 155 ss.; B Heuser, Western ‘Containment’ Policies in the Cold War: the Yugoslav Case 1948-1953, Routledge, London-New York 1989, pp. 200 ss.; Service, Compagni cit., p. 394.
149 Apc, Fondo M, ‘Verbali della direzione’, riunione del 26 maggio 1955, mf. 195. Valgano per tutti gli interventi di Negarville: “L’esempio dell’Austria e della Jugoslavia dimostra che Paesi con i più diversi sistemi sociali possono convivere con l’Urss”, e di Sereni: “Ciò che importa è che si stanno creando gruppi di Stati in Europa e nel mondo che vogliono restare estranei ai blocchi militari contrapposti”.
150 Ibidem.
151 V. Vidali, La dichiarazione del comp. Kruscev ed i comunisti triestini, ‘Il lavoratore’, 30 maggio 1955.
152 Intensificare la lotta - Respingere la provocazione, ivi.
153 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunione del 7 giugno 1955, Note sulla discussione col Pc di Trieste (riservato), autore Luigi Amadesi, 5 giugno 1955, allegati, b. 324, mf. 194.
154 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunione del 7 giugno 1955, cit. Poco prima, Pellegrini aveva paventato che “i titini potrebbero tentare di rifare la fila della loro organizzazione a Trieste e anche nella provincia
di Udine e pretendere di dirigere il nostro movimento a Trieste”: Apc, Fondo M, ‘Verbali della direzione’, riunione del 28 maggio 1955, cit.
155 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunione del 7 giugno 1955, cit.
156 Ibidem.
157 Note sulla discussione col Pc di Trieste (riservato) cit. L’(in)felice espressione è di Giovanni Postogna.
158 Apc, Fondo M, ‘Verbali della segreteria’, riunioni del 7 giugno 1955, cit. e dell’8 giugno 1955, b. 324, mf. 194. Anche: Gozzini, Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., pp. 384-85.
159 “Non me la sento di accettare la vostra critica di malcostume. Sono rimasto molto scosso della discussione di ieri. In trent’anni di vita politica non ho mai sentito affermazioni così aspre, nei confronti di un compagno come nei vostri discorsi”: ibidem.
160 “Il Cc riconosce francamente che le riserve contenute nell’articolo de ‘Il lavoratore’ sulla dichiarazione del comp. Krusciov costituiscono un grave errore, determinato da un’interpretazione errata e affrettata della dichiarazione stessa, a cui si è stati tratti dalla situazione locale esasperata della lotta che ha diviso per tanti anni il movimento operaio e democratico triestino e dalle provocazioni di chi ha interesse a questa esasperazione. Il modo con cui si è reagito è contrario ai rapporti fraterni e solidali che devono intercorrere tra partiti fratelli, soprattutto quando sono in gioco interessi fondamentali della pace e del movimento democratico e operaio internazionale. Partendo da questa considerazione e ispirandosi agli accordi di Belgrado, i comunisti si impegnano a sviluppare sulla base dei principi marxisti-leninisti la politica del Pc di Trieste, allo scopo di consolidare le posizioni della classe lavoratrice, di rafforzare l’unità antifascista e democratica, di continuare e di cementare la fratellanza italo-slava, ampliando ancora l’azione e le iniziative già prese in questo senso”: ibidem, allegati.
Patrick Karlsen, Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale (1941-1955), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2007-2008