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sabato 30 novembre 2024

Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano [Luciano De Giovanni], 1956 - Fonte: Comune di Diano Marina (IM) cit. infra

Volevo tanto bene a Natta da essermi prefisso di assistere ad ogni costo ai suoi prestigiosi “Lunedì Letterari”, malgrado che si svolgessero nel Teatro dell’Opera del Casinò Municipale [di Sanremo (IM)].

E non soltanto, si capisce, perché sapevo di dargli un piacere - quelle conferenze, alle quali intervenivano valenti scrittori e autorevoli critici non potevano non interessarmi - ma bisogna anche sapere che a quei tempi - si era nel 1958 - io facevo l’idraulico e poteva succedere che proprio durante uno di quegli attesi pomeriggi culturali mi toccasse, per esempio, di dover andare a pulire le stufe di qualche albergo, per cui, scappando poi a casa per lavarmi alla meglio e cambiarmi d’abito, pur giungendo col fiato in gola a occupare una poltroncina in fondo alla sala, non mi trovassi nello stato d’animo ideale per conformarmi di punto in bianco alla sontuosità dell’ambiente, ancora impregnato come mi pareva d’essere di fuliggine e di sudore.
Ma ero giovane e testardo e in quella breve parentesi di brusii e andirivieni che prevedevano l’inizio della conferenza riusciva quasi sempre a rinfrancarmi.
All’apparire sul palco di Natta al fianco del suo illustre ospite, io mi sentivo, ormai, a mio agio; tiravo un sospiro di sollievo e partecipavo allegro ai battimani del pubblico.
Ma Natta, decisamente, insisteva nel chiedermi troppo.
Pretendeva addirittura che, conclusosi il discorso, io lo raggiungessi dietro le quinte e mi facessi coraggiosamente avanti per stringere la mano al celebre personaggio di turno, mentre intanto, Natta, mi presentava.
L’ospite, messo alle strette, doveva pur rivolgermi qualche imbarazzato complimento…
Queste non volute intrusioni in un mondo che non mi toccava finivano con l’opprimermi e me ne tornavo a casa scontento e umiliato, tanto più se m’ero visto costretto a partecipare al rinfresco che concludeva la cerimonia.
[…] Quando ci ritrovammo soli implorai Natta di aver compassione dei miei limiti. Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto, e rinunciavo volentieri ai privilegi che ne derivavano.
[…] Da allora mi godetti il piacere dell’incognito nella mia poltroncina d’angolo, vicina all’uscita, e Natta, quando riusciva ad avvistarmi, mi salutava dal palco con un impercettibile gesto. 

Un lungo ricordo dei “lunedì letterari” apre Il vino schietto dello scrittore Giacomo Natta, omaggio firmato da Luciano De Giovanni per la rivista «Provincia d’Imperia» (14, 1991, pp. 14-15)

Alessandro Ferraro, Aprii, cauto, la porta. L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro,  XXVIII, n° 84, settembre/dicembre 2017


Di Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1921 e morto a Montichiari (Brescia) nel 2001, amici e biografi ci hanno consegnato l’immagine “esterna” di uomo schivo e riservato, costretto a intraprendere diversi mestieri e a seguire infine il mestiere del padre idraulico per provvedere ai bisogni della famiglia.
Autodidatta di moltissime letture, negli anni ’50 ebbe presto accoglienza in un cenacolo di poeti e pittori che fiorì a Bordighera, tra i quali Enzo Maiolino e Carlo Betocchi. Fu quest’ultimo a cogliere l’originalità delle sue prime prove e ad avviarlo alla collaborazione con importanti riviste letterarie nazionali. Avvenimento assai importante degli anni successivi è la corrispondenza intensa con due grandi personalità della poesia ligure, Angelo Barile e Camillo Sbarbaro, ch’egli considerò sempre amici e maestri. Con Barile, soprattutto, il rapporto si rivelerà particolarmente affettuoso e continuo data l’affinità -non l’identità- del sentimento religioso che legava entrambi.
L’attività poetica di De Giovanni si estende, con alcune interruzioni, per tutta la seconda metà del secolo scorso. Ma l’interesse esclusivo dell’autore per l’atto creativo in sé, come partecipazione al progetto di vita piuttosto che al successo della sua produzione, ha fatto mancare la cura per il ricupero e l’organica collocazione dei testi in raccolte. Ciò spiega perché ai riconoscimenti sempre lusinghieri della critica non sia seguita la conoscenza e l’apprezzamento del grande pubblico.
Pertanto la pubblicazione delle poesie di De Giovanni, promossa da amici ed estimatori, non colma tutte le lacune e riesce oggi, in parte quasi introvabile. Spetterà ai figli del poeta, Giorgio e Anna Maria trovare mezzi ed energie per dare avvio al recupero e di riordinamento dei materiali esistenti. Solo allora potrà essere avviata un’attività critica da cui attendersi la soluzione dei problemi ancora aperti. Anzitutto quello delle fonti, non ancora esaurientemente esplorate [...]
Mario Carletto, La condizione di precarietà della vicenda umana nell’opera poetica del sanremese Luciano De Giovanni, Incontri in Biblioteca, "L’infanzia, il passato, il presente. Tre stagioni, tre autori del Ponente ligure", Comune di Diano Marina, Biblioteca "A. S. Novaro", 2007

"Ehi, sorellina!". Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle "Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c'è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?"
Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001.
De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell'Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro '900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956.
Alida Airaghi in La poesia e lo spirito

L’esistenza, oggi, di un Fondo De Giovanni lo si deve alla determinazione ma anche al caso. Era il febbraio del 2011, al Museo civico Borea d’Olmo di Sanremo Giuseppe Conte presentava il suo Viaggio sentimentale in Liguria (Philobiblon, 2010) ed eravamo giunti io da Ventimiglia, Enzo Maiolino da Bordighera e Stefano Verdino da Genova. Cogliendo l’occasione e utilizzando come pretesto la recente pubblicazione di un mio contributo - frondoso, barocco e, ahimè, pure acerbo - su Le case vicino al torrente di De Giovanni (Philobiblon, 2009) Verdino mi presentò Maiolino e poi Giorgio, avvicinatosi dall’angolo dove aveva assistito all’evento: ho conosciuto, così, il figlio e l’amico più fedele del poeta grazie al suo più assiduo studioso [...] Le riviste e il raccoglitore hanno costituito una base molto solida su cui ricostruire la bibliografia degli scritti di e su De Giovanni che si trova in chiusura del quaderno [...] l’autore rimane da decenni introvabile, come gli scrisse il 21 settembre 1984 un lettore d’eccezione, Fredi Chiappelli (da Los Angeles di passaggio a Genova): Gentile signore,leggo su «Resine» le sue Nove Poesie (2). Il profondo interesse di cui mi hanno colpito (e per ragioni che vanno dalla raffinatezza pressoché incredibile nella forma alla percezione degli scandagli nelle più austere aree dell’esperienza) mi spingono all’indiscrezione di scriverle direttamente.Non che non abbia, prima, tentato di rintracciare in varie librerie genovesi qualche Sua pubblicazione; e persino scomodato amici che si occupano di letteratura ligure per essere avviato su una pista bibliografica. Ma sono stati tentativi sfortunati, e anche da [Domenico] Astengo ho avuto il consiglio di scriverle.Non ho mai fatto niente di simile; ed ho tutto l’imbarazzo che potevo avere avvicinandomi alla letteratura quasi cinquanta anni fa. Persino la domanda mi pare cruda e impertinente.Ma vorrei leggere altre sue cose. Dunque: Come devo fare? Come posso procurarmi i suoi scritti?Ora dovrebbe venire un paragrafo di scusa. Me ne voglia esentare: e credermi invece con ammirazione il suo Fredi Chiappelli Sullo scaffale centrale [...]  una geografia in gran parte ligure (con edizioni e dedicatari di Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga, Savona, Genova, Recco e Sarzana) ma qualche libro gli giunse da Milano, Firenze e d’oltreoceano, tramite lo stesso Verdicchio. Oltre al Fuochi fatui con dedica di Camillo Sbarbaro nell’edizione All’Insegna del Pesce d’Oro (Milano 1958) di Scheiwiller [...] spiccano, anche per ricorrenza, i nomi di Elio Andriuoli, Fredi Chiappelli, Franco D’Imporzano, Sergio Ferrero (che attende giudizi e s’augura di non deludere De Giovanni), Roberto Rebora, Lalla Romano (che definisce De Giovanni «poeta del mare», 4 gennaio 1995), Bruno Rombi, Giovanni Testori («a Luciano De Giovanni di cui ho amato le bellissime poesie con affetto», 25 marzo 1971), Renato Turci e Guido Zavanone [...]  È la fedeltà di De Giovanni alla sua terra (nativa o d’adozione che sia), e che ben lo apparenta ai maggiori poeti della «Riviera Ligure», vero com’è ancora una volta che in Liguria non si nasce o non si vive (e soprattutto non si scrive) senza avere almeno un debito verso quel paesaggio, e il suo singolare alfabeto (6).

1 Alessandro Ferraro, Memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», XXVIII, 83, maggio-settembre 2017, pp. 73-77. 
2 Luciano De Giovanni, Nove poesie, «Resine», seconda serie, VI, 19, gennaio-marzo 1984, pp. 45-47 (con nota di Domenico Astengo, p. 48).
6 Giorgio Caproni, Luciano De Giovanni per i tipi di Rebellato: Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3. Ora in Giorgio Caproni, Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, prefazione di Gian Luigi Beccaria, Aragno, Torino 2012, vol. 2, pp. 1003-1007 (1005-1007).
 
Alessandro Ferraro, Partendo dal Fondo in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, n° 87-88, settembre 2018 - aprile 2019, Anno XXX 

 

martedì 19 novembre 2024

Pertini tenne, il 6 marzo 1929, il suo ultimo discorso pubblico da esule in Francia, allo Sporting Bar di Mentone


Con la fuga di Filippo Turati nel novembre 1926 prese il via a Savona la più nota emigrazione legata a Sandro Pertini <174. L’attività dei socialisti locali si era concretizzata soprattutto all’indomani del delitto Matteotti, attorno a Alessandro Pertini e all’amico Giovanni Battista Pera <175: due avvocati rappresentanti di una sinistra di estrazione medio-borghese, attivi negli ambienti intellettuali e politici di Torino, Firenze, Milano. Proprio Milano fu la città in cui si ideò la fuga, mobilitando attraverso Pertini i socialisti di Savona.
Si organizzava una rete mista di solidarietà, regionalismo e obiettivi politici che condusse i capofila del socialismo savonese tra Nizza, Tolone e Marsiglia, seguiti da tutta una serie di militanti minori. Essi furono coinvolti nelle strutture antifasciste franco-italiane, nella Concentrazione Antifascista, nella prestigiosa Lega dei Diritti dell’Uomo <176 capeggiata da Luigi Campolonghi e, più tardi, con la sua fondazione, nel movimento di “Giustizia e Libertà” <177. Si creò un flusso di socialisti in movimento sotto le direttive del partito, che mantenevano i contatti tra Parigi e il Sud-Est della Francia <178.
La figura di Sandro Pertini assunse in queste filiere migratorie un ruolo tutelare più che da protagonista, data anche la sua fugace esperienza francese per finire nelle carceri fasciste. Il legame tra gli “uomini di Pertini” determinò la formazione di un milieu antifascista, costellato di personaggi apparentemente uniti da rapporti personali più che da vere e proprie reti, che pure invece esistettero e si crearono attorno ad essi: l’ambiente socialista che si definì fra Tolone e Marsiglia nel corso degli anni Venti conferma, nella sua strutturazione, l’assenza di vere e proprie Petites Italies in Francia, come è stato notato nel volume curato da Bechelloni, Blanc-Chaléard, Deschamps, Dreyfus e Vial <179, ma piuttosto una presenza dispersa e intrecciata con il tessuto locale, con le reti della colonia italiana, del socialismo francese, delle conoscenze del paese d’origine coese nella fiducia riposta nel maestro Pertini.
Sandro Pertini, com’è noto, giunse a Calvi il mattino del 12 dicembre 1926 assieme al suo mentore Filippo Turati, su un motoscafo guidato da Italo Oxilia, Lorenzo Da Bove e da un giovane meccanico coinvolto suo malgrado nell’impresa, Emilio Ameglio, assistito da Giacomo Oxilia, fratello di Italo, Carlo Rosselli, Ferruccio Parri. Da lì, accolto dalle autorità corse, Pertini assieme a Turati si diresse a Nizza per poi partire in treno alla volta di Parigi, dove arrivò il 15 dicembre.
Se Turati fu accolto con grandi benemerenze dalle autorità dell’antifascismo all’estero, nella casa di Bruno Buozzi, Pertini trovava una sistemazione temporanea in un albergo e cominciava a conoscere la dirigenza dei partiti ricostituiti nella capitale francese, incontrando fin dal principio del suo arrivo una certa ostilità verso il suo carattere scontroso e un disagio nella sua incapacità di inserirsi in un ambiente che giudicava mondano e improduttivo, troppo distante dalla sua mentalità solitaria ma concreta del contadino ligure.
L’unico rapporto d’amicizia che riuscì a stringere nella capitale fu quello di antica data che ritrovò con l’avvocato Pera, con il quale aveva collaborato nella sua Savona, che era allora ancora solo poiché non era riuscito a ricongiungersi con la moglie e la figlioletta. Frequentava poi spesso Fernando Schiavetti e la “Popote”, la mensa popolare, della rue de la Tour d’Auvergne gestita da Vera Modigliani e Nina Coccia, punto di riferimento dell’antifascismo di sinistra non comunista.
Dopo aver lavorato come laveur de taxis nel quartiere di Levallois-Perret, tipico impiego per gli italiani a Parigi, grazie all’interessamento di Oddino Morgari, decise di ritornare a Nizza, accettando l’offerta di un lavoro come muratore <180.
Fu Carlo Angella, cognato di Umberto Marzocchi, a ospitare Sandro Pertini nella propria affollata casa di Nizza, dove nel frattempo era giunto Marzocchi con la moglie Elvira e le figlie, e ad offrirgli un impiego presso la sua impresa edile. Era il febbraio ‘27 quando Pertini arrivò in Costa Azzurra. L’edilizia era una delle industrie più sviluppate a Nizza assieme al settore alberghiero e turistico e vi erano assunti in special modo gli italiani, non tanto i manovali, che pure erano impiegati come giornalieri e temporanei, quanto i muratori e gli operai specializzati, particolarmente apprezzati per le loro capacità, e molti di loro avrebbero infatti racimolato piccole fortune e aperto una propria impresa. Ben presto Pertini si inserì nell’ambiente politico militando attivamente, nella Lidu e scrivendo sui giornali simpatizzanti per i fuoriusciti come La France de Nice et du Sud Est dove i Campolonghi, come spiegato più sopra, gestivano “La Pagina italiana”, mentre si offriva come consulente legale per gli operai italiani immigrati nel dipartimento insieme all’ex deputato Dino Rondani, concorrendo con l’offerta fornita dal Consolato.
Frattanto Pertini trovava una sistemazione autonoma in una pensione poco distante dalla famosa Place Garibaldi <181.
Frequenti ed estenuanti furono i cambiamenti di alloggio e di mestiere, che videro ad esempio nel Pertini nei panni di peintre en bâtiment, impiego che egli non sopportava tradurre in italiano come “imbianchino”, ma che teneva particolarmente a descrivere come “pittore e decoratore su legno”, nel quale si riteneva peraltro molto capace.
Egli aveva frattanto assunto il nome fittizio di Jacques Gavin, e si era trasferito in un quartiere un po’ decentrato, vicino all’attuale università di Sophia Antipolis, pasteggiando al famigerato Bar du Sud in rue Clément Roassal, considerato covo di sovversivi dalle autorità locali, gestito da liguri e frequentato da comunisti e anarchici <182.
Pertini non aveva mai smesso di mantenere rapporti con la famiglia, con la fidanzata Matilde di Ferrania, valbormidese, con la cara sorella “Marion” emigrata a Rotterdam con il marito che lavorava al Consolato italiano, e soprattutto con l’amata madre a Stella San Giovanni, suo paese natale. Proprio la madre gli aveva fatto visita a Nizza nel ‘27 e insieme avevano discusso dell’eredità paterna e della vendita di una parte delle masserizie spettanti a Sandro, che egli decise presto di investire in un progetto politico.
Con l’aiuto di un ingegnere polacco e di un meccanico elettricista italiano, Arturo Lucchetti, genovese emigrato nel 1925 a Cap d’Ail, Pertini allestì infatti una stazione radio in una villa abbandonata nel paese di Éze, nei pressi di Nizza, per mettersi in contatto con i compagni antifascisti italiani. Nell’ottobre ‘28 l’impianto radiotelegrafico sarebbe stato scoperto dalla polizia francese, che arrestò Pertini con l’accusa di spionaggio politico, temendo un legame tra l’iniziativa pertiniana e l’oscuro affare Garibaldi. Gli interventi di Turati, dell’allora ministro dell’Educazione nazionale Édouard Herriot, la mediazione dell’amico savonese “Achille” Boyancé e dall’Italia dell’avvocato Giacomo Rolla, e infine la difesa al processo di Dino Rondani e Francesco Ciccotti valsero a Pertini una blanda condanna, di un solo mese di carcere, che lo assolse dalle più gravi accuse e accrebbe la sua fama nel mondo dell’antifascismo in esilio. Frattanto, nel corso del 1928, licenziato, fu assunto ancora come peintre en bâtiment in una ditta gestita da un italiano, e lavorò anche come comparsa cinematografica per sbarcare il lunario, dal momento che a Nizza aveva aperto una filiale della casa americana “Paramount” <183.
Fu nella primavera del 1929, durante i suoi viaggi di propaganda in Costa Azzurra in favore della Lidu al fianco di Alceste De Ambris, suo presidente, che Pertini tenne, il 6 marzo, il suo ultimo discorso pubblico da esule in Francia, allo Sporting Bar di Mentone. Allora egli aveva già risolutamente deciso di ritornare in Italia, deluso dall’immobilismo della Concentrazione e dal distacco della vita dell’esule dalla situazione italiana. Desiderava tornare nel suo Paese per riprendere l’azione concreta, ripartendo dall’amata Savona in cui aveva cominciato la propria attività militante.
Anticipando dunque di una decina d’anni una tendenza che sarebbe divenuta un fenomeno di massa, Sandro Pertini rientrò in Italia nel marzo ‘29 attraverso la Svizzera, ponendo fine al suo progetto migratorio e dando inizio a un nuovo disegno prettamente politico <184.
Sarebbe stato arrestato a Pisa, durante uno dei suoi viaggi clandestini di propaganda per l’Italia, riconosciuto da un concittadino savonese, che si trovava nella cittadina toscana in occasione della partita di calcio Pisa-Savona. A novembre il Tribunale Speciale avrebbe condannato Pertini a dieci anni di reclusione e tre di vigilanza, al termine dei quali gli sarebbe stata comminata anche la sentenza del tribunale di Genova del ‘26, risalente al celebre processo di Savona: a cinque anni di confino per l’espatrio clandestino con Filippo Turati. Pertini sarebbe stato liberato da Ventotene solamente nell’estate 1943, alla caduta del fascismo <185.
[NOTE]
174. Sulla figura di Pertini in esilio: Aldo Chiarle, Sandro Pertini, Ars graphica, Savona 1978; Mario Zino, La fuga da Lipari, Nicola, Milano 1968; Luca Di Vito, Michele Gialdroni, Lipari 1929: fuga dal confino, Laterza, Roma-Bari 2009; Rino Di Stefano, Mia cara Marion…: 1926-1949: dal carcere alla Repubblica: gli anni bui di Sandro Pertini nelle lettere alla sorella, De Ferrari, Genova 2004; Vico Faggi, Il processo di Savona. Dagli atti processuali del 1927. Due tempi di Vico Faggi, Edizioni del Teatro Stabile di Genova, Genova 1965.
175. Giovanni Battista Pera: imprenditore antifascista cit.; Cpc: b. 3847, f. Giovanni Battista Pera.
176. Vial, Une organisation antifasciste en exil cit.
177. Giovana, Giustizia e Libertà in Italia cit.
178. Cfr. Milza, Voyage en Ritalie cit., pp. 194-210, 227-230; Cpc: b. 801, ff. Emanuele Boyancé, Emilio Boyancé, Giuseppe Boyancé; b. 1568, f. Lorenzo Da Bove; b. 3627, f. Italo
Oxilia; b. 3847, f. Giovanni Battista Pera; b. 3881, f. Alessandro Pertini.
179. Les Petites Italies dans le monde cit.
180. Andrea Gandolfo, Sandro Pertini. Dalla nascita alla resistenza 1896-1945, Aracne, Roma 2010, pp. 132-144, 159-164.
181. Intervista ad Adria Marzocchi cit.; Gandolfo cit., pp. 165-168.
182. Ibidem, pp. 173-174.
183. Ibidem, pp. 179-204.
184. Ibidem, pp. 205-209. Cpc: b. 3881, f. Alessandro Pertini.
185. Cpc: b. 3881, f. Alessandro Pertini.
Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista dalla Liguria alla Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, anno accademico 2014-2015

Costretto a rifugiarsi a Milano, Sandro Pertini è ospite di Carlo Rosselli e insieme progettano la fuga di Turati in Francia. Condannato, in contumacia, a 10 mesi di carcere e 5 anni di confino, si stabilì a Nizza assumendo subito, per il suo passato e per la clamorosa impresa che aveva organizzato, un ruolo di primo piano tra i fuoriusciti, continuando a svolgere una intensa attività politica contro il regime fascista.
Arrestato dalle autorità francesi per aver impiantato a sue spese, vendendo una masseria ricevuta in eredità, una stazione radiotelegrafica clandestina colla quale comunicava e riceveva notizie di carattere politico, Pertini trasformò il processo in un atto di accusa contro il fascismo, inducendo il pubblico ministero a rinunziare alla sua requisitoria e venendo condannato a un solo mese di prigionia con la condizionale.
Ma la dimensione dell’esilio non era fatta per Pertini. Scriveva a Turati, da Nizza, il 15 dicembre 1927: "Sì - Maestro - anche a me sembra “inutile” l’esilio. Da molto - anzi potrei dire sino dai primi giorni ho avuto questa dolorosa impressione, che in seguito si è trasformata in un vero tormento. Anche per questo lasciai Parigi. E venni qui a lavorare. Il lavoro manuale in un primo tempo mi donò lo stesso sollievo, che danno gli stupefacenti. La fatica materiale continua abbrutisce un po’ l’uomo, non lo lascia pensare. Ma questo benefico abulimento durò poco. Man mano che il fisico andava abituandosi alla fatica, lo spirito riprendeva i suoi diritti - e allora ecco ritornare l’idea ossessionante: dare una ragione alla nostra vita. E tale era l’avvilimento e la tristezza di vivere così inutilmente, che più di una volta pensai di lasciare questa terra di esilio, per ritornare in Italia" <11.
La nostalgia della patria e il richiamo della lotta erano evidentemente troppo forti: il 14 aprile 1929 Pertini fu arrestato a Pisa.
11 Pertini, Carteggio: 1924-1930, op. cit., pp. 51-54. Tra le testimonianze sulla vita di Pertini in Francia, significativa quella di Vera Modigliani (Esilio, Garzanti, Milano, 1946, p. 82): “Non volle ricevere aiuti da nessuno. Si piegò a fare il pulitore di automobili. Lavoro di notte, e faticoso, che lo estenuava. Era in lui un’impossibilità quasi irosa e romantica ad accomodarsi alla vita incolore dell’esilio, ad essere un ‘milite ignoto’ dell’antifascismo; un bisogno di uscire ad ogni costo dall’anonimato, di eccellere in qualche modo, sia pure col sacrificio di sé”.
Giovanni Scirocco, “Questo socialismo, questa Resistenza, questa continua lotta politica”: Sandro Pertini dall’antifascismo alla Resistenza in Pertini… uno di noi, ILSREC, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, 2017

Parri e Rosselli rientrarono in Italia, dove furono arrestati, quindi vi fu il famoso processo di Savona, mentre io con Turati riparai a Parigi. Naturalmente io ero avvocato e mi ero portato con me un po' di denaro. Ma i giorni passavano e mi accorsi una bella sera, tornando in albergo, che ormai non avevo pi soldi a sufficienza per tirare avanti, me ne restava solo per qualche giorno ancora, non per dei mesi. Allora andai da Morgari... Mi trovò nei pressi di Parigi un posto come lavatore di taxi. Mi alzavo all'una di notte e dall'albergo modesto dove abitavo, e che ospitava gente modesta, operai soprattutto, andavo in questo garage dove arrivavano dall'una di notte in poi tutti i taxi di piazza. Ed io dovevo lavare queste macchine. Mi avevano insegnato come si faceva. Non ci voleva molto per imparare. Bastava, direi, un po' di buona volontà. La persona addetta mi spiegò come dovevo adoperare l'acqua e la spugna. Però mi davano 20 franchi al giorno. Rimasi là circa un mese a fare quel mestiere, quando Zannerini, che era a Nizza Marittima e che era stato segretario del partito socialista dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, mi disse: "Se vieni qui c'è un posto di manovale muratore". Io accettai subito. Perché? Prima di tutto perché laggiù i 20 franchi al giorno che mi davano non erano sufficienti per vivere: dovevo infatti saltare un pasto per poter far quadrare la spesa dell'albergo con il secondo pasto e le altre spese. Tanto più che in quel garage al mattino mi davano al mattino un'abbondante colazione di caffellatte e qualche fetta di prosciutto.
Allora accettai di andare a fare il manovale muratore. Anche per fare il manovale muratore non c'è da imparare molto, basta che tu lo faccia. Andai sul posto e Zannerini mi disse: "Se vuoi fra due giorni puoi cominciare a lavorare come manovale muratore". Io avevo già la tuta che avevo acquistato per fare il lavatore di taxi. E così cominciai a fare questo nuovo lavoro. La prima volta, per imprudenza, non sapevo che bisognava stare attenti a toccare la calce viva per fare l'impasto di calce normale, mi ritrovai con le dita scoppiate. Dovetti ricorrere alla glicerina, alla vasellina e ad altre medicine per curarmele. Finché riuscii ad adattarmi ed imparai molto bene il mio lavoro: divenni uno zelantissimo manovale muratore...
Mi aiutava un certo Zuccalà, calabrese, un pezzo di giovanotto robusto, quando si trattava di portare le travi per fare i ponti, altrimenti non ce l'avrei fatta da solo. Allora non c'erano le attrezzature moderne di oggi. Rammento che quando andavo sui ponti per portare un sacco di cemento o della calce cercavo di camminare su queste plance con un passo lento ma sicuro, come fanno i marinai quando camminano sulle plance delle navi, perché altrimenti andavo a finire giù.
Bene, io feci per parecchi mesi questo lavoro. Stavamo costruendo una villa per una profuga russa, una principessa. Difatti lo stile architettonico era di tipo bizantino, con finestre e porte particolari. Io servivo un muratore che era di Modena, Poltronieri si chiamava, il quale era sordo e quando aveva bisogno di qualche cosa mi gridava dai ponti: "Avvocato, l'articolo 5 del Codice Penale... un secchio di malta!". Ed io mi caricavo un secchio di malta e la portavo su. E ancora: "l'articolo 10 del Codice Penale... un secchio d'acqua!". Ed io portavo su l'acqua. Un mattino la proprietaria della casa in costruzione, una bella signora, elegantissima, si era fermata ad assistere ai lavori della sua villetta: "Avvocato...  - parlava molto bene l'italiano perché era stata a Siena e come tutti i russi aveva una grande facilità ad apprendere le lingue - ma siete proprio avvocato?". "No - le risposi - mi chiamano avvocato perché sono un chiacchierone". "Ah, bene - dice ancora la signora - io penso che potreste anche essere un avvocato, non mi stupirei che lo foste veramente. Io ho denaro, sto bene, ma altri miei compatrioti che si trovano qui sono invece in una situazione finanziaria di miseria. Per sopravvivere hanno dovuto fare, e stanno facendo, tutti i mestieri. Se voi andate nel tal ristorante vedrete tre cameriere, ma sono contesse, sono nobili, però senza soldi...
Un giorno trovai lavoro come manovale-muratore in un'altra impresa. Lì c'erano dei compagni italiani. Uno di Perugia, che fu poi anche deputato e che si occupava della lavorazione del legno e della relativa pittura, mi propose: "Perché invece di fare il manovale-muratore non impari la pittura su legno?"
- Bene, insegnami!
- Non è una cosa difficile, mi precisò.
E infatti mi insegnò come dare la pittura alle persiane, alle porte. E visto che ci riuscivo mi ingaggiò. "Lascia di fare il manovale-muratore - mi disse - che è un lavoro pesante e fai invece il "peintre en bâtiment"...
A Nizza ed a Cannes l'industria più sviluppata era quella dell'edilizia, ed erano apprezzatissimi non i manovali, ma i veri muratori italiani. Infatti non c'è nessuno che sappia fare l'arco alla perfezione come il muratore italiano. Questo risale ai tempi antichi. Non c'è come i muratori italiani per fare bene questo lavoro. Là si facevano costruzioni con pietre e mattoni, non come si fa adesso con scariche di cemento, ecc., proprio con le pietre. Ed i muratori italiani erano molto stimati... E questi italiani quando sono tornato a Nizza, dopo tanti anni, li ho trovati tutti arricchiti. Da semplici muratori che erano, erano diventati imprenditori. Provenivano la più parte dall'Umbria, dove vi era stata una persecuzione da parte del fascismo. Ed erano tutti fuorusciti che si erano rifugiati in Francia...
Per quanto mi riguarda, comunque, il mestiere che facevo più volentieri era quello di peintre en bâtiment perché mi riusciva facile svolgerlo e i risultati erano ottimi. Dopo tutto bastava avere un po' di intelligenza, molta attenzione e molta cura. Ma per questo io ero molto pignolo...
Ma poi ad un certo punto rimasi disoccupato, come accade. Ed allora si interessarono di me un gruppo di anarchici miei amici che mi dissero: "Senti, alla 'Paramount', in una zona a ponente di Nizza, dove c'erano delle case cinematografiche, stanno girando il film di Rex Ingram "Le tre passioni: il gioco, la politica e la donna". Se ti presenti in tuta da operaio appena aprono ti assumono come comparsa. Ti pagano anche se poi non ti utilizzano". Ci andai subito. Fu la prima volta che vidi un trucco cinematografico: c'era un grande palazzo, ma vi era solo la facciata, dietro non c'era niente, una facciata fatta in fretta e furia. Noi come comparse dovevamo, in finzione, scioperare e durante una manifestazione dovevamo rovesciare dei tram ecc...
Lì mi davano 25 franchi al giorno, ed era già una buona paga. Poi mi accorsi però che ad un altro gli davano 30 franchi. Gli chiesi il perché e questi mi rispose: "Perché io sono entrato con la bicicletta". "Ah, sì, se entri con la bicicletta ti danno 5 franchi in più?". Allora il giorno dopo vado da un amico carissimo, un anarchico, e gli chiedo:
- Hai una bicicletta?
- Sì, ma devo andare a prendere il tram per fare...
- Se mi dai la bicicletta guadagno 5 franchi in più al giorno alla 'Paramount'
- Ah sì? Te la presto.
Gli anarchici sono solidali, sentono la solidarietà umana in modo veramente profondo. Così il giorno dopo arrivai con la bicicletta. E da quel giorno guadagnai 30 franchi. Finché poi un giorno mi dissero: "Se vuoi venire stanno cercando un peintre en bâtiment. Quello era il mio lavoro, guadagnavo di più...
Redazione, Intervista a Sandro Pertini presidente della Repubblica in rivista "Abitare, costruire sempre", Roma, 17 marzo 1983, articolo ripreso da Fondo Pertini 

domenica 17 novembre 2024

In realtà solo una piccola parte degli attivisti politici sceglie la lotta armata a fine anni Sessanta


Secondo «l’Unità», il Servizio di Sicurezza del Ministero degli Interni mette in relazione gli attentati contro i giornalisti proprio con il nuovo tipo di violenza che caratterizza il 1977: "Al Viminale la tesi è questa: le ultime manifestazioni che si sono chiuse con sparatorie provocatorie ad arte hanno permesso ai vecchi brigatisti di identificare nell’area della cosiddetta autonomia, una serie di reclute, di giovani pronti ad entrare nella clandestinità. Secondo i vertici dei servizi di sicurezza, negli ultimi tempi, nelle formazioni terroristiche, che erano state orbate dalla presenza dei capi storici come Curcio e altri, sono entrate a far parte numerose forze fresche, contattate appunto durante episodi carichi di particolare tensione. L’altro ieri a Genova gli autonomi, durante una manifestazione, approvando gli attentati, gridavano «giornalista, sbirro maledetto, te lo scriviamo noi l’articolo perfetto», «Bruno qui, Montanelli lì, la controinformazione si fa così». Il risultato è la formazione di nuove squadre pronte a tutto" <951.
La campagna contro la stampa riprende il 18 settembre a Torino con l’attentato al giornalista de «l’Unità» Leone Ferrero. Alla Camera, Gian Carlo Pajetta presenta una interrogazione sulla nuova ondata di violenza facendo esplicito riferimento all’attentato contro Ferrero: "Ferrero non è stato colpito per una semplice questione di esercizio della libertà di stampa. Il nostro compagno è stato ed è teste in importanti processi politici; è un testimone, ha denunciato nomi e riferimenti specifici, non ha avuto paura di gridare d’essere un comunista e per questo i criminali gli hanno sparato ancora dopo avergli già frantumato due femori" <952. Berlinguer esprime al segretario del Pci torinese, Renzo Gianotti, la sua solidarietà “al compagno Ferrero, valoroso giornalista dell’Unità, per la nuova azione criminale e vile che reca la firma dei nemici delle istituzioni democratiche, delle organizzazioni dei lavoratori e della libera stampa” <953.
Il 21 settembre viene indetta una manifestazione al Palazzetto dello Sport a Torino dal «Comitato regionale per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana». Il tema è: "Il terrorismo criminale attenta alla vita dei cittadini e alla libertà di stampa. Unità antifascista in difesa dell’ordine democratico e repubblicano. I torinesi manifestano contro gli attentati a Leone Ferrero e allo stabilimento tipografico de «La Stampa»". Alfredo Reichlin, dal palco della manifestazione denuncia, con forza la distanza fra il Pci e Autonomia: "Il Paese ha un ampio movimento democratico, nel quale ha un peso notevole la classe operaia che, in tempi ravvicinati, pone il problema di una svolta. Da questo contesto era nata alla fine degli anni Sessanta la strategia della tensione, mentre oggi la tendenza è di puntare sullo sfascio, sull’anarchia, sui tentativi di creare focolai di guerra civile. Si attacca la democrazia per colpire sempre più direttamente il movimento popolare. […] tocca a quest’ultimo difendere dai pericoli eversivi le istituzioni democratiche e la libertà conquistata con la Resistenza" <954.
[NOTE]
951 Anche nuove reclute fra gli attentatori, in «l’Unità», 5 giugno 1977.
952 Il governo deve fare il suo mestiere, in «l’Unità», 22 settembre 1977.
953 Terroristi sparano a un redattore de l’Unità, in «l’Unità», 20 settembre 1977.
954 Manifestazione a Torino dopo i due attentati, in «l’Unità», 22 settembre 1977.

Francescopaolo Palaia, La Cgil e il Pci fra violenza terroristica e radicalità sociale (1969-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi "Sapienza" - Roma, Anno Accademico 2016-2017
 
Le manifestazioni studentesche e operaie del Sessantotto sono per Serneri indice di mancanza di coesione sociale e di rifiuto dell’autorità <16. La convinzione che in tempi brevi attraverso azioni antifasciste dei militanti si riesca a sovvertire lo Stato e a rovesciare l’ordine politico e sociale si lega alla crescita della mobilitazione e alla diffusione della violenza. Accettandola come strumento, Panvini nota che intellettuali vicini al Pci e al Psi ritengono «che l’utilizzo della violenza organizzata stesse per aprire […] una nuova epoca di lotta di classe» <17. Le risposte delle forze dell’ordine con sgomberi e arresti, e della politica con il ripristino delle attività nelle università e nelle fabbriche, per quanto ritenute necessarie non fanno altro che aumentare l’astio e i risentimenti verso l’autorità.
Il terrorismo emerge da queste forme di azione collettiva dove è più evidente il conflitto sociale, dando continuità alle proteste. In realtà solo una piccola parte degli attivisti politici sceglie la lotta armata a fine anni Sessanta e di questi, una minima parte proviene dal Pci. Base di reclutamento è soprattutto la generazione successiva attiva in collettivi e gruppi autonomi. Le delusioni e le tensioni insite nella sfera economica e sindacale smuovono infatti alcuni settori della classe operaia a slegarsi dai sindacati e a trovare una nuova modalità di espressione nell’autonomia, in un insieme di collettivi e comitati operai e territoriali mancanti di un nucleo nazionale, come i Comitati autonomi operai romani, il Collettivo politico metropolitano milanese o i Collettivi politici veneti per il potere operaio. Corasaniti le valuta «specificità locali che inducono a considerarla, più che un’area omogenea (malgrado non manchino i tentativi di centralizzazione), un insieme di realtà che condividono alcune coordinate pratico-teoriche di fondo» <18. Non un vero e proprio partito quindi, ma un’area che raccoglie esponenti della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria contrapposta a quella riformista. L’iniziativa autonoma permette a questi settori di unire la sfera economica-sindacale con la dimensione politica, di guidare il processo rivoluzionario e di farsi portavoce delle loro istanze politiche senza passare attraverso partiti. Una parte di questa realtà diventa espressione della lotta armata, diffondendosi l’idea che le autorità statali, la magistratura e l’amministrazione pubblica hanno tutto l’interesse nel mantenere lo status quo all’interno di fabbriche, carceri e periferie degradate. Da parte delle forze dell’ordine si denota però una mancanza di efficienza necessaria a contrastare la violenza, sottovalutandola e, secondo Baravelli, non riconoscendo la specificità del terrorismo di sinistra e della sua lotta armata <19. Si aggiunge l’impreparazione politica e la scarsa comprensione del fenomeno. Si pensi al termine terrorismo di cui non si da in quegli anni una definizione precisa: «rifiutare di precisare la natura della minaccia consentiva agli attori politici di utilizzare l’ambiguità quale utilissimo strumento tattico ai fini della manovra parlamentare» <20.
Ceci osserva che a differenza del Pci, nella Dc si fa largo fin dal ’69 l’ipotesi degli opposti estremismi ovvero «contemporaneamente due disegni violenti ed eversivi, opposti ma convergenti (forse anche a livello operativo) nell’obiettivo: l’abbattimento delle istituzioni democratiche e repubblicane» <21. Vaste aree della Democrazia Cristiana riconoscono infatti i terroristi rossi come effettivamente militanti di sinistra decisi tanto quanto quelli di destra ad affermarsi sulla scena.
Trova ampio spazio nel Pci una diversa linea di pensiero secondo cui è assurdo parlare di due terrorismi. Il progetto eversivo di destra è il più pericoloso e inquietante con un piano nero che produce trame. Attraverso battaglie politiche contro la tesi degli opposti estremismi, il Partito Comunista accusa il malgoverno della Dc di aver prodotto le trame nere. A questo si aggiunge «la convinzione dell’esistenza di una strategia della tensione anche di sinistra» <22 con obiettivi simili a quelli dei neri e quindi il crollo delle istituzioni democratiche. Un unico terrorismo caratterizzato da diverse trame, ma con sempre un unico obiettivo. Le violenze del ’77 culminate col caso Moro ribaltano questa idea e la politica capisce che non si tratta di una successione di singoli atti slegati tra loro, ma di qualcosa di più profondo ed articolato nella società.
Ferraresi nota che riguardo al problema sulle differenze tra il terrorismo di destra e quello di sinistra, pur presentando «alcune sorprendenti analogie», il terrorismo rosso e quello nero differiscono radicalmente sul piano ideologico culturale. Prende in considerazione il tema della violenza e della sua giustificazione <23, un problema per i gruppi eversivi di sinistra che devono impregnare di significato e di identità le loro azioni. Devono essere legittimate e spiegate dal punto di vista sociale per non perdere il contatto con le masse, specificando i crimini presunti delle vittime e pubblicizzandone le prove, come se ci fosse un intento pedagogico attraverso la violenza che diviene così uno strumento della lotta armata. L’apporto del lavoro contro informativo e specificatamente quello della schedatura ricopre un ruolo chiave all’interno di queste azioni. Il rifiuto delle informazioni comunemente diffuse dai mezzi di comunicazione e l’uso di specifici mezzi generalmente trascurati dai canali di comunicazione tradizionali sono infatti fondamentali per la lotta armata: volantini di rivendicazione, manifesti politici, radio libere come Radio Sherwood a Padova dei Collettivi Veneti, e ancora manuali sull’utilizzo delle armi, su come affrontare un interrogatorio o come si individua la persona e il corretto obiettivo. E anche murales che denunciano censure e media, considerati asserviti agli interessi politici ed economici. Importanti in questo senso periodici come Lotta Continua connesso al movimento studentesco di Adriano Sofri, che assume toni aggressivi, e quotidiani come Il Manifesto più intellettuale e austero, Il Quotidiano dei Lavoratori, Il Re Nudo e Controinformazione. I periodici controinformativi, grazie anche alla mancanza di una legge sulla privacy, possono pubblicare nomi e cognomi e indirizzi di neofascisti e di persone ritenute informatrici trasformandoli in bersagli pubblici. Per Panvini, «controinformazione e violenza politica furono, dunque, intimamente connesse» <24. La controinformazione, inoltre, si può dotare di tutte quelle pratiche illegali che non sono permesse ai giornalisti professionisti: furto di documenti, appostamenti, pedinamenti. Nelle testate di estrema sinistra compaiono lunghe cronologie di violenze neofasciste, dando l’idea di una escalation. «Prevalse in determinati momenti di tensione, un utilizzo politico di questi dati, imposto dall’esigenza di denunciare ai propri militanti la presenza dei nemici da combattere» <25.
Fin dalle bombe di Piazza Fontana la schedatura è funzionale all’investigazione atta ad accertare il coinvolgimento di neofascisti nella strage. Le inchieste, in particolare quelle di Lotta Continua, sono preparate meticolosamente in manuali. Ben presto l’elenco di persone considerate colluse diventa un lungo elenco di obiettivi da colpire. Così non solo la violenza si specializza, ma assume un carattere selettivo e mirato, contro persone ritenute all’interno di un disegno eversivo e collusi con lo Stato, persone non considerate innocenti. «Il perseguimento del nemico nella sua individualità e identità personale fu un dato costante» <26. Le radio libere costituiscono uno strumento importante in questo senso, mezzo ideale per la circolazione di comunicati e rivendicazioni, «individuate dai brigatisti come dei megafoni attraverso i quali far giungere i propri messaggi a un pubblico che potenzialmente veniva ritenuto più sensibile» <27.
La violenza così si sposta dalle masse delle piazze che danno consenso popolare, alle strade e alle azioni selettive per strada, azioni esemplari utili a «suscitare il potenziale rivoluzionario nella collettività» <28.
In generale osserva Scavino, la violenza non sembra costituire un problema morale, ma viene vista come forma di azione politica, la cui legittimazione non ha carattere etico, ma strumentale, a seconda delle circostanze <29. Non un problema morale per politici e sindacalisti, ma elemento fisiologico nel conflitto sociale. Per estensione lotta armata e terrorismo diventano forme di azione politica legittimate o meno a seconda della situazione.
[NOTE]
16 Neri Serneri, Simone. Verso la lotta armata: la politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta. Bologna: Il Mulino, 2012.
17 Panvini, Guido. Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975. Torino: Einaudi, 2009.18
18 Corasaniti, Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta (1971-1980), cit., 20
19 Baravelli, Andrea. Istituzioni e terrorismo negli anni Settanta. Roma: Viella, 2016. 21
20 Ibi. 25
21 Brizzi, Riccardo, Giovanni Maria Ceci, Michele Marchi, Guido Panvini e Ermanno Taviani. L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società. Roma: Carrocci, 2021. 24
22 Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 26
23 Ferraresi, Minacce alla democrazia: la destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, cit., 308
24 Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, cit., 150
25 Ibi. 146
26 Colozza, Roberto. “Lotta Continua e gli anni di piombo”. In Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 149
27 Ares Doro, Raffaello. “La radio e l terrorismo negli anni Settanta”. In Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 165
28 Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, cit., 136
29 Scavino, Marco. “La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta”. In Neri Serneri. Verso la lotta armata: la politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, cit., 120
Alessandro Stefani, «Terrorismo» e «Lotta Armata» nell'Italia degli anni Settanta. Analisi di un dibattito, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

Giorgio Amendola sostiene la necessità per il Pci di fare autocritica per non aver scelto di contrastare l’estremismo in precedenza con l’illusione di aumentare i consensi fra i giovani. Serve, secondo il dirigente comunista, maggiore lucidità di analisi per vedere il collegamento ideologico e politico tra le posizioni delle Br, di Autonomia, di Lotta continua, di Avanguardia operaia e del Manifesto. Un grande calderone politico quello tracciato da Amendola, come si vede, in cui finisce dentro ogni gruppo e tutto è tenuto insieme da collegamenti precisi. Durissimo è in particolare il giudizio che il dirigente comunista esprime nei confronti di Francesco Lorusso, il militante di Lotta continua ucciso da un carabiniere a Bologna l’11 marzo: "Lorusso era uno che credeva in quello che faceva. Aveva una concezione diversa dalla nostra; pensava che si deve distruggere lo Stato attuale non vedendo i suoi caratteri democratici, ma vedendolo come uno Stato della borghesia da spezzare per tentare altre vie. […] anche i giovani repubblichini che venivano a combattere contro di noi erano ragazzi generosi e in buona fede, che abbiamo dovuto fucilare perché ci sparavano alle spalle. Li rispettavamo per il loro coraggio, ma dovevamo fucilarli perché erano nemici! […] Mi tolgo il cappello di fronte a questo morto, ma non è uno dei nostri ammazzato dagli altri" <923.
Il giovane ucciso a Bologna viene definito «nostro nemico» e collocato quindi sul fronte avversario. In questo giudizio sta il nodo politico della questione: collocare sul piano degli avversari i membri dei movimenti estremisti che negano le basi della democrazia. Questo giudizio, dettato certamente dalla drammaticità della situazione e dalla necessità di porsi come argine in difesa del sistema democratico, è indicativo delle difficoltà del Pci nel leggere in modo corretto la complessità di quella galassia e alimenta ancora di più la frattura, ormai insanabile con quel mondo.
Aldo Tortorella affronta invece la questione relativa all’istruzione partendo dal fatto che è nelle scuole e nelle università che la crisi dei giovani si sta manifestando con maggiore evidenza. La situazione è disastrosa soprattutto a causa delle scelte sbagliate della Dc, sostenute in molti casi dai partiti della sinistra e dai sindacati, che hanno trasformato scuola e università in parcheggi per i giovani dove si spendono ingenti risorse pubbliche con risultati scarsi e dove sta crescendo la frustrazione degli studenti privi di reali prospettive occupazionali. L’autocritica è molto severa: "Abbiamo confuso il diritto allo studio con il diritto alla laurea, che con il primo non ha nulla a che vedere. In conseguenza di questo errore abbiamo attenuato la battaglia per la istruzione dei primi gradi, che è quella fondamentale, e cioè per la scuola dell’infanzia, per la scuola dell’obbligo, per il prolungamento e per la funzione di quest’ultima finalizzata non solo a obiettivi di ulteriori specializzazioni, ma diretta a fornire ai giovani la possibilità di intendere e di padroneggiare meglio e più di quanto non avvenga ora, gli strumenti per una propria formazione culturale" <924. La critica è serrata e soprattutto rivolta nei confronti del sindacato le cui proposte, definite demagogiche, hanno prodotto effetti negativi.
Gerardo Chiaromonte, nel suo intervento, pone il tema di come isolare gli estremisti indicando due strade: non partecipare a manifestazioni dove sono presenti elementi violenti; chiarire le posizioni all’interno della Fgci. I gruppi dirigenti provinciali dell’organizzazione giovanile del Pci, dice Chiaromonte, «devono sviluppare una intensa opera di discussione, di orientamento, di chiarificazione, per superare sbandamenti e dubbi che ci sono stati nei giorni scorsi e posso esserci ancora fra i nostri giovani». Secondo il dirigente comunista il partito ha infatti trascurato i compiti di iniziativa e di dibattito culturale e ideale fra i giovani: "Siamo stati indulgenti verso alcune teorizzazioni che niente avevano e hanno a che vedere con la nostra visione del mondo e della storia, confondendo il dibattito e la pluralità dei contributi con un qualche indifferentismo culturale e teorico, e, a volte, con una rinuncia alla polemica contro posizioni a noi estranee" <925.
[NOTE]
923 I comunisti e la questione giovanile, Atti della sessione del Comitato centrale del Pci, Roma, 14-16 marzo 1977, cit., Intervento di Amendola, p. 105.
924 Ivi, Intervento di Tortorella, p. 188.
925 Ivi, Intervento di Chiaromonte, p. 222.

Francescopaolo Palaia, Op. cit. 
 

giovedì 7 novembre 2024

Milano, ferita dai bombardamenti, fa da sfondo anche a "Memoria improbabile"

Milano: Via Spiga


"Milano o la memoria" è un breve testo datato «Lugano 1944»; rimasto a lungo inedito allo stato di manoscritto, è stato recentemente pubblicato a cura di Marco Vigevani. <168 I motivi di interesse di queste pagine sembrano soprattutto risiedere nel fatto che esse testimoniano, anche a questa altezza cronologica, il riaffiorare della personale poetica della città, inaugurata da Alberto Vigevani con "Ricordo per l’Olona"; proprio questo testo è significativamente ripubblicato ancora nel giugno del 1945, con il titolo "L’Olona di Milano". <169 Ne consegue dunque la conferma del fatto che questi elementi rimangono continuamente al centro degli interessi dello scrittore, anche se in questi anni si mantengono più sotterranei rispetto ai più pressanti temi legati alla guerra.
"Dal centro di Milano, ora quasi completamente distrutto, sia dai bombardamenti dell’agosto 1943, sia dal piano regolatore che aveva voluto fare della mia città una metropoli, mi tornano non di rado alla mente alcune vie, che mi addolora poi non ritrovare quando, giunto sul limite o nei paraggi dove ci si entrava, mi scontro in un palazzo moderno, o nello scheletro grigio d’un cantiere". <170
L’immagine di Milano è dunque rappresentata sulla base dell’esperienza soggettiva (il «vissuto») e attraverso il filtro della memoria di un io narrante assimilabile all’autore stesso. Questo «promemoria narrativo su Milano vista attraverso gli occhi dello scrittore» <171 è dunque pienamente riconducibile al modello della letteratura «frutto» della memoria di Vigevani; si avvicina in particolare a quella tipologia di testi in cui è più forte la componente autobiografica: "Talora è un sogno che mi richiama quella via, o un’immagine: quella di mio padre, per esempio. Lui sorge in mezzo a una Milano fantastica, di cui ho conosciuto i relitti solamente: perché quando arrivò a Milano con la sua laurea in tasca, questa doveva essere del tutto differente da come la conobbi io - e già essa mi sembra ora tanto cambiata. Un’idea di come poteva essere mi è rimasta impressa, quasi l’avessi conosciuta io da bambino, in un’infanzia remota alla mia stessa dalle immagini sfogliate allora con una mente tanto accesa, che chiudeva in sé, come proprie, le rappresentazioni da una fotografia o una illustrazione, sbiadita come una larva ai miei occhi, tenuti nelle palpebre abbassate, neanche fossero due cani al guinzaglio. <172
Il testo è composto da una serie di immagini cittadine; la voce narrante le rappresenta con un atteggiamento quasi contemplativo, <173 venato di nostalgia per un tempo e una città ormai trascorsi e mutati. <174 In questa occasione, «Vigevani ventiseienne, nella piena stagione dell’impegno politico e a guerra non ancora conclusa, anticipa compiutamente i temi centrali e la prospettiva di 'All’ombra di mio padre'», <175 il libro pubblicato nel 1984. <176 È qui, in sostanza, in massimo risalto il dato della continuità dell’opera di Vigevani, e del radicamento della sua produzione, anche della maturità, nel modello di letteratura che egli inizia a praticare sin dagli esordi.
Milano, ferita dai bombardamenti, fa da sfondo anche a "Memoria improbabile", pubblicato nello stesso 1944. <177 Questo testo potrebbe essere accostato a quelli pubblicati da Vigevani su rivista negli anni precedenti, che sembrano risentire di più dell’influenza della prosa d’arte. L’io narrante (con cui l’autore stabilisce un’identificazione attraverso alcuni indizi, quali l’indirizzo di residenza) descrive qui in prima persona un sogno, che riguarda l’evento della distruzione della propria abitazione; la scelta di rappresentare questo fatto in chiave onirica potrebbe derivare dalla volontà dello scrittore di sottolinearne con maggior forza le implicazioni e il drammatico impatto sul vissuto intimo del soggetto, in una maniera che dunque prefigura qualche tratto di "La fidanzata". All’inizio del sogno raccontato, il protagonista rientra nella propria dimora milanese di via della Spiga: "la voce narrante insiste sulla presenza, qui, degli oggetti della vita quotidiana, molti dei quali connotati soprattutto secondo il loro valore affettivo". <178
Nell’attacco del racconto, l’immagine della città dipende ancora una volta della stessa poetica che è alla base di "Milano o la memoria": "Abitavo in via Spiga e per giungervi percorrevo la contrada di vie silenziose e severe, dai grandi palazzi difesi dal flusso esterno e rado dei passanti con quei lucidi cancelli di legno, odorosi di cera, che fin dall’infanzia cercavo di sorpassare per sorprendere chissà quali romantici e polverosi recessi dell’ottocento, intime e comode poltrone in cuoio verde, grandi sveglie in porcellana avorio, vasi sassoni e trofei d’armi disposti sul velluto nelle sale fasciate di quercia e guarnite da soffitti a cassettoni". <179
[...] Il sogno termina. Nel testo si dice che esso aveva avuto luogo a una settimana di distanza da un bombardamento della città. Nel finale del racconto, la voce narrante insiste ancora più esplicitamente sulla propria nostalgia e sulla propria amarezza per la distruzione degli oggetti e dei luoghi legati al proprio vissuto, e per questo tanto cari. <183
In "Milano o la memoria" e in "Memoria improbabile", la Milano dell’esperienza di Vigevani compare dunque sfregiata dalla violenza della guerra e dei bombardamenti. "Rapporto agli angeli ossia annali della nostra città" prende in una certa misura le mosse dallo stesso nucleo narrativo, all’origine chiaramente autobiografico. Nel testo - conservato in archivio allo stato di manoscritto e incompleto - <184 Vigevani raccoglie i temi della propria origine, della propria infanzia e giovinezza, e quelli dell’affermazione della dittatura e della guerra, che ne hanno determinato l’esilio all’estero. Lo scrittore affida il racconto a una voce narrante che, in prima persona, narra questi fatti come accaduti in un tempo e in uno spazio che non corrispondono a quelli della storia reale, ma che sono collocati in una dimensione mitica. La rappresentazione del reale è così sottoposta, nel "Rapporto agli angeli", a una più evidente trasfigurazione letteraria, rispetto a quanto non accada negli altri due testi di cui si è detto. Inoltre, curiosamente, Vigevani - che al tempo della scrittura (1944) è ancora in Svizzera - fa avanzare in questo testo il racconto fino al rientro del protagonista in patria dopo molti anni di assenza; qui egli, amaramente, si rende conto del cambiamento dei costumi avvenuto, e si sente inserito in una realtà sociale nuova, non più completamente libera e serena. Nella finzione narrativa, questo testo avrebbe la funzione appunto di un «rapporto agli angeli», per denunciare la condizione di dolore dell’uomo di fronte a tale realtà. Tutti questi fatti, temi e motivi, oltre ad essere trasportati dallo scrittore in una dimensione mitica, sono narrati con un tono evocativo e sospeso, accordato a tale ambientazione.
[NOTE]
168 A. VIGEVANI, Milano o la memoria, in appendice a ID., All’ombra di mio padre, cit., pp. 173-180.
169 T. RIGHI, L’Olona di Milano, in «Corriere del Ticino», 22 giugno 1945.
170 A. VIGEVANI, Milano o la memoria, cit., p. 175.
171 MARCO VIGEVANI, nota in A. VIGEVANI, Milano o la memoria, cit., p. 173.
172 A. VIGEVANI, Milano o la memoria, cit., p. 175-176.
173 «C’era come prima immagine, a colori, Piazza del Duomo con i tramvai in carosello, dipinti di giallo-crema, e le aiole pompose, animate di rossi e celesti squillanti. La cattedrale, in mezzo, aveva l’aria d’un dolce o di un trofeo di tonno» (ivi, p. 176).
174 «C’era un costume, un accento e persino un rumore diverso, che gli anni hanno affievolito e infine il peso di due guerre ha ridotto a un ricordo da vetrina: che non metterebbe in bacheca - vicino alle pendole monumentali con trombe e arcangeli - una carrozza verde, col mantice nero e le ruote dipinte di rosso, e i vetturini con la “stadera” screpolata e la pellegrina foderata di montone» (ivi, p. 178); «Quando mio padre arrivò a Milano gli affari erano gli affari... I suoi coetanei hanno tutti una storia bizzarra: Rizzoli e Bianchi, forse erano ancora dei trovatelli; Ernesto Breda, Alberto Pirelli, Augusto Stigler uscivano appena dalla preistoria artigiana e sul mondo di speculatori, avidi commercianti, usurai e ruffiani, primeggiava ancora la figura del “patron” balzacchiano» (ivi, p. 178-179).
175 M. VIGEVANI, nota in A. VIGEVANI, Milano o la memoria, cit., p. 173.
176 A. VIGEVANI, All’ombra di mio padre, Milano, Mondadori, 1984.
177 B. VANI, Memoria improbabile, in «Almanacco letterario della collana di Lugano», 1944, pp. 50-56.
178 «Ogni scaffale mi ricordava luoghi, letture, volti di amici per una dedica che nobilitava l’occhietto del libro di Carlo Emilio o quello di Vittorio o di Gilberto o perchè i libri che ospitava li avevo acquistati in una botteguccia odorosa di muffa e di carta brunita nelle strade silenziose del Quartiere latino che discendono al purgatorio del Boul Mich e nelle contrade romane, che sanno di travertino sfaldato e d’erba salvia, dietro le palazzine barocche di Via dei Brurrò» (ivi, p. 52).
179 Ivi, p. 50.
183 «Seppi dunque dopo valutare la perdita subita, dei luoghi e dei costumi cari alla mia adolescenza e mi rassegnai ad una memoria avvilita e devastata in cui la rappresentazione del passato si connetteva ancora con l’aiuto di oggetti ormai inesistenti, come nulla fosse avvenuto, e in tal misura da indurmi sovente a rivolgermi con angoscia la domanda se tutto, e non soltanto i sentimenti - la cui probabilità passata si è troppo spesso e leggermente disposti a mettere in dubbio - non era stato che un incubo, una fantasia troppo a lungo durata» (ivi, p. 55).
Marco Fumagalli, Una collocazione problematica. La narrativa di Alberto Vigevani e il suo spazio nel sistema letterario (1943-1969), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2009-2010