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lunedì 28 aprile 2025

Solamente nel Comune di Valdobbiadene furono arrestati sette partigiani


Come già più volte sottolineato, in seguito alla pianurizzazione molti partigiani ritornarono dalle loro famiglie: una scelta azzardata, proprio nel momento di maggior forza dei nazifascisti; oltretutto, l'arrivo della Decima Mas a Valdobbiadene ed in alcuni paesi geograficamente strategici della sinistra Piave rese ancor più vulnerabile un movimento partigiano già fragile.
È inoltre importante precisare che, nell'inverno 1944-1945, un nuovo nemico era alle porte: i sempre più numerosi partigiani arrestati, disposti a tutto pur di salvare sé stessi. Sul confine tra la vita e la morte, nulla per loro aveva più importanza: fornire informazioni sul movimento partigiano e sui compagni divenne l'unica ancora di salvezza. In ragione di ciò, tra il dicembre 1944 ed il gennaio 1945, la Mazzini venne ripetutamente ferita: vertici militari e partigiani territoriali caddero per mano nemica.
Solamente nel Comune di Valdobbiadene, nei primi venti giorni di dicembre sette partigiani furono arrestati e, tra questi, tre rilasciati, quattro uccisi in seguito a delazione "amica". Si trattava di Italo (Zebra) e Romolo Bortolin, Isidoro Geronazzo dei "Batistèla" (Troi), Virginio Dorigo (Bruna), Ferruccio Nicoletti (Brich), Alberto Bortolin dei "Romolet" (Feroce) e Bernardino Vidori dei "Teloni" (Sauro) <129. In quel mese un solo partigiano perse la vita durante il primo rastrellamento condotto senza soffiate dal Battaglione N.P. della Decima Mas: il ventiquattrenne segusinese Gino Coppe (Grava), gravemente ferito l'11 dicembre 1944 a Segusino, perì il giorno successivo presso l'ospedale militare di Valdobbiadene <130.
Il 19 dicembre 1944 Francesco Sabatucci (Cirillo), comandante eroico nella zona di Pieve di Soligo, veniva ucciso a Padova. Il 25 ed il 26 gennaio 1945 a Pianezze di Miane ed a Pieve di Soligo cadevano altri due leader della Mazzini: Dionisio Munaretto (Danton) ed "Amedeo". Ultima vittima di spicco fu il medico Mario Pasi (Montagna): commissario della Mazzini e, provvisoriamente, del Comando Zona Piave, arrestato il 9 novembre 1944 e, dopo quattro mesi di torture, impiccato il 10 marzo 1945 presso la località Bosco delle Castagne, a meno di 10 chilometri da Belluno, insieme ad altri nove partigiani <131.
Come conseguenza di queste perdite, la Mazzini fu la Brigata della Divisione Nannetti maggiormente danneggiata dal rastrellamento del Cansiglio. Il Comando della Mazzini dovette essere completamente ripristinato e, in assenza di personalità locali di rilievo, nel febbraio 1945 (attorno al giorno 20) furono nominati comandante militare, vicecomandante e commissario politico tre partigiani sino ad allora attivi nel Bellunese: Paride Brunetti (Bruno), già comandante della Brigata Gramsci, l'altro gramsciano Egildo Moro (Romo) ed Eliseo Dal Pont (Bianchi), commissario politico della Brigata dell'Alpago "Fratelli Bandiera" ed uno dei primi membri del distaccamento Tino Ferdiani con "Bruno" ed "Amedeo". Capo di Stato Maggiore, al posto del deceduto "Marco", fu scelto Tiziano Canal (Mirko), giunto dalla Brigata Cairoli, afferente al Gruppo Brigate Vittorio Veneto. Il nuovo Comando fu affiancato da un numero significativo di fedelissimi non locali: i vittoriesi Domenico Bet (Monello), Arturo De Conti (Tarzan), Bruno Tonon (Bepi) ed il bellunese Enrico Piccolotto (Nevio) <132.
Ad eccezione di "Bruno", che, volutamente, lasciò Valdobbiadene per Belluno subito dopo la Liberazione (intorno al 4 maggio 1945), le altre sette persone, indirizzate dal nuovo Comandante militare Beniamino Rossetto (Mostacetti), saranno le "menti" ed i principali esecutori della "resa dei conti" mazziniana <133.
Elio Busato ("Nagy", poi "Nagi Niccoli"), Comandante della Brigata Tollot sino al grande rastrellamento del Cansiglio, dopo la partenza di "Mostacetti" (seconda metà del maggio 1945) fu chiamato a guidare la Mazzini. Liberato dal campo di concentramento di Bolzano ai primi di maggio del 1945, Lino Masin (Nardo) affiancò Busato come nuovo commissario politico della medesima Brigata, in seguito alla partenza di "Bianchi" (20 maggio 1945) <134.
[NOTE]
129 BIZZI, Il cammino di un popolo, vol. II, cit., p. 244.
130 AISRVV, II sez., b. 64, f. 3 sf. 1 Pratiche per pensioni di guerra, doc. 34; Archivio della Parrocchia di Segusino, Registro dei morti (1936-1961), anno 1944; ASDPd, b. Guerra 1940-1945: Relazioni parrocchiali, f. Vicariato di Quero, sf. Parrocchia di Segusino, Relazione di don Agostino Giacomelli, s. d.; BIZZI, La Resistenza nel Trevigiano, vol. II, cit., p. 13.
131 ACASREC, b. 57, Archivio CRV, f. Documenti vari schedati, sf. Relazione sull'attività militare svolta dalle Brigate della Divisione "N. Nannetti" dal mese di dicembre 1943 al mese di maggio 1945; AISRVV, II sez., b. 64, f. 3 sf. 1 Pratiche per pensioni di guerra, doc. 75, 94 e 121; BIZZI, Il cammino di un popolo, vol. II, cit., p. 251; BRESCACIN, Immagini della Resistenza nel Vittoriese, cit., p. 59; LANDI, Rapporto sulla Resistenza nella Zona Piave, cit., pp. 138-139; MASIN, La lotta di Liberazione nel Quartier del Piave, cit., pp. 144-145. N.B. Mario Pasi (Montagna) e Francesco Sabatucci (Cirillo) furono decorati di medaglia d'oro alla memoria, a Dionisio Munaretto (Danton) fu attribuita la medaglia di bronzo.
132 BIZZI, La Resistenza nel Trevigiano, vol. II, cit., p. 14; BRESCACIN, Immagini della Resistenza nel Vittoriese, cit., pp. 58-59; MASIN, La lotta di Liberazione nel Quartier del Piave, cit., pp. 76-77; MELANCO, Annarosa non muore, cit., p. 113; testimonianza di Sante Guizzo (Saetta) in BIZZI, La Resistenza nel Trevigiano, vol. II, cit., p. 70.
133 Cfr. il Rapporto n. 52 del Maresciallo Maggiore della Stazione dei Carabinieri di Valdobbiadene Giuseppe Sotgiu, depositato presso la Procura della Repubblica di Treviso il 17 giugno 1950 ed attualmente conservato presso la Procura Militare della Repubblica di Verona, oppure si veda una qualsiasi sentenza marziale, emessa dalla Comando della Brigata Mazzini in AISRVV, II sez., b. 64, f. 6, sf. 1 Sentenze.
134 ASCV, Cat. VIII, Leva e Truppa (1943-1950), f. anni 1946-1948, sf. Anno 1946, si veda il doc. Brigata Mazzini - Componenti il Comando di Brigata.
Luca Nardi, Storie di guerra: Valdobbiadene e dintorni dal gennaio 1944 all'eccidio del maggio 1945, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 2016

domenica 20 aprile 2025

L'operazione antimafia Crimine-Infinito

Fonte: Pierpaolo Farina, Op. cit. infra

La svolta: l'operazione Crimine-Infinito
L'alba del 13 luglio 2010 fu l'inizio di una nuova consapevolezza per Milano. Da quel giorno, nulla sarebbe stato come prima. Quella mattina le redazioni dei giornali vennero allertate da un comunicato della Procura che dava notizia di un'imponente operazione antimafia tra Milano e Reggio Calabria, dando appuntamento ai cronisti per la relativa conferenza stampa al Palazzo di Giustizia del capoluogo milanese. Presenti, a testimoniare l'importanza di quel lavoro congiunto tra le due procure, anche l'allora Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, i capi delle due Procure e il Procuratore Generale milanese Manlio Minale, oltre agli aggiunti titolari dell'inchiesta.
Con 154 arresti in Lombardia e 156 in Calabria, nell'operazione Crimine-Infinito per la prima volta venne accertata in maniera inequivocabile la tendenziale unitarietà della 'ndrangheta, pur nella sostanziale autonomia delle singole articolazioni territoriali, in un modernissimo e difficile equilibrio tra centralismo delle regole e dei rituali e decentramento delle ordinarie attività illecite.
Il filone lombardo, Infinito, era stato coordinato dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai sostituti procuratori milanesi Alessandra Dolci, Paolo Storari, Alessandra Cecchelli e dal sostituto procuratore di Monza Salvatore Bellomo, mentre la direzione del filone calabrese, Crimine, era stata affidata al procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale antimafia di Reggio Calabria Nicola Gratteri, al procuratore capo Giuseppe Pignatone e al procuratore aggiunto Michele Prestipino.
La sinergia tra le due Direzioni Distrettuali antimafia permise di accertare in maniera inequivocabile la struttura verticistico-orizzontale della 'ndrangheta, al cui vertice si trovava (e si trova) il Capo-Crimine, spazzando via la convinzione ultra-decennale di inquirenti e studiosi sulla struttura fluida e orizzontale dell'organizzazione calabrese, secondo cui ogni 'ndrina agiva in maniera autonoma l'una dall'altra.
Lo scenario descritto dall'operazione, infatti, era invece completamente diverso: non solo vi era una presenza radicata in tutti e cinque i continenti, ma anche un fortissimo legame con la «madrepatria», rinsaldato con la riunione annuale dei vertici in occasione della processione della Madonna di Polsi, alla fine di agosto. Il Capo-Crimine, ai tempi dell'inchiesta individuato nella persona di Domenico Oppedisano, fungeva da autorità morale e garante delle regole interne dell'associazione, ma non aveva i poteri di capo che aveva ad esempio Totò Riina all'interno di Cosa nostra.
In Calabria, l'operazione mostrò il consolidamento dei tre mandamenti - quello Tirrenico, quello Centrale e quello Jonico, composti da diverse locali - coordinate da una sorta di cupola, denominata la Provincia o il Crimine, che ha il pieno potere sulle 'ndrine che operano in Italia e all'estero, soprattutto per quanto attiene al narcotraffico e agli appalti pubblici. Secondo gli investigatori, le 'ndrine di Reggio Calabria erano il centro propulsore delle iniziative dell'intera organizzazione mafiosa, nonché il punto di riferimento di tutte le proiezioni extraregionali, nazionali ed estere.
Milano e la Lombardia, terra di conquista
La duplice inchiesta mostrava anzitutto una cosa: la conquista di Milano e della Lombardia non era avvenuta dalla finanza, ma dai territori, che avevano accettato e normalizzato la presenza mafiosa, anziché espellerla dal ricco tessuto socio-economico della regione.
Le indagini inoltre confermavano quanto era già emerso negli anni '90, cioè la centralità di Milano e delle altre province lombarde nello scacchiere 'ndranghetista, con un'ulteriore conferma giudiziaria: la persistenza di una Camera di Controllo, denominata La Lombardia, che serviva a coordinare le locali lombarde <1050.
L'esistenza di questa struttura intermedia di coordinamento emergeva già nell'indagine Nord-Sud, con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Saverio Morabito sugli affari e le vicende della locale di Buccinasco, all'epoca retta da Antonio Papalia, che come abbiamo visto gestiva insieme a Toni Carollo il traffico di stupefacenti nel «quadrilatero della droga» milanese. Già allora Morabito riferì agli inquirenti di aver appreso da Domenico Papalia che il fratello Antonio era il responsabile di tutte le locali lombarde, con la funzione di dirimere i contrasti <1051.
Parallelamente, anche nell'indagine calabrese Armonia si dava conto della lunga conflittualità tra la Lombardia e la «casa madre» calabrese, per via del fatto che per lungo tempo i vertici della 'ndrangheta si erano rifiutati di riconoscere pari valore alle doti concesse dalla struttura di coordinamento rispetto a quelle concesse direttamente da Reggio Calabria, finché in un summit tenutosi a Montalto, in Aspromonte, venne assicurata pari dignità agli affiliati insigniti al nord <1052.
Dunque, non sorprendeva l'esistenza di una camera di controllo bensì il fatto che esistesse almeno dal 1984, presieduta da Giuseppe Pino Neri <1053, e che avesse continuato ad operare anche negli anni dell'inabissamento a seguito delle migliaia di condanne rimediate al termine dei processi degli anni '90.
Le locali lombarde
Le indagini del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Monza partirono il 30 ottobre 2006 a seguito di una notizia confidenziale su una presunta importazione in Italia di un grosso carico di stupefacenti organizzata da Rocco Piscioneri e Alfredo Scarfò, sui quali gli inquirenti avevano già svolto indagini nell'ambito dell'Operazione Tequila <1054.
Dopo quattro anni di indagini, il filone lombardo permise di scoprire ben 16 locali nelle città di Milano, Bollate, Bresso, Cormano, Corsico, Legnano, Limbiate, Solaro, Pioltello, Rho, Pavia, Canzo, Mariano Comense, Erba, Desio e Seregno <1055. Ogni locale, con la sola eccezione di Rho, rispondeva a una propria locale madre in Calabria, mentre tutte erano coordinate dalla Camera di Controllo della Lombardia, in cui avevano rivestito un ruolo di vertice, nel corso del tempo, Cosimo Barranca (fino al 15 agosto 2007), Carmelo Novella (dal 15 agosto 2007 fino al giorno del suo omicidio, il 14 luglio 2008) e Pasquale Zappia (dal 31 agosto 2009 fino al blitz dell'operazione).
Il vertice della Lombardia era deputato a concedere agli affiliati «cariche» e «doti», secondo gerarchie prestabilite e mediante cerimonie e rituali tipici dell'associazione mafiosa, come per esempio la partecipazione a riunioni e/o incontri.
Le intercettazioni ambientali accertarono anche che il numero di locali scoperte era decisamente più basso rispetto a quelle realmente esistenti, come dimostrava un dialogo tra due affiliati, Saverio Minasi e Vincenzo Raccosta: «qua siamo venti "locali" siamo cinquecento uomini Cecè, non siamo uno... Cecè vedi che siamo cinquecento uomini qua in Lombardia, sono venti “locali” aperti» <1056.
Altre locali furono scoperte nell'ambito di successive operazioni antimafia (come Calolziocorte, Cermenate e Fino Mornasco <1057), fino a un totale odierno di ben 25 locali attive <1058.
[NOTE]
1050 Andrea Ghinetti, Ordinanza di applicazione coercitiva con mandato di cattura - Procedimento Penale n. 43733/06 R.G.N.R., Tribunale di Milano - Ufficio GIP, 5 luglio 2010, p.64
1051 Ivi, pp. 64-65.
1052 Ivi, p. 65.
1053 Ivi, p. 72.
1054 Ibidem
1055 Ibidem
1056 Ibidem.
1057 Furono scoperte nell'ambito dell'operazione Insubria del 18 novembre 2014, considerata la «prosecuzione - effettiva non solo ideale - della nota operazione “I fiori della Notte di San Vito”», come si legge a p. 21 nell'ordinanza di custodia cautelare (LUERTI, S. (2014). Ordinanza di applicazione di misure cautelari -Procedimento Penale n. N. 45730/12 R.G.N.R., Tribunale di Milano - Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, 14 novembre).
1058 Direzione Investigativa Antimafia (2020), Relazione Semestrale al Parlamento - II semestre 2019, p. 478.
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020 

domenica 13 aprile 2025

I fascisti romani nella scuola dei primi anni Settanta appaiono lontani da quelli di vent'anni prima


Contrariamente al vecchio RGSL [Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori], il FdG fu inoltre pensato come strumento di formazione politica, dal momento che tra i compiti che svolse si trova l'organizzazione di corsi annuali di aggiornamento politico per i dirigenti giovanili. Si venne a realizzare insomma quell'opera di formazione di quadri che Rauti ed i suoi andavano chiedendo negli anni Cinquanta, e non appare un caso che con il rientro dei rautiani si sia proceduto a tale ristrutturazione del settore giovanile. È interessante l'articolazione che venne prevista nello statuto per la “corporazione studentesca”, il principale dei due organismi dell'organizzazione “d'ambiente”. Oltre ad un fiduciario nazionale ed un fiduciario provinciale (speculari alla struttura di fondo del FdG) erano previsti dei nuclei d'istituto, costituiti “in tutti gli istituti e le scuole di istruzione secondaria in cui il Fronte della Gioventù annoveri non meno di cinque iscritti” a loro volta organizzati da un fiduciario di istituto e da uno di sezione o di classe <117. Vi si riscontra una ricerca di profondità in quanto alla penetrazione nel mondo scolastico, rispondente sia alla gestione sostanzialmente fallimentare della presenza nell'ambito universitario, sia all'elezione della scuola a luogo specifico di “raccordo tra la dimensione nazionale dello scontro fra neofascisti ed estrema sinistra e la sua diffusione a livello locale” <118.
Nel citato appunto del novembre 1971, viene osservato che nei primi mesi di esistenza del FdG, la sua attività era rimasta circoscritta ai tentativi di “richiamare l'attenzione degli studenti sulla necessità di frequentare responsabilmente le lezioni, respingere i tentativi di strumentalizzazione politica dell'estrema sinistra ed isolare le provocazioni “rosse”” <119. La nuova struttura attivistica giovanile, in sostanza, si mise nella posizione del tutore dell'ordine scolastico, andando anche ad inviare lettere a presidi e professori in cui offriva in tal senso la sua collaborazione, ma assicurando, allo stesso tempo, la disponibilità a “contrastare la violenza comunista” <120. La disponibilità a fare da contraltare alla “violenza comunista”, tuttavia, oltre ad essere in evidente contraddizione con il proposito di porsi come garanti della regolarità della vita scolastica, cozzava con la realtà di una popolazione studentesca in generalizzato fermento, in cui i giovani neofascisti si trovarono in una situazione di costante inferiorità numerica rispetto a quelli di sinistra, finendo per “subire quotidiane violente rappresaglie e soprusi, al limite del linciaggio, al punto che non furono pochi quelli che dovettero abbandonare le scuole pubbliche per iscriversi agli istituti privati” <121.
Soprattutto a partire dall'anno scolastico 1972-1973 si riscontra nelle scuole romane di diverse zone della città un crescendo di scontri tra studenti di sinistra e di destra. Nei mesi di ottobre, novembre e dicembre del 1972 la Questura segnalò due dozzine di scontri tra studenti nei licei classici Dante Alighieri e Tacito, in Prati, Augusto, all'Appio-Tuscolano, Giulio Cesare, al Trieste-Salario, Lucrezio Caro e Mameli, ai Parioli, Orazio, a Montesacro, Visconti e Virgilio, al centro, e Vivona, all'EUR; nei licei scientifici Plinio Seniore e Benedetto Croce, a Castro Pretorio e Malpighi, alla Pisana; e negli istituti tecnici industriali Giovanni XXIII, a Tor Sapienza e Genovesi, ai Parioli <122. Tra le dinamiche di questi scontri, può notarsi che non infrequentemente essi originavano dalla volontà di ostacolare i volantinaggi del Fronte della Gioventù, di concedere la parola ai fascisti nelle assemblee o di impedirne l'ingresso stesso nelle scuole. A metà novembre, ad esempio, la didattica venne sospesa per tre giorni al liceo Orazio in seguito all'iniziativa di "un gruppo di estremisti di sinistra [che] dopo aver tenuto un collettivo, effettuavano un corteo. Quindi una delegazione di partecipanti al corteo si faceva ricevere dal preside al quale avanzava la proposta di espellere dall'istituto tre studenti “perché di estrema destra”. Successivamente gli stessi estremisti di sinistra uscivano dall'edificio intenzionati ad aggredire elementi di estrema desta che sostavano nelle vicinanze del liceo […] Il giorno 16 quasi tutti gli studenti entravano nel liceo, ma l'attività didattica rimaneva completamente paralizzata da assemblee e collettivi, svoltisi ad iniziativa di estremisti di sinistra sul tema: “Fuori i fascisti dal liceo Orazio”" <123.
I fascisti romani nella scuola dei primi anni Settanta appaiono lontani da quelli di vent'anni prima, forti della baldanza degli irriducibili sconfitti. Egualmente disposti allo scontro, gli studenti della nuova generazione sembrano tuttavia impreparati a sostenerlo, nella necessità di mantenere il contraddittorio equilibrio tra l'opposizione frontale ai rossi e le indicazioni di rispettabilità impresse dal nuovo corso almirantiano. Ancora nel dicembre 1973 il SID informò di una riunione del FdG tenutasi a Roma in cui si era sottolineata la necessità di far sentire la propria presenza nelle scuole, settore che nella riunione venne definito “dominato dall'attivismo di sinistra” <124. Ma già con l'inizio del nuovo anno scolastico, nell'ottobre 1973 la Questura aveva annotato cinque pestaggi individuali a danno di tre studenti di destra al Virgilio e due nei pressi del Giulio Cesare <125. Colpiscono particolarmente questi ultimi due, avvenuti il 13 ottobre, quando all'uscita di scuola, a distanza di pochi isolati e di un quarto d'ora, due studenti vennero presi a bastonate da parte di studenti della sinistra rivoluzionaria (verosimilmente lo stesso gruppo), dopo che la mattina alle ore 8 un gruppo di studenti della sinistra rivoluzionaria e di quella parlamentare, si appostavano davanti all'ingresso del liceo “Giulio Cesare” per impedire l'accesso nell'istituto a studenti ritenuti di destra.
"Alle ore 8,15 un vivace tafferuglio si verificava quando questi ultimi tentavano di entrare nell'istituto. […] Successivamente alle 10,30 gli studenti di sinistra tenevano, nell'interno del liceo, un'assemblea, durante la quale si discuteva sul fascismo “come arma della borghesia e del padronato per stroncare i processi di crescita anticapitalistica all'interno della classe operaia”" <126.
Per tutto l'anno scolastico 1973-74, con maggiore frequenza rispetto all'anno precedente e con un crescente ricorso all'uso di armi improprie (principalmente bastoni di legno, spranghe di ferro, catene, martelli, pistole lanciarazzi e, in qualche caso, bottiglie molotov), si susseguirono incidenti nelle scuole romane: pestaggi di studenti fascisti, in quanto tali o perché sorpresi a volantinare <127, schieramenti per impedirne all'accesso nelle scuole <128, risse <129 e qualche aggressione alla sede del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna o ad altre sezioni missine <130.
Non sorprende il fatto che durante il quarto corso di aggiornamento politico per i dirigenti organizzato dal FdG nel settembre del 1974, nell'ambito della presentazione dei Nuclei d'istituto (previsti, come detto, all'atto di fondazione del Fronte), venisse diffuso una sorta di manuale di comportamento per l'attivismo nelle scuole, nell'ottica di una necessaria razionalizzazione dello scontro <131. Colpisce piuttosto che in esso, parallelamente all'invito allo sviluppo di un attivismo frontale nelle scuole tradizionalmente rosse, venisse previsto che i militanti missini dovessero imparare a “cavarsela da soli” in caso di incidenti, senza ricorrere, come in passato, al supporto di soggetti estranei all'ambiente scolastico di provenienza. Si tentava cioè di forgiare una nuova componente attivistica in grado di reggere lo scontro con gli studenti di sinistra. Ciò che tuttavia rese inattuabile tale intendimento era la percezione della stessa presenza dei fascisti all'interno delle scuole come provocatoria nei confronti di un movimento studentesco avviato a passo deciso verso assunti rivoluzionari. Già tra l'ottobre 1970 ed il gennaio 1971 l'allora quindicinale «Lotta Continua» pubblicò un servizio incentrato sul neofascismo romano (soprattutto su Avanguardia Nazionale) in cui era suffragata questa percezione, oltre che pericolosamente indicati nominativi ed indirizzi di diversi militanti di destra <132.
[NOTE]
117 M. Anderson, I percorsi della destra, cit., pp. 84-85.
118 G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., p. 154.
119 ACS, MI, PS, Cat. G (1944-1986), b. 325, fasc. “Azione Giovani (Fronte Nazionale della Gioventù)”, s.fasc. “Affari generali”, Appunto s.i., MSI - “Fronte della Gioventù”, 25/7/1973, allegato n. 1, appunto s.i., MSI - Costituzione del “Fronte della Gioventù”, 25/11/1971.
120 Ibidem.
121 G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., pp. 160-161.
122 Cfr. ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 52, fasc. “Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali. Statistica. Relazioni”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese
di ottobre 1972, 10/11/1972, pp. 72, 74, 76-83; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1972, 12/12/1972, pp. 104, 107, 109-111, 114; ivi, rapporto della
DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di dicembre 1972, 11/1/1973, pp. 84, 86.
123 Ivi, apporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1972, 12/12/1972, pp. 110-111.
124 ACS, MI, PS, Cat. G (1944-1986), b. 325, fasc. “Azione Giovani (Fronte Nazionale della Gioventù)”, s.fasc. “Roma”, circolare del SID s.n., 3/12/1973.
125 ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 51, fasc. “Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali. Statistica. Relazioni (1° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di ottobre 1973, 9/11/1973, pp. 51-54.
126 Ivi, pp. 52-53.
127 Cfr. ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, 7/2/1974, pp. 59, 63, 67; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti
riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, 6/4/1974, pp. 66, 75.
128 Cfr. ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, cit., p. 62; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, cit., pp. 65, 72, 75-76. In uno di questi rapporti, viene osservato con un certo sarcasmo che l'estromissione degli studenti di estrema destra dallo scientifico Benedetto Croce del 26/3/1974, durante la quale una studentessa del Fronte della Gioventù venne mandata al pronto soccorso, e a cui seguì l'occupazione della sede del liceo, venne effettuata “asseritamente in segno di protesta contro le “violenze fasciste””. Cfr. ivi, p. 72.
129 Cfr. ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di ottobre 1973, cit., p. 54; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1973, cit., p. 47; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, cit., p. 63; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, cit., pp. 71, 75; ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 53, fasc. “O.S.P. Incidenti - manifestazioni politiche (2° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di aprile 1974, 13/5/1974, pp. 69-70.
130 Cfr. ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 51, fasc. “Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali. Statistica. Relazioni (1° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di novembre 1973, cit., p. 50; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di gennaio 1974, cit., p. 68; ivi, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di marzo 1974, cit., pp. 72, 76; ACS, MI, GAB (1971-1975), b. 53, fasc. “O.S.P. Incidenti - manifestazioni politiche (2° fascicolo)”, rapporto della DGPS, div. OP n. 444/3, Relazione sugli incidenti riguardanti l'O.P. verificatisi nel mese di aprile 1974, cit., p. 64.
131 Il Nucleo d'Istituto: organizzazione e metodologia, Fronte della Gioventù, IV Corso di aggiornamento politico per dirigenti, Ostia (Roma), 19-22 settembre 1974, citato in G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., p. 160.
132 Rapporto sullo squadrismo. Chi sono, chi li comanda, chi li paga, in «Lotta Continua», a. II, nn. 18-21. 15/10/1970, 29/10/1970, 12/11/1970, 24/11/1970 e a. III, n. 2, 29/1/1971.
Carlo Costa, "Credere, disobbedire, combattere". Il Neofascismo a Roma dai FAR ai NAR (1944-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia - Viterbo, 2014

lunedì 7 aprile 2025

Una memoria storica della seconda guerra mondiale falsata, amnesica e autoassolutoria



Analizzando l’esperienza italiana alla luce dei profili di giustizia di transizione <1079, si nota, come detto, che in Italia ha avuto luogo un’amnistia complessa, in quanto fondata su elementi sia normativi che di fatto. Essa ha avuto come punto di partenza un elemento normativo: l’amnistia Togliatti. Tale amnistia, di per sé, rinuncia solo in parte alla persecuzione penale e si colloca a metà strada fra le amnistie compromissorie e le amnistie con attribuzione di responsabilità (accountable amnisties) <1080. Tuttavia il combinato disposto delle imperfezioni tecnico-giuridiche del testo e di elementi di fatto (in primo luogo l’attivismo della magistratura) hanno trasformato la stessa in un veicolo di impunità. Tale impunità è stata poi avvallata normativamente dal legislatore con nuovi interventi di clemenza, in seguito al mutamento politico del 1948. In tale scenario spicca l’ampiezza dell’amnistia del 1953.
Con riferimento ai crimini italiani all’estero e ai crimini nazisti (per questi ultimi sino alla svolta del 1994), vi è un’amnistia pressoché generalizzata (blanket), data da elementi de facto.
La prospettiva della giustizia di transizione permette di formulare ulteriori considerazioni circa l’amnistia Togliatti. Innanzitutto essa è stata introdotta senza coinvolgimento della popolazione, né nella forma della democrazia diretta, né in quella della democrazia rappresentativa a mezzo del potere legislativo esercitato da un Parlamento eletto dai cittadini.
Valutando inoltre il caso italiano alla luce dei parametri oggi offerti dall’art. 17 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale <1081, emerge che l’Italia del 1946 è un Paese incapace (unable) di perseguire in maniera autentica i crimini commessi durante il fascismo e la seconda guerra mondiale; a tale incapacità si aggiunge, quantomeno dal 1948 una mancanza di volontà (unwillingness).
Preso atto del dato di impunità, allargando la prospettiva, dall’ambito della persecuzione penale (e quindi del correlato uso dell’amnistia) si è passati ad una valutazione sulla transizione nel suo insieme. Ci si è dunque posti il seguente interrogativo: se, a fronte della summenzionata impunità, abbia comunque avuto luogo un processo di transizione compiuto. Per rispondere a tale quesito, ci si è domandati che cosa sia corrisposto al ruolo molto limitato dello strumento penale, avuto riguardo ai piani della pacificazione, della formazione di uno stato democratico, della tutela delle vittime, della costruzione di una memoria storica.
La transizione italiana non ci è parsa meritare un giudizio negativo sotto il profilo del rapporto fra transizione, pacificazione e percorso costituente <1082. Un profilo di fallimento si è registrato invece con riferimento al coinvolgimento delle vittime <1083. Esse non solo sono assenti nella fase giudiziale (con la limitata eccezione dei processi post 1994 relativi alle stragi naziste), ma non hanno neppure uno spazio alternativo, in cui poter raccontare la propria storia, se non addirittura confrontarsi con gli autori dei crimini. La gravità di tale assenza si registra soprattutto in relazione ai decenni successivi all’immediato dopoguerra, quando le esigenze di pacificazione e ricostruzione sono meno pressanti.
Si è infine denunciato il fallimento principale della transizione italiana, in relazione alla ricerca della verità <1084. La transizione italiana ha infatti fornito un contributo minimo in tal senso, quando anzi non ha operato in direzione contraria, verso l’insabbiamento o la deformazione dei fatti. La centralità dell’imputazione per collaborazionismo, nonché la scarsa determinatezza del testo del provvedimento di amnistia, sono stati un punto di partenza determinate di un percorso fatto di molte amnesie, in cui anche la magistratura e la volontà politica hanno avuto un ruolo centrale.
Si è sottolineato come, una volta che la democrazia ha raggiunto una certa stabilità, il popolo italiano abbia omesso di chiedere conto al proprio Paese delle responsabilità passate; sia in forma giudiziaria, che in altre forme.
Dopo il 1989, il divario fra Italia e Europa è parso aumentare ulteriormente <1085. Se infatti, da un lato, anche l’Italia ha posto in discussione il precedente patto memoriale, dall’altro da noi questa fase, a differenza che in altri Paesi europei, ha dato spazio a revisionismi che si sono tradotti in una nuova autoassoluzione.
Il confronto con la transizione degli anni ’90 <1086 ha attenuato la colpevolezza del legislatore postbellico, essendovi all’epoca esigenze molto concrete di porre fine alle violenze, nonché essendo meno sviluppato lo strumentario giuridico a disposizione per affrontare una transizione. D’altro canto <1087, il confronto ha mostrato un elemento di analogia e continuità, una costante della classe politica italiana nell’affrontare le transizioni politiche: un’abdicazione del legislatore dal proprio ruolo politico e un lasciare, in entrambi i casi, che la responsabilità della transizione ricada sulla magistratura.
Di sicuro la transizione italiana è molto distante dal modello della persecuzione penale inaugurato a Norimberga, che affonda le sue radici nell’Orestea di Eschilo, ossia nel tribunale come luogo di civilizzazione del conflitto, fondante l’ordine della polis <1088.
La transizione italiana si presenta, a più di settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, come amnesica e incompiuta. Tuttavia, l’incompiutezza della giustizia di transizione italiana non risiede (sol)tanto nel fallimento della fase della repressione penale, quanto nel fatto che nei settant’anni successivi sia mancato un tentativo della società di fare i conti con il passato, di riflettere su cause ed effetti, in una parola di assumere le proprie responsabilità verso il passato e quindi verso il presente e il futuro. Tale momento infatti è un percorso sociale lungo e complesso, che prescinde dall’esistenza o meno di una fase repressiva penale, poiché lo strumento penale, laddove esperito, può offrire un contributo, ma non esaurisce tale autoanalisi. Ciò se non altro per il fatto che «in Occidente, la storia giuridica dello Stato consiste nella programmazione della sua innocenza nell’ambito del diritto penale» <1089, il che rende complesso e limitato il ruolo del giudice «quando il contesto storico, lungi dall’essere un puro oggetto di conoscenza speculativa, entra a far parte, invece degli elementi costituenti l’atto incriminato»1090. Ciò avviene quando «un soggetto risponde […] attraverso i propri atti, del significato che si riallaccia alla totalità di un piano, in cui tutto l’apparato dello Stato è impegnato» <1091.
La mancanza in Italia di un tale percorso non ha mantenuto solo memorie divisive del conflitto, senza una ricomposizione della storia del nostro Paese <1092, ma ha in generale impedito una riflessione sulle degenerazioni e le responsabilità del nostro passato <1093.
[...] La memoria storica della seconda guerra mondiale che si è prodotta, risulta falsata, amnesica e autoassolutoria. Sembrano dunque terribilmente vere le parole del già menzionato Autore, secondo cui «noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, le sue conversioni. Ma l’Italia è un Paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua memoria, della sua storia, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe questo Paese […] che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi ma con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia a una coerenza, a una tensione morale» <1100.
L’evocazione del summenzionato «grande processo» al fascismo e alla seconda guerra mondiale non significa (sol)tanto un maggiore bisogno di memoria, quanto un bisogno di analisi razionale e critica inserita in un contesto, ossia un bisogno di storia. E’ quindi di un’operazione che richiede attenzione e impegno e, se da essa deriva un contributo alla memoria collettiva, il risultato non può che essere quello di memorie plurali, che «devono riflettere sia gli elementi distruttivi che quelli costruttivi del passato […], gli storici hanno il compito di mantenere questo dualismo nella visione pubblica» <1101. Onde evitare la mera retorica o la pura utopia, non ci si può astenere dal registrare un aspetto problematico, che risiede nel fatto che «se la storia ci insegna qualcosa è che, in politica come in guerra, gli esseri umani non sono programmati per l’ambivalenza; essi rispondono alla lealtà e alla certezza. E come Renan ha affermato in “Che cos’è una Nazione?”, nella misura in cui esse possano essere rafforzate dal ricordo collettivo, non importa se le memorie in questione siano storicamente accurate o se, al contrario, esse siano invenzioni, prodotto di moderna manifattura» <1102.
Queste riflessioni allargano notevolmente la discussione rispetto al nostro punto di partenza, circa il ruolo del diritto e del rito penale all’interno del processo di transizione italiano. Emerge il ruolo parziale e limitato che essi possono avere nel gestire le transizioni alla democrazia, se non sono accompagnati da altri strumenti stragiudiziali, non solo nell’immediatezza, ma anche nei decenni successivi. E la transizione italiana, a questo punto è facile avvedersene, è un processo tutt’altro che concluso.
Volendo oggi tentare di fare effettivamente i conti con le responsabilità passate, ci si imbatte però nel summenzionato problema: la popolazione, nella sua maggioranza, non ragiona sulla base della storia, ma si adagia su semplificazioni della memoria collettiva. Il processo di Norimberga ha probabilmente “funzionato” in tal senso, proprio in quanto semplificazione. Come effettuare dunque questa operazione? Come rapportare il ragionamento critico della storia alla memoria collettiva, senza incorrere negli abusi di quest’ultima? E’ questa la sfida aperta.
[NOTE]
1079 Cfr. supra, Cap. II, § 7.2.3.
1080 R. SLYE, “The Legitimacy of Amnesties…”, cit., p. 245.
1081 Cfr. supra, Cap. II, § 7.2.3.1.
1082 Cfr. supra, Cap. III, § 3.
1083 Cfr. supra, Cap. III, § 4.
1084 Ibidem.
1085 Cfr. supra, Cap. III, § 5.5.
1086 Cfr. supra, Cap. III, § 6.1.
1087 Cfr. supra, Cap. III, § 6.2.
1088 In questo senso P.P. PORTINARO, I conti con il passato, cit., 76. Al contesto italiano si adatterebbe più la tragedia Elena di Euripide, dove il noto personaggio viene sdoppiato: vi è un’Elena innocente (che è stata vittima di un rapimento e non fuggì mai con Paride, causando la guerra di Troia) ed un’Elena colpevole (quella nota nell’immaginario collettivo). Nello stallo di una prigionia in Egitto, vi è un confronto interiore di Elena e del suo doppio, che avviene in una caverna che presenta analogie con quella del noto mito di Platone. Ivi emerge l’impossibilità di un giudizio univoco e definitivo. Il desiderio di Elena per la vita e la famiglia porteranno il personaggio ad uscire dallo stallo della prigionia e ad affrontare il futuro, in un finale che è al tempo stesso positivo in quanto forward-looking e negativo in quanto, a differenza dell’Orestea, al sacrifico di dieci anni di guerra non corrisponde una compensazione, una pena (sul tema M.L. GUARDINI, Il mito di Elena: Euripide e Isocrate, Treviso, Canova 1987). Nel caso italiano tuttavia anche questo momento di confronto all’interno della società è mancato.
1089 Cfr. Y. THOMAS, La verità, il tempo, il giudice e lo storico, cit., 379.
1100 Cfr. P.P. PASOLINI, Scritti corsari, Milano, Garzanti 1975, 87, citato in S. PIVATO, Vuoti di memoria, cit., 41.
1101 Cfr. K.H. JARAUSCH, Nightmares or Daydreams?, cit., 320.
1102 Cfr. D. RIEFF, In praise of forgetting, cit., 141. Secondo l’Autore, l’unico ad aver affrontato espressamente tale problema sarebbe il politologo tedesco Ulrich BECK, il quale propone di «sostituire la “grandeur nazionale” con una forma di memoria collettiva che egli chiama “nazionalismo metodologico”, con qualche forma di “ambivalenza condivisa” sul passato, anche se egli è meno chiaro su come ciò possa funzionare nella pratica» (ibidem).
Paolo Caroli, La giustizia di transizione in Italia. L’esperienza dopo la seconda guerra mondiale, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2015-2016