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domenica 26 dicembre 2021

Interessamento e preoccupazione per i fumetti da parte del partito comunista italiano nel decennio 1945-1955 (fine)



Una vignetta apparsa su "il Pioniere" - Fonte: Silvia Franchini, Diventare grandi con il Pioniere..., Firenze University Press, 2006

[seguito di questo articolo]

Per quanto riguarda il cinema, una analoga riflessione era stata compiuta l’anno precedente da Carlo Lizzani sulle colonne del settimanale diretto da Enrico Berlinguer. Per quale ragione - si chiede il giovane regista - a distanza di cinque anni dalla fine della guerra, i produttori cinematografici americani continuano a prediligere i film di guerra? La risposta parte dalla considerazione che, nei paesi capitalistici, la cinematografia (in quanto industria e in quanto espressione propagandistica) è nelle mani delle classi dirigenti, ed è dunque nell’interesse di queste classi che le “formule” e le “mode” cinematografiche vengono prescelte ed imposte al pubblico di tutto il mondo. A parere di Lizzani, dunque, tranne qualche rarissimo esempio, i film di guerra americani servono per mantenere in vita e coltivare nella gioventù «gli istinti bellicosi, lo spirito di sopraffazione, il gusto della violenza», per presentare la guerra come «un giuoco divertente ma rischioso» e per «esaltare lo spirito militaristico, la disciplina militare in se stessa, come missione e ideale».[170] Nel caso dei film sugli indiani e sulle guerre coloniali ci si trova di fronte anche ad un forte messaggio razzista: la superiorità della razza bianca e la necessità di schiacciare o “proteggere” le razze inferiori. Quale abisso - nota sconsolatamente l’autore - con i film sovietici di guerra! Quale abisso con opere di importanza fondamentale quali la Battaglia di Stalingrado e la Battaglia di Berlino, che rappresentano il trionfo dello spirito di unità democratica tra i popoli e mostrano il reale andamento dei fatti durante la seconda guerra mondiale; da ogni loro sequenza si sprigiona «l’aspirazione alla pace, la necessità di creare all’umanità un avvenire migliore». È anche tenendo conto di questi valori - conclude Lizzani - che va «giudicato e combattuto il film americano di guerra in cui invece gli unici ideali che vengono esaltati sono la violenza, l’inganno, il razzismo».[171]
Una analoga ed approfondita riflessione sui contenuti-valori nel cinema dell’occidente capitalistico e sulla sua influenza corruttrice sulle giovani generazioni compare anche nella analisi dei “film sulla gioventù” compiuta da Elio Petri sul numero del febbraio 1951 di «Gioventù Nuova».[172] Il cinema borghese del dopoguerra - afferma Petri - ha ripetutamente affrontato il tema dei problemi della gioventù, a tal punto che si è venuto a creare un vero e proprio genere cinematografico, con decine e decine di film che «intendono, indirettamente, instillare nell’animo degli spettatori giovani la sfiducia nella vita, il pessimismo, la sensazione di una trappola alla quale l’uomo moderno non potrebbe sfuggire». Una massiccia produzione cinematografica che si propone di distrarre i giovani dalla loro condizione, spingerli al vaneggiamento e a dare sfogo al loro naturale impulso di rivolta «su un piano puramente fantastico, nell’immaginare azioni gangeristiche [...], nel concepire il proprio “io” al di sopra del loro interesse». I germi della rivolta vengono così incanalati verso «l’individualismo più sfrenato, l’anarchismo spicciolo del piccolo gangster di periferia», neutralizzando in tal modo il potenziale di carica rivoluzionaria. Gli stessi film, contemporaneamente, pensano anche a soffocare la speranza di poter condurre a termine con successo le gesta gangeristiche, illustrando nei dettagli la sanguinosa opera di repressione condotta dalla polizia. In questo modo, ai giovani che escono dal cinema non rimane altro che preferire la loro attuale situazione e stare buoni.[173] Protagonisti della quasi totalità dei film americani sulla gioventù violenta - scrive ancora Petri - sono sempre dei giovani assassini, ladri, degenerati o stupratori, appartenenti alle classi povere. I personaggi positivi non sono mai dei lavoratori e le stesse persone oneste sono rappresentate come noiose e piagnone. Ben diverso è invece il discorso quando protagonisti dei film hollywoodiani sono i figli della borghesia. In questo caso tutto va bene ed i personaggi sono belli e simpatici, si lavano sempre i denti, sono un po’ sbarazzini ma non farebbero male a una mosca e davanti a loro hanno un avvenire sicuro. Emerge quindi con chiarezza - questa la conclusione di Elio Petri - che la cinematografia borghese, producendo in abbondanza film sulla gioventù violenta, nulla mostra al pubblico della corrotta mentalità americana e della sete di denaro che vi regna, niente dice delle vere cause che generano i fenomeni di criminalità giovanile ed evita accuratamente di trattare dei veri problemi della gioventù (primo fra tutti, quello della disoccupazione giovanile).[174]
La denuncia di un utilizzo delle pubblicazioni e dei film destinati ai giovani in funzione della preparazione di una nuova guerra è presente anche negli interventi dei maggiori dirigenti del PCI e della FGCI. Due per tutti: Pietro Secchia e Enrico Berlinguer. Gli imperialisti americani e i loro servi europei - afferma Secchia nel novembre 1948 - progettano di utilizzare i nobili e generosi sentimenti dei giovani «in imprese brigantesche e criminali. Pensano di utilizzare le forze della vita per evocare la morte»; si servono «dei films, delle scuole, dei libri e delle riviste per incoraggiare nei giovani i sentimenti del più basso, del più abietto gangsterismo».[175] In uno dei rari articoli pubblicati su «Rinascita», Berlinguer a sua volta afferma: «Tutti vedono che è da tempo in atto un tentativo di organizzare una parte della cultura italiana in funzione della preparazione della guerra. L’invadenza - si potrebbe dire l’aggressione - della “cultura” americana contro la nostra cultura ne è l’aspetto più evidente. Tale elemento è oggi presente dappertutto: nei film, in giornali e riviste di ogni tipo, nelle arti figurative, ecc. e agisce come fattore di snazionalizzazione della cultura italiana minandone le possibilità di resistenza, di esistenza e di sviluppo».[176]
Persino Walt Disney stando a quanto viene scritto su «Noi Donne» nell’aprile 1951 sarebbe stato arruolato nelle fila dei fautori e dei preparatori di una nuova guerra, per «portare ai bambini», dalle tavole della sua creatura più famosa e più diffusa, Topolino, «un messaggio destinato a suscitare odio e terrore».[177] Ed ai bambini, indifesi, massicciamente esposti alle insidie corruttrici dei “fumetti”, si volge costantemente lo sguardo preoccupato dei dirigenti comunisti. La stampa a loro destinata - scrive «La Repubblica dei Ragazzi» nel 1951 - costituisce un «materiale eccitante e profondamente antieducativo [in cui] prevale lo spirito di razzismo, di colonialismo, dell’imperialismo […] si insegna l’odio per l’Unione Sovietica, per i lavoratori, si mettono in ridicolo gli scioperi, la democrazia, si esalta lo spionaggio, la violenza, il gangsterismo e così via».[178] Su alcune delle pubblicazioni di partito si diffondono appelli ai genitori, mettendoli in guardia sul nemico che entra indisturbato nelle loro abitazioni ed li si invita ad intensificare la vigilanza: «I nemici della pace e della libertà si servono anche dei giornali a fumetti per minare l’unità e la tranquillità della vostre famiglie. Il vostro dovere perciò è di vigilare sui giornali ed albi che i vostri ragazzi portano a casa».[179] «In milioni di famiglie di lavoratori - prosegue l’articolo - il veleno della propaganda nemica non entra sotto forma di quotidiano politico o di settimanale di attualità; ma nella veste variopinta di giornalino o albo a fumetti, davanti al quale spesso i genitori mantengono un atteggiamento di indifferenza, pensando che si tratti di “roba da ragazzi”».[180] Nel numero del «Quaderno dell’attivista» del 16 agosto 1954 Ezio Bompani denuncia che sono ancora troppi i casi di passività delle famiglie di fronte «all’educazione clericale che viene imposta ai loro figli, di fronte alle letture a fumetti, veramente malefiche».[181]
In uno schema consolidato - non bisogna mai dimenticare che questi sono gli anni della “guerra fredda” - il termine di confronto positivo, anche per quanto riguarda i “fumetti”, è rappresentato dall’Unione Sovietica. Nel paese del socialismo realizzato, si ricorda di sovente a riprova della nocività di questo tipo di pubblicazioni, non vi è traccia di “fumetti”. Lo fa, ad esempio, Marisa Musu nel già citato articolo di apertura del dibattito su «Gioventù Nuova», per convalidare la tesi che i comunisti non debbono considerare i fumetti una nuova forma letteraria: «penso - ella scrive - che il fatto che in URSS i fumetti non esistono debba essere per noi indicativo».[182] E lo fa anche Lucio Lombardo Radice al ritorno di un lungo viaggio nell’URSS, segnalando che nel “Centro del libro per l’infanzia” di Mosca non c’è ««neppure un esemplare di quei racconti di foschi e atroci delitti di criminali raffinati e di poliziotti astuti, che eccitano e rimbecilliscono i nostri ragazzi. Non c’è neppure una copia di quei giornalacci che abituano alla fantasticheria malsana, di quel “veleno americano” che circola liberamente da noi».[183]
Oltre a quelli già citati nelle pagine precedenti, nei primi anni Cinquanta sono molti gli interventi di dirigenti comunisti, i documenti e le risoluzioni di partito, gli articoli sulle pubblicazioni del PCI e della FGCI che affrontano, più o meno direttamente, la questione dei “fumetti”. Un importante spunto di riflessione e di intervento viene fornito, tra l’altro, dalla discussione in Parlamento di una proposta di legge per la “Vigilanza e controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza”, presentata a firma di un nutrito gruppo di deputati democristiani.[184] Tuttavia, prescindendo dal dibattito parlamentare, in generale la posizione teorica predominante nel partito è quella della critica, della condanna e della chiusura. Anche per questo motivo conviene esaminare solo alcuni di questi interventi, ed in particolare quelli utili a comprendere il cambiamento di orientamento che avviene nel gruppo dirigente comunista a metà degli anni Cinquanta.
Il primo intervento da prendere in considerazione è un lungo articolo di Nilde Iotti - sul numero di «Rinascita» del dicembre 1951 - collegato al dibattito parlamentare sui “fumetti”.[185] Dopo un rapido accenno alla storia della letteratura per l’infanzia, con lo scopo di evidenziare come la querelle sui fumetti non sia del tutto nuova (con un richiamo alla polemiche sui “racconti di fate” nella Francia del Seicento), la giovane deputata emiliana illustra ai lettori della rivista quali sono le origini del fumetto, spiega come sono fatti i fumetti e sottolinea che i racconti a fumetti sono sempre avventurosi e «vi si esaltano la violenza, la brutalità, la lotta tra gli uomini, l’istinto sessuale».[186] Al pari di Giuliano Pajetta, anche Nilde Iotti è assolutamente convinta dell’impossibilità di separare la “forma” dal “contenuto” e di sostenere, quindi, che ad essere dannosi sarebbe solamente quest’ultimo e non l’intero fumetto. A suo parere, infatti, la forma è dannosa almeno quanto il contenuto. Il fumetto, chiarisce Iotti, riduce la rappresentazione della realtà a un certo limitato numero di segni visivi primitivi e sopprime tutto il resto, «afferra la mente attraverso poche immagini, e sostituisce una serie violenta di queste immagini alla ricerca dei particolari, di una logica, e di un processo discorsivo. Le poche parole illustrative sono una molla, essa pure primitiva, che spinge da una immagine all’altra una mente che non lavora, non riflette, si impigrisce e arrugginisce».[187] La lettura dei fumetti - ella afferma - è cosa profondamente diversa dalla lettura vera e propria: il fumetto non sostituisce la lettura ma la sopprime.
La gioventù che si nutre di fumetti non legge. E questa «assenza di lettura - nota la giovane deputata comunista - non è l’ultima tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto col mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori della legge e solidarietà degli uomini».[188] L’educazione al ragionamento e alla riflessione data dalla scrittura, oltre ad essere preparazione letteraria ed educazione dell’intelletto, è anche «disciplina interiore degli istinti primitivi, animaleschi».[189] Tutto ciò - per Nilde Iotti - dimostra che forma e contenuto del fumetto non sono separabili. Il fatto stesso che i fumetti narrino quasi esclusivamente storie orripilanti di personaggi violenti, brutali e sempre in guerra con i propri simili e che i contrasti si risolvano quasi sempre con la violenza dipende anche dalla forma fumetto: essa esige che i protagonisti siano continuamente impegnati in un gesto o in un atto violento, altrimenti la serie non interessa al pubblico.[190] La grande diffusione del fumetto nel nostro paese, prosegue Nilde Iotti, dipende dalla esaltazione tutta italiana per tutto quello che proviene dagli Stati Uniti d’America, dalla decadenza generale della famiglia, della scuola e della cultura italiane ed infine dalle condizioni materiali in cui vivono i giovani e dalla mancanza di prospettive per il futuro. Appare evidente, dunque, che decadenza, «corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono dunque fatti collegati, […] manifestazioni diverse di una realtà unica».[191] La soluzione di fondo del problema - conclude Nilde Iotti - non può e non deve essere quella di proibire o controllare i fumetti, bisogna «affrontare e risolvere tutta la questione dell’orientamento ideale e pratico, della educazione dello sviluppo intellettuale e morale dei giovani. Ma non lo si fa, se non si mette il dito nella piaga, che è di ordine economico, sociale e anche politico».[192]
L’altro scritto da prendere in esame, in quanto esprime una posizione antitetica rispetto a quella di Nilde Iotti ed in quanto rappresenta - per il fatto stesso di essere pubblicato sul «Quaderno dell’attivista» - uno degli indizi del cambiamento di posizione matura lentamente nel gruppo dirigente del partito, è quello di Giuliana Saladino.[193] Non a caso, come vedremo più oltre, il punto di partenza della riflessione che compie la dirigente palermitana è rappresentato da alcune affermazioni togliattiane: «Noi non abbiamo ancora - afferma il segretario del PCI nel brano del suo intervento alla seconda Conferenza nazionale delle donne comuniste riportato dalla Saladino - mezzi efficaci di propaganda tra le donne. Abbiamo il comizio, ma le donne non lo frequentano volentieri. […] leggere l’Unità è ancora per molti una cosa difficile. Come arriviamo dunque alla donna che sa appena compitare qualche parola, che non è in grado di leggere un articolo editoriale, che non va ai comizi? Dobbiamo trovare forme particolari di propaganda. Non so quali possano essere, […] ma queste forme debbono essere trovate, perché dobbiamo riuscire a far arrivare la nostra parola […] molto più in là fra le donne di quanto non sia arrivata e non arrivi sinora».[194]
Questa - commenta l’autrice dell’articolo riferendosi evidentemente al discorso togliattiano - è una delle prime volte che una indicazione simile viene posta con tanta chiarezza e forza all’attenzione di tutto il partito e delle donne comuniste. E siccome i pareri sono alquanto discordi, è necessario e giusto discuterne. Stabilito questo primo punto fermo, Giuliana Saladino espone, non senza preoccupazione, la stato della propaganda femminile in Sicilia: «considerato che la massa di donne a cui ci rivolgiamo generalmente è composta di donne analfabete o semianalfabete o comunque di livello culturale bassissimo […] possiamo affermare - ammette con preoccupazione - che continuiamo ad offrire alle donne una propaganda difficile, spesso del tutto inadeguata, a volte noiosa».[195] Tolta la stampa saltuaria e tolte «Noi Donne» e «l’Unità», perché sono pubblicazioni inadeguate o troppo difficili, cosa rimane, si chiede retoricamente la dirigente siciliana, per le donne del Sud e, più in generale, per le donne che sanno a malapena leggere e scrivere? La risposta è sconfortante: «Assolutamente nulla di periodico, assolutamente nessuna pubblicazione che abbia il carattere elementare richiesto».[196]
La situazione - nota Giuliana Saladino - è ancora più grave se si pensa al fatto che le donne, anche quelle più arretrate leggono, hanno voglia di leggere e per farlo sono disposte anche a spendere una parte di quel poco che hanno. Ne è una prova la grande diffusione dei fumetti nell’isola: «le ragazze poverissime e quasi analfabete delle famiglie bracciantili di Partinico, le ragazze dei quartieri popolari di Palermo, con le quali abbiamo parlato di questo, ci dicono che una ragazza spende sino a 150 lire alla settimana per un cineromanzo […]; che le fortunate che sanno leggere, leggono la sera ad alta voce a quelle che non sanno; che lo stesso fascicolo fa sempre il giro di almeno 30 o 40 ragazze, spontaneamente organizzate per la lettura appassionante».[197]
A questo punto il ragionamento della Saladino si fa più stringente e, al contempo, più esplicito: se la propaganda comunista vuole essere efficace non si può prescindere da tali considerazioni, nonostante il giudizio “di partito” sui fumetti sia notoriamente severo. Il termine di confronto e di polemica, non a caso, viene individuato proprio nel citato intervento di Nilde Iotti su «Rinascita». L’affermazione è perentoria: «non possiamo essere d’accordo [con Nilde Iotti], non possiamo noi, in Sicilia, così semplicemente scartare il fumetto, letto da milioni di donne, come mezzo di propaganda».[198]
Il vincolo della realtà, i termini reali del problema, sono già tutti lì, nella scelta ineludibilie tra l’essere e il dover essere, nella contrapposizione tra “il giudizio di partito” e il “non possiamo”. Inutile tenere ostinatamente - come diremmo oggi - una posizione proibizionista, la realtà non sente ragioni, con i “fumetti” non si può fare a meno di fare i conti. Di conseguenza, la confutazione delle argomentazioni della Iotti si fa - non senza una qualche forzatura o fraintendimento del suo pensiero - più stringente: «Dice la compagna Iotti che in materia di fumetto la forma e il contenuto non sono separabili, perciò al bando i fumetti, il che sarebbe come volere mettere al bando il cinema sulla base della assoluta maggioranza di film violenti, stupidi e corrotti».[199] Spesso si è portati a scartare il fumetto come mezzo di espressione perché rievoca soltanto immagini brutali, violente e pornografiche. Ma è necessario andare oltre questo atteggiamento di rifiuto (anche psicologico): «ai fumetti può corrispondere un contenuto positivo».[200] Tant’è che, anche in Cina - afferma Giuliana Saladino, per dare legittimità socialista alle sue affermazioni e per cercare di parare anticipatamente le possibili e prevedibili critiche - «data la necessità di adeguarsi alla mentalità primitiva di immense masse di donne e di uomini che solo adesso imparano a scrivere», si fa largo uso di fumetti «il cui disegno è ammorbidito e ingentilito, il cui contenuto è altamente educativo».[201] Oltre all’esempio cinese, l’autrice dell’articolo ricorda la positiva esperienza fatta in Sicilia con L’amore vince sempre, un album a fumetti stampato dal partito “per le masse contadine più arretrate” in occasione delle elezioni del 1955. Una iniziativa più che azzeccata, a tal punto che, dopo molti mesi, poteva capitare di sentirsi raccontare parola per parola l’intero album a fumetti non solo da alcune donne ma, addirittura, da un giovane e attivo quadro contadino, che, per di più, «è stato già ad una scuola di partito».[202]
Un’altra cosa sulla quale riflettere - conclude Giuliana Saladino - è il fatto che alla donne, ai braccianti e ai contadini della Sicilia le grandi idee di giustizia, di libertà, di rinnovamento, in una parola, il socialismo, oggi non arrivano - e non possono arrivare - per il tramite della letteratura. Possono invece arrivare con i “fumetti”: «Noi vedremmo volentieri in mano alle donne siciliane degli album a fumetti con i celebri romanzi d’amore e di lotte in cui viene esaltata la giustizia e condannata questa società, i suoi mali e i suoi torti. Come vedremmo volentieri un album a fumetti che di volta in volta, tratti problemi attuali, e sulla base di una trama semplice, di una storia vera, (e non ce ne mancano) esalti la lotta del popolo per la terra, la lotta contro il costume ancora feudale, ecc.».[203] In tal modo - è la conclusione - saremmo «sicuri di rivolgerci in modo finalmente efficace a donne che sanno appena compitare, cioè alle grandi masse del sud».[204]
L’importanza di questo articolo, come si può osservare, è molteplice. In primo luogo esso si propone deliberatamente di sfidare-smontare la posizione di partito sui fumetti, facendo appello alla necessità di dovere lavorare nella realtà data. In secondo luogo, supera d’un balzo la discussione sulla inseparabilità di forma e contenuto. Infine - soprattutto - costituisce una importante apertura ad un uso strumentale e temporaneo dei fumetti, seppure limitatamente a specifiche situazioni sociali e culturali (le masse femminili e contadine del Meridione).
Nonostante queste limitazioni, il varco aperto è comunque significativo, segno evidente che nel partito qualcosa sta cambiando. Si comincia insomma a prendere atto, anche sul piano teorico, che il nemico è passato e che difendere ad oltranza la trincea sarebbe inutile, controproducente e, forse, assurdo. Se ne ha una riprova importante, a qualche settimana di distanza, nelle parole di apertura pronunciate da Palmiro Togliatti in un incontro con le settanta migliori “costruttrici” della FGCI.[205]
Nei primi anni Cinquanta la posizione del segretario del PCI sulla questione dei “fumetti” non era stata affatto dissimile da quella della sua compagna e dell’intero gruppo dirigente comunista. Nell’intervento al XII Congresso nazionale della FGCI (Livorno, 29 marzo - 3 aprile 1950), solo per fare un esempio, parlando della crisi della gioventù e dei fenomeni di evasione dalla realtà, egli critica e condanna i fumetti in quanto presentano ai giovani una vita completamente diversa da quella in cui essi vivono e portano ad evadere dalla realtà.[206] Il giudizio torna immutato anche nell’incontro con le dirigenti della Federazione giovanile comunista. La critica di fondo che i comunisti rivolgono a queste pubblicazioni - afferma Togliatti rispondendo alla richiesta di esprimere una sua opinione in proposito - è quella di presentare un quadro falso della vita e del mondo e di portare a un distacco dalla vita reale. I fumetti inoltre disabituano al ragionamento e al pensiero, e ciò a causa del fatto che la mente è formata dalla lettura. Nella lettura si passa dalle parole ai fatti, con uno sforzo che educa e migliora, il fumetto, invece, è una stenografia del pensiero, non una forma educatrice dell’intelligenza; gli stessi fotoromanzi e fotofilm danno al lettore solo la trama dei fatti, ma non dicono e non fanno capire ed imparare null’altro.[207]
A questo punto della argomentazione togliattiana, però, il discorso cambia tono, aprendo uno spiraglio: nei confronti delle ragazze che leggono i fumetti - egli spiega - i comunisti non debbono far uso di divieti o bandi, perché non sono dei gesuiti rossi con un indice delle letture proibite, non debbono dire “non leggete questi fumetti o questi libri reazionari”, ma debbono invitare le giovani a leggere e riflettere, a leggere e pensare, a leggere e confrontare la loro vita con quella delle altre ragazze. Non ordini e divieti, ma discussione e convinzione, lavoro per abituare le ragazze a pensare con la loro testa, a studiare da sole, a pensare liberamente.[208] E più avanti, esplicitamente: se serve a far ragionare e discutere, le ragazze comuniste possono usare anche il fotoromanzo, tenendo sempre presente, però, che esso non può in alcun modo sostituirsi alla lettura.[209]
Sia queste ultime affermazioni del Segretario del PCI sia quelle di Giuliana Saladino, come hanno giustamente messo in evidenza anche Stephen Gundle e Sandro Bellassai, mostrano con chiarezza il cambiamento che si verifica a metà degli anni Cinquanta nella posizione dei comunisti italiani rispetto alla questione dei fumetti.[210] Solo che, probabilmente, leggendo l’atteggiamento comunista esclusivamente, o quasi, dall’angolo visuale della posizione teorica si corre il rischio di trascurare (e forse di non vedere affatto) l’altro aspetto fondamentale della questione, quello cioè della “posizione pratica” del partito e della sua organizzazione giovanile rispetto ai “fumetti”. Alle varie dichiarazioni di principio fa infatti costantemente riscontro, quando più, quando meno, un atteggiamento pratico di segno diverso, se non opposto. In linea di principio, i quadri dirigenti centrali e periferici della FGCI e del PCI condannano nettamente e ripetutamente i “fumetti”, in pratica, però, li tollerano e, quindi, acconsentono a che essi vengano utilizzati sulle pubblicazioni di partito fin dai primi anni del dopoguerra. Addirittura, soprattutto per quanto riguarda la propaganda elettorale, è il partito stesso a produrre ed a distribuire alcuni fotoromanzi.[211] Una contraddizione lucidamente colta - ma nient’affatto sfruttata - dalla stessa Marisa Musu quando afferma che dei fumetti sono condannabili la morale ed i contenuti che essi diffondono ma non la forma fumetto, ché altrimenti non si spiegherebbe, e tantomeno sarebbe accettabile, il largo utilizzo dei fumetti in pubblicazioni quali «Pattuglia» o «Noi donne».[212]
È questo uno dei molti aspetti contraddittori del “partito nuovo” che contribuisce ulteriormente a ridimensionare (sfatare) la tesi tutta politica-polemica di un PCI monolitico, schiavo dell’ideologia e completamente chiuso ai cambiamenti culturali ed alle forme di comunicazione non tradizionali; mostrando, invece, un partito nel quale, malgrado tutto e faticosamente, si cerca anche di innovare.[213]
Gli esempi per illustrare come e quanto i fumetti siano tollerati e utilizzati certo non mancano, anche se in sede storiografia non sono stati adeguatamente valutati e valorizzati. Già nel maggio 1947, ad esempio, l’edizione milanese de «l’Unità» avvia la pubblicazione quotidiana della striscia a fumetti Stella e Tom. Anche se l’iniziativa ha una vita relativamente breve, a causa delle proteste di alcuni dirigenti comunisti, è tuttavia significativo che essa abbia persino l’approvazione dello stesso segretario del PCI.[214] Due anni dopo, sullo stesso quotidiano di partito, compare invece un supplemento a fumetti, per i bambini, curato da Gianni Rodari.[215] Non va poi dimenticato che periodici quali «Noi Donne», «Pattuglia» e «Avanguardia» pubblicano regolarmente fumetti e fotoromanzi.[216] Solo nel 1948, ad esempio, sul settimanale diretto da Luigi Longo compaiono: Invisibile catena, Braccialetti d’argento e Vicolo della speranza.[217] Nel 1953 «Avanguardia» pubblica in supplemento il fotoromanzo Cuori di donne, racconto della storia d’amore e di lotta del giovane bracciante comunista Franco e della casalinga Emma, due fidanzati prossimi al matrimonio. Cuori di donne parla di padroni, di licenziamenti, di scioperi, di crumiri, di lotte e di rivolte bracciantili, di coraggio, di arresti e di presa di coscienza politica. Per tutti - afferma con decisione il protagonista al termine della storia e della lotta - comincerà una vita migliore, ormai «la gente ha capito che per ottenere ciò che gli spetta deve lottare. Perciò ora sono sicuro che noi lavoratori vinceremo le elezioni».[218]
Sforzandosi soprattutto di innovare la propria propaganda, ma svolgendo indubbiamente anche un’opera di educazione politica, lo stesso PCI fa uso diretto e ripetuto dei fumetti e dei fotoromanzi per i manifesti o in fascicolo. Nella accesissima campagna elettorale contro la “legge truffa” (giugno 1953) viene ad esempio utilizzato il fumetto La scoperta dell’America. Questa volta la storia narrata è quella del Sor Giuseppe, che il 18 aprile 1948 aveva votato per la Democrazia Cristiana, ma poi si ritrova “con il figlio bastonato per caso dalla Celere, il fidanzato della figlia licenziato dal lavoro e la moglie che non riesce più a far quadrare i conti di casa”. E così, di fronte alle ennesime promesse profuse da un manifesto elettorale della DC, decide di non rinnovare il proprio voto al partito scudocrociato.[219] Nell’aprile 1958, nuovamente alla vigilia di una tornata elettorale, la Sezione stampa e propaganda del PCI stampa e mette in vendita (al prezzo di cinquanta lire) il fotoromanzo La grande speranza. Protagonisti sono degli emigranti italiani che lavorano nelle miniere del Belgio ed i temi, quelli dei licenziamenti, delle difficoltà di ogni tipo e degli amori contrastati. La conclusione “politica” arriva con le poche parole che Francesco (il protagonista) rivolge alla fidanzata all’ingresso di una sezione elettorale: «Quando con questa scheda andrai a votare, pensa a me, Lucia. Il voto che daremo al partito comunista sarà il nostro contributo perché in Italia ci sia serenità e benessere per tutti».[220] Nell’ottobre 1963, infine, il Partito edita e diffonde Frontiera tra gli sposi: storia d’amore (con protagonisti ancora degli emigrati meridionali in Svizzera e in Germania) che giunge al lieto fine dopo una serie di difficoltà materiali (licenziamento, indigenza economica) e di acuti contrasti familiari. In questo fotoromanzo è la sezione del PCI, con foto di Togliatti alla parete, a funzionare da «luogo di denuncia delle ingiustizie sociali […] e di presa di coscienza politica».[221] Emblematico il dialogo finale fra due dei protagonisti: chi è “onesto e combatte una giusta battaglia non può scoraggiarsi”, dice lui, “è vero - commenta la ragazza - e c’è un’altra cosa importante: che ci amiamo”.[222]
Coinvolge anche Enrico Berlinguer questo duplice atteggiamento nei confronti delle pubblicazioni a fumetti? Limitandosi ad un esame dei suoi scritti principali parrebbe di no. In realtà, alcune affermazioni apparentemente marginali e, soprattutto, il comportamento tenuto e le iniziative non prese mostrano con chiarezza che bisogna rivedere questo giudizio.
Il «Pioniere», ad esempio, è una delle pubblicazioni “controllate” dalla Federazione giovanile comunista,[223] eppure, questo settimanale diretto ai bambini e agli adolescenti (che arriva a raggiungere una diffusione di 60.000 copie) riempie molte delle sue pagine con coloratissimi fumetti. E tutto ciò proprio mentre il Berlinguer che condanna aspramente i fumetti è Segretario della FGCI. Se non bastasse, si può aggiungere che il giudizio di Berlinguer sul giornale non è certo negativo o critico: nel 1954 egli infatti giudica apertamente il «Pioniere» una «efficacissima arma per l’educazione democratica dei ragazzi, per combattere la diffusione di una letteratura infantile quanto mai nociva per l’educazione mentale dei giovanissimi».[224]
Un altro esempio significativo riguarda il periodico «Pattuglia», il “settimanale di lotta” dei giovani comunisti.[225] Anche questo giornale, infatti, pur essendo sotto stretto controllo della Segreteria della FGCI, pubblica abitualmente romanzi a fumetti. Quanto sia reale e decisivo questo potere di controllo e di indirizzo (e dunque, indirettamente, quanto sia importante che i fumetti vengano tranquillamente pubblicati sul periodico) appare con chiarezza se solo si considera che, ad esempio, quando su «Pattuglia» viene pubblicata una vignetta sconcia, Togliatti non esita un istante ad intervenire presso Enrico Berlinguer, prospettando addirittura l’eventualità di chiudere il periodico.[226] Come la pensi realmente Berlinguer non è dato sapere, ma sta di fatto che, in ogni caso, Gillo Pontecorvo (il direttore di «Pattuglia») viene prontamente sostituito con Ugo Pecchioli.




 

«Pioniere», n. 51, 28 dicembre 1952 - Fonte: Silvia Franchini, Diventare grandi con il Pioniere..., Firenze University Press, 2006

[NOTE]
[170] Lizzani Carlo, Razzismo e violenza nel film americano, in «Gioventù Nuova», a. II, n. 6-7, giugno-luglio 1950, p. 46.
[171] Ivi, 47.
[172] Petri Elio, Per un film sulla gioventù, in «Gioventù Nuova», a. III, n. 2, febbraio 1951, pp. 31-34.
[173] Ivi, 31.
[174] Ivi, 31-32.
[175] Secchia Pietro, Un mondo nuovo sorgerà dalla lotta dei giovani, in «Vie Nuove», a. III, n. 47, 28 novembre 1948.
[176] Berlinguer Enrico, La preparazione della guerra nella vita nazionale, in «Rinascita», n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 398.
[177] Cit. da Bellassai, La morale comunista, cit., p. 144. Nello stesso articolo, riprendendo la tesi abbastanza diffusa nell’universo comunista - ma non da tutti condivisa - che vi sarebbe una connessione specifica e diretta tra i “fumetti” e la delinquenza giovanile, si riprende l’opinione di un non meglio precisato “direttore della clinica psichiatrica di New York” per sostenere che la prima causa della criminalità infantile è la nefasta influenza di certi fumetti.
[178] Cit. da Bellassai, La morale comunista, cit., p. 339.
[179] Il Pioniere e la stampa per ragazzi in Italia, in «La Repubblica dei Ragazzi», n. 7-8, luglio-agosto 1951, p. 30, cit. da Bellassai, La morale comunista, cit., p. 339.
[180] Il Pioniere e la stampa per ragazzi in Italia, cit. da Bellassai, La morale comunista, cit., p. 132.
[181] Bompani Ezio, Fare dell’A.P.I. un’organizzazione nazionale, in «Quaderno dell’attivista», n. 16, 16 agosto 1954, p. 511. Prendendo una iniziativa più unica che rara, ed assolutamente non esemplificativa del modo in cui il partito comunista affronta il problema delle pubblicazioni destinate ai ragazzi, in un campeggio dell’Associazione Pionieri d’Italia di Milano, nell’estate ’53, si arriva addirittura a fare “un grande falò del fumetto”. «L’iniziativa - è lo sconcertante commento del dirigente dell’API che vi prende parte - comunque è stata buona, ha dato ottimi risultati, salvo il fatto che è stata presa troppo tardi» (Cit. da Bellassai, La morale comunista, cit., p. 399).
[182] Musu, Discutiamo sui fumetti, cit., p. 26.
[183] Lombardo Radice Lucio, Sei impressioni di un viaggio nell’URSS, in «Rinascita», a. VIII, n. 5, maggio 1951, p. 241.
[184] Cfr. La stampa per l’infanzia, in «Gioventù Nuova», a. III, n. 11-12, novembre-dicembre 1951.
[185] Iotti Nilde, La questione dei fumetti, in «Rinascita», a. VIII, n. 12, dicembre 1951, pp. 583-585. Tali misure - afferma la Iotti a proposito dei provvedimenti di sequestro preventivo previsti dalla legge in discussione - sono da respingere, in quanto reazionarie e inefficaci. La stessa argomentazione che una moralizzazione delle pubblicazioni destinate ai ragazzi ridurrebbe la delinquenza giovanile e farebbe scomparire alcune forme di degenerazione è infondata. I fumetti, al massimo, possono rendere manifesti degli orientamenti già presenti, la cui radice profonda va invece ricercata nelle condizioni materiali in cui vive la gioventù e nella cultura dell’occidente capitalistico (ivi, 583).
[186] Ivi, 584.
[187] Ibidem.
[188] Ibidem.
[189] Ibidem.
[190] Questi, - sempre a parere della Iotti - i motivi di fondo per i quali il fumetto è nato in America e da lì si è diffuso. Il fumetto, infatti, è adeguato a quel complesso di aspetti negativi e repellenti a cui sembra ridursi la civiltà americana; un mondo individualista, dominato dalla preoccupazione del successo materiale, che non tollera niente e nessuno che ostacoli questa legge, nel quale ha sempre ragione il più forte, il più furbo, il più ricco; un mondo nel quale mancano profonde tradizioni culturali e umanistiche. «L’eroe di questo mondo non può essere che il bandito (il gangster), ed è bandito anche quando è un grande finanziere o un capo di poliziotti o il presidente della repubblica. Vita e storia di questo eroe si calano nel fumetto aderendo perfettamente a quella forma» (ivi, 585).
[191] Ivi, 585.
[192] Ibidem.
[193] Saladino Giuliana, I fumetti e la nostra propaganda, in «Quaderno dell’attivista», n. 3, 20 febbraio 1956, pp. 12-14. Va tuttavia ricordato che già nel maggio dell’anno precedente su «Vie Nuove» era stato sostenuto che i fumetti sono senz’altro da condannare, ma possono svegliare un certo interesse per la lettura, affermando che l’ideale sarebbe averne di “belli e intelligenti” (cit. da Bellassai, La morale comunista, cit., p. 134).
[194] Cit. da Saladino, I fumetti e la nostra propaganda, cit., p. 12.
[195] Saladino, I fumetti e la nostra propaganda, cit., p. 12.
[196] Ivi, 13.
[197] Ivi, 13. Mai tanto onore, commenta sconsolata l’autrice, è toccato alla propaganda comunista.
[198] Ivi, 13.
[199] Ivi, 13.
[200] Ivi, 13.
[201] Ivi, 13. Si ricordino le affermazioni di Marisa Musu e di Lucio Lombardo Radice a proposito del fatto che in URSS i fumetti non esistono.
[202] Ivi, 14. «Il compagno era stato profondamente colpito ed entusiasmato da quella storia semplice, e ricordava a memoria le parole dei dialoghi più drammatici» (Ibidem).
[203] Ivi, 14.
[204] Ivi, 14.
[205] Riunite a convegno nella capitale, le ragazze avevano ricevuto il premio di un colloquio con il Migliore a Botteghe Oscure. Il resoconto giornalistico del colloquio viene pubblicato su «Avanguardia» a firma “G. R.” (Ragazze di tutta Italia a colloquio con Togliatti, in «Avanguardia», a. IV, n. 15, 8 aprile 1956). Molto probabilmente l’autore del pezzo è Gianni Rodari, all’epoca direttore del periodico.
[206] Anche leggendo i fumetti, afferma Togliatti, «si evade dall’esistenza» (cit. da Musu, Discutiamo sui fumetti, cit., p. 30).
[207] Cfr. Ragazze di tutta Italia a colloquio con Togliatti, cit. I fotofilm sono pubblicazioni che riproducono in poche pagine storia e le immagini di un film.
[208] Ibidem.
[209] Ibidem. L’umanità - è il giudizio conclusivo di Togliatti - diventerebbe un cosa meschina il giorno in cui esisterebbero solo i fumetti.
[210] Cfr. Gundle Stephen, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa (1943-1991), Firenze, Giunti, 1995, p. 223 e Bellassai, La morale comunista, cit., p. 134.
[211] Questo aspetto viene colto in una certa misura da Carmine De Luca e da Miriam Mafai. Il primo afferma che «è già di per sé interessante il fatto che il partito comunista, per le sue campagne di propaganda e di tesseramento, non abbia avuto remore a far ricorso al fotoromanzo, ritenuto, di norma, la forma più “bassa” e “volgare” di narrazione popolare» (De Luca Carmine, Grand Hotel Pci, in «l’Unità», 20 novembre 1996). Mafai, invece, tiene a sottolineare l’importanza del fatto che «Il Pioniere» facesse largo uso di fumetti nonostante in quello stesso periodo il PCI si fosse pronunciato ufficialmente contro tale mezzo di comunicazione (Mafai Miriam, Botteghe Oscure, addio. Com’eravamo comunisti, Milano, Mondadori, 1996, pp. 98-99).
[212] Musu, Discutiamo sui fumetti, cit., p. 26. Bisogna segnalare, per inciso, che la stessa Marisa Musu, sul numero di «Vie Nuove» del 18 maggio 1947, aveva dato, per così dire, una valutazione politica non del tutto negativa sulle pubblicazioni a fumetti destinate alle ragazze. A suo dire, infatti, attraverso la lettura di riviste quali «Grand Hotel» le ragazze italiane appagano il loro desiderio di sognare e manifestano l’aspirazione «a un focolare sicuro, a una famiglia serena e sana, a un lavoro che sia benessere e tranquillità per loro e per i loro figli». Per questo motivo, Marisa Musu si spinge ad affermare che, «se alla Conferenza Nazionale della Gioventù Comunista, qualche delegata avrà Grand Hotel nella borsa o in qualche intervento verrà fuori, la parola “sogni” anziché “riflessioni”, non ci si deve scandalizzare: anche per questa via le ragazze vanno verso la democrazia» ((Musu, Le ragazze sognano, cit.).
[213] Cfr. Gozzini Giovanni - Martinelli Renzo, Storia del Partito comunista italiano. VII. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Torino, Einaudi, 1998, p. 268.
[214] Bellassai, La morale comunista, cit., p. 132.
[215] Cfr. Gozzini-Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. VII, cit., p. 296.
[216] Cfr. Mazzatosta Maria Teresa, I comunisti si raccontano. 1946-1956, Roma, Armando Armando, 1988, p. 27.
[217] Cfr. Bellassai, La morale comunista, cit., p. 134.
[218] Cit. da De Luca, Grand Hotel Pci, cit. Il caso di «Avanguardia» è emblematico della complessità e della contraddittorietà della riflessione e dell’atteggiamento comunista verso i fumetti. Sulle colonne del settimanale diretto da quello stesso Gianni Rodari che cura il supplemento a fumetti de «l’Unità», che polemizza con la deputata Nilde Iotti sull’importanza del fumetto nella cultura giovanile (cfr. Valentini Chiara, Il compagno Berlinguer, Milano, Mondadori, 1985, p. 106) e che pubblica Cuori di donne, infatti, compare la fotografia di un bambino di fronte ad una fila di fumetti esposti in un’edicola, seguita da questo lapidario commento: «Il nemico all’angolo della strada» (cfr. «Avanguardia», a. II, n. 24, 13 giugno 1954, p. 9).
[219] Cfr. Gozzini-Martinelli, Storia del Partito comunista italiano VII, cit., p. 268. Il commento finale al fumetto invita a non farsi nuovamente ingannare dalla DC e a “votare per le forze del lavoro e della Pace”. Come abbiamo visto nell’articolo di Giuliana Saladino, i “fumetti” vengono inoltre adoperati in Sicilia per la campagna elettorale del 1955. L’anno successivo (il 1956), nella rossa Bologna viene invece pubblicato il fotoromanzo Più forte del destino (Cfr. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca., cit., p. 223).
[220] Cit. da De Luca, Grand Hotel Pci, cit. Il fotoromanzo è, di fatto, un’invenzione italiana. La prima rivista di fotoromanzi, «Sogno» (“settimanale di romanzi d’amore e fotogrammi”) esce il 7 marzo 1947. Di seguito, appaiono nelle edicole italiane le altre testate: «Bolero film», «Grand Hotel», «Cinema illustrato», «Polvere di stelle», «Incontro d’amore», «L’avventuroso film» (cfr. Gallozzi, «E la Chiesa lanciò la Bibbia in rosa», cit.,. Interessanti notazioni riguardo alla storia dei fumetti e dei fotoromanzi in Italia, nonché all’atteggiamento del PCI, sono rintracciabili nelle opere già citate di Gundle e Bellassai.
[221] De Luca, Grand Hotel Pci, cit.
[222] Cit. da De Luca, Grand Hotel Pci, cit. Anche la Chiesa cattolica, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, non disdegna di utilizzare il fotoromanzo. Dopo una fase iniziale di storie emblematiche di conversione (con i protagonisti che spesso decidono di partire come missionari), Famiglia Cristiana, con un notevole impegno di mezzi finanziari e di forze, arriva a pubblicare anche la Bibbia a fotoromanzo (cfr. Gallozzi, «E la Chiesa lanciò la Bibbia in rosa», cit.).
[223] Nell’articolo La nostra stampa («Il Costruttore», n. 2, febbraio 1954) Berlinguer parla esplicitamente de «Il Pioniere» come di una delle pubblicazioni del movimento giovanile comunista.
[224] Berlinguer, La nostra stampa, cit. Anche il giudizio del PCI su «Il Pioniere» è molto positivo. Nelle «Istruzioni e direttive di lavoro della Direzione del PCI a tutte le Federazioni» (n. 5, 28 febbraio 1957) si afferma, infatti, che il settimanale svolge una funzione di «orientamento, di educazione e di organizzatore dei ragazzi».
[225] Nato nel maggio 1948, il settimanale, che in breve raggiunge una tiratura di centomila copie. viene diretto prima da Alfonso Gatto e poi da Gillo Pontecorvo.
[226] Scorrendo le pagine dell’ultimo numero di «Pattuglia», l’attenzione di Togliatti viene attirata da una vignetta dove si vede il rotondeggiante sedere di una ragazza uscire da un costume da bagno un po’ sbrindellato e un giovanotto che maliziosamente le chiede: “Signorina, ha un buco nel sedere?”. Indignato, il Segretario del PCI manda uno dei suoi famosi bigliettini a Berlinguer, chiedendogli se non crede anche lui che sarebbe meglio sopprimere un giornale che pubblica simili oscenità (l’episodio viene ricostruito da Chiara Valentini, sulla base della testimonianza di Renzo Trivelli, ne Il compagno Berlinguer, cit. p. 89).
 

Fonte: Silvia Franchini, Diventare grandi con il Pioniere..., Firenze University Press, 2006

Alessandro Sanzo, Enrico Berlinguer e l'educazione dell'uomo. Il contributo alla “formazione integrale” dei comunisti italiani (1945-1956), Tesi di laurea, Università degli Studi di Roma "La Sapienza, Anno accademico 2000-2001, qui ripresa da wwww.cultureducazione.it

[fine]

giovedì 23 dicembre 2021

Quello che Rubino ha scritto è come una lettera agli uomini


Dopo il giugno del 1943 né l'autore né la rubrica compariranno più sulla testata per lasciare spazio alle pressanti discussioni sulla ricostruzione che richiedevano tutta la carta che la redazione di "Stile" aveva a disposizione. Collaboratore della rivista tra il 1943 e il 1945 sarà Rubino Rubini, giovane poeta e traduttore, ligure di nascita ma laureatosi in lettere a Milano, che morirà partigiano a solo ventiquattro anni nei giorni seguenti la liberazione di Milano <290. Rubini si occupa principalmente di critica letteraria, commentando la produzione di scrittori italiani e anche stranieri, segno che dall'estate del 1943 "Stile" si stava lasciando alle spalle l'eredità fascista per aprirsi agli orizzonti internazionali. Il suo primo articolo uscì nel numero di giugno del 1943 ed era dedicato alla figura di Giovanni Boine, collaboratore della rivista "Riviera Ligure" (per cui aveva scritto anche Rubini), dove pubblicava racconti brevi e dichiarazioni di poetica <291. Interessante è notare la sua collaborazione con Lisa Ponti nel numero del luglio 1944, dove i due offrono al lettore un ritratto di Katherine Mansfield riportando vari estratti dei suoi poemetti e delle sue lettere tradotti da Rubini stesso per il testo Nuovi racconti, pubblicato a Milano nel 1944 <292.
Fondamentale nel suo lavoro per "Stile" era stato l'incarico di tradurre i testi di Le Corbusier, Les quatres routes del 1941 e La maison des hommes del 1942, che erano ritenuti da Ponti imprescindibili per i teorici della ricostruzione e di cui egli stesso citerà diversi estratti. L'articolo Le Corbusier 1939-Noi 1944 riporta infatti parti del primo capitolo di Les quatres routes per dimostrare come nonostante l'architetto francese fosse persuaso della vittoria contro il Reich, a sconfitta avvenuta non si fosse ritirato dalle scene, al contrario, aveva comunque pubblicato i suoi testi per "costruire il paese con uno spirito nuovo ed elevarlo nel suo sforzo costruttivo", in un atteggiamento di fiducia verso il futuro della propria nazione <293.
Sul numero 3 del 1945 sono raccolti una serie di articoli commemorativi scritti in occasione della morte di Rubini e Ponti introduce un suo articolo postumo (Una Terra) con una commossa evocazione del giovane "di cui resta in noi il ricordo vivo, e restano sovrattutto le testimonianze delle sue pagine vive e il nostro accorato pensare si rida di noi uomini, e spezzi incurante gli ingegni e i cuori migliori" <294.
Il testo di Rubini è un ricordo della sua terra, la Liguria, resa viva agli occhi del lettore tramite le descrizioni della natura, del clima, delle persone (in particolare dei suoi genitori), ma messa in relazione alla tragicità della guerra, che sconvolge la bellezza e l'equilibrio con l'assurdità della violenza: "I ricordi e la paura mi negano persino il diritto di parlare, sono un uomo senza destino ormai, la mia terra travolge gli steli e le cose di generazioni di fiori e di uomini, tutto si perde. [...] Mio padre mi scrive: 'Tre morti, un austriaco, un polacco, un italiano, sono sepolti nel cimitero nostro. Quando vado alla tomba del nonno metto un ramo di cipresso sulle loro fosse, così che se le loro mamme sono ancora vive sentiranno un leggero sollievo" <295.
L'ultima immagine che Rubini offre al lettore è invece quella della madre nella sua casa d'infanzia, ma anche qui è giunta la guerra che ha intaccato la purezza del luogo: "Mi chiedo perché e vedo mia madre seduta dietro la porta chiusa che attende il passaggio della guerra, sola, nella casa vecchia, mentre il vento si arriccia nell'impiglio degli ulivi e scuote i frutti che nessuno per quest'anno raccoglierà, e di notte la pioggia si rovescia dalle grondaie sui vicoli stretti del paese, mentre tutto poi trema e ha paura degli uomini e della morte" <296.
Su "Stile" viene pubblicato anche il testo poetico Litania degli italiani del 1944, che viene commentato da Lisa Ponti in un articolo che si chiama semplicemente Rubino. La poesia parla di un gruppo di giovani partigiani, che non vengono però descritti come "eroi della Resistenza", ma in modo realistico, con un'osservazione attenta e a tratti cruda, ricca di dettagli, che mostra al lettore dei personaggi reali, semplici ragazzi italiani: "Andremo tutti alla deriva, amici! dormiremo sotto i ponti, le vecchie ceste ci faran da cuscino. Dormiremo in piedi, attaccati ai muri delle carceri nei pomeriggi d'estate. Faremo l'amore sui tetti smaltati in dieci minuti mangeremo dai cartocci sulle panchine pubbliche e giorno per giorno ci aiuteremo a morire" <297.
Lisa Ponti lo descrive come un ragazzo "inquieto, disperato, fanciullesco. Magro, con una faccia appuntita. Penso a quando arrivava da noi e ci guardava lavorare poggiato allo stipite della porta, con le braccia incrociate, un po' corrucciato come un bambino" <298. Racconta anche le vicende relative alla sua morte con tale trasporto che il lettore inevitabilmente si sente coinvolto in questa vicenda umana: "Rubino non venne a colazione e lo maledicemmo ridendo. Ma passò il giorno. Passarono i giorni. Rubino? Eva [la moglie] divenne pallida e senza voce. Mandammo un messaggio radio. Dopo sette giorni qualcuno andò persino a vedere a Musoccio. Erano seppelliti da una settimana, tutti e sei, nel campo delle spie. Fu visto Rubino, in una bara stretta, spogliato e contratto" <299.
L'immagine che emerge dai ritratti di chi lo conosceva è quella di un ragazzo genuino e talentuoso strappato alla vita da una guerra che avrebbe dovuto essere breve e vittoriosa, ma che invece aveva devastato un continente.
"Tutto è autobiografico, quello che Rubino ha scritto è come una lettera agli uomini. Io credo che basti volerlo e ognuno diventa protagonista del proprio racconto. Lui no, non attendeva: sapeva invecchiare di un'ora, accorciando ogni tempo, senza pause, dieci anni in un anno, un anno in un mese" <300.
[NOTE]
290 G. P. [G. Ponti], Evocazione di Rubini, in "Stile", n. 3 (51) 1945, p. 29.
291 R. Rubini, Per un'immagine di Giovanni Boine, ivi, n. 31, luglio 1943, p. 43. Altri articoli: R. Rubini, Pensieri e riflessioni, ivi, n. 39, marzo 1944, p. 32; Id., Enrico Manuelli e i sentimenti, ivi, n. 40, aprile 1944; Id., Spiegazione di un sogno, ivi, n. 42, giugno 1944, p. 38.
292 Id., Sui poemetti di Katherine Mansfield, ivi, n. 43, luglio 1944, pp. 46; L. Ponti, Lettura della Mansfield, ivi, pp. 47-48.
293 G. Ponti e R. Rubini, Le Corbusier 1939-Noi 1944, ivi, n. 40, aprile 1944, p. 11. Cfr. G. Ponti, L'ora
dell'architettura, ivi, n. 27, marzo 1943, pp. 2-3; V. Casali, Le Corbusier: scritti e pensieri, Roma 2014.
294 G. Ponti, Evocazione di Rubini, in "Stile", cit., p. 29; R. Rubini, Una Terra, in "Stile", cit., p. 29.
295 R. Rubini, Una Terra, cit., p. 29.
296 Ibidem.
297 R. Rubini, Litania degli italiani, in "Stile", n. 3 (51) 1945, p. 31.
298 L. Ponti, Rubino, ivi, p. 33
299 Ibidem.
300 D. Porzio, Ricordo di Rubino, in "Stile", cit., p. 34.
Silvia Lattuada, Arti del tessile e dell’ago nell’editoria di Gio Ponti tra “Lo Stile” e “Fili”, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

Esiste soluzione di continuità tra la poesia antecedente all’ermetismo e l’ermetismo? Qualche ricordo, alla buona: della poesia di D’Annunzio furono gloriosamente salvi lo studio accanito della forma, l’esemplare e costante premura d’osservazione. I crepuscolari ne subirono, a loro fisiche spese, l’impetuosità del contenuto. Gozzano lasciava i libri di Nietzsche per aiutare le disperate cetonie capovolte: doveva egli aver ben letto e sofferto Nietzsche se sapeva tradirlo così opportunamente (gli elementi in contrasto su un piano di convinzioni sono sempre uno all’altro complementari: Gozzano aveva nel sangue il “metodo” poetico del Poema paradisiaco e delle Elegie romane…) A fianco, i “vociani”, tanto distanti tra loro da formare un tutto di incertezze positive: crepuscolare Palazzeschi, pieno di tutto e ribelle alle sue condanne Papini, impressionista Soffici, ecc. Pascoli era nell’orecchio di tutti. Il suo tono, meno inquinato dalle barderie del costume, lasciava pure una traccia. Da Pascoli a Boine è breve il cammino. Ci vedo in mezzo Mario Novaro, un altro responsabile che è impossibile dimenticare, che cantava: È l’alba - incantata - apparizione del mondo! - oh che a Dio nei cieli, - freccia d’oro, - io mandi un saluto… Sfrondata la sua poesia da un intimo bagaglio di impressioni goethiane e naturalistiche, dagli echi pascoliani e talvolta carducciani, egli ha un posto ben evidente nel susseguirsi delle nuove scoperte poetiche, Boine gli si accosta, con un caratteristico frasario (un rosario) dolorante, un’incuria del verso, una particolare cura del nascosto ritmo: l’impressionismo italiano ha qui una voce ben distesa, lo conferma il frammentismo di Boine, quello di Sbarbaro. L’endecasillabo con i liguri, i toscani, con i futuristi, s’era già rotto: le estreme illazioni ne furono tratte da Ungaretti.
Comincia qui la particolar avventura degli “ermetici”. È assai interessante seguirne il respiro. (Ne estraggo subito Montale. Entrato nella storia letteraria con una incrollabile fede musicale – rotta e sussultoria, ma sempre intonata - il ligure è l’unico dei contemporanei che abbia soverchiato la sua esperienza sulle lezioni degli antecessori. L’occasione poetica, a tratti simile all’ispirazione crepuscolare, si personalizza nei risultati finali: vedi il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case, la farfalla entrata nella stanza. Certe sue prove dannunziane - anche qui il contrasto è evidentissimo: staticità per conclusione ragionata di fronte a dinamicità per partito preso, sospirata divina indifferenza di fronte a perpetuo bollore - non durano mai più d’un verso, si perdono nell’inondante sua aria. Montale ha usato la sua tecnica per ricchezza spontanea e ne ha regalato un po’ a tutti. Del resto, oggi, in tanti poeti, laureati e novizi, il calcar le impronte di Montale mi par più improntitudine che obbedienza a giusti dettami. Ungaretti dunque, partito da certe sue esclamazioni a mo’ di poesia, attrasse le voglie ricostruttive dell’endecasillabo così provato - o della musicalità in tono classico: notevole quindi ogni sua dichiarazione d’attaccamento al leopardi. Toltagli però quella ben nota lucidità francese, il suo lavoro di riallacciamento invece di raggiungere al primo salto la sponda leopardiana, rivelò a fior d’acqua lo scoglio di quel primo impressionismo che nulla aveva di rivoluzionario, almeno nei programmi. Si pensi che gli ultimi appunti di Boine, pubblicati postumi sulla “Riviera Ligure”, erano stati affiancati dal destino impaginatore alle prime liriche quasi monostrofiche di Ungaretti… Il ritorno alla storia dell’uomo, alla felice (“allegra”) scoperta delle proprie inquietudini, non ci pare ormai extra ordinario: pure, Ungaretti uomo di pena, il cui sentimento appena bastava per un bozzetto lirico (il poco bene che mi nasce - così piano mi nasce… da cui non si può trarre gran dissetamento, se non l’esame del “come” gli nasce), attento solo alla sua schiavitù di parole, avaro persino con la propria espressione, formò realmente il clima di una nuova poetica i cui termini fissi erano sì, l’illuminazione favolosa, il mito, la divinazione metafisica, ma i cui risultati però imponevano una secchezza di umanità a stento sufficiente al poeta per scoprirsi in epigrammatiche conclusioni là dove un altro poeta più libero, più abituato alla verità, più confidente sarebbe corso via senza scandali né allarmi [...] Anche in Sinisgalli dunque un sentimento (un sentore) del tempo misurò il movimento dell’uomo: in ogni sua poesia il tempo è stato colto nei suoi momenti di transizione, alba, tramonto, corsa notturna della luna, quando cioè la luce, mutando, trasforma (rinnova) uomini e natura. In Ungaretti era (con ben altra nobiltà di tono) l’invito ad una conclusione morale, e vi si sentiva la faticosa responsabilità: “t’affretta, o tempo, a pormi sulle labbra - le tue labbra ultime”. Ciò in Sinisgalli resta soltanto come scoperta della momentaneità, un rifiuto ad esser deciso con i propri sentimenti: “sgocciola il giorno - dalle cime dei tetti”, “chiamavi l’ultima luce - all’inganno della fonte”, “l’aurora è appena uscita dai forni”… Colore: che par qui la maggior preoccupazione di Sinisgalli. A tratti nasce poi una rottura, un colpo violento, ed è il primo passo verso una maggior maturazione: “infanzia gridata dagli uccelli”, “la luce era gridata a perdifiato”, “i fanciulli… gridano a squarciagola”. Dalle prime poesie, stese su una discorsività assai semplice; con punteggiatura comunissima di punti e rare virgole; con aggettivazione sostantivata (“ansia di foglie”, “insidia delle cisterne”, “insidia delle serpi”); con metrica assolutamente libera, in cui l’incontro dell’endecasillabo e dei suoi derivati è casuale, quasi gratuito, Sinisgalli passò ad un gioco più accessibile di stesure, obbedendo a certi richiami autobiografici in cui veniva dolce la rima al mezzo, capitavan buone altre facili rime a fondo verso, nasceva cordialmente una cadenza di canzone  [...]
Rubino Rubini, “Vidi le Muse” di Sinisgalli, in "Stile" n. 37, gennaio 1944, articolo qui ripreso da Fondazione Leonardo Sinisgalli

lunedì 20 dicembre 2021

Vallombrosa segnò l’apogeo politico di Fanfani


Durante la gestione fanfaniana del partito, come abbiamo visto, la Democrazia cristiana è attraversata da correnti sempre più robuste e pronte a guerreggiare, l’ingerenza cattolica e vaticana nelle vicende politiche e partitiche è lungi dall’essere disinnescata, e in Parlamento l’incedere dei governi appare tutt’altro che saldo e nemmeno in sicuro miglioramento.
Di primo acchito, dopo questa premessa, verrebbe spontaneo domandarsi come mai Amintore Fanfani sia ancor oggi ricordato come un politico innovatore, e come mai l’immaginario collettivo lo celebri - insieme ad Aldo Moro - come uno dei padri del centro-sinistra italiano.
Ma possiamo considerare il suo faticoso incedere sinonimo, o parente stretto, di fallimento? E viviamo un abbaglio quando incappiamo nella sua fama? Proprio no. La difficoltà di procedere ad un riassetto delle forze politiche in uscita dal centrismo, non deve in alcun modo essere scambiata con un giudizio di sterilità di quelle manovre.
Se anche i risultati dei propositi “fanfaniani” non furono immediatamente visibili, infatti, sotto le increspature della vita politica evidente prendevano vigore novità ed aperture che avrebbero di lì a poco condotto il Paese ad una nuova stagione.
Come notato da Tamburrano: "sarebbe inesatto affermare che l’attività di Fanfani si esaurì nell’attivismo organizzativo. La verità è che, sia pure con molta cautela, egli veniva abbozzando un discorso nuovo verso i socialisti, particolarmente dopo che il PSI aveva avviato con decisione lo sganciamento politico dal PCI e dopo che tra i due partiti socialisti si era aperto il discorso sull’unificazione". <111
Questo “discorso nuovo” venne espresso da Fanfani per la prima volta con una certa forza, ed anche con una buona dose di esplicita chiarezza, nel luglio del 1957 durante l’ormai celebre Consiglio nazionale democristiano di Vallombrosa <112 .
La Seconda Legislatura volgeva al termine. Il primo governo Segni, retto da un accordo tra DC, PSDI e PLI aveva da pochi mesi lasciato il posto ad un instabile monocolore presieduto da Adone Zoli, un esecutivo tutt’altro che robusto, costretto com’era a muoversi sul ghiaccio sottile di chi non può contare su una maggioranza precostituita in Parlamento.
A Vallombrosa Fanfani, con una relazione impostata in gran parte sulla questione socialista e sui suoi riflessi nel quadro politico nazionale, sottolineò l’orientamento emerso nell’ambito dell’Internazionale socialista, tendente a realizzare nei vari paesi europei un più incisivo peso politico del socialismo nei confronti delle altre forze democratiche. […]
"Auspicando l’evoluzione del socialismo italiano verso orientamenti democratici e liberi da vincoli con il PCI, per Fanfani il dopo elezioni poteva rappresentare il momento del più ampio e costruttivo rapporto con le forze socialiste, per realizzare “oneste collaborazioni democratiche.”" <113
Fanfani stava dunque compiendo un passo ulteriore rispetto a quanto dichiarato da De Gasperi nel V Congresso di Napoli. Non alludendo più alla necessità della “garanzia che si tratti di un socialismo democratico”, e non accennando soltanto - come a suo tempo lo statista trentino - ad un possibile scenario che, chissà, “vale proprio per chi ritiene che un giorno o l’altro si imporrà la collaborazione dei socialisti”. Secondo questa interpretazione Fanfani non sembrerebbe più interessato ad esercitarsi in un vago vaticinio, ma intenderebbe guidare il partito verso la Terza legislatura, una legislatura che avrebbe tutta l’intenzione di connotare politicamente.
Dunque Fanfani non allude, non accenna e non auspica.
Fanfani vede la trasformazione  del PSI, l’annuncia, la spiega, la contestualizza nello scenario internazionale.
Al Consiglio nazionale del suo partito non vuole quindi chiedere un’opinione, non li interroga come De Gasperi a Napoli, se i Socialisti italiani avessero o meno abbracciato “definitivamente il regime libero e rinunziato alla dittatura marxista”, e non li accosta cauto, come lui stesso aveva fatto pochi mesi prima a Trento. Il Segretario nazionale
afferma che le cose stanno così, e che il pericolo che la democratizzazione socialista possa al fine rivolgersi contro la stessa Democrazia cristiana: “non giustifica una sua opposizione”.
Perché: "Se la DC è convinta che la democratizzazione vera del socialismo è un mezzo efficace per sbarrare definitivamente la strada al comunismo, non deve frapporre ostacoli, ma creare le condizioni politiche e programmatiche per incoraggiarla garantendogli una prospettiva di reale sviluppo democratico". <114
Anche se oggi i diari del leader democristiano lasciano intendere un tasso di risolutezza e di chiarezza minore <115, la percezione che allora si ebbe non fu distante da quanto tratteggiato.
E di fronte a tale percezione, la reazione del partito non fu uniforme. Ma mentre un sarcastico Andreotti sibilava perplessità verso un Segretario che si proponeva di “liberare Nenni dalla schiavitù moscovita” e in favore del quale ci si apprestava addirittura “ad offrire al capo del socialismo italiano le vesti e i vitelli migliori come al Figliuol Prodigo, con la differenza che ancora il figlio non ha mostrato alcuna effettiva volontà di abbandonare la vita alla macchia” <116, Fanfani riuscì a cementare ulteriormente il rapporto con “La Base” <117. Contemporaneamente però, una così netta apertura al PSI lo rese inviso ad una parte della sua stessa corrente, “Iniziativa democratica”.
Come osservano Luciano Radi <118 e Manlio di Lalla <119, un altro aspetto interessante di quanto uscì da Vallombrosa, fu ciò che non venne detto: “Colombo, Segni, Rumor, preferirono non prendere la parola. E la loro presa di posizione era condivisa da molti quadri di vertice e intermedi. Una parte di Iniziativa Democratica riteneva, infatti, che il discorso troppo spregiudicato fatto sull’unificazione socialista fosse prematuro.” <120
Taluni ambienti vaticani, come ricorda Radi, la pensarono allo stesso modo: "Il Consiglio Nazionale di Vallombrosa ha avuto il merito di dare il via nel Paese ad un certo approfondito dibattito sul problema del socialismo italiano. Certo continuarono a manifestarsi pareri pro o contro l’apertura a sinistra. Si ricorda una autorevolissima voce di dissenso, quella di Don Luigi Sturzo.
“Nessuno potrà illudersi, scrisse, della conversione di Nenni che resta, qual è un peccatore ostinato”. E con riferimento alle sinistre DC: “Costoro vedono il bene dove è il male dell’Italia e anche dell’Europa". <121
Vallombrosa si rivelò dunque un Consiglio nazionale importante, ma dagli esiti ancora una volta contraddittori e non risolutivi.
Come notato da Tamburrano: "Vallombrosa segnò l’apogeo politico di Fanfani, ma fece anche apparire gravi lesioni nell’edificio del potere fanfaniano: il segretario della Democrazia cristiana che nel precedente consiglio nazionale, appena un mese prima, aveva raccolto l’unanimità dei consensi, a Vallombrosa contò parecchi dissensi: una parte consistente e autorevole della corrente avvia prudentemente le manovre di distacco che approderanno, nel marzo del 1959, al consiglio nazionale della Domus Mariae, che rovesciò Fanfani". <122
Per la Democrazia Cristiana, i risultati delle elezioni politiche del 25 maggio 1958 significano molte cose. In ballo non ci sono solo deputati e senatori da eleggere, ma anche l’esito dell’ambizione fanfaniana di raggiungere la maggioranza assoluta da valutare, l’auspicio di erodere voti alle sinistre da misurare, la conta interna del peso delle correnti da portare a somma. Fanfani s’impegna dunque in maniera massiccia nella campagna elettorale, cercando di consolidare la sua posizione alla guida del partito, convinto che: “la terza legislatura [avrebbe sancito] il tempo per il superamento dell’ormai asfittico modello centrista”. <123
"Fanfani indicò, come obiettivo della campagna elettorale del ’58, la ricostruzione di un centrismo aperto, fondato su ineludibili garanzie democratiche. Cercava così da una parte di accattivarsi le simpatie della sinistra DC, e dall’altra di dare assicurazioni a quell’ala del mondo cattolico che era ossessionata dal pericolo comunista: ala minoritaria ma che continuava ad avere riferimenti importanti nel Card. Ottaviani, in Padre Gliozzo, direttore de “La Civiltà Cattolica”, e nel solito Gedda <124, capo dei Comitati Civici". <125
Le urne decretarono per la DC nazionale un discreto successo, ma il 42,4% dei consensi - pur significando un incremento di oltre due punti percentuali rispetto alle politiche del giugno ’53 - si fermava comunque quasi otto punti lontano dall’auspicata conquista della maggioranza assoluta dei suffragi. Non solo, la perdita di voti registrata della destra missina e monarchica (i primi passarono dal 5,8 al 4,8 e i secondi dal 6,9 al 4,8) indicava chiaramente il non verificarsi di un secondo desiderio annunciato, lo sfondamento a sinistra. Se infatti i nuovi voti confluiti nel partito dello scudocrociato erano da rintracciarsi nella perdita di consenso delle destre, i voti di PCI e PSI aumentarono invece complessivamente dell’1.6%; mentre Liberali e Socialdemocratici non si discostarono che di pochi decimali rispetto a cinque anni prima. <126
"Le elezioni del 25 maggio 1958 segnarono la sconfitta del disegno fanfaniano di conquistare la maggioranza assoluta dei suffragi. […] Dello “sfondamento a sinistra” non restava nulla, mentre acquistava valore l’ipotesi prospettata da Fanfani a Vallombrosa di uno schieramento socialista democratico concorrente della DC <127.”" <128
Dati gli esiti elettorali, il Segretario politico propose al Comitato Nazionale riunito in assemblea il 10 giugno 1958 la nascita di un governo sostenuto da DC, PSDI e PRI. <129 Un centro-sinistra “pulito”, che poteva nei numeri beneficiare di una maggioranza non amplissima ma certa, e che avrebbe dovuto garantire all’azione di governo un certa sicurezza. La mozione fu approvata ad ampia maggioranza, una maggioranza che celava però solo apparentemente il malcontento di una parte consistente del partito, della stessa corrente “presidenziale” di “Iniziativa democratica” <130, ed anche dello stesso Partito Socialista: quel governo “[n]on fu una soluzione felice.
Verso i socialisti si adottò la formula della delimitazione della maggioranza che considerava i deputati di questo partito come ascari che danno voti non richiesti, quindi non contrattati e pertanto politicamente non qualificanti.” <131
Il 1 luglio 1958 Fanfani vara dunque il suo gabinetto <132
[...] Nonostante l’indiscutibile potere di Fanfani, l’ulteriore vigore acquisito grazie al buon risultato elettorale e il suo cipiglio da uomo forte, la “nuova Italia” che lui prospetta agita le fronde e le fazioni interne alla Democrazia Cristiana. Nel breve volgere di alcuni mesi, il Governo viene messo in minoranza più volte, e l’attività dei “franchi tiratori” si fa sempre più frequente e sfibrante.
Fanfani è più volte ad un passo dalle dimissioni, deciso a smascherare davanti agli elettori il gioco del quale si sente vittima. <134
Intanto, in Sicilia, Silvio Milazzo ha dato il via ad un governo regionale che presiede grazie ad una maggioranza composita ed eterogenea (dal Movimento Sociale Italiano al Partito Comunista Italiano). L’estromissione della Democrazia Cristiana dalla guida della Regione è un evento che diventa in breve di portata nazionale, sintomatico com’è di un generale caos politico, e di profonde contraddizioni interne al partito di maggioranza che tutto sono fuorché solo siciliane. Il 25 ottobre 1958 Milazzo - che ha rifiutato di dimettersi - viene espulso dalla DC, nonostante le difese di Sturzo e Scelba, ma è l’innesco di una carica ad alto potenziale che promette ricadute nazionali e governative. <135
"Andreotti, ministro in carica, attacca tutto. Legittimato a ciò dall’ondeggiante atteggiamento del partito ai tempi del caso Giuffrè. <136 Il fatto che egli senta maturo il tempo per riparlare del monocolore, dopo aver accettato a suo tempo il bipartito, indica che la crisi di governo è ormai nell’aria. Il ministro del Tesoro lamenta che Fanfani non si sia ricordato delle destre che hanno reso sempre possibili i monocolori, “senza scapito dei valori e del programma democristiano”, e avverte invece nella vita politica italiana la “paura di una confusa tinteggiatura socialista del programma democristiano e della dottrina sociale cristiana". <137
Andreotti accusa Fanfani di avere un atteggiamento di governo dimentico delle destre, dell’efficacia dei monocolori, della sempiterna battaglia per i valori cristiani e democristiani. E il tutto per cosa? Per una “confusa tinteggiatura socialista” e per una scivolosa dottrina sociale della Chiesa. L’attacco è esplicito, frontale, e dimostra che Giulio Andreotti si sente le spalle coperte. Infatti, fuori dalle aule parlamentari, il cielo sopra il governo non appare meno cupo. Don Sturzo aveva definito “un equivoco” <138 il governo Fanfani, e l’Azione Cattolica di Gedda “che aveva, tra l’altro, il controllo di un centinaio di deputati democristiani” si era messa alla testa della “crociata contro l’apertura a sinistra e gli uomini sospetti di volerla.” <139
Contemporaneamente, alla cauta presa di posizione dell’episcopato Piemontese che metteva in guardia, pur con un certo garbo, “i nostri cristiani contro le insidie di ideologie marxiste, e contro il pericolo di accettazione e di assorbimento di principi non compatibili con la dottrina cristiana” <140, riconsegnava vigore il cardiale Ottaviani che, prorompeva “con linguaggio di marcata intransigenza”, porgendo “gravi accuse al modo in cui la DC gestiva politicamente il consenso dei cattolici, soprattutto perché il partito non mostrava la forza e la volontà di mettere al passo neo-sinistrismi che lo stavano inquietando.” <141
Intanto, il 28 ottobre, tre giorni dopo l’espulsione di Milazzo dal partito, il patriarca di Venezia Angelo Roncalli veniva incoronato papa, con il nome di Giovanni XXIII. E la politica italiana rimaneva in attesa di capire se alla guida della Chiesa fosse salito il cardinale che considerava “distensione”, “aperture” e “compromessi” un “trastullo di vane parole”, oppure colui il quale, lasciando molti esterrefatti, aveva salutato con animo aperto i socialisti radunati in congresso nella sua Venezia.
Il 25 gennaio 1959, dopo l’intempestiva apparizione di nuovi “franchi tiratori” e a seguito delle ennesime dimissioni (questa volta del ministro del Lavoro, il socialdemocratico Ezio Vigorelli) Amintore Fanfani rassegna le dimissioni da presidente del Consiglio. In questa caduta - dovuta lui crede ad una “azione della destra DC” - Palmiro Togliatti leggerà il segno di un cambio avvenuto, forse proprio di quella “compromissione” che Nenni chiedeva alla DC post-centrista: “l’azione di Fanfani ha urtato determinati interessi capitalistici […]. Anche la destra monarchica e fascista ha rifiutato di concedere l’appoggio sotto banco.” <142
[NOTE]
111 G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 20.
112 Consiglio nazionale della DC, 13-14 luglio 1957.
113 F. Malgeri, Cambiamenti sociali e mutamenti politici: il partito di maggioranza, in P. L. Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a cura di), Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), cit., p. 342-3. Su quel periodo si veda anche quanto più largamente ricostruito dallo stesso Malgeri in La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1960), Soveria Mannelli, Rubettino, 2002.
114 Così Fanfani a Vallombrosa, ora in L. Radi, La DC da De Gasperia a Fanfani, cit., p.158.
115 Nonostante gli effetti reali e la percezione netta della nuova “rotta” fanfaniana, i diari del politico democristiano ci restituiscono molta più indecisione e indefinitezza di quanto gli studi più datati potevano sospettare. A. Fanfani, Diari, vol. III, 1956-1959, vol. IV, 1960-1963, Soveria Mannelli, Rubettino, 2012.
116 Così Andreotti a Vallombrosa, ora in F. Malgeri, Cambiamenti sociali e mutamenti politici: il partito di maggioranza, in P. L. Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a cura di), Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), cit., p. 343.
117 Come osservato da Tamburrano: “che dietro il progetto fanfaniano, di “sfondamento a sinistra” e di conquista della maggioranza assoluta, vi fosse concretamente la prospettiva della collaborazione con i socialisti del PSI fu capito dalla sinistra democristiana di Base. Che accettò di entrare in direzione, e fu capito, con preoccupazione ed ostilità, dall’opinione moderata e dai settori di destra della maggioranza democristiana.” G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 21.
118 L. Radi, La DC da De Gasperia a Fanfani, cit., p.160.
119 Di Lalla M., Storia della Democrazia cristiana. 1953-1962, volume II, Torino, Marietti, 1981, p. 197.
120 Ibid
121 L. Radi, La DC da De Gasperia a Fanfani, cit., p.161.
122 G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 21-2.
123 Così Fanfani a Vallombrosa, ora in L. Radi, La DC da De Gasperia a Fanfani, cit., p.158.
124 Sulla natura dell’operto dell’Azione Cattolica di quel periodo, e per alcuni specifici paragrafi sulla figura di Gedda, si veda - oltre ai già citati Mario Rossi, I giorni dell’onnipotenza e Michele Marchi, Politica e religione dal centrismo al centro-sinistra - anche lo studio di Gianfranco Poggi redatto a breve distanza dalle vicende Il clero di riserva. Studio sociologico sull’Azione cattolica Italiana durante la presidenza Gedda, Milano, Feltrinelli, 1963.
125 L. Radi, La DC da De Gasperia a Fanfani, cit., p.158.
126 Dati contenuti in P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., p. 237, e in G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 22.
127 Sul tema di una possibile sostituzione della DC alla guida del Paese a causa di un superamento nei consensi operato dal blocco PCI-PSI, Fanfani si era espresso anche al congresso di Trento, dimostrandosi piuttosto sicuro della scarso peso realistico di questa eventualità: “Per quanto riguarda il problema della nostra sostituzione al Governo con le forze unificate, la sostituzione è nelle mani degli elettori. Proclamare noi la volontà di restare e altri quella di sostituirci non serve a nulla. Serve operare in modo che gli elettori facciano una scelta chiara ed avveduta. […] Da dieci anni a questa parte i consensi dell’elettorato nei nostri riguardi sono stati abbastanza costanti e consistenti. […] Non ci sono ragioni per dubitare mentre molte sono le ragioni per ben sperare in un nuovo successo.”, Dieci congressi D.C. 1946-1967, cit., p. 244.
128 G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 22.
129 Il Governo Fanfani (al secolo come Fanfani II per l’esistenza - più burocratica che reale - di una sua precedente presidenza durata dal 18 gennaio 1954 all’8 febbraio dello successivo) poteva avvalersi del 47% circa dei voti, ed era quindi tecnicamente un governo di minoranza.
130 Si veda L. Radi, La DC da De Gasperia a Fanfani, cit., p.177-8.
131 G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 23. Nenni ebbe infatti a dire: “come non esistono per il Psi problemi di collaborazione ministeriale, così è inaccettabile, oggi e sempre, ogni funzione ausiliaria e di tamponamento delle falle democristiane”, cit. in Di Loreto, La difficile transizione, cit., p. 269.
132 Quel gabinetto, che comportò per qualche tempo che Fanfani fosse contemporaneamente Segretario nazionale, presidente del Consiglio dei ministri, e ministro degli Affari Esteri, fu criticato anche come sbilanciato in senso “neutralista” per l’assenza di uomini incondizionatamente riconducibili a posizioni nettamente atlantiche.
134 Per una ricostruzione dettagliata delle vicissitudini governative di quei mesi si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., capitolo quarto.
135 Per una ricostruzione giornalistica dei fatti si veda il recente O. Gelsomino, La stagione autonomista di Silvio Milazzo, Catania, Silvio di Pasquale editore, 2010.
136 Giambattista Giuffrè è stato un bancario-truffatore di Imola. L’uomo, accreditatosi presso numerose famiglie della residenti nella sua zona di rapporti consolidati e privilegiati con la curia vescovile, iniziò a raccoglierne i risparmi promettendo in cambio una rendita elevatissima. Contando su alcune connivenze negli ambienti politici e nel sistema bancario, Giuffrè riuscì così ad imbonire numerose vittime e a raccogliere ingenti somme di denaro. Prima che Giuffrè venisse smascherato, il suo “sistema” si era già esteso anche ad altre regioni italiane. Il caso suscitò notevole interesse e coinvolse nelle indagini i ministri delle Finanze Giulio Andreotti e Luigi Preti.
137 G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 153.
138 Cit., in G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 23.
139 Ibid.
140 A. Prandi, Chiesa e politica, cit. p. 68.
141 Ibid., p. 69. Mentre Nenni osservava con compiacimento una DC che spostava, seppur di poco, il proprio asse politico in direzione socialista, la stessa manovra era avvertita con preoccupazione come si è visto dalla destra democristiana e da quella cattolica. Ma non solo. Anche i Liberali, esclusi dalla coalizione di governo, non videro di buon’occhio quell’esperimento. Le parole di Giovanni Malagodi - che commenta la fine imposta da Fanfani alla  precedente coalizione dei quattro partiti di centro - non lasciano molto all’immaginazione: “Cadde per un atto deliberato dell’allora segretario della DC onorevole Fanfani; atto compiuto in omaggio a quello che l’on. Martino chiamò, in un nostro Consiglio nazionale, ‘un grande disegno politico’ tra virgolette, espressione ironica nei confronti di quello che in realtà era un disegno politico completamente astratto, e che non teneva conto di quelle che erano le reali
forze parlamentari e psicologiche nel Paese.” Cit., in G. Orsina, L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione al centrosinistra, cit., p. 99.
142 Cit., in P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., p. 270.
Giovanni Agostini, Centro-sinistra e autonomia speciale. La DC trentina tra il 1955 e il 1968, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015
 
 
Appendice B
 
Nelle pagine che seguono sono riportati alcuni documenti conservati presso i National Archives di Washington, D.C (punti 1,2 e 3) e articoli di stampa americana (punto 4)
 
Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra


 
Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

1) Questa è la prima parte del report che illustra il giudizio USA sull’Italia guidata da Fanfani nel 1958 (l’OCB era un organo speciale creato da Eisenhower per assicurare il coordinamento di tutte le iniziative americane in politica estera). Ne emerge l’ottimo rapporto del suo governo con gli Stati Uniti, ne vengono sottolineati i risultati in politica estera e si sottolinea anche come Fanfani sia riuscito a ridurre le “uscite fuori luogo” del Presidente Gronchi.
 
 
Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

2) Fanfani non aveva fatto mistero della sua politica mediterranea. Questa è la parte introduttiva di un documento del Dipartimento di Stato, dove si cerca di analizzare cosa sia questo “special interest” italiano nel Vicino e Medio Oriente. Dalla posizione geografica agli interessi economici.
 
 
Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

3) C’è una fitta corrispondenza tra l’ambasciata americana a Roma e il Dipartimento di Stato a Washington sul possibile viaggio di Fanfani in Egitto. In questo documento Dulles dice chiaramente che la visita del Presidente del Consiglio italiano può essere importante. Si riconosce dunque un possibile ruolo di mediazione a Fanfani, un indubbio successo di credibilità per il leader aretino.
 
 
Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

4) Nel primo articolo (New York Times, 7 Gennaio 1959) si vede come il viaggio di Fanfani al Cairo sia seguitissimo negli Stati Uniti e vi si riconosce il ruolo di portavoce delle posizioni occidentali.
 
 
Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

Il secondo articolo (New York Times, 24 Novembre 1958) è il famosissimo attacco di Sulzberger alla rivoluzione portata da Fanfani nel corpo diplomatico italiano. Sostituendo, secondo il giornalista, esperti e validi diplomatici con suoi uomini di fiducia (MAU MAU).
 
 
Fonte: Saverio Serri, Op. cit. infra

Il terzo articolo (New York Times, 27 Novembre 1958) è molto legato a quello di Sulzberger. Infatti il governo italiano protestò per i continui attacchi e Dulles fu costretto a ribadire che la politica estera italiana non era ambigua o neutralista, ma fedelmente atlantica.
 
Saverio Serri, Fanfani e il 1958: una nuova politica estera per l’Italia, IMT PhD Thesis, IMT Institute for Advanced Studies, Lucca, 2009