Powered By Blogger

sabato 18 dicembre 2021

Gli artisti e i letterati di Genova non hanno più ritrovo

Genova - Piazza Caricamento

Senza abbandonare l’assunto di un motivo filosofico e culturale scaturente da un paesaggio enigmatico nella sua interna tensione fra entroterra, città e riviera, vissuto anche tramite il filtro della poesia, Caproni si prova in maniera frammentaria a fare i conti con un’appartenenza territoriale nel momento in cui diviene morale e ancora estetica, cercando nel corpo del panorama il germe di una comunanza riconoscibile.
Il ritratto di un territorio così altamente simbolico nella trasfigurazione artistica operata in parte rilevante dalla poesia, si compie nel corso di circa quarant’anni, ma il primo passo di questo itinerario è un memorabile ritratto di Genova all’indomani della Liberazione. <179
Rivolgendosi all’amico Libero Bigiaretti, che tanta parte avrà nel suo primo periodo romano, Caproni descrive in soggettiva i luoghi di una città offesa e piegata, adottando il tono quasi sperimentale di un “neorealismo lirico” che prova a rendere i casi del proletariato genovese con una prosa ricca di riprese e ripetizioni, sottilmente tramata di espedienti retorici solo in parte volti a un’eleganza rude, e più spesso necessari a un discorso che prova a comprendere nel respiro del periodo lungo e ben costruito l’afflato fine e popolare fatto di visi umili e vicende di piccola umanità brulicante tra le macerie “rosee e bianche”: <180 «Non dico dunque che Genova ora è plebea: dico che si è screziata di plebe. Ed è già tanto, ed è già troppo, perché a Genova una plebe non è mai esistita, nemmeno in Prè esisteva prima la plebe, nemmeno a porta Soprana, forse nemmeno a Ravenna dove vigeva una miseria gelosa di sé e quanto mai pudica, che non avrebbe varcato coi suoi cenci e coi suoi mocci i confini del sacro centro per tutto l’oro del mondo». <181
Con incedere sontuoso e dimesso, la rassegna dei luoghi della città continua stemperandosi sul gusto del porto «abbandonato come un campo da tennis», <182 o dello Strega, «un muraglione a picco sul mare» <183 dove «andavano a fracassarsi la testa che non reggevano più, scossa dal vento della disperazione, i suicidi», <184 cogliendo immagini genuinamente espressive, in preparazione delle cronache del dopoguerra.
L’ultimo panorama della città, una città stranamente vitale in cui si coglie forse il germe e l’entusiasmo della rinascita, è affidato al connubio della luna e della prostituta che spende i suoi malinconici sorrisi ai camion in partenza:
"E fu lì che trassi l’ultima immagine di Genova: la giottesca luna rotonda nell’aria ancora leggermente diurna - la donna fino al sangue tinta e col vestito che copre appena le nude cosce troppo mature, tutta occupata a sorridere professionalmente a ogni camion del convoglio che, ben oliato, con le sue buone gomme sul fondo liscio e netto, transita in quell’istante: a sorridere camion dopo camion, uno per uno, benché nessuno le rispondesse, mentre la luna a poco a poco si alzava, era già alta la luna, e l’ultimo camion non era ancora passato, ed essa non aveva consumato ancora l’ultimo suo sorriso". (p. 149)
Nel letterato che va alla ricerca di una immagine collegata alla natura idillica dell’esistenza, pure nell’urgenza di una situazione storica drammatica, si riconosce il fondo di una educazione genuinamente umanistica, a cui si allega il mito della presenza poetica.
Ed è proprio in nome di una “ricerca dei simili” che si chiude il passaggio di Caproni nella Genova bombardata del dopo-Liberazione, dove le figure vagheggiate di Montale, Cherchi, <185 Sbarbaro, Saccarotti <186 e Barile, affollano la mente del poeta, che non può fare a meno, quasi fosse un vizio dell’anima, di rivolgersi alle sue guide predilette nel momento di una così grave crisi. <187
L’elaborazione intima di un piccolo canone di nomi, pure in grande anticipo sulla corrente ligustica, <188 ci conferma nell’idea di una base empirica e personale, che porrà l’autore di fronte alla responsabilità di una “scoperta” critica.
La calata del poeta si chiude con lo scacco di una umanità nascosta, dove le idee della poesia non possono fare altro che ritirarsi ad aspettare, ed è suggestivo pensare che l’unica figura reale nella conclusione della Lettera sia quella di un filosofo, nell’elenco fitto di artisti.
Va inoltre segnalato come, nella testimonianza dello stesso Caproni, la Liberazione e la Resistenza rappresenteranno la fine di un’epoca anche dal punto di vista letterario, quel momento cioè in cui la versificazione si arrende ai talenti più attuali della prosa, unica espressione utile a raccontare la storia di quei giorni: "Basta, non c’era un pontile d’imbarco per la mia nave, Libero. Gli artisti e i letterati di Genova non hanno più ritrovo, la mia nave era impaziente di salpare per i suoi sassi, non poteva stanare altri visi alla periferia o nelle redazioni o nelle chiuse case. A me urgeva ormai raggiungere quel punto della Val Trebbia che ti ho detto, e l’indomani mattina, subito, scavalcando tutti i ponti rotti, io lo raggiunsi quel punto, alfine […]". <189
Passando dalla città natale, contrapposta a Genova già nel 1948, Caproni va a definire il seme di una divisione che passerà con abbondanza di frutti nei versi. Il “genovese di Livorno” si trova a rielaborare in prima istanza lo spazio di una città della mente, che «esisterà sempre finché esisto io […] col suo sapore di gelati nell’odor di pesce del Mercato Centrale lungo i Fossi, e con l’illuminato asfalto del Voltone», <190 accostata alla figura dell’infanzia-madre. Esattamente all’opposto della "Lettera" si pone una nuova visita in città, di cui si rende conto nel pezzo "Genova città di gesso", <191 rendiconto della prima ricostruzione.
Con un tono da retorica in minore, che vale nelle intenzioni del cronista l’efficace avvicinamento a chi legge senza abbandonare la cura della prosa d’arte, si procede per fotogrammi, tracciando una prospettiva che unisce l’evocativa vista dall’alto <192 alla calata nel buio dei caruggi e dei vicoli intestinali, con l’effetto di uno zoom in cui non mancano le referenze letterarie e artistiche care al ritrattista.
È così che sulla città si ravvisa un’aura «bianca, gessosa come l’osso di seppia asciutto al sole», <193 mentre i luoghi accolti nel ragionamento in versi <194 fanno capolino descrivendo una geografia che a sua volta inizia a sfumarsi, dato che Caproni, lo ricorda in apertura d’articolo, ha raggiunto la città «di mattina da Roma (dalla luce di terracotta di Roma e da quella cupa e millenaria erba dell’agro)». <195
A chiudere il ritratto della varia umanità è di nuovo la figura di quelle «donne dei marinai, sepolte nel belletto e nella luce elettrica anche al solleone, con le loro carni abbandonate dagli alleati e tornate merce casalinga sotto le velature anch’esse azzurrine e gessose delle ciprie e degli organdis». <196
[NOTE]
179 Cfr. "Lettera da Genova", «Aretusa», I, 9, novembre 1945. A questo filone si addebitano anche pezzi come "Io genovese di Livorno", «Italia socialista», 22 febbraio 1948. "Genova città di gesso", «Italia socialista», 22 luglio 1948; "Le stradine del genovesato", «La Repubblica», 25 maggio 1948; «La Fiera letteraria», 25 dicembre 1955; «Immagine di una città», «La Fiera letteraria», 4 ottobre 1959; "Nelle chiese di Genova il rumore del mare", «Corriere mercantile», 25 febbraio del 1960; "Viaggio a Genova", «L'Espresso», 24 gennaio 1982.
180 Varrà la pena ricordare che proprio nell'ambito di un concorso bandito da «Aretusa », Caproni nel 1946 si aggiudicherà un premio di 10.000 lire con il racconto "Giorni aperti".
181 Lettera da Genova, cit., p. 146.
182 ivi, p. 148.
183 ibid.
184 ibid.
185 «Diciamo subito che, anche nel giovane Cherchi, quel che più ci piace è proprio quel suo felice ritorno, tentato finora con tutta onestà, all'originaria funzione della scultura italiana: la quale, più che al “frammento”, mira piuttosto a una vera e propria compiuta estrinsecazione che vorremmo dire “narrativa” del sentimento plastico, se questa parola non ci conducesse ad equivoci di natura letteraria. Una “narrazione”, insomma, intesa non nel senso proprio di letterario racconto (col suo svolgimento nel tempo) ma nel senso invece (un poco come accade nella lirica) di contemporaneità di più motivi insieme composti, sì quasi a dare all'opera una funzione di spaziale rappresentazione, che vorremmo dire propria per distinguerla dal letterario) dal racconto plastico», "Arti belle in Liguria", cit., p. 37.
186 «Oscar Saccarotti, […] è giunto alla sua conclusione proprio attraverso una tormentata e “voluta” esperienza: esperienza che si è svolta non solo nello spazio (Italia ed estero) ma anche, e più, nel tempo (Ottocento e Novecento). Certi suoi 'fiori' e certe sue 'nature in silenzio' (il neologismo però non ci piace) dipinti con quei toni tra grigi e azzurri e rosei che son tutti suoi, - e adattissimi del resto a soddisfare (per quella poesia che in sé contengono tali oggetti) lo spirito eminentemente malinconico e agreste del nostro - bastano a farci riconoscere in lui un pittore, come volgarmente si dice, nato», ivi, p. 38.
187 «M'infilai come un topo su per la salita di Santa Caterina, m'imbucai nel budello che da Santa Caterina porta alla redazione del “Lavoro Nuovo”, e lì alfine lo trovai qualcuno: Ciccirelli m'accompagnò da Poggi, ritrovai Alfredo Poggi annerito dal campo di concentramento, non più a scuola, in cattedra, ma sulla plancia del suo giornale. E fu una commozione grande per me rivedere, come una pietra cariata dai fulmini, colui che conoscevo col cuore come uno dei più giovanili maestri d'Italia», "Lettera da Genova", cit., p. 151.
188 Ci troviamo circa un decennio a monte di quella serie.
189 "Lettera da Genova", cit., p. 151.
190 "Io genovese di Livorno", «Italia socialista», 22 febbraio 1948, Prose, pp. 281-3. Interessante, tra l'altro, la caustica definizione, in apertura, dell'opera più celebre di De Amicis: «[…] Cuore, questo tremendo libro d'un uomo che, senza un filo di carità o di poesia, allettava i bambini per farli piangere e per ricavarne tanti piccoli funzionari dell'esistenza: tanti futuri “scrivani fiorentini”, inzuppati fino alle midolla di lacrime e di sopportazione sotto la mano di pietra d'un loro Iddio piccino e cattivo come un capufficio».
191 «L'Italia socialista», 22 luglio 1948, Prose, pp. 289-92.
192 «E m'è parso anche che quelle calcine nude dessero maggior consistenza a un'antica immagine di Genova vista da Castelletto, dove ancora cospirano i gatti teppisti cari a Gianna Manzini, o dal Righi: di Genova come città di macerie, quale è sempre apparsa dall'alto spaziando l'occhio sui vecchi muri di grigiobianca arenaria e sui tetti chiari d'ardesia, disordinati e con tutte le loro scaglie addossate l'una contro l'altra», ivi, p. 289.
193 ibid.
194 Stando alle date, ci troviamo nel periodo subito posteriore alla composizione delle "Stanze della funicolare", cfr. CAPRONI, "L'opera in versi", cit., p. 1145.
195 "Genova città di gesso", cit. p. 289
196 ivi, p. 291.
Fabrizio Miliucci, Lettore e letterato. Attività critico-giornalistica (1933-1989) di Giorgio Caproni, Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, Anno Accademico 2015-2016