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lunedì 29 agosto 2022

Un ruolo privilegiato lo ebbe la sinistra non comunista


L’apice della Red scare fu raggiunto, infatti, tra il 1950 e il 1954. Nel 1950 entrò in vigore il McCarran Act, che obbligava le organizzazioni politiche di ispirazione comunista a registrarsi presso il Dipartimento di giustizia, oltre ad introdurre una serie di limitazioni agli individui giudicati “sovversivi” e a disporre la detenzione preventiva per coloro che venivano accusati di spionaggio e attività sospette ogni qualvolta il Presidente avesse proclamato lo status di emergenza interna. Ad incarnare lo spirito di questa legge fu, com’è noto, il senatore del Wisconsin Joseph McCarthy, a cui fu lasciato campo libero, per alcuni anni, per inneggiare pubblicamente al “pericolo rosso” interno e per organizzare una serie di audizioni nel Senato statunitense a persone giudicate sovversive e compilare una serie di “liste nere” che non furono mai rese note.
Il “maccartismo”, tuttavia, esisteva prima dell’attività di McCarthy e sarebbe esistito anche in una fase successiva, con forme diverse. La “caccia alle streghe” degli anni Cinquanta fu, del resto, un fenomeno dilagante e si tramutò in una vera e propria paranoia nazionale: il Federal Bureau of Investigation (FBI) schedò migliaia di cittadini e le accuse di simpatie comuniste segnarono la fine della carriera di un numero imprecisato di scrittori, giornalisti, accademici e un numero imprecisato di registi, produttori e sceneggiatori di Hollywood <77.
Tra gli intellettuali, tuttavia, non furono i conservatori a prendere le redini della lotta al comunismo. Al contrario, l’anticomunismo intellettuale dei primi anni della Guerra fredda derivò dall’abbandono delle simpatie marxiste da parte di alcuni gruppi e singoli individui che avvenne sia negli Stati Uniti che in Europa. Negli Stati Uniti, quando scoppiò la Guerra fredda, la messa in discussione delle idee prodotte dal marxismo era iniziata già da almeno un decennio; come scrisse Irving Howe, uno dei protagonisti della vita intellettuale americana dagli anni Trenta, «La maggiore battaglia contro lo stalinismo come forza all’interno della vita intellettuale e, per dire la verità, una forza potente, avvenne prima che chiunque avesse sentito parlare della Guerra fredda» <78.
Durante gli anni Trenta, infatti, mentre i dettami dello stalinismo trasformavano l’Unione Sovietica in una nazione fortemente burocratizzata e decisamente repressiva, gli intellettuali euro-americani che si erano avvicinati al comunismo misero in discussione l’intera ideologia marxista. Negli Stati Uniti, molti di loro avevano sposato idee trozkiste: nei primi anni Trenta, tra Brooklyn, il Bronx e Newark, era cresciuta una generazione di intellettuali ebrei emigrati dall’Europa. La rete era formata da persone con pensieri piuttosto diversi tra di loro. Ciononostante, nel corso degli anni Cinquanta al gruppo venne affibbiata l’etichetta di “New York Intellectuals”, che includeva una serie disparata di letterati, artisti, critici e filosofi. Tra di loro c’erano Philip Rahv, William Phillips, Lionell Trilling, Diane Trilling, Meyer Schapiro, Clement Greenbery, Harold Rosenberg, Dwight MacDonald, Elliott Cohen e Sidney Hook <79. Riuniti intorno alla “Partisan Review”, questa prima generazione di “New York Intellectuals” <80 si inserì a pieno titolo nella discussione in corso nella sinistra statunitense sull’ideologia marxista. Incentrato perlopiù sullo stalinismo, il dibattito della sinistra si tramutò presto in una vera e propria ridefinizione dell’intero impianto ideologico del marxismo-leninismo che condusse alcuni dei “New York Intellectuals” ad abbracciare definitivamente la strada del liberalismo.
Nel 1939, Hook formò il Committee for Cultural Freedom per opporsi al controllo dell’espressione culturale di destra e di sinistra sotto il patrocinio del suo mentore, il filosofo John Dewey. Il comitato venne sciolto quando l’URSS divenne un alleato degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale ma il tentativo di Hook avrebbe avuto fortuna nel corso degli anni Quaranta, quando cominciò a ricevere sostegno dal governo federale <81.
Con il progredire della Guerra fredda e grazie alla politica messa in atto dal governo statunitense, questo sentimento anticomunista e in difesa del liberalismo portò gli intellettuali anticomunisti del vecchio continente su posizioni filo-atlantiche. Non era l’esito scontato di un percorso di difesa delle loro idee: gli intellettuali europei non vedevano di buon occhio i prodotti culturali che arrivavano dagli Stati Uniti, spesso indirizzati a un pubblico di massa e non alle élite. Il rapporto complesso tra cultura “alta” e cultura “popolare”, su cui si basava il rapporto tra le due sponde dell’Atlantico, aveva dato luogo a una serie di pregiudizi sulla natura “corrotta” e, in generale, di scarsa qualità dei beni che arrivavano dagli Stati Uniti.
La creazione di una rete transatlantica di intellettuali liberali fu il frutto di una serie di fattori: in primo luogo, con la fine della stagione dei fronti popolari in Europa riprese il dibattito ideologico a sinistra tra correnti diverse del marxismo; in secondo luogo, i grandi processi che, sotto Stalin, avevano portato alla condanna e all’esecuzione di molti funzionari del PCUS considerati ormai ostili al regime mostrarono il volto crudo della dittatura sovietica.
Il vero passaggio intellettuale, tuttavia, fu l’elaborazione del concetto di totalitarismo della filosofa Hannah Arendt <82. Alla fine del secondo conflitto mondiale, gli intellettuali liberali euro-atlantici si trovarono di fronte un solo nemico totalitario, il regime sovietico: a quel punto, anche se la stagione dello stalinismo era chiusa, l’URSS rimaneva l’unico stato governato da un potere di tipo totalitario. A tutto ciò si aggiunse la capacità del governo federale statunitense di favorire i rapporti culturali con il vecchio continente, grazie a una serie di programmi di scambio accademico e alla diffusione della cultura “alta”, come la musica e il teatro. Su quel terreno, infatti, gli USA erano più indietro dei Sovietici: mentre la letteratura, la musica, il balletto e il teatro russi erano già noti in tutta Europa e la loro diffusione veniva supportata dal PCUS, gli Stati Uniti dovettero mettere in campo una serie di iniziative per recuperare il distacco. Da parte degli intellettuali del vecchio continente c’era, infatti una ben radicata forma di “snobismo” verso gli Stati Uniti, a lungo giudicati un paese privo di cultura “alta”, capace solo di esportare beni di consumo indirizzati alle masse e prodotti culturali finalizzati all’intrattenimento <83.
Il governo federale decise, allora, di approfittare di alcune tendenze che cominciavano a profilarsi nel panorama intellettuale: emergevano, in Europa e negli Stati Uniti, gruppi di intellettuali di formazioni diverse accomunati dal duplice obiettivo di salvaguardare la libertà della cultura dalla censura sovietica e dei partiti del Cominform e di promuovere i valori democratici. Si trattava di un insieme variegato: un ruolo privilegiato, tuttavia, lo ebbe la “sinistra non comunista”, per dirla con un modo che si è affermato negli Stati Uniti (dove si parla di Non Communist Left, NCL).
[NOTE]
77 Paul Buhle and Dave Wagner, Hide in Plain Sight: The Hollywood Blacklistees in Film and Television, 1950-2002, New York, St. Martin’s Press, 2003.
78 Irving Howe, The New York Intellectuals, in “Dissent”, October 1, 1969, https://www.dissentmagazine.org/online_articles/irving-howe-voice-still-heard-new-york-intellectuals (ultimo accesso 10 luglio 2018).
79 Alexander Bloom, Prodigal Sons: The New York Intellectuals and Their World, Cary, Oxford University Press, 1986, p. 6.
80 Successivamente, si unirono al gruppo intellettuali come Irving Howe, Irving Kristol, Daniel Bell, Delmore Schwartz, Leslie Fiedler, Seymour Martin Lipset, Nathan Glazer, Alfred Kazin, Robert Warshow, Melvin Lasky, Isaac Rosenfeld e Saul Bellow. Cfr Bloom, Prodigal Sons, cit., p. 6; Courtney Ferrier, Sidney Hook’s Pragmatic Anti-Communism: Commitment to Democracy as Method, in “Education and Culture”, Vol. 33, No. 1, 2017, pp. 89-105.
81 Giles Scott-Smith, The Politics of Apolitical Culture. The Congress for Cultural Freedom, the CIA and postwar American hegemony, Routledge, London and New York, 2002, p. 95.
82 Su questo si veda il capitolo 2.
83 Cfr. Jessica Gienow-Hecht, Culture and the Cold War in Europe, in Leffler and Westad (edited by), The Cambridge History of the Cold War, cit., pp. 398-419.
Alice Ciulla, Gli intellettuali statunitensi e la "questione comunista" in Italia, 1964-1980, Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2019

sabato 27 agosto 2022

Ruggero Spesso, dell’Ufficio Studi della CGIL, paventava l’introduzione di macchine in grado di eliminare l’apporto muscolare dell’uomo e anche quello mentale


Una valida testimonianza del momento di grande apertura costituito dal dibattito interno alla CGIL tra 1954 e 1957 è costituito dai periodici sindacali che ospitavano interventi e analisi di dirigenti nazionali e locali. Il bisogno di linee guida nuove e in grado di intercettare le esigenze organizzative della produzione neocapitalistica fu al centro di una discussione generale sul ruolo dell’analisi del lavoro, con posizioni impensabili fino a pochi anni prima.
Su “Rassegna sindacale”, rivista della CGIL, Leonardi proponeva una lettura delle human relations che andava oltre il puro rifiuto ideologico di queste pratiche di organizzazione del lavoro. La sua esperienza di studio dell’OSL portò all’attenzione del sindacato il rischio di una opposizione puramente ideologica a tecniche intrinsecamente legate ai nuovi modi di produzione che si stavano diffondendo anche nelle aziende italiane: «per quanto riguarda la base tecnica si deve far osservare che le “relazioni umane” sono sorte e si sono sviluppate nelle grandi aziende moderne con produzione in grande serie o, addirittura, di massa, in un’epoca in cui si introducono i primi elementi per una maggiore applicazione di principi di automatizzazione» <235.
Il complesso delle human relations costituiva il corredo organizzativo al processo di automatizzazione. Al fine di ridurre le frizioni che esso implicava, divenivano necessarie la collaborazione da parte dei lavoratori e la volontaria partecipazione alle sorti della propria fabbrica: «ad una produzione integrata deve corrispondere una integrazione del lavoratore nell’azienda: e questa integrazione deve essere volontaria poiché nessuna costrizione o disciplina può ottenere la rinuncia da parte di uomini alla libertà [...] nessuno, insomma, può imporre la collaborazione. Questa può essere solo frutto di convinzione e di accettazione volontaria» <236.
Leonardi, individuando nelle relazioni umane il cristallizzarsi di una condizione di identificazione del lavoratore con l’azienda, osservava che il monopolio le impiegava per allentare i legami di classe, concedendo benefici in cambio di collaborazione. Per questo era necessario riportare l’attenzione sulle dinamiche interne alla fabbrica per adeguare la risposta sindacale a pratiche in grado di creare consenso: «le trasformazioni tecniche non pongono solo ai padroni la necessità di modificare la loro politica verso il personale, ma pongono uguali necessità di continuo rinnovamento dei temi e delle forme di lotta anche alle organizzazioni dei lavoratori» <237.
Attaccando chi faceva delle relazioni umane un’ideologia, ne coglieva gli aspetti più incisivi, anche al di fuori della fabbrica, motivo per cui sarebbe stato inevitabile spostare l’attenzione sull’insieme delle relazioni sociali: «pur svolgendosi nell’ambito aziendale, i programmi delle “relazioni umane” mantengono pienamente la loro natura di minaccia diretta di attacco generale, in tutte le direzioni e su tutti i punti, alla personalità del lavoratore presa nel suo complesso. Egli infatti, non viene insidiato solo nelle ore di lavoro, cioè come produttore, ma è aggredito integralmente, dentro e fuori la fabbrica, come produttore e come consumatore. Anche come consumatore di taluni beni e servizi, infatti, si cerca di isolarlo dal corpo nazionale almeno, si pensi all’abitazione, all’assistenza e alle svariate forme di divertimento e di cultura e così via» <238.
Da quanto risulta dagli archivi dell’USE, Leonardi fin dal 1955 aveva iniziato ad analizzare pratiche dell’OSL come la Misurazione Tempi e Metodi (Methods-Time Measurement, MTM) in quanto pratiche che avrebbero potuto garantire una maggiore accuratezza dei termini del cottimo, lo scarto dei movimenti inutili, l’esattezza di tempi e costi, la standardizzazione reale dei metodi, con il vantaggio anche di miglioramenti ergonomici alle macchine. A condizione, stando a Leonardi, che le organizzazioni dei lavoratori ne avessero controllato l’applicazione, evitando di consegnarla all’arbitrio degli Uffici Tempi <239.
Ruggero Spesso, dell’Ufficio Studi della CGIL, paventava l’introduzione di macchine in grado di eliminare l’apporto muscolare dell’uomo e anche quello mentale. L’intervento, che si ricollegava ad un’analisi dell’automazione già avviato in Europa, poneva problemi ad un sindacato che avrebbe dovuto essere all’altezza di sfide nuove: l’aumento del reddito, l’aumento dell’occupazione, la produzione continua, la modifica delle qualifiche e degli assetti sociali. La CGIL, per questo, aveva l’obbligo di tenere conto delle nuove variabili, per divenire attore e non lasciare all’anarchia lo sviluppo del progresso tecnico: «questo complesso di fenomeni, scientificamente predeterminabili, impone [...] che essi siano studiati nelle loro cause e nei loro effetti per affrontarli e quindi disciplinarli nella loro evoluzione. L’elemento “pianificazione” del processo economico e tecnico, e le sue implicazioni culturali, diviene così un fatto obiettivo, da cui non si può più prescindere» <240.
Con piano Spesso intendeva un programma di industrializzazione e di investimenti in aree non ancora interessate dallo sviluppo; questo avrebbe contribuito all’armonizzazione dei processi di automazione con il sindacato alla testa di una lotta volta a sottrarre all’influenza dei monopoli i processi di innovazione: «azione che può giungere sino a porsi come obiettivo la loro nazionalizzazione, ma che deve trovare il suo punto di partenza nelle particolari condizioni che nelle fabbriche possono essere poste da una avanzata dei processi di automazione affinché questa non si attui secondo gli interessi dei grandi monopoli» <241.
Il numero 11 del 1956 ospitava l’intervento dei responsabili della CdL di Busto Arsizio, centro industriale della Brianza, in cui la struttura produttiva si articolava in numerose aziende minori. L’articolo esaminava l’organizzazione del lavoro in questi fabbriche, ponendo all’attenzione del sindacato una questione poco nota e scarsamente approfondita nei primi anni Cinquanta. Le innovazioni tecnologiche applicate nella grande industria avevano riflessi su tutto il tessuto produttivo con i medesimi effetti riscontrati nella grande fabbrica e gli autori sottolineavano la necessità di uno studio che superasse la frammentazione di analisi: «La prima tendenza [...] è data dalla diminuzione graduale dei lavoratori occupati [...] di conseguenza con questo tipo di razionalizzazione del lavoro, il padronato fa sopportare tutta l’attività “ausiliaria” alla manodopera direttamente impegnata nel processo produttivo, determinando così non soltanto una intensificazione dei ritmi ma anche una certa dequalificazione e sopratutto una moltiplicazione di mansioni» <242.
L’imposizione dei ritmi da parte delle grandi imprese portava ad una dequalificazione generale delle mansioni, con effetti che il sindacato non poteva più ignorare.
Anche Silvio Leonardi tornava sulla questione della dequalificazione, nodo centrale della rivoluzione fordista che stava cambiando la struttura produttiva dell’Italia. Il sindacato, secondo l’analisi proposta da Leonardi, si trovava in crisi perchè rispondeva con discorsi vecchi ad una composizione operaia nuova, a cui venivano «richieste soprattutto regolarità, agilità, e prontezza di riflessi, fattori cioè che dipendono soprattutto dalla età (di qui la preferenza per gli elementi giovani e molto giovani) e che possono essere ben poco modificati dall’esperienza [...] la sua esperienza soggettiva ha scarsissima rilevanza riguardo alla formazione di una qualifica personale e non è tale da compensare neppure gli effetti dell’invecchiamento naturale» <243.
La razionalizzazione aziendale che asserviva il lavoratore senza contropartite era, secondo Leonardi un progetto volto a devalorizzare il lavoro e le qualifiche. Il sindacato non poteva più limitarsi a lottare per l’agganciamento della paga all’aumento della produttività, ma doveva cogliere la necessità di istituire una carriera anche per gli operai dequalificati, aumentando la parte fissa della paga personale: «oggi le categorie di lavorazione, fissate da parte padronale e modificate con notevoli margini di arbitrarietà, servono come base per il calcolo degli incentivi di cottimo, portano di fatto ad un’ulteriore svalorizzazione della paga personale e sono, tra l’altro, elemento di frattura degli interessi operai» <244.
Di fronte alle carenze teoriche che avevano limitato l’azione della CGIL, “Rassegna sindacale” nel 1956 raccoglieva l’invito di Porcari a incoraggiare la formazione di quadri e dirigenti che garantisse la loro autonomia di giudizio: «il dirigente e l’attivista sindacale deve conoscere profondamente anche i problemi delle propria categoria, le condizioni oggettive, anche nei loro minuti particolari, nelle quali si svolge il lavoro nelle fabbriche, e in certe determinate fabbriche» <245.
Sullo stesso argomento interveniva anche Palumbo che invitava ad affrontare il problema del rinnovamento tecnico e di come si ponevano di fronte ad esso i sindacalisti. Constatando i limiti della scuola di formazione della CGIL, si invitava la confederazione ad un ripensamento deciso affinché non venissero formati quadri nell’ottica del sindacato come cinghia di trasmissione, ma come un moderno apparato in grado di inchiestare il tessuto produttivo: «bisogna innanzitutto chiedersi se la scuola sindacale della CGIL non debba essa pure subire delle radicali trasformazioni [...] preparando dei sindacalisti, che pur mantenendo salda la loro prerogativa di difensori della classe lavoratrice, non siano esclusivamente degli agitatori, ma siano edotti delle moderne tecniche di organizzazione del lavoro e abbiano nozioni di economia politica, di sociologia, merciologia, ecc E se è giusto che una grande organizzazione come la CGIL abbia una scuola e dei suoi corsi, essa [...] dovrebbe tendere, in accordo con la CISL e la UIL, a far organizzare presso le Università, in talune particolari Facoltà (ad esempio quella di Economia e Commercio) e presso idonei Enti culturali, dei corsi o seminari di studio comuni, per l’aggiornamento dei sindacalisti» <246.
Con il dibattito seguito al 1956 ancora nel vivo, Foa ebbe la lucidità e la prontezza di rilanciare l’unità sindacale come risposta alla crisi della CGIL, convinto che solo ripartendo dal lavoro reale il sindacato avrebbe potuto fornire risposte ai nuovi bisogni generati dalla riorganizzazione della fabbrica: «si può pensare, come pensano i marxisti, che il capitalismo contiene in sé la legge della sua distruzione e del passaggio al socialismo; si può pensare, invece, che il capitalismo possa essere salvato mediante correzioni più o meno importanti [...] ma i problemi della difesa del lavoro come cardine dello sviluppo economico e della stessa democrazia politica [...] deve essere obiettivo comune a tutti» <247.
La rigida impostazione dogmatica che aveva caratterizzato gli interventi della direzione sindacale era spezzata, una breccia era stata aperta nel dogmatismo e interventi che andavano in questo senso erano ospitati dalle riviste sindacali. Nel 1957 Angelo di Gioia analizzava l’incapacità dei sindacati di intervenire nel processo di regolazione dell’adozione dell’organizzazione scientifica del lavoro. La CGIL, basando la sua azione solo sulla rivendicazione di aumenti salariali non era stata in grado di intervenire su questioni cruciali quali la riorganizzazione dei processi.
La crescente divisione del lavoro e la dequalificazione professionale erano processi insiti nelle dinamiche di meccanizzazione e automazione. Il sindacato avrebbe dovuto confrontarsi con l’organizzazione scientifica del lavoro accogliendo la complessità di un argomento così delicato che non poteva essere liquidato con la semplice condanna dell’uso del cronometro e il rifiuto dell’aumento dei ritmi, opponendo quindi ad una visione scientifica un’analisi scientifica che ne smentisse i presupposti: «la pretesa scientificità del sistema delle classi di lavorazione tende, infatti, a prospettare come norme tecniche obiettive elementi decisivi del rapporto di lavoro, per sottrarli così alla sfera della contrattazione sindacale; ma la stessa staticità del sistema è la riprova della sua scarsa fondatezza, non essendo possibile cristallizzare una volta per sempre elementi fondamentali delle condizioni di lavoro, mentre è indubbiamente utile una analisi dei posti di lavoro che ne metta in evidenza i mutamenti e le tendenze obiettive» <248.
Sebbene Di Gioia riconoscesse l’obbligo per la CGIL di costituirsi come soggetto inchiestante per cogliere la razionalità collettiva operaia, era forte la diffidenza nei confronti dei sociologi impegnati nelle aziende e visti come tecnici al servizio delle politiche padronali di sfruttamento: «nei confronti dei problemi della organizzazione del lavoro il sindacato ha, in primo luogo, il compito di conoscere e approfondire quanto viene prospettato o realizzato da parte imprenditoriale, come pure da parte di studiosi specializzati, anche se questi operano generalmente sotto l’ispirazione padronale. Spetta poi al sindacato farsi una propria valutazione di questi problemi, basandosi soprattutto su una indagine da condursi tra i lavoratori, che qualifichi le maestranze stesse come “ricercatore collettivo” della tecnica e della scienza della organizzazione del lavoro» <249.
L’inchiesta avrebbe dovuto mantenere l’ottica sindacale al fine di garantire la possibilità di una partecipazione dei lavoratori alle innovazioni in atto «di partecipare insomma al progresso tecnico, non solo mediante il continuo miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, ma conquistando il diritto di esercitare determinati controlli e introducendo nelle aziende forme - anche elementari o indirette - di cogestione» <250.
L’apertura a tematiche nuove e nuove prospettive di analisi riscontrabili tra il 1955 e il 1957 costituirono una parentesi, come rilevato anche da Accornero il quale sottolinea come negli anni seguenti si registrasse un ritorno della CGIL ad un’impostazione più ortodossa e allineata alle posizioni del PCI. Nondimeno, la breccia era stata aperta e questa ebbe il merito di portare l’impostazione analitica su posizioni che si sarebbero affermate definitivamente nel corso degli anni Sessanta.
Le prospettive crolliste e le letture malthusiane non tardarono a riaffacciarsi nel dibattito interno al sindacato, come nell’articolo di Giustiniani della Montecatini del 1960: «il capitalismo ha potuto mantenere un suo equilibrio e garantirsi una sorta di sviluppo, solo suscitando e creando un insieme di consumi che sono altrettanto parassitari di quelli configurati e previsti nelle impostazioni di Malthus, poiché sono egualmente avulsi da ogni bisogno reale, organico, storicamente maturo dell’umanità lavoratrice, ossia in concreto, della mano d’opera impiegata nel processo produttivo» <251.
Giustiniani criticava anche l’impostazione di Keynes, che a suo avviso aveva distorto le dinamiche sindacali: «si tratta in primo luogo di allargare,e stendere, rendere universale e completa la soddisfazione di quei bisogni che scaturiscono dalla posizione stessa di una forza lavoro pienamente ed economicamente impegnata nella produzione [...] l’insieme di quei consumi che garantiscono al lavoro al possibilità di continuare a essere impegnato, a livello tecnico e in modo economico, nel ciclo produttivo» <252.
In ogni caso, la sociologia del lavoro e l’adozione delle sue pratiche, dal 1955 furono argomenti ampiamente trattati in seno alla CGIL. Lo conferma il titolo di un convegno promosso dall’istituto Gramsci nel 1959, “Marxismo e sociologia”, il cui contenuto era riassunto dall’intervento di apertura di Lucio Colletti, pubblicato su “Società”.
Colletti riprendeva l’attualità del Libro I del "Capitale" di Marx affermando come in quest’opera l’oggetto di studio di Marx non fosse «la società, cioè l’astrazione della società “in generale”, ma questa società; vale a dire l’argomento dell’analisi non è un’idea (un oggetto ideale), ma un oggetto materialmente determinato o reale. Questo in primo luogo» <253.
Veniva accusata la sociologia borghese di essere metafisica, ad essa veniva opposta una sociologia che divenisse strumento di analisi di classe, ritornando a Marx il quale non si era limitato alla semplice teoria economica, ma «fece cioè a un tempo economia e storia, economia e sociologia [...] mai in Marx, dunque, categorie economiche che siano categorie economiche pure. Tutti i suoi concetti, al contrario, sono economici e sociologici insieme» <254.
Colletti riaffermava il ruolo della sociologia all’interno di categorie marxiste di analisi e svelamento della critica all’economia. Il nuovo utilizzo della sociologia avrebbe dovuto liberare questa disciplina dalla pretesa neutralità a cui l’aveva portata il pensiero borghese dopo Weber per riacquistare le caratteristiche di scienza delle lotte: «ecco l’unità organica di economia e sociologia: il concetto di classe: nel duplice significato sia di fattori o condizioni oggettive della produzione (naturalmente: a una certa fase storica della divisione del lavoro) sia di agenti politici dell’intero processo sociale umano» <255.
Allo stesso congresso “Marxismo e sociologia” partecipò anche un giovane studente romano, che in seguito avrebbe dato via ad una riflessione attorno all’uso dell’inchiesta operaia nel gruppo politico dei “Quaderni rossi”, Mario Tronti. Egli ribadiva con forza la necessità per i marxisti di impiegare strumenti sociologici, al fine di rinnovare proprio con l’analisi sociologica le categorie marxiane di lettura della società: «l’unica sociologia per noi è il marxismo. Cioè, l’unica analisi scientifica che noi abbiamo della società è il marxismo. Io direi ancora di più: che questa sociologia marxista non è qualcosa di fissato in canoni ormai acquisiti, ma è in continua elaborazione e sviluppo» <256.
Tronti al tempo stesso vedeva come sola prospettiva possibile per l’analisi all’interno del movimento operaio la figura di sintesi dello scienziato capace di tenere assieme economia, storia e sociologia: «questo scienziato marxista [...] riesce, con un equilibrio che è proprio un equilibrio scientifico, pratico, conquistato non una volta per tutte, ma quotidianamente, nella ricerca e nel contatto pratico, a garantire un legame concreto e con la teoria, da un lato, e con la pratica, cioè con la classe, con il Partito, dall’altro. Un doppio cammino che poi si unifica proprio all’interno del lavoro intellettuale, per cui si ritrova sia il marxismo teorico, sia la lotta pratica e politica del movimento operaio in generale» <257.
[NOTE]
235 S. Leonardi, Due faccie delle “Human Relations” in “Rassegna sindacale” n. 3, 1956, pp. 67-68.
236 Ivi, p. 68.
237 Ivi, p. 69.
238 Ivi, p. 70.
239 Cfr. ADL, cart. 13-II-B 6. Accanto a queste osservazioni si trova la recensione di Problemi umani del macchinismo industriale di G. Friedmann a cura dello stesso S. Leonardi.
240 R. Spesso, I sindacati e il progresso tecnico in “Rassegna sindacale” n. 8, 1956, p. 249.
241 Ivi, p. 250.
242 G. Cesari, G. Torno, Di fronte ai nuovi metodi di organizzazione del lavoro nelle aziende minori in “Rassegna sindacale” n. 11, 1956, p. 338.
243 S. Leonardi, Paghe e qualifiche nell’odierna azienda razionalizzata in “Rassegna sindacale” n. 13, 1956, pp. 401-402.
244 Ivi, p. 403.
245 L. Porcari, Un’autonomia politica di quadri del sindacato e per il sindacato in “Rassegna sindacale” n. 20-21, 1956, p. 591.
246 P. Palumbo, L’istruzione di cui abbiamo bisogno in “Rassegna sindacale” n. 20-21 1956, p. 594.
247 V. Foa, Cogliere il “nuovo” che s’impone al sindacato in “Rassegna sindacale” n. 23, 1956, p. 651.
248 A. Di Gioia, Compiti del Sindacato nei confronti dell’organizzazione “scientifica” del lavoro in “Rassegna sindacale” n. 15-16 1957, p. 436.
249 Ivi, p. 438.
250 Ivi, p. 439.
251 A.t., Questo capitalismo è malthusiano in “Rassegna sindacale” n. 30, 1960, p. 1479.
252 Ivi, p. 1481.
253 L. Colletti, Il marxismo come sociologia in “Società” n. 4, 1959, p. 623.
254 Ivi, p. 634.
255 Ibidem. Sul numero seguente di “Società” Angela Massucco Costa riprendeva l’analisi della sociologia aperta dall’intervento di Colletti analizzando la diffidenza della sinistra nei confronti della sociologia. Infatti, la disciplina doveva essere liberata da equivoci, dal momento che essa veniva percepita come scienza al servizio della pianificazione tecnocratica: «il difetto di una tale sociologia, prevalentemente e superficialmente descrittiva, e l’analogo difetto delle tecno-sociologie che operano sul terreno pratico per una ristrutturazione pianificata “razionalmente” della società, così da renderla conforme a un surrettizio normativo di organizzazione conservativa dei valori tradizionali, discendono dalla mancata accettazione di un criterio classificatorio ed euristico come quello marxista; che offre oggi, ad ogni ricerca sociologica che miri ad accertare i fattori o le condizioni particolari in cui si verifica la trasformazione storica nel solco economico-politico, il quadro di riferimento più netto e più fecondo per la comprensione della nostra società» in A. Massucco Costa, Prospettive nella ricerca sociologica in “Società” n. 5, 1959, p. 956.
256 M. Tronti, A proposito di marxismo e sociologia in G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “Classe operaia”, Roma, Deriveapprodi, 2008, p. 78.
257 Ivi, p. 79.
Daniele Franco, Dalla Francia all’Italia: impegno politico, inchiesta e transfers culturali alle origini della sociologia del lavoro in Italia, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009

domenica 21 agosto 2022

"Il manifesto" nacque in seguito all’espulsione dal PCI, nel ’69, di un gruppo di intellettuali e di dirigenti


Per quanto concerne i riflessi che il movimento di protesta ebbe sulla stampa, si può affermare che alcune delle innovazioni introdotte in questo lasso di tempo riflettevano anche i cambiamenti di costume e, più in generale, di mentalità, avvenuti nella società. Tale cambiamento era il portato della protesta del movimento studentesco e, per quanto riguarda lo specifico settore giornalistico, delle numerose, anche se spesso effimere, esperienze giornalistiche nate in quegli anni, legate al movimento e alle frazioni estreme della sinistra. Non si deve credere che il pullulare di fogli d’informazione – o meglio, di “controinformazione” - di quel periodo non avesse solide radici. In realtà, l’esperienza fatta negli anni Sessanta da molti gruppi della “nuova sinistra” - dai «Quaderni Rossi» ai «Quaderni Piacentini», ecc. <118 - si sarebbe riversata, in alcuni casi in modo diretto, proprio nei molti fogli nati nel ’68. Fra le maggiori esperienze, che avrebbero avuto un ruolo duraturo nel panorama giornalistico nazionale e che, in una certa misura, avrebbero anche influenzato il modo di fare giornalismo, è opportuno segnalare «il manifesto», «Lotta continua» e «Il quotidiano dei Lavoratori».
Il primo foglio nacque in seguito all’espulsione dal PCI, nel ’69, di un gruppo di intellettuali e di dirigenti (Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Lucio Magri) che aveva dato una diversa valutazione della situazione italiana e del fatto che nuovi soggetti rivoluzionari erano nati al di fuori delle strutture tradizionali della classe lavoratrice, e in contrapposizione ad esse. Tale gruppo era stato espulso dal partito al termine del XII Congresso del PCI, celebrato nel febbraio del ’69, quando tale gruppo aveva criticato le aperture del segretario del partito, Longo, al PSI e alla DC <119. Tale gruppo iniziò a pubblicare un mensile di approfondimento teorico, intitolato «Il manifesto», con il quale si rivolgono agli intellettuali d’area comunista, fino a quando, nel novembre ’69, con l’accusa di frazionismo, questi quadri e intellettuali sarebbero stati espulsi dal PCI. Nei primi mesi del ’70 «il manifesto» abbandona il progetto di interloquire con il PCI ed i suoi intellettuali, rivolgendo lo sguardo alla sinistra rivoluzionaria emersa nel biennio ’68-’69, con l’intento di unificarla e di concorrere alla costituzione di una nuova forza politica. Venne quindi lanciata una sottoscrizione di 50 milioni per la trasformazione del mensile in quotidiano. Tale trasformazione avvenne il 28 aprile 1971. Gli elementi caratterizzanti del nuovo quotidiano erano la formula (quattro pagine, tutte politiche), il prezzo, (50 £ contro le 80 £ degli altri quotidiani), il totale autofinanziamento e la trasparenza dei bilanci, resi noti sulle pagine dello stesso quotidiano <120. Il giornale appariva privo di una serie di servizi (sport e cronaca locale), e soprattutto non aveva pubblicità al di fuori di quella libraria. L’aspetto grafico era volutamente molto semplice e lineare, in modo da non stabilire aprioristicamente una scala di valore fra le notizie, lasciando libero il lettore di decidere autonomamente la gerarchia delle notizie. A tale scopo, anche i titoli erano molto omogenei all’articolo, al fine di non condizionare emotivamente il lettore. Le quattro pagine era divise per grandi temi: la prima era occupata dagli articoli di fondo e dalle notizie generali, la seconda dalle lotte operaie, la terza dalla politica interna e la quarta dalla politica internazionale.
Il finanziamento iniziale complessivo era di quasi 45 milioni, raccolto interamente con le sottoscrizioni dei “Centri di iniziativa comunista” nei quali si riunivano i militanti espulsi dal PCI. Il pareggio di bilancio era stato individuato in almeno 35.000 copie giornaliere: i risultati iniziali furono sorprendenti, vendendo nei primi giorni circa 120.000 copie, scese poi intorno alle 35-38 mila copie. Tuttavia, dopo i primi mesi, anche per colpa della costosa e scarsamente funzionale rete di distribuzione, le copie vendute diminuirono rapidamente, così come aumentarono le rese (oltre il 50% a numero), attestandosi intorno alle 30.000 copie effettivamente vendute. I risultati erano quindi insufficienti a garantire il pareggio: per questa ragione il collettivo redazionale lanciò una serie di sottoscrizioni fra i lettori, che consentirono al giornale di sopravvivere, seppure a fatica. Nei primi mesi del ’72 le vendite del quotidiano comunista registrano una ripresa – giungendo a toccare il tetto delle 40.000 copie giornaliere - legata alla decisione del gruppo redazionale di partecipare alle elezioni politiche del maggio ’72: la clamorosa sconfitta elettorale farà ripiombare le vendite ai minimi storici, cosa che obbligherà il quotidiano ad aumentare il prezzo di vendita a 90 £. Nonostante tale misura, il passivo aumenta (44 milioni a metà ’73) anche a causa delle spese sostenute dal giornale per l’organizzazione del gruppo politico che si era presentato alle elezioni. Per rimediare ai problemi di distribuzione nel settentrione viene messo a punto un programma per la realizzazione delle doppia stampa, a Roma e a Milano, attraverso la teletrasmissione in fac-simile (progetto entrato in funzione nel gennaio ’74). Nonostante questa importante innovazione, le vendite continuano a ristagnare: una boccata d’ossigeno venne, nel luglio ’74, dalla fusione del gruppo che faceva riferimento al quotidiano, con il PDUP, operazione grazie alla quale il quotidiano si trasformò in organo di partito, con un evidente vantaggio diffusionale, ma anche con una riduzione dell’autonomia della redazione.
Nel ’75 la media delle copie vendute si attestò intorno alle 20.000, e scese a 19.500 nel ’76. Il tracollo si verificò nel ’77, quando la media annuale delle vendite non superò le 16.000 copie. Tale drammatica flessione era riconducibile essenzialmente a due fatti: da un lato, la rottura con il PDUP, che causa una crisi all’interno del collettivo redazionale; dall’altro l’incapacità del giornale di leggere con lucidità l’evoluzione della situazione politico-sociale del paese, compresa invece maggiormente da quotidiani come «Repubblica» e «Lotta continua», che proprio in questo frangente hanno dei risultati di vendita significativi <121. La crisi fu superata grazie ai finanziamenti garantiti dalla legge n. 172 del ’76 sui provvedimenti urgenti per l’editoria, che consentì al giornale di ottenere un mutuo agevolato di circa 250 milioni di lire, e ai sacrifici compiuti dal collettivo redazionale, che decise di contenere gli stipendi.
Il ’78 fu l’anno della ripresa grazie anche al rientro di Pintor che diede al giornale una nuova spinta. Di maggiore impatto fu però la decisione di rinunciare alla discriminante anti-pubblicitaria: nel maggio, infatti, il quotidiano stipula con la SIPRA un contratto per la fornitura di un minimo garantito di 120 milioni l’anno con un incremento del 15% annuo per raggiungere la quota complessiva di 809 milioni in cinque anni.
[NOTE]
118 A. MANGANO, Le culture del Sessantotto. Gli anni Sessanta, le riviste, il movimento, Centro di Documentazione di Pistoia, Pistoia 1989.
119 S. DALMASSO, Il caso “Manifesto” e il PCI degli anni ’60, Cric, Torino 1989, pp. 82-90.
120 A. FERRIGOLO, L’avventura editoriale del «manifesto», in «Problemi dell’informazione», 1, 1981, pp. 45-69.
121 A. PILATI, Con fatica, tra «Lotta Continua» e «Repubblica», in «Prima Comunicazione», luglio-agosto 1979, p. 48.
Guido Ferrini, La stampa italiana dal dopoguerra alla seconda Repubblica. Dalle concentrazioni editoriali alla finanziarizzazione dell’editoria, Tesi di laurea, Università di Pisa, Anno accademico 2014-2015

Su di piano di più specifica direzione culturale, la battaglia in favore di un aggiornamento dei presupposti teoretici del partito si fa man mano più incisiva, mancando però di presentare una alternativa comprensibile. Le riflessioni sulla “unità” tra politica e cultura si inserivano in un approccio di fondo tipico del comunismo nazionale e non, in linea con le evoluzioni di tutto il partito in merito, limitandosi però a promuovere un atteggiamento programmatico dai contorni più astratti che concreti. In altre parole, Rossanda prova a reagire a una dismissione di fatto che il partito andava operando nei rapporti con la cultura, pur mascherata da una sorta di ždanovismo edulcorato ripetuto con sempre meno convinzione interiore. Mai, in Rossanda, è presente un astratto problema di “libertà” della cultura nei confronti della politica. Sempre, invece, vi è un tentativo di stimolare un effettivo aggiornamento del marxismo in seno al corpo intellettuale <562. Viceversa, la polemica sullo storicismo - se utile all’aggiornamento del marxismo nazionale in direzioni più originali - non riusciva ad indicare un complesso di riferimenti alternativi all’unica (a quel tempo e per quel partito) alternativa esistente, e cioè l’adeguamento ai canoni del marxismo di marca sovietica, serrato nel suo “materialismo-dialettico” che, se nuovamente importato quale canovaccio di fondo dell’ideologia del partito, avrebbe costretto lo stesso rapporto tra politica e cultura ad un nuovo irrigidimento. Esattamente l’opposto di quanto andava predicando Rossanda stessa. Sul piano più politico invece - e cioè le riflessioni sul centro-sinistra – la tensione di Rossanda appare quella più proficua o politicamente efficace, legandosi all’anima del partito che sempre più criticherà l’atteggiamento attendista o aperturista del partito alla nuova configurazione governativa. Non a caso, sarà proprio attorno a tale questione (e alla questione, connessa, delle “riforme di struttura”) che avverranno le polemiche più incisive, che si tradurranno in scontro aperto coagulando le diverse tendenze critiche in una “sinistra” del partito che vedrà in Ingrao il riferimento (suo malgrado) più importante, sconfitto tra l’XI e il XII Congresso. La vicenda del manifesto, in ultimo, costituirà il momento in cui tale scollamento non riuscirà più a ricomporsi, uno scollamento che agirà sui problemi politici, e non su quelli culturali o ideologici tra direzione del partito e i suoi critici.
[...] Alle soglie del Sessantotto i molteplici nodi critici ricordati verranno infine al pettine. I «folli» <567 anni Settanta troveranno ragion d’essere nel lungo confronto-scontro tra “comunismi”, o se si preferisce tra “marxismi” oramai alternativi fra loro, da cui scaturirà quel “lungo Sessantotto” che presenta, tra i caratteri decisivi, quello della inconciliabile alterità tra tradizione comunista, incarnata dal Pci, e l’anticapitalismo della nuova sinistra. Un rapporto conflittuale che schiaccerà sempre più i gruppi dell’estrema sinistra verso la radicalizzazione delle pratiche eversive e il Pci verso un inedito riposizionamento: da soggetto riformista della classe operaia a partito della “ragion di Stato” <568. Negli anni Settanta è già di fatto preclusa qualsivoglia forma di collaborazione, men che meno di alleanza, e questo nonostante la strategia del “fronte unico dal basso” espressa dai gruppi emersi dal riflusso dell’Autunno caldo (Pdup-Manifesto, Avanguardia operaia e Lotta continua), strategia volta ad impedire la convergenza politica tra Pci e Democrazia cristiana. Velleitaria o meno che fosse, il rapido esaurirsi di tale possibilità priverà anche l’area più “realista” dei gruppi di una tattica politica di medio periodo.
[...] A ben vedere, più che di “destra” e “sinistra”, bisognerebbe parlare di un’area più “movimentista”, che trovò in Ingrao il suo punto di riferimento, e di una più “parlamentare”, o riformista, incarnata da Amendola <626. Anche perché di “sinistre”, nel Pci degli anni Sessanta, se ne intravedono almeno tre: l’ortodossia sovietica di Secchia e Alberganti, ridimensionata nel partito ma punto di contatto con il “marxismo-leninismo” fuori dal partito; quella di Ingrao - o della «eterodossia disciplinata» <627 - che, sebbene «invenzione postuma» - come rilevato da Lucio Magri - non di meno costituì, secondo Luciana Castellina, «il tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste - più che su quelle antiche dell’Italietta rurale - far leva» <628; quella, infine, “ultramovimentista” del "manifesto", vicina alle posizioni di Ingrao ma non sovrapponibile ad esse, e in connessione, semmai, con le spinte provenienti dalla sinistra socialista di Libertini, Vecchietti e Ferraris.
[NOTE]
562 Vedi l’interessante documento contenuto presso Asfi, fondo Rossanda, faldone 37, fascicolo “Corrispondenza intellettuali Pci”, carta “Da RR a Direttore”, senza data, in cui Rossanda esprime la sua visione dei rapporti tra politica e cultura criticando le richieste di “maggiore libertà”, e invece accusando il comunismo italiano di scarso coraggio nella ricerca culturale, artistica e scientifica.
567 Cfr. L. Alteri, Il Sessantanove non fu “eccezionale”, né gli anni Settanta furono “folli”. Una chiave interpretativa secondo il paradigma della violenza politica, relazione tenuta al convegno «1969-2019: 50 ans d’Autunno caldo. Entre historiographie, hèritage et teimognage», Université Paris Nanterre, 16-17-18 ottobre 2019.
568 Cfr., sull’evoluzione politica del Pci determinata anche dal rapporto con la nuova sinistra e il movimento studentesco, M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, T. 2, Einaudi, Torino 1995, pp. 463-470. Sul ruolo politico del Pci e la sua funzione istituzionale-governativa, cfr. anche C. Spagnolo, Il partito di massa, in S. Pons (a cura di), Il comunismo italiano nella storia del Novecento, cit., pp. 151-169, soprattutto pp. 166-167.
626 Cfr. G. Chiarante, Da Togliatti a D’Alema. La tradizione dei comunisti italiani e le origini del Pds, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 105-109. Riguardo alla dialettica tra vere e presunte correnti interne, molto interessante (soprattutto perché maggiormente variegato ed esplicito) il quadro che ne dà G. Galasso in Seguendo il P.C.I., cit.: «vediamo una “destra” orientata intorno a Giorgio Amendola e alla quale fanno capo la maggior parte delle forze intellettuali raccolte nell’Istituto Gramsci e intorno alle riviste “Studi Storici” e “Il Contemporaneo”, la maggior parte dell’ala meridionale e meridionalistica del partito, larghissime sezioni delle rappresentanze amministrative del PCI […]; e vediamo una “sinistra”, che fa capo ad uomini nuovi e che raggruppa la maggior parte dei sindacati e della burocrazia comunista, minoranze di amministratori e di intellettuali e, tendenzialmente, la vecchia guardia del partito e i militanti filocinesi a tutti i livelli», p. 132.
627 Cfr. D. Stasi, L’eretica ortodossia: Pietro Ingrao, cit., pp. 167-181.
628 Cit. in Ivi, p. 175.
Alessandro Barile, Apogeo e crisi della politica culturale comunista. Rossana Rossanda e la Sezione culturale del Pci (1962-1965), Tesi di dottorato, Università di Roma La Sapienza, 2022

mercoledì 17 agosto 2022

La collaborazione tra la Questura di Como e i comandi tedeschi si evince anche dall’episodio dell’arresto dei coniugi Levi


Como era la città da cui più facilmente si poteva scappare da Milano in Svizzera. <281 I collegamenti erano ottimi e comunque la distanza era breve. <282 Ad esempio un rapporto per il consolato di Berna da parte di quello di Lugano, dell’ottobre 1943, informava che parecchi ebrei tedeschi che erano precedentemente fuggiti in Italia erano riusciti a sconfinare in Svizzera. <283 Il 10 dicembre 1943 un indignato Von Thadden scrisse al Capo del RSHA e, per conoscenza, ad Eichmann, per sapere in qual modo intendevano fermare “die illegale Auswanderung von Juden aus Italien nach der Schweiz.” [“L’emigrazione illegale degli ebrei dall’Italia verso la Svizzera”] <284 Per questo motivo i tedeschi misero in campo un intero AK con circa 70 uomini e con giurisdizione su tutta la zona della frontiera. <285 Lo Judenreferent era tale Anton Hölzl (n.1907), un Kriminaloberassistent e SS Hauptscharführer, che secondo quanto emerso al processo contro Boßhammer, si era distinto nella “chiusura delle frontiere.” <286 Qui, dopo la caduta di Roma, venne a lavorare Hans Clemens, <287 che aveva collaborato con l’ufficio VI di quell’AK. Gli uomini addetti alla sorveglianza erano della V sezione della Grenzwache [Guardia di Frontiera] della scuola di Innsbruck, assieme a riservisti e territoriali austriaci in addestramento nel Tirolo. <288
Allo stato delle ricerche, non ci sono altre notizie sui metodi seguiti da questo AK. L’unica informazione è quella riportata dal settimanale “Avanguardia”, il periodico delle SS italiane, che nel numero del 12 agosto 1944 raccontava l’arresto, a Ponte Tresa (in provincia di Varese), di cinque ebrei che avevano cercato di varcare il confine. “Ma improvvisamente si udì un rauco <<alto là!>> Dall’oscurità balzarono sul gruppo, che emozionato bisbigliava parole ebraiche, e chiesero i documenti. Dopo gli accertamenti delle relative indagini le guardie seppero subito con chi avevano a che fare e la marcia verso la <<libertà federale>> finì per tutti nelle carceri di Como.” <289
Per quanto riguarda i comandi italiani la Questura era agli ordini dei Capi della provincia Renato Celio (fino al 18 aprile 1944) e poi Franco Scassellati, che potevano contare sia sulla Guardia di Finanza che sulla Seconda Legione della GNR confinaria “Monte Rosa”, agli ordini di Marcello Mereu. Questi, nel dicembre 1943, poté mandare un rapporto al Questore dove rivendicava con orgoglio l’arresto di 58 ebrei dai primi di ottobre. <290
La milizia confinaria si distinse anche per la quantità di valute sequestrate agli ebrei in fuga.
Secondo una “notizia per il Duce”, del gennaio 1944, “Dalla Milizia Confinaria sono stati repertati a far data dalla seconda decade di Settembre u.s. ad oggi, gioielli e valute pregiate per un valore di oltre quindici milioni appartenenti ad ebrei che tentavano di espatriare (nominativi principali: Sacerdoti e famiglia; Foà, Levi, Ascoli, Ottolenghi). Detti valori furono tutti versati al Capo della Provincia di Como.” <291 Tamburini in persona si congratulò con Scassellati per la sua efficienza, “gratificandolo” con un vaglia di 100.000 lire. <292
Alcune fonti fasciste raccontano il modo in cui gli ebrei milanesi, o di altre parti d’Italia, venivano arrestati mentre tentavano la fuga via Como. A Milano esistevano svariate organizzazioni che aiutavano gli ebrei a rifugiarsi nella Confederazione. Una di queste era stata organizzata da Fernanda Wittgens, come detto, che contava una quindicina di collaboratori. La professoressa trovava rifugi temporanei, carte d’identità false e organizzava i viaggi verso la Svizzera. Il gruppo venne scoperto grazie ad un infiltrato della Questura di Como, un ebreo di nome Harry Nadelreich. Questi era stato arrestato da due agenti della Questura di Milano, che invece di portarlo in prigione gli avevano prima estorto dei soldi, e poi lo avevano “associato nelle loro attività criminose”, cioè andare a caccia di ebrei da ricattare. Il 3 giugno, a Como, Nadelreich venne nuovamente arrestato, assieme ai due poliziotti, probabilmente mentre era alla ricerca di fuggiaschi. Il Questore di Como decise però di utilizzarlo come infiltrato e lo mandò a Milano assieme ad un suo agente per capire come funzionava il sistema degli espatri clandestini. Qui Nadelreich si presentò alla professoressa Wittgens come ebreo in fuga, facendosi dare documenti falsi e un rifugio, in attesa della spedizione verso la Svizzera. In questo modo, Nadelreich riuscì a scoprire l’intera rete di complicità che venne smantellata dalla polizia alla fine di luglio 1944. Nel frattempo, sempre Nadelreich era riuscito a fare arrestare altri tre ebrei stranieri che vivevano a Como, sempre fingendosi un perseguitato per motivi razziali. <293 Uno dei complici della Wittgens era un prete del Duomo di Milano, Padre Giannantonio Agosti, che dava consigli su come scappare nel confessionale. Fu arrestato il 13 giugno dentro il suo confessionale proprio nel Duomo. <294
La collaborazione tra la Questura di Como e i comandi tedeschi si evince anche dall’episodio dell’arresto dei coniugi Levi, residenti a Milano. Guido Levi e la moglie Luigia, nell’ottobre del 1943 avevano progettato la fuga in Svizzera. Il Prefetto di Como, avutane notizia da “informatore attendibile”, li fece “cautamente vigilare” e diede ordine di arrestarli alla Milizia confinaria non appena avessero tentato l’espatrio, cosa che avvenne il 23 ottobre. “Secondo le disposizioni del Comando delle S.S. Grenzbefehlstelle West di Cernobbio (Como) - continua il rapporto del Prefetto - trattandosi di ebrei, la Milizia Confinaria ha provveduto alla loro consegna a quel Comando.” <295
Oltre a collaborare con i comandi nazisti, anche la Prefettura di Como continuava a disporre arresti e deportazioni. Il 27 gennaio 1944, il Capo della provincia, all’epoca Renato Celio, inviò un rapporto al Ministero dell’interno con l’elenco di 46 ebrei che “in ottemperanza alle disposizioni vigenti, sono stati recentemente internati nel Capo di Fossoli di Carpi.” <296
Erano numerosi gli istituti religiosi che aiutavano la fuga in Svizzera. Uno di questi era l’Istituto Palazzolo, diretto da certa Madre Donata, su indicazione del Cardinale Schuster. “L’arresto di alcuni ebrei a Como, che rivelarono l’indirizzo del loro precedente rifugio e fecero nomi, provocò l’arresto della Madre e la fine dell’opera. Quando i tedeschi effettuarono la perquisizione del Palazzolo, vi erano ancora 17 ebrei. Le suore riuscirono a farne nascondere alcuni fra le macerie, altri nell’ascensore fermato tra i due piani. Il giorno dopo le SS tornarono e scoprirono solo 3 donne ebree. Ne portarono via due, lasciarono la terza perché moribonda.” <297
Probabilmente furono gli arresti alla frontiera di Como a far scoppiare lo “scandalo” degli ebrei nascosti e fatti scappare in Svizzera esploso nell’agosto del 1944, quando una serie di operazioni di polizia portò alla luce la rete degli istituti religiosi. Giudei nei conventi di Milano, titolò a tutta pagina il settimanale delle SS italiane “Avanguardia”, il 12 agosto 1944, illustrando l’articolo con un disegno che raffigurava un crocifisso che si rivolgeva ad un gruppo di frati e monache con la frase “Perché proteggete chi mi ha crocifisso?” <298 Il giornale “Sveglia!”, di Milano, chiedeva invece di “colpire decisamente e duramente” i sacerdoti che nascondevano o facevano scappare gli ebrei. <299
A differenza di Roma, dove le irruzioni suscitarono la protesta pubblica dell’”Osservatore romano”, nella diocesi di Milano il cardinale Ildefonso Schuster decise di rispondere con una lettera privata indirizzata “alle supreme autorità” fasciste del capoluogo lombardo. In questa missiva il cardinale scrisse in maniera estremamente chiara che tutti i cristiani era obbligati a dare ospitalità agli ebrei, anche se ovviamente l’alto prelato parlava di coloro che erano bisognosi perché infermi o indigenti: “A tutti costoro [i religiosi arrestati] si attribuisce a debito l’opera della cristiana carità, da lor apprestata a dei poveri Israeliti, vecchi, infermi ed oppressi dalla più tetra miseria. Abbiamo già avuto più volte occasione di spiegare alle Supreme Autorità, che se l’esercizio di tale carità è un delitto, allora siamo rei tutti quanti i cristiani, anche i protestanti, perché è il Vangelo stesso di Cristo che ci fa obbligo di soccorrere i poveri, specialmente quelli che si trovano in estrema necessità.” <300
Anche in questo caso, è da sottolineare il fatto che il Cardinale si rivolgesse alle autorità italiane, e non a quelle tedesche, cosa che fa pensare che, come a Roma, fossero gli italiani ad essere impegnati nelle razzie nei conventi. <301
I religiosi non erano i soli a dare problemi alla Questura di Como. Anche la Guardia di Finanza, che doveva teoricamente controllare i confini con compiti di polizia economica, aveva un comportamento al limite del tradimento. <302 Il Commissario Capo Alfredo Pachino, responsabile per il Commissariato per i servizi di Frontiera di Como, scrisse una lettera indignata al Capo della Polizia denunciando la GdF che fingeva di ignorare “l’intenso traffico clandestino di corrispondenza e probabilmente anche di persone.” Tra gli esempi riportati dal funzionario, vi era quello di un finanziere che aveva fermato degli ebrei, e per questo motivo era stato trasferito per punizione dal suo superiore. <303 Offesissimo, il comandante della Guardia di Finanza rispose alle accuse inviando a sua volta al Capo della Polizia un prospetto con tutti gli arresti effettuati dal suo corpo “Nel tratto di frontiera italo-svizzera compreso fra il cippo 116-A (Rodero) e Pizzo Martello (Como)”. Gli arresti, avvenuti tra il febbraio ed il dicembre 1943, erano stati 76, dei quali 26 sono di persone di probabile origine ebraica. <304
Anche nel caso di Milano, insomma, come di quello di Roma, mentre i singoli collaboratori e i corpi armati nati durante la RSI si distinsero per la decisione con la quale perseguitavano gli ebrei, le forze di polizia “tradizionali” si contraddistinguevano per l’ambiguità del comportamento. E’ praticamente impossibile trarre delle conclusioni decise o tracciare una linea netta tra chi era costretto a cooperare, e faceva del suo meglio per evitare di arrestare gli ebrei, e chi invece collaborava con entusiasmo e convinzione. Ad ogni documento che fa pesare la bilancia da una parte, corrisponde immediatamente uno contrario.
E’ comunque evidente che, a Roma come in Lombardia, la Polizia e la Guardia di Finanza non erano dei corpi di cui i tedeschi, e neppure i fascisti, si potevano fidare. Corruzione, incapacità, paura, scarsa convinzione ideologica, “pietismo”, <305 vero e proprio antifascismo, erano le tare che contraddistinguevano poliziotti e finanzieri. Per questo motivo, anche a Como, il proliferare di corpi armati “politici” fu visto con favore dai tedeschi, che li utilizzarono largamente e spesso con successo.
[NOTE]
281 Ovviamente Como, anche se la più importante, non era la sola città di confine attraverso la quale gli ebrei cercavano la fuga in Svizzera. Ad esempio il Capo della Provincia di Sondrio, Rino Parenti, il 14 dicembre 1943 informava il Ministero dell’interno dell’arresto di sei ebrei (quattro uomini e due donne), che si erano recati nella sua città per tentare di espatriare. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’interno RSI, Direzione Genenerale di Ps., Divisione Affari Generali e Riservati, II Guerra Mondiale. Ebrei Internati, b.30. Tutti e sei gli ebrei furono uccisi ad Auschwitz.
282 Sono numerose le testimonianze nella sezione di audiovisivi dello Yad Vashem di ebrei che sono fuggiti, o hanno tentato di fuggire, in Svizzera passando per Como. Ad esempio Anna Abbiate Fubini, YVA file n.7421112; Emma Elbert, YVA file n.7423651. Secondo Renzo De Felice, gli ebrei fuggiti in Svizzera durante l’occupazione furono tra i 5 e i 6.000 Renzo De Felice, Introduzione a Nicola Caracciolo, Gli ebrei e l’Italia durante la guerra 1940-45, Bonacci, Roma, 1986, p.11.
283 YVA, Tr.3/967.
284 YVA, Tr.3/967.
285 Carlo Gentile - Lutz Klinkhammer, Gegen die Verbündeten von einst, cit., p.528. Nel saggio, Intelligence e repressione politica, Carlo Gentile cita Joesf ‘Sepp’ Vötterl, un capitano delle SS austriaco della divisione Leibstandarte Adolf Hitler, veterano di Russia, come comandante dei nuclei della SiPo-SD ai posti di confine.
286 YVA, Processo Boßhammer, p.27.
287 Landesarchiv NRW, Abteilung Westfalen, Münster, Q 234, 3032. In copia presso l’Archivio della Fondazione Museo della Shoah di Roma.
288 Renata Broggini, La frontiera della speranza. Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera 1943-1945, Mondadori, Milano, 1998, p.57.
289 Intermezzo notturno a Ponte Tresa, “Avanguardia”, 12 agosto 1944.
290 “E’ così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica - rifugio di rabbini - tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie della GNR che, indefessamente, su tutti i percorsi, anche i più rischiosi, con qualsiasi tempo e in qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati, vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda. Ebrei fermati nel territorio di questa Provincia ammontano, dai primi di ottobre a oggi, a cinquantotto.” Citato in Renata Broggini, La frontiera della speranza, cit., p.58.
291 Archivio Centrale dello Stato, Carte Barracu, b.3, “Notizia per il Duce” del 27 gennaio 1944.
292 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno RSI, Gabinetto, b.13, telegramma di Tamburini a Scassellati del 21 giugno 1944.
293 Archivio centrale dello Stato, Ministero dell‘Interno, Direzione Generale di Ps, Divisione affari generali e riservati, b.10, rapporto del Questore di Como Lorenzo Pozzoli.
294 Dorina di Vita, Gli ebrei di Milano sotto l’occupazione nazista, cit., p.39.
295 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Segreteria Particolare del Capo della Polizia RSI, b.38, rapporto del Prefetto di Como del 9 novembre 1943.
296 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’interno RSI, Direzione Genenerale di Ps., Divisione Affari Generali e Riservati, II Guerra Mondiale. Ebrei Internati, b.11.
297 Ivi, p.40.
298 La polemica contro la Chiesa cattolica era cominciata nel febbraio del 1944, come detto, dopo l’irruzione a San Paolo a Roma. Nel giugno 1944, “Brescia Repubblicana” aveva attaccato duramente il Vaticano commentando la notizia che il rabbino capo di Roma aveva pubblicamente ringraziato la Chiesa per l’aiuto dato agli ebrei durante l’occupazione (La riconoscenza degli ebrei per le autorità vaticane, “Brescia repubblicana”, 22 giugno 1944). Nel luglio del 1944 Mussolini riprese la polemica attaccando i preti cattolici che “si fanno, consciamente o meno, fautori dell’anarchia, del disordine, dell’opposizione alle leggi, del crimine. Cioè vanno contro l’insegnamento che la Chiesa, nella frase evangelica <<Date a Cesare>>, ha sempre professato.” Stato e Chiesa, “La Stampa”, 15 luglio 1944. Questo articolo comparve nella rubrica La nota della Corrispondenza Repubblicana, lo strumento con cui Mussolini, pur non firmando gli articoli, interveniva sulla stampa. Su Mussolini giornalista si dilungano per tutto il volume Giorgio Pini - Duilio Susmel, Mussolini. L’uomo e l’opera, Vol.IV, cit. Contro Schuster si scagliò anche il “Corriere della Sera”, che nel numero del primo ottobre 1944 aveva pubblicato un articolo intitolato Abramo e sua moglie, firmato da Goffredo Coppola. Il 10 ottobre successivo anche Farinacci, su “Regime fascista”, pubblicava un articolo dal titolo Abramo fa scuola, sempre contro Schuster.
299 Biancospino, Due palmi più giù, “Sveglia!”, 18 agosto 1944.
300 Archivio di Stato di Milano, Prefettura, Gabinetto, b.365, lettera di Ildefonso Schuster “alle supreme autorità” del 24 luglio 1944. Questo documento non venne citato tra quelli pubblicati dal cardinale nel suo libro Gli ultimi tempi di un regime, cit.
301 Schuster scrisse nuovamente a Mussolini il 30 ottobre 1944, lamentando il caos nella sua diocesi dovuto alla “dozzina di compagnie e squadre autonome”, e sottolineando che “sarebbe troppo lunga la lista dei nostri Parroci e Sacerdoti carcerati, schiaffeggiati, malmenati […].” Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce RSI, carteggio riservato, b.49, lettera di Schuster a Mussolini del 30 ottobre 1944. L’atteggiamento antifascista del clero, e delle gerarchie dell’Arcidiocesi, era talmente preoccupante che il prefetto di Milano preparava una “relazione mensile sul Clero” direttamente per Mussolini. I rapporti si trovano Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce RSI, Carteggio riservato, b.17.
302 Alcune testimonianze di ebrei che furono lasciati scappare in Svizzera dai finanzieri in Renata Broggini, La frontiera della speranza, cit., cap.III.
303 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Segreteria particolare del Capo della Polizia RSI, b.29, rapporto di Alfredo Pachino al Ministero dell’Interno del 12 marzo 1944. Un altro episodio, riportato dal notiziario della Gnr, è quello del brigadiere della Gdf di Como che era stato sorpreso a mentre aiutava due “individui provenienti da Venezia” a scappare in Svizzera. Segreteria Particolare del Duce RSI, Carteggio riservato, b.5, “Relazione mensile” della Gnr di Como per il mese di aprile 1944.
304 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Segreteria particolare del Capo della Polizia RSI, b.75.
305 Per i fascisti i “pietisti” erano coloro che, per motivi umanitari, aiutavano gli ebrei. Era un aggettivo negativo.
Amedeo Osti Guerrazzi, Tedeschi, Italiani ed Ebrei. Le polizie nazi-fasciste in Italia 1943-1945 in Pensare e insegnare la Shoah, attività e materiali, Assemblea legislativa. Regione Emilia-Romagna. Percorsi della memoria

domenica 14 agosto 2022

In realtà Goyeneche era in Europa per una missione segreta


Negli anni ’30 l’Argentina era stata guidata da dittatori e da presidenti eletti scorrettamente, regimi corrotti che cercano a volte anche di scatenare delle guerre d’indipendenza e, in nome di un’alleanza spagnola, chiamare a governare uno spagnolo stesso. Furono loro a trasformare il paese in una nazione cattolica, non più una repubblica laica. Negli anni ’40 la politica estera del paese era decisa da personalità legate alla Santa Sede, guidate a loro volta dalla convinzione che l’Argentina formasse, insieme alla Spagna e al Vaticano, il “triangolo della pace transoceanico”. Allo scoppio della guerra l’Argentina era divisa al suo interno tra filonazisti e filoalleati. L’allora presidente Castillo dichiarò la neutralità del paese, mentre i suoi consiglieri cercavano di contattare la Germania nazista. Durante la guerra, Juan Carlos Goyeneche, nazionalista cattolico argentino, stabilì dei contatti con i vertici del Terzo Reich per offrire al Fuhrer l’appoggio del paese in cambio della concessione di aiuto finanziario a favore dell’Argentina contro il colosso statunitense. Goyeneche collaborò con la sezione servizi segreti all’estero delle SS, le “Ausland-SD” o SD, una rete di spionaggio che disponeva di agenti in tutto il mondo. Nel 1942 partì per la Spagna, su invito di Francisco Franco, come ospite del Concilio spagnolo. Ma in realtà Goyeneche era in Europa per una missione segreta. Quando arrivò in territorio spagnolo fu accolto dall’ambasciatore argentino, Adrian Escobar, e dal console Aquilino Lopez. Entrambi collaboravano con il comandante delle SS, Heinrich Himmler. Queste tre personalità incontrarono a maggio Pierre Laval, Primo Ministro del regime collaborazionista di Vichy <99, insieme al capo locale delle SS, Herbert Knochen. Ad agosto Goyeneche ed Escobar andarono a Roma dove ottennero udienza con papa Pio XII. L’idea dei due argentini era quella di una “Hispanidad” <100, cioè di riunire sotto l’influenza del Vaticano tutti i cattolici romani, dall’America Latina a Spagna e Portogallo. Dopo questa visita Goyeneche si recò a Berlino dove incontrò il capo dell’Ufficio America Latina del ministero degli Esteri tedesco, Otto Reinebeck, e a novembre fu invitato nella casa del ministro degli Esteri del Terzo Reich, Joachim von Ribbentrop, per un colloquio. L’obiettivo dell’argentino era quello di cercare l’appoggio del governo nazista per la candidatura di un nazionalista alle elezioni presidenziali in Argentina del 1943 o, in cambio, il sostegno per un colpo di stato che aiutasse il presidente neutrale Castillo a rimanere al potere. Successivamente Goyeneche fece tre domande a Ribbentrop <101.
La prima riguardo la possibilità che, al termine della guerra, la Germania avrebbe comprato dei prodotti provenienti dall’Argentina. Il nazista dichiarò, a riguardo, che la Germania avrebbe potuto anche acquistare l’intera produzione argentina, a patto che il paese avesse mantenuto la sua posizione neutrale. La seconda domanda riguardava i diritti argentini sulle Falkland <102. In tal caso la Germania ne riconosceva i diritti, date le ostilità nei confronti della Gran Bretagna. Ribbentrop però avvertì l’argentino che, se il suo paese non avesse prestato la giusta attenzione, gli Stati Uniti avrebbero potuto impossessarsene. Infine, dopo aver concordato sul fatto che la Spagna costituiva un ponte tra Argentina ed Europa, Goyeneche, al termine dell’incontro, disse che non era stato per nulla colpito dalla sua figura, ma addirittura disgustato <103. Prima di tornare a Parigi, ebbe un secondo incontro con Ribbentrop, durante il quale quest’ultimo gli consegnò una lettera di Hitler, il quale confermava il suo sostegno alle rivendicazioni argentine sulle Falkland.
A quel punto Goyeneche potè, con il permesso di Ribbentrop, telegrafare l’esito di questi incontri in Argentina, utilizzando il codice diplomatico tedesco. In questi telegrammi figura “Per Juan”, nome scelto per il colonnello Perón, il destinatario. Tornato a Berlino, Goyeneche fu condotto ad oriente da Walter Schellenberg, generale delle SS a capo dei servizi di sicurezza per l’estero delle SD, dove incontrò Himmler e ne rimase affascinato.
Nel 1943 tornò in Italia, a Roma, dove incontrò più volte monsignor Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI) e due volte Pio XII, il quale promise che avrebbe annunciato il suo sostegno a favore della battaglia per la neutralità argentina. Incontrò poi Mussolini, ottenendo dal Duce il sostegno al colpo di stato nazionalista per tenere in piedi il governo neutrale di Castillo. Mussolini, inoltre, riconobbe i diritti dell’Argentina sulle Falkland e promise che il paese avrebbe ottenuto questo riconoscimento, tramite una dichiarazione ufficiale, anche da parte del Giappone, terzo paese dell’Asse.
Il 4 giugno del 1943 il messaggio di Mussolini di sostegno al golpe fu inviato all’Ambasciata d’Italia a Buenos Aires, lo stesso giorno in cui i colonnelli, guidati da Juan Domingo Perón, cacciarono il presidente Castillo <104. Già nella prima metà del 1943 Schellenberg aveva approvato un’intesa di collaborazione reciproca che prevedeva da una parte l’immunità per i nazisti in Argentina, la loro copertura come agenti segreti e l’autorizzazione all’uso della valigia diplomatica, dall’altra l’ottenimento da parte dei militari argentini dell’accesso alla rete di comunicazione dei servizi segreti nazisisti, alle informazioni sui paesi vicini e l’appoggio per la creazione di un blocco latinoamericano a guida argentina. Poco dopo il raggiungimento di questo accordo Perón prese il potere con l’aiuto dei militari, e instaurò una dittatura guidata da una loggia segreta dei colonnelli, nota come GOU, Gruppo degli Ufficiali Uniti. Nei primi giorni successivi al colpo di stato il regime era già in cerca di armi per rafforzare la sua posizione nei confronti dei paesi vicini, soprattutto del Brasile. Così due agenti, un affarista tedesco di nome Hans Harnich e un tedesco-argentino Osmar Hellmuth, proposero dei contatti con il servizio segreto delle SS per ottenere armi tedesche. Entrambi furono convocati presso la sede del governo a Buenos Aires, la Casa Rosada, per preparare un telegramma da inviare ad Himmler. L’oggetto non era il trasferimento di armi in Argentina, bensì un incontro con lo stesso Hitler, per dar vita ad un’alleanza. Questa strategia fallì quando il sottosegretario Perón, dopo un colloquio con Hellmuth decise di inviare personalmente quest’ultimo ad interloquire con Hitler, ma l’incontro con il Fuhrer non ebbe mai luogo. Hellmuth, imbarcato sulla nave Cabo de Hornos insieme al colonnello Carlos Velez, fu intercettato dai britannici e portato in un campo di prigionia vicino Londra, dove fu sottoposto ad interrogatorio. <105
Parallelamente, alla fine del 1943, un colpo di stato guidato dai militari rovesciò il governo boliviano di Enrique Panaranda. La rivoluzione fu organizzata dai militari di Perón e dei collaborazionisti boliviani, ma nonostante tutto, il tentativo tedesco di avere un altro stato latino americano contro gli Stati Uniti, si rivelò una delusione. Il piano era stato scoperto e documentato dagli stessi statunitensi che carcarono di fare pressioni sul governo di Buenos Aires per negare ai nazisti l’ultimo appoggio in America Latina.
Nel 1944 l’Argentina divenne l’ultimo paese del continente americano a rompere le relazioni con il Terzo Reich, rimanendo neutrale e non dichiarando guerra alla Germania, se non fino ad un mese prima che Hitler decidesse di togliersi la vita nel Bunker a Berlino. La dichiarazione di guerra del febbraio del 1945 fu un grande stratagemma che distolse l’attenzione alleata mentre si preparavano le prime vie di fuga per i criminali nazisti. Dichiarando guerra, inoltre, l’Argentina avrebbe potuto, alla fine del conflitto, entrare in Germania. Un elevato numero di navi ed aerei della linea argentina FAMA <106 avrebbero potuto trasportare molte persone <107.
L’8 maggio del 1945 fu firmata la capitolazione delle forze tedesche che prevedeva la resa dei sottomarini tedeschi nell’Oceano Atlantico e nel Mare del Nord, noti come “lupi grigi”. L’ordine era quello di emergere in superficie ed issare una bandiera nera, comunicare la posizione alla capitaneria di porto e procedere verso il porto indicato, disarmati. Gli avvistamenti continuarono fino a luglio, vicino Rio de la Plata e Punta Negra, lungo la costa meridionale tra Argentina e Uruguay. Il 17 agosto un altro sottomarino tedesco fu avvistato a Mar del Plata, identificato come U-977 e guidato dal comandante Heinz Schaeffer, attraccò alla base navale argentina e l’equipaggio fu sottoposto ad interrogatorio. La stampa internazionale iniziò così a sostenere che molti ex gerarchi nazisti fossero scappati in Argentina, portando con loro il tesoro nazista.
[NOTE]
99 Il Governo di Vichy, fu un regime collaborazionista del 1940, nato dopo la sconfitta della Francia ad opera della Germania nazista. La sua sede, la città di Vichy, era la parte del paese non occupata dai tedeschi, e fu presieduto dal maresciallo Pétain. Cessò di esistere nel 1944.
100 Affidavit di Schellenberger, TC-21364, 19 dicembre 1945, NARA, RG 59, schedario 25
101 Full translation of Ribbentrop-Goyeneche Conversation, 25 agosto 1945, NARA, RG 59, schedario 23
102 Le Isole Falkland, o Las Malvinas, sono un arcipelago nell'Atlantico meridionale. Territorio d'oltremare del Regno Unito, che se ne dichiarò sovrano in quanto nel 1833 vi aveva edificato una base navale e nel 1837 un ufficio di amministrazione coloniale, le isole sono rivendicate dall'Argentina, che le considera tuttora parte integrante del proprio territorio nazionale. Nel 1982 le Falkland sono state scenario tra Argentina e Regno Unito della Guerra delle Falkland, conflitto vinto dal Regno Unito.
103 Lettera di Goyeneche ad Amedeo-GPP, 16 marzo 1943
104 Lettera di Mussolini a Castillo, 4 giugno 1943, MRE, DP, Italia 1943, Schedario 22
105 Goñi Uki, Perón y los alemanes, Sudamérica, Buenos Aires, 1998
106 La Flota Aérea Mercante Argentina (FAMA) è stata la prima línea aérea nazionale dell’Argentina per lo sfruttamento delle rotte aeree internazionali. Prima della sua nascita nel 1946, sotto il governo Farrell, il mercato del trasporto aéreo internazionale era stato ricoperto solo da linee straniere, tra le quali: Pan American Airways, Panagra, Air France e Lufthansa.
107 Rom P. Eugenio, Así Hablaba Juan Perón, A. Pena Lillo Editor, Buenos Aires, 1980
Giorgia Cardillo, La fuga dei criminali nazisti verso l’Argentina di Perón e la rete internazionale che li ha protetti. Il ruolo della Chiesa cattolica e dei servizi di intelligence, Tesi di Laurea, Università LUISS “Guido Carli”, Anno Accademico 2018/2019

venerdì 12 agosto 2022

Dall’estate del ’44 ogni divisione partigiana si dotò di un tribunale composto da rappresentanti di ciascuna brigata


Tra lo Stato italiano retto da Bonomi, gli Alleati e i Comitati di Liberazione Nazionale (in particolare il CLNAI con sede a Milano) si inserisce l’opera di epurazione, più o meno sommaria, che intrapresero le frange della Resistenza; episodi di giustizia verificatisi sia in quei luoghi da poco liberati, in cui le autorità italiane ed angloamericane non si erano ancora imposte stabilmente , sia nei territori controllati, momentaneamente, dalle sole forze partigiane. Gli attori di questo paragrafo sono coloro che dopo l’8 settembre 1943 imbracciarono le armi e si nascosero tra i boschi, le campagne, le periferie <162, sacrificando le loro vite, e quelle dei loro familiari, per cacciare dalla patria il “tedesco invasore” e i “traditori” della RSI <163. E’ comprensibile che questi uomini <164, lottando e rischiando la vita quotidianamente, versando sangue per liberare le proprie terre, non volessero sentir ragione di leggi e procedure quando si trovarono faccia a faccia con i tedeschi o con i fascisti; per loro le flebili norme statali non avevano assunto in quei mesi un valore determinante e vincolante. L’epurazione spontanea della Resistenza rappresenta quindi una ritorsione per i delitti in precedenza commessi dai nazifascisti ed è il risultato di un sentimento collettivo, popolare e diffuso alimentato da rancori e spirito di vendetta. D’altra parte nell’estate del 1944 i partiti antifascisti non avevano ancora definito una posizione comune da tenere in tema di epurazione e i Comitati di liberazione regionali e provinciali erano troppo eterogenei e instabili. Prevalse quindi una condotta volta alla ritorsione violenta, rapida, per una radicale resa dei conti. Questo cambiava chiaramente da zona a zona in base a quanto cruenta era stata la lotta civile: il fenomeno non era omogeneo. In alcune aree accanto ai CLN si formarono dei comitati provvisori che agirono, nei giorni successivi all’armistizio, attraverso migliaia di licenziamenti nella pubblica amministrazione, prima ancora che le leggi dello Stato italiano entrassero in vigore, sostituendoli con una nuova classe di funzionari <165. In altre zone, soprattutto quelle del Nord dove la guerra civile era stata più cruenta, la voglia di rivalsa e il desiderio di vendetta contro i fascisti repubblicani fu talmente accesa che si verificarono migliaia di uccisioni: una vera e propria giustizia sommaria <166. Questa feroce ed illegale repressione rientra a pieno titolo nella cosiddetta “epurazione selvaggia” <167 verificatasi, prevalentemente, nella primavera del 1945 <168.
Se per il fascismo delle origini, che per quello repubblicano, la violenza rappresentò un tratto costitutivo <169, «un concentrato di sorda violenza», come lo ha definito Mirco Dondi <170, viceversa è stato osservato come per le formazioni partigiane il significato attribuito ad azioni cruente fugeneralmente diverso, reattivo <171 ma non strutturale; la violenza che nel primo caso era esaltata e rappresentava un valore, nel secondo era una conseguenza delle provocazioni, una legittima difesa (anche nei casi di attacco). In alcune circostanze non è da escludere che potessero verificarsi “forme di contagio” da parte di una violenza più accanita tipica delle Brigate nere anche nei gruppi di partigiani <172, ma in linea generale la Resistenza fece un uso, se si può dire, più morale della violenza. Proprio per questo ogni banda partigiana varò dei regolamenti interni, delle linee di comportamento da mantenere sia nei confronti dei nemici che nei confronti, a maggior ragione, dei paesani e dei civili che li sostentavano <173. In aggiunta se agli albori della lotta partigiana il codice comportamentale era distante dalle norme del diritto, via via che l’esperienza resistenziale si faceva più matura diversi gruppi si avvicinarono alle direttive del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà che indicava alle file della Resistenza di rifarsi al Codice penale militare di guerra. Così dall’estate del ’44 ogni divisione partigiana si dotò di un tribunale composto da rappresentati di ciascuna brigata. Le deliberazioni si rifacevano agli articoli del Codice penale di guerra e in altri casi al semplice buonsenso <174. L’applicazione delle pene era differenziata generalmente tra prigionieri tedeschi e repubblicani: i primi erano nemici, appartenenti ad una nazione ostile e invasori del suolo patrio ma venivano considerati meno pericolosi dei fascisti i quali erano spesso vecchi amici, vecchi compagni ora traditori, che andavano puniti nei casi estremi con la pena di morte inflitta in particolare ai delatori, gli organizzatori del partito e i partecipanti armati ai rastrellamenti, o alle rappresaglie contro i civili. Anche contro questi ultimi però andavano raccolte prove prima di sottoporre l’imputato al processo del Tribunale partigiano ed eventualmente condannarlo; il tutto era volto a ridurre al minimo le esecuzioni sommarie <175, «per dettare un fermo criterio al quale ispirarsi in qualsiasi momento, [e per] porre un freno e non sancire quello stato d’animo che rompeva ogni controllo» <176. A volte le esecuzioni rispondevano invece solo alle contingenze: la mancanza di carceri dove imprigionare i nemici e l’impossibilità di convincerli ad abbandonare le armi portava all’ovvia necessità di eliminazione fisica del malcapitato <177.
Ogni azione della giustizia partigiana, anche la più cruenta e vendicativa, tendeva (anche se non sempre ci riusciva) ad essere moralmente superiore a quella nazifascista. Non tutti i catturati inoltre venivano condannati alla pena capitale: le donne collaborazioniste coi tedeschi, per esempio, erano colpite già dal 1944 con il taglio dei capelli, una pena che mirava a mortificare la femminilità della donna.
In conclusione, per quanto la guerriglia partigiana avesse cercato tra il ’43 e il ’45 di agire con più moralità rispetto alla cruda violenza repubblicana, la guerra civile sancì la necessità di intraprendere azioni altrettanto tragiche e con poche «alternative nel giudizio» <178. Se la Resistenza aveva cercato di circoscrivere i limiti della violenza, le ondate di giustizia sommaria post-Liberazione sconfessarono ampiamente questi intenti.
[NOTE]
163 Il termine “traditori” era chiaramente utilizzato dai partigiani per descrivere i repubblicani e, viceversa, dai saloini per descrivere le bande della Resistenza.
164 Non mancano ovviamente tra le file della Resistenza anche moltissime donne.
165 Cfr. H. WOLLER, I conti con il fascismo, op. cit., pp. 227-242.
166 Si veda sul tema M. DONDI, La lunga liberazione, op. cit.
167 Vedi infra.
168 In questa ondata di vendette solo una piccola cittadina, Montecatini Terme, istituì un tribunale popolare extralegale (in attività per pochissimo tempo) al fine di giudicare i criminali fascisti.
169 Si consulti M. MILLAN, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2004, pp. 11-17. Si vedano anche G. ALBANESE, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 176-177 e T. ROVATTI, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la RSI, Clueb, Bologna, 2011, p. 101: «La violenza fascista assume modalità d’espressione tipiche della guerra civile, oltrepassando anche sotto l’aspetto formale ogni limite di legittimità. All’interno dello scontro armato fra connazionali il coinvolgimento indiscriminato degli inermi, l’uccisione sommaria di donne, la rappresaglia su ostaggi estranei ai fatti, l’uso della tortura, le ritorsioni sui congiunti e le azioni esplicitamente finalizzate alla vendetta acquisiscono a partire dagli ultimi mesi del 1944 il carattere di pratiche dominanti». Segnalo ancora di Rovatti un saggio: T. ROVATTI, La violenza dei fascisti repubblicani. Fra collaborazionismo e guerra civile, in G. FULVETTI, P. PEZZINO, (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 145-168.
170 M. DONDI, La lunga liberazione, op. cit., p. 14.
171 Cfr. G. SCHWARZ, Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, UTET, Torino, 2010.
172 Cfr. C. PAVONE, Una guerra civile, op. cit., pp. 413-514. Inoltre si consulti S. PELI, La Resistenza in Italia, op. cit., pp. 161-169.
173 Cfr. R. BOTTA, Il senso del rigore. Il codice morale della giustizia partigiana, in M. LEGNANI, F. VENDRAMINI, (a cura di) Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 141-161. In aggiunta si segnala G. OLIVA, I vinti e i liberati, op. cit. Va rammentato che non pochi furono i casi di esecuzione di partigiani che avevano infranto il codice della brigata rubando per esempio del cibo o del vestiario da alcune case. I partigiani avevano l’assoluta necessità di essere appoggiati dalla popolazione civile e non potevano passare per banditi e ladri. Se così fosse stato nulla li avrebbe resi diversi dai nazifascisti e il vitale sostegno delle comunità sarebbe venuto meno condannando le stesse bande partigiane alla fine. «Nati come fuorilegge, tendevamo per istinto a ritornar nella legge, ossia a crear un nostro “codice”, di cui la responsabilità fosse comune, alle cui formule si potesse ricorrere nei momenti d’incertezza». R. BATTAGLIA, Un uomo, un partigiano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 166.
174 Cfr. A. MARTINI, Dopo Mussolini, op. cit., pp. 44-58.
175 Cfr. R. BATTAGLIA, Un uomo, un partigiano, op. cit., pp. 165-174. Il Tribunale partigiano, specificava Battaglia, doveva dare un giudizio non vincolato ad alcun codice penale. Il giudizio era riconosciuto solo dal tribunale stesso e dai compagni d’armi.
176 Ivi, p. 167.
177 Cfr. A. MARTINI, Dopo Mussolini, op. cit., pp. 44-58.
178 G. SOLARO, La giustizia partigiana, in «Istituto milanese per la storia della resistenza e del movimento operaio», Annali 4, Franco Angeli, Minalo, 1995, p. 399.
Mauro Luciano Malo, La giustizia di transizione tra fascismo e democrazia. La Corte d’Assise straordinaria e l’amnistia Togliatti a Venezia (1945-1947), Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2019/2020

Vi è poi il tema dell’epurazione spontanea che si cerca di soppiantare con questa normativa, e come bene sintetizzato dal Woeller <9, si poteva ricondurre nell’alveo di tre chiare direttrici. Un primo tipo di epurazione è sicuramente quella selvaggia, violenta, tipica dei primi periodi di liberazione del territorio. La seconda tipologia è quella che avviene nell’ambito della guerra, come accade a Roma, dove tra il 1944 e il 1945 possiamo parlare di tre guerre contemporanee: la seconda guerra mondiale, la sanguinosa guerra civile tra fascisti e antifascisti e una guerra di classe di proletari, piccoli contadini e braccianti contro il ceto agrario e borghese. A titolo di esempio, il frutto di questo tipo di epurazione diede 1100 vittime ufficiali in Veneto e 2100 in Emilia Romagna, anche se i dati non sono definitivi  [...] 
9 Hans Woeller, I conti con il fascismo - l’epurazione in Italia. 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1977, pag. 373
Fabio Fignani, L’epurazione in Veneto. Alcuni casi di studio, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

mercoledì 10 agosto 2022

L'Acanto

Acanthus mollis L. - Acanto comune. Foto di Giuliano Salvai. Fonte: Acta Plantarum

A molti sarà capitato di sentir nominare per la prima volta la parola Acanto nel periodo in cui hanno cominciato ad interessarsi degli stili architettonici dell'antica Grecia.

Infatti, secondo Vitruvio, l'elegante contorno delle sue foglie basali avrebbe colpito l'immaginazione dell'architetto greco Callimaco, inducendolo a concepire il fregio tipico dei capitelli corinzi.

L'idea gli sarebbe balenata in testa osservando il sepolcro di una ragazza morta prematuramente. Le lunghe lamine fogliari dell'Acanto, con il passare del tempo, si erano disposte con sorprendente naturalezza attorno al tumulo e davano l'impressione di sorreggerne la pesante lastra di copertura senza sforzo alcuno.

Tuttavia, oggi si dubita del fatto che siano stati gli Acanthus ad ispirare questi motivi ornamentali, molto comuni anche su vasi, coppe, tessuti preziosi.

Infatti, si tende piuttosto a riconoscervi una rappresentazione, libera ed indifferenziata, suggerita dalle foglie dei numerosi, onnipresenti, Cardi spinosi, così caratteristici della Flora greca e delle altre aride isole mediterranee.  

Per contro, è invece storicamente accertato che sia stato proprio l'Acanto il modello ispiratore dei fregi scolpiti sui capitelli dei monumenti funerari o delle chiese romaniche; specialmente di quelle dedicate al culto dei  martiri ed alla custodia delle loro reliquie, perché i cristiani gli hanno sempre conferito il valore simbolico di fiore della reincarnazione.  

La dimostrazione risalta dai molti ornamenti e bassorilievi nei quali, fra le foglie di Acanto, spuntano volti umani o emergono figure con le braccia protese verso l'alto, nell'atto di risorgere.

Fra le quaranta specie, inserite nell'omonimo genere delle Acanthacee, l'Acanthus mollis e l'Acanthus spinosus sono le due sole essenze considerate spontanee in Italia; entrambe già famose e distintamente descritte in epoca classica e romana. Da allora, soprattutto il primo, è una costante presenza nei giardini monumentali e domestici del Mediterraneo o delle zone continentali più temperate.

Per questo motivo, oggi, è assai difficile individuarne le residue stazioni spontanee, da ricercarsi solamente nelle località più impervie e rispettate del nostro litorale.

In tutto l'areale dell'Olivo, nelle fasce collinari, vicino ai ruderi, presso i muri di confine, lungo i canali di scolo, nei vecchi giardini abbandonati, succede l'esatto contrario perché l’Acanto vi domina rigoglioso, naturalizzato in stazioni secondarie.

In questa colonizzazione è favorito dalla notevole resistenza alla siccità, dalla ben nota frugalità, ma anche dalla curiosa ed infallibile tecnica di autodisseminazione: infatti, a maturazione completata, le capsule espellono i semi con particolare violenza.    
Il fenomeno, peraltro comune ad altri vegetali del Mediterraneo, si può constatare nei suoi effetti in tutti i giardini abbandonati già alla fine dell'inverno quando, attorno ai vecchi ceppi di Acanto, spuntano le nuove piantine, appena nate dai grani "sparati" dalla pianta madre solo pochi mesi prima.   

A questo proposito circola una curiosa notazione: il primo a rilevarlo con grande meraviglia, è stato il grande poeta tedesco Wolfgang Goethe, nella sua poco conosciuta veste di attento naturalista dilettante. In effetti, tra tutti gli artifizi balistici inventati dalla natura, quello dell'Acanto è tecnologicamente assai avanzato; alla forza espulsiva propria dell'esplosione della capsula si aggiunge quella esercitata da una struttura interna a forma di gancio collocata sulla divisione centrale del frutto che provvede a fiondare i semi lunghi circa tre centimetri sino ad una decina di metri di distanza. 

Acanthus spinosus L. - Acanto spinoso. Foto di Vito Buono. Fonte: Acta Plantarum

Il nome di questo famoso Genere, in lingua greca, significa "spina" ed è ricollegabile direttamente, alla morfologia della foglia, riferito soprattutto all'Acanthus spinosus (che nasce nel meridione d’Italia), ma anche alle brattee della spiga i cui segmenti terminano in altrettanti lunghi aculei, talvolta molto rigidi.  

Nell'antichità, forse proprio per questa sua natura di pianta armata, era dedicato a Marte.

Per molti secoli i guerrieri, prima di scendere in battaglia, tracannarono fiduciosi beveroni distillati dai suoi succhi con la sola avvertenza di berli  unicamente nei giorni dedicati a Giove ed al Dio della guerra perché negli altri periodi dell'anno, anziché lucido coraggio, avrebbe indotto precipitazione e furia incontrollata.

La letteratura e la poesia parlano sovente dell'Acanto con rispetto ed accenti velati di nostalgia.

Il linguaggio dei fiori lo eleva a simbolo della dolcezza, nonostante la presenza di spine, e ne giustifica il significato riferendosi alle collaudate funzioni di calmante per le infiammazioni cutanee.

Nella dura vita quotidiana del passato, quando ogni minima utilità offerta dai vegetali era sfruttata a fondo dall’uomo, l'Acanto serviva anche per la preparazione di un apprezzabile colorante giallo, impiegato per  tingere stoffe d'uso comune.

Plinio chiamando l'Acanthus mollis "Pederote" e l’Acanthus spinosus "Melanfillo", li descrive come "piante da giardini e da città, che rivestono con larghe foglie le sponde delle aiuole ed i rialzi dei terrapieni".

Secondo lo storico romano, le radici, cotte e mescolate all'orzo, erano anche in grado di guarire la tisi; tritate e scaldate alleviavano il dolore della gotta, sanavano fratture e slogature, cicatrizzavano le ustioni.

Fino a tempi molto recenti, i medici, hanno sfruttato le sostanze mucillaginose contenute nella pianta, prescrivendolo come emolliente per le infiammazioni dell'intestino e contro la tubercolosi.   La medicina popolare ne ha fatto largo uso anche come vulnerario, soprattutto per lenire il dolore delle punture di ragno, di tarantola e contro gli eritemi.  

 Al giorno d'oggi sono ritenute valide solamente le applicazioni di foglie fresche triturate come cataplasma per ridurre le infiammazioni della pelle. In uso interno l'infusione di 50g. di foglie per litro d'acqua, alla dose di tre tazzine al giorno, è confermato come emolliente.

L'Acanto è considerato dai giardinieri fra le specie costitutive dei Giardini interni d'inverno perché continua ad emettere le grandi foglie; inoltre è ritenuto indispensabile per ricoprire gli ampi spazi ombrosi in breve tempo. Si apprezza per la lunga durata della fioritura e la persistenza del fogliame sino ai primi freddi. Da sottolinearne, infine, la funzione ornamentale delle foglie recise che mantengono a lungo il loro brillante colore verde anche nei vasi.

Gli Acanthus sono piante perenni vivaci e robuste con grandi foglie alterne più o meno incise, dentate e spinose. I fiori, in spighe terminali dense, sono caratterizzati da un calice a 4 divisioni che sembrano formare due labbra.

La corolla presenta un solo labbro diviso in 3 lobi poiché il superiore è pressoché nullo. Gli stami, in numero di 4, sono inseriti alla base della corolla, le antere ad una loggia si aprono da una fessura anteriore. Lo stilo termina in due stigmi. I frutti membranosi si aprono in 2 valve. Il genere è composto da una ventina di specie prevalentemente mediterranee.  

Acanthus mollis L. - Acanto comune. Foto di Giuliano Salvai. Fonte: Acta Plantarum

- Acanthus mollis L. (III-VI, Nasce nelle zone ombrose negli incolti costieri ed interni di tutta la regione dal mare ai 700m). Ha fusti eretti semplici quasi legnosi a sezione tonda, alti oltre un metro. Le foglie basali sono molto grandi, coriacee, con il picciolo e le nervature inferiori pubescenti; hanno il profilo spatolato, sono pennato-partite con 6-7 incisioni più o meno profonde su ogni lobo. I fiori, a corolla bianco rosea, limitati al solo labbro inferiore trilobo, sono portati in spiga densa, con brattee ovali appuntite. I semi, grandi e compressi, sono contenute a coppie in capsule ovoidi membranacee.

Come raccoglierlo e coltivarlo  
L'Acanto, come si sarà potuto arguire, non presenta grandi problemi di coltivazione perché ha ampiamente dimostrato, nei secoli, di saper badare a se stesso; semmai deve essere controllato adeguatamente nella sua espansione a danno di altre piante meno resistenti.
Nelle zone più fredde durante l'inverno, è opportuno proteggerlo con strati di foglie mantenute ben secche allo scopo di evitare danneggiamenti prodotti da muffe.
La moltiplicazione avviene per divisione delle radici durante il periodo invernale di riposo, con messa a dimora definitiva nel mese di Marzo.
La semina va fatta da maggio a luglio su una normale composta.
Solo quando saranno spuntate le prime foglie si ripicchetteranno le piantine, per metterle definitivamente a dimora la primavera successiva, inserendole profondamente in terreno argilloso o argilloso siliceo.
La raccolta dei semi deve avvenire prima che siano espulsi; in genere, già nel mese di giugno, alla base delle spighe si trovano le capsule mature e fertili.
Dell'Acanthus mollis è nota agli orticoltori anche la var. latifolius o lusitanicus a foglie molto ampie, conosciuto inoltre come "Acanto del Portogallo", la var. candelabrum a fiori  porpora e bianco e la var. niger a foglia verde brillante.  
Recentemente ne sono state selezionate altre due a foglia dorata e variegata: "Fielding gold" e "Hollard's gold"  Dell' Acanthus spinosus esiste invece la sola varietà a brattee acute, ricurve, spinose e foglie con aculei bianchi: la var. spinosissimus ed una selezione denominata "Lady Moore".

Alfredo Moreschi