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sabato 30 ottobre 2021

Le sbavature, il colore che cola anticipano lo scioglimento di una relazione millenaria

Fonte: Artribune

8.3 il paesaggio non più agrario visto attraverso Paesaggio Particolare di Mario Schifano.

L'opera del 1963 a cui faccio riferimento appartiene alla collezione del Premio Termoli a cura di Achille Pace. Ha una dimensione notevole (150x120 cm) e presenta una tecnica mista su materiali di scarto, tipici elementi della sperimentazione artistica di quegli anni (carboncino e smalto su cartone).
Questa opera può essere ascritta alla serie paesaggi anemici che hanno occupato per circa un anno la produzione dell'artista (1963-1964). Dopo accurate ricerche, posso dire che non ci sono altre opere che presentano la scritta paesaggio-particolare: ci sono alcuni dipinti molto simili per la scelta del supporto e del taglio ad angoli stondati, che contengono la dicitura particolare di paesaggio italiano o cielo particolare...
È noto che questa serie di dipinti sia stata realizzata senza presa diretta dal paesaggio: i paesaggi sono ricordati, immaginati, pensati.
Inizialmente avevo ipotizzato che la dicitura paesaggio-particolare potesse indicare una reale ispirazione nata dal paesaggio costiero molisano visto dal treno: Achille Pace ha scartato questa ipotesi asserendo che Schifano aveva prodotto quell'opera in studio a Roma. Possiamo dare credito alla testimonianza di Pace: sono gli anni del Caffè Rosati, dove si riuniscono gli artisti della Scuola di piazza del Popolo e avvengono conoscenze e intensi scambi di idee tra artisti.
Tornando all'opera, il taglio ad angoli stondati del paesaggio ritratto evoca la visione da un finestrino, auto o treno: il paesaggio visto attraverso il vetro perde di complessità, è semplificato non solo perché priva la percezione dei sensi diversi dalla vista, ma anche perché il movimento semplifica la visione stessa. Tutti, osservando queste piatte campiture, diremmo che questo dipinto è un paesaggio, ma il paesaggio non c'è più o non c'è ancora. È in transito. Ma cosa intende Schifano per paesaggi anemici? Potrebbe riferirsi ad un fatto puramente tecnico ovvero all'assenza di colori caldi, del rosso e dei suoi secondari, un carattere riscontrato nella maggior parte delle opere della serie. Ma sarebbe più interessante se fosse riferito all'assenza nel paesaggio di persone-personaggi.
Per capire bene questa opera non si può non tenere conto dell'influenza dei maestri della pop art americana che Schifano aveva incontrato nel '62 in occasione della mostra The New Realists, alla Sidney Janis Gallery di New York e alla ricerca artistica successiva alla serie paesaggi anemici: le opere futurismo rivisitato in cui appaiono le sagome vuote dei futuristi con cappotti e bombette, fantasmi di un tempo passato e poi le opere che confluiranno nella mostra itinerante dal titolo Inventario con o senza anima (1966). La rivisitazione di immagini televisive nota come paesaggi tv è anticipata in paesaggi anemici dal taglio dell'immagine che è già quasi uno schermo.
Credo che nel gruppo di opere di cui paesaggio-particolare fa parte si possa nascondere un racconto dal punto di vista del paesaggio agrario del periodo storico del boom economico e dell'industrializzazione italiana per cui Schifano mostra un sentimento dicotomico in cui si mischiano attrazione e repulsione. Questi paesaggi mostrano una campagna abbandonata. La composizione disegnata a carboncino include parole scritte: cielo sul cielo, terra sulla terra e in basso il titolo: paesaggio-particolare.
Nominare le cose serve a riconoscerle, ma può essere un atto apotropaico o di appropriazione. In questo senso forse c'è già un tentativo di risemantizzazione di un paesaggio agrario in abbandono. Lo spazio tra il cielo e la terra è occupato da una zona bianca. Potrebbe essere foschia o nuvola, ma forse è il fantasma del paesaggio che aleggia sul paesaggio stesso. O forse rappresenta la mancanza degli umani, ma anche degli uccelli, degli alberi e di tutti gli esseri che esistono tra la superficie e la volta celeste. Mi pare che questo gruppo di opere guardi al paesaggio con lo stupore con cui si dà l'ultimo sguardo ad una casa svuotata, un attimo prima del trasloco, prima di chiudere la porta.
Tra l'altro il colore del supporto (tipico degli scatoloni di cartone) e le scritte a normografo rimandano proprio agli imballaggi. Gli abitanti del paesaggio agrario hanno traslocato in uno stretto giro di anni in città lavorando come operai delle industrie supportate nella ripresa dal Piano Marshall. In quel periodo storico, che se confrontato alla storia umana è un attimo, si rivela il vertice di una bellezza paesaggistica che è preludio al decadimento che sta per avvenire: le sbavature, il colore che cola anticipano lo scioglimento di una relazione millenaria. L'opera suscita l'istinto di cercare sul retro la scritta fragile, o una freccia verso l'alto per non capovolgere, almeno un simbolo che inviti a trattare con cura.
Ma il paesaggio negli anni Sessanta è nel pieno dello stravolgimento a cavallo tra la legge del '39 sulla protezione delle bellezze naturali e la modifica del '77 che istituirà il concetto di bellezza d'insieme.
In questi anni avviene un vero e proprio trasloco di senso. Se da un lato si è cercato di moltiplicare i vincoli paesaggistici nel tentativo di tutelare il paesaggio, con l'ingenuità di pensare che si potesse salvare il valore estetico del paesaggio agrario italiano senza per questo dover salvare contemporaneamente i processi di lavorolavorazione ad esso connessi e costruenti, dall'altro avviene l'inarrestabile 'catastrofe cemento'.
Ma la catastrofe più grande è che siamo rimasti impietriti, come dopo uno shock, come dopo aver visto Medusa. Non abbiamo capito come poter reagire e forse anche i vincoli, nati per contrastare, hanno rivelato un potere anestetizzante per l'agire: hanno tolto altri gradi di libertà ad un possibile movimento.
Schifano matura in questo periodo l'interesse per il film, la fotografia: figure statiche e in movimento come When I remember Giacomo Balla (1965). Nei paesaggi TV inizia una fase diversa con una tecnica che riesce a riportare le immagini video sulla tela emulsionata. Isola un fotogramma dal ritmo diegetico delle sequenze a cui appartengono e interviene con tratti e campiture di colore alla nitro. A questo proposito Schifano afferma che «Il processo è lungo ed elaborato. Ma solo così riesco ad ottenere quegli effetti di realismo e di visionarietà che rincorro con l'immaginazione».
Michele Porsia, Il piano paesaggistico come artefatto a reazione poietica. Verso una fertilizzazione della pianificazione del paesaggio attraverso ricerche artistiche contemporanee, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2019

venerdì 29 ottobre 2021

La memoria conflittuale attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e all’azione partigiana di via Rasella

Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine - Fonte: New Tuscia

L’attentato di via Rasella, e la strage delle Fosse Ardeatine che ne fu la conseguenza, posero allora alla coscienza civile, e lo pongono tuttora allo storico, il problema d’un giudizio sulla legittimità morale dell’attentato, sulla ammissibilità della rappresaglia, sulla responsabilità personale di chi volle l’attentato e di chi volle la rappresaglia. L’attacco al reparto tedesco che ogni pomeriggio, puntualmente, percorreva la via Rasella, una parallela di via Tritone in pieno centro di Roma, era stato preparato da un GAP comunista con scrupolosa cura, e con un controllo minuzioso dei tempi. L’incarico di collocare le due bombe - l’una dodici chili di tritolo, l’altra sei chili - fu affidato a Rosario Bentivegna, studente in medicina, che sarebbe stato aiutato, al momento della fuga, da Carla Capponi. Erano entrambi giovani ma sperimentati gappisti, cimentatisi in imprese contro il cinema Barberini, e contro Regina Coeli. In una via laterale si sarebbero appostati altri partigiani, tra essi Franco Calamandrei, pronti a segnalare a Bentivegna il sopraggiungere della colonna di soldati e a sparare contro i tedeschi dopo lo scoppio per accrescere il panico. Bentivegna si travestì da spazzino, pose su un carretto due bidoni con l’esplosivo, e rimase in attesa.
Quel giorno i tedeschi erano in ritardo. Attesi per le 15, fecero udire il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Calamandrei si tolse il cappello (era il segnale convenuto), Bentivegna accese la miccia e si allontanò verso via Quattro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi, che lo coprì con un impermeabile. Quella che stava marciando era la lla compagnia del terzo battaglione del Polizei Regiment Bozen, territoriali altoatesini che, troppo anziani per essere mandati al fronte, erano stati destinati al servizio d’ordine in città. L’esplosione fu apocalittica, e seguita da raffiche di mitra. Il leader comunista Giorgio Amendola discuteva in quel momento con De Gasperi, in un edificio non lontano. A De Gasperi, che si domandava cosa potesse essere quella esplosione, Amendola rispose asciutto «deve essere una delle nostre» e l’altro, con un blando sorriso: «Dev’essere così. Voi una ne pensate e mille ne fate». Poi ripresero a occuparsi della crisi del CLN, con Bonomi che minacciava di dimettersi per i contrasti che lo dilaniavano.
Gli ordigni esplosivi fecero strage. Trentadue militari tedeschi rimasero sul terreno insieme a un bambino e a sei civili italiani, che per fatalità erano in quei pressi (il comando partigiano affermò poi che i civili erano stati vittime della sparatoria forsennata cui i tedeschi si erano abbandonati, nella prima reazione all’attentato). Il decesso d’un ferito portò poi il totale delle vittime tedesche a 33. Sopraggiunsero in breve il comandante militare di Roma generale Maeltzer, il colonnello Dollmann e il console Moellhausen. Congestionato per l’emozione, e anche perché veniva da un lungo e copioso pranzo all’Hotel Excelsior, Maeltzer urlava, gli occhi pieni di lacrime, e inveiva contro Moellhausen e la sua politica «morbida». Hitler, avvertito al suo Quartier generale (era malandato in salute, e pochi giorni prima aveva dovuto ordinare l’occupazione dell’Ungheria per timore di un «tradimento all’italiana» dell’ammiraglio Horthy), dispose che fosse raso al suolo un intero quartiere, e che venissero passati per le armi cinquanta italiani per ogni morto tedesco. Kesselring, in ispezione al fronte, era introvabile, ma quando tornò ritenne eccessiva la misura della rappresaglia. Vi fu una sorta di patteggiamento tra Kappler - il maggiore delle SS cui sarebbe toccato il compito di trovare gli ostaggi da sacrificare - Kesselring e il Quartier generale del Fùhrer, e la proporzione di dieci a uno fu accettata, e ritenuta da Kesselring equa, tanto che alle 7 del giorno successivo ripartì per il fronte. Dollmann a sua volta andò a visitare padre Pfeiffer, che aveva accesso al Papa e lo pregò di intervenire perché si preparava qualcosa di grave. Dal Vaticano fu fatta una telefonata all’ambasciata tedesca, per sapere se fossero in vista esecuzioni, e la risposta fu evasiva. La Santa Sede stava portando a conclusione la trattativa con i tedeschi per la proclamazione di Roma città aperta, e non aveva interesse a rompere i ponti.
Kappler si mise al lavoro, quella sera stessa, per compilare l’elenco delle vittime; e Moellhausen (l’episodio è riportato in Roma 1944 di Raleigh Trevelyan) lo trovò che accarezzava un cane ammalato mentre allineava i nomi. Anche includendo tutti gli ebrei disponibili, all’alba Kappler aveva non più di 223 nomi (su quattro soltanto era già stata pronunciata una condanna a morte). Chiese aiuto al questore Caruso e a Koch, che interpellarono Buffarini Guidi, ministro dell’Interno di Salò, casualmente a Roma e alloggiato nell’Hotel Excelsior. Il ministro, svegliato di soprassalto e ansante, assentì. «Sì sì dateglieli sennò chissà cosa potrebbe succedere.» Ma anche con l’aiuto di Caruso la lista rimaneva incompleta, e così ci si rivolse a Celeste di Porto perché procurasse altri ebrei. L’orribile «pieno» fu così raggiunto (anzi, come si vide poi, risultò sovrabbondante).
Per la legge di guerra il dubbio «onore» di sterminare gli ostaggi sarebbe toccato al battaglione Bozen, ma il maggiore che lo comandava, Dobrich, rifiutò perché «i miei uomini sono vecchi, alcuni molto religiosi, altri pieni di superstizioni». Lincarico passò alle SS di Kappler. Fu superato anche un problema di macabra logistica. Dove ammassare tanti corpi? Un ufficiale del genio suggerì delle cave di pozzolana sulla via Ardeatina, da lui visitate alla ricerca di rifugi antiaerei. Eseguita l’operazione, l’ingresso sarebbe stato fatto saltare, trasformando le cave in una fossa comune.
Cinque alla volta, i prigionieri tratti da via Tasso e da Regina Coeli – molti convinti che li si stesse avviando al lavoro forzato in Germania – furono fatti entrare e finiti con colpi alla nuca. Gli ufficiali erano tenuti a dare il buon esempio sparando anch’essi, e Kappler rincuorò i carnefici, alcuni dei quali assaliti da nausea e disgusto, facendo fuoco personalmente e distribuendo cognac in abbondanza. Alle otto di sera – 24 marzo – tutto era finito. 335 corpi – 5 in più di quelli che la proporzione di dieci a uno avrebbe sia pure crudelmente legittimato – erano accatastati nelle cave. Caddero alle Fosse Ardeatine, con un gran numero di ebrei, alcune tra le più luminose figure della Resistenza: il colonnello Montezemolo, il generale Simoni, il generale Fenulli già vice comandante della divisione Ariete, i comunisti Valerio Fiorentini e Gioacchino Gesmundo, gli azionisti Armando Bussi e Pilo Albertelli, il colonnello dei carabinieri Frignani, alcuni giovanissimi, quasi adolescenti. Il 25 marzo i quotidiani pubblicarono un comunicato che parlava della «vile imboscata» ordita da «comunisti badogliani» e annunciava la rappresaglia, «già eseguita». Quando si seppe cos’era avvenuto Carla Capponi provò secondo quanto essa stessa ha detto «un’angoscia, una disperazione terribile» e Bentivegna fu assalito «da ira dolore sdegno per la vigliaccheria di una rappresaglia simile». Capi ed esecutori materiali già capivano che l’immane tragedia non sarebbe stata addebitata ai soli tedeschi, e Amendola scrisse, in tono di autogiustificazione: «Noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti… Avevamo solo un dovere: continuare la lotta». Ma EOsservatore Romano, pur nel suo linguaggio circospetto, ricordò le oltre trecento «persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto». Il che non piacque né ai tedeschi né ai gappisti.
Due fatti sono certi: il primo è che non vi fu alcun invito delle autorità tedesche perché gli autori materiali dell’attentato si costituissero. La ritorsione terribile fu ordinata a tambur battente, e attuata in segreto. Il secondo è che i gappisti non potevano pensare che la strage, progettata ed eseguita mentre si negoziava per proclamare Roma città aperta, e rivolta contro un reparto non impegnato nei combattimenti, restasse senza conseguenze per gli sventurati, ebrei e non ebrei, che erano in mani naziste e fasciste. Sul piano militare, l’azione avrebbe potuto avere un significato, sia pure simbolico – era chiaro che Roma sarebbe stata liberata entro breve termine – solo se si fosse collegata a una insurrezione cittadina. Roma non prese le armi, né allora né quando le truppe alleate furono a distanza di pochi chilometri. Le divisioni di Kesselring poterono ripiegare in ordine. I morti delle Ardeatine erano stati sacrificati alla ragione politica, al proposito di dimostrare, per fini appunto politici, che i tedeschi se ne andavano non soltanto perché incalzati dagli anglo-americani, ma perché scacciati dalla popolazione. Questo scopo fallì. In un libro (Achtung Banditeti!) pubblicato di recente Bentivegna ha rivendicato la legittimità, anche morale, dell’attentato, aggiungendo: «E probabile che di fronte alla sconvolgente minaccia di quel delitto (la rappresaglia, N.d.A.) qualcuno di noi, o forse tutti, avremmo preferito morire al posto dei martiri delle Ardeatine. È veramente diffìcile dire dopo se ci saremmo spontaneamente presentati ove ce ne fosse stata offerta prima l’opportunità».
Indro Montanelli - Mario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983

Nell’Italia della guerra civile, un episodio in particolare accese le discussioni sulla legittimità dell’uso della violenza da parte dei resistenti: la strage delle Fosse Ardeatine, dove furono fucilati 335 ostaggi come rappresaglia a un attentato partigiano che aveva provocato 33 morti e decine di feriti tra le file del SS Polizei Regiment Bozen (Bolzano).
Nelle fila dei resistenti, si aprirono subito intense discussioni sulle ragioni dell’attentato e fece esplodere i dissidi all’interno del CLN. I partiti che lo componevano avevano infatti concezioni differenti della lotta armata. Ad ogni buon conto, i comunisti decisero di assumersi tutta la responsabilità dell’azione. Un comunicato pubblicato il 30 marzo sull’Unità clandestina ribadiva con durezza: «Contro il nemico che occupa il nostro suolo, saccheggia i nostri beni, provoca la distruzione delle nostre città […] affama i nostri bambini, razzia i nostri lavoratori, tortura, uccide, massacra, uno solo è il dovere di tutti gli italiani: colpirlo, senza esitazione, in ogni momento, dove si trovi, negli uomini e nelle cose ]…]. Le azioni dei GAP [Gruppi d’azione patriottica] saranno sviluppate fino all’insurrezione armata nazionale per la cacciata dei tedeschi dall’Italia, la distruzione del fascismo, la conquista dell’indipendenza e della libertà.» <30
In effetti, la strategia comunista metteva consapevolmente nel conto le rappresaglie naziste contro la popolazione civile, anzi, individuava proprio in esse un efficace strumento per accrescere l’ostilità degli italiani nei confronti dell’occupante.
La strategia comunista era stata peraltro già chiarita qualche mese prima da Luigi Longo, comandante delle Brigate Garibaldi. «Il criterio se il nemico con le sue rappresaglie e la sua reazione ci potrà portare colpi ancora più duri, non può essere preso in considerazione: è l’argomento di cui si servono gli attendisti, ed è sbagliato, non perché, caso per caso, il loro calcolo non possa corrispondere a verità, anzi in astratto il loro calcolo è sempre giusto, perché è evidente che se il nemico vuole, caso per caso ci può sempre infliggere più perdite di quante noi ne possiamo infliggere a lui. Ma il fatto è che la convenienza o meno della lotta… si deve valutare sempre e solo nel quadro generale politico e militare della lotta contro il nazismo e il fascismo: il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi fucilati, ma si devono considerare tutte le misure di sicurezza che il nemico deve prendere, tutta l’atmosfera di diffidenza e di paura che questo crea nelle file nemiche, lo spirito di lotta che queste azioni partigiane esaltano nelle masse nazionali.» <31
Se il partigiano Franco Calamandrei aveva scritto nel suo diario del «senso di sovrumana fatica all’idea di poter mettere in moto il popolo. Una secolare inerzia che stenta a riscuotersi… una gigantesca ruota arrugginita» <32, acuire lo scontro avrebbe inoltre significato, nell’ottica comunista, mobilitare energie popolari fino a quel momento restate inattive.
Si presentava dunque come impossibile da sciogliere il dilemma tra la volontà di non mostrare alcun cedimento di fronte al nemico e il desiderio di non provocare vittime innocenti. Quest’ambiguità, che il leader del Partito d’azione Ferruccio Parri sintetizzò come «un non risolto e forse non solvibile problema di responsabilità» <33, accompagnò la vita di gran parte delle formazioni combattenti antifasciste.
[NOTE]
30 Cfr F. Malgeri, La Chiesa di fronte alla RSI, in La Repubblica Sociale Italiana, pp. 296-297.
31 Lettera di L. Longo al CLN di Roma, 8 gennaio 1944, cit. in Idem, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 295 ss.
32 F. Calamandrei, La vita indivisibile, cit., p. 131.
33 Cit. in C. Pavone, Una guerra civile, cit., p. 475.
Angelo Ventrone, «Italia 1943-1945: le ragioni della violenza», Amnis, 30 gennaio 2015

Roma, 7 dicembre 1951. Bentivegna viene arrestato per “blocco stradale” a seguito di una manifestazione di protesta contro la visita di Dwight Eisenhower in Italia - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit. infra

<1 «Di una egual luce cristiana risplendono le fronti dei martiri di Belfiore e delle Fosse Ardeatine».
Con queste parole il ministro della Guerra, Alessandro Casati, apriva il suo discorso al Vittoriano per la Giornata del soldato e del partigiano, inaugurata il 18 febbraio 1945 <2.
Su quello stesso colle del Campidoglio che già «una sera dei primi del marzo 1849» aveva visto «entrare per l’antica porta, nella città del suo sogno, Giuseppe Mazzini» <3, la strage delle Fosse Ardeatine, uno dei maggiori crimini di guerra di tutta l’Europa occidentale, compiuta a Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe occupanti tedesche, trovava pieno spazio nella grande tradizione commemorativa dei caduti di tutte le guerre d’Italia <4.
Il riconoscimento dei nuovi patrioti, «figli in armi» cui il popolo italiano aveva scelto di affidare «la tutela della propria indipendenza e dignità» <5, era del resto garantito dal conferimento della medaglia d’oro alla bandiera del Cvl, benedetta con rito cattolico da un cappellano partigiano, proprio sulla scalinata del Campidoglio e portata dinanzi al sacello del Milite Ignoto da Arrigo Boldrini, comandante della XXVIII brigata Garibaldi «Mario Gordini».
Il «tacito e solenne patto tra le Forze armate, cui - si diceva - infondono vita nuova e sangue nuovo gli eroici partigiani», assumeva così una funzione pedagogica essenziale: quella di reintegrare l’esperienza della guerra irregolare partigiana nel quadro della più rispettabile tradizione bellica nazional-popolare garibaldina e mazziniana, risollevando nel contempo il prestigio delle forze armate italiane in Europa, per mostrare l’estraneità dell’Italia alla guerra fascista e al nazionalismo di regime.
Non è un caso che nel suo discorso d’apertura alla cerimonia, il presidente del Consiglio dei ministri Ivanoe Bonomi avesse colto l’occasione per ricordare quanto l’Italia fosse stato il «primo paese d’Europa che in piena occupazione tedesca aveva avuto il coraggio morale e fisico di ribellarsi apertamente all’oppressore nazista», già acerrimo nemico risorgimentale, e quanto gli italiani potessero dimostrare, a testa alta, la loro estraneità al regime di Mussolini.
Dall’8 settembre 1943 ad oggi – aveva detto – una massa imponente di fatti, una successione ininterrotta di eroismi, una serie di sacrifici e di martiri, attestano che l’Italia, appena sciolta dai durissimi vincoli che le impedivano ogni movimento, ha ritrovato subito la sua antica anima e ha operato secondo la sua antica tradizione. È questa una prova […] che la guerra impostaci dal fascismo non era radicata nel cuore del popolo, talché, appena questo cuore ha potuto battere liberamente secondo le sue inclinazioni, il popolo, in tutti i suoi strati, si è trovato accanto al nemico di ieri e contro coloro che si voleva coattivamente fossero i suoi Alleati […]. Una tradizione di martirio e di sacrificio si è riaperta in Italia per affermare che quel meraviglioso Risorgimento italiano […] non è ancora chiuso e rinverdisce e fiorisce nel nuovo clima eroico della Nazione <6.
L’evento promosso dal ministro dell’Italia occupata Mauro Scoccimarro nell’anniversario del 18 febbraio 1861, a ricordo della prima seduta del Parlamento nazionale, riunito a Torino dopo l’Unità d’Italia, festeggiava così la fine di quel «vizio d’origine» dello Stato, derivante dal fatto d’essersi costituito al di fuori di una reale mobilitazione e partecipazione delle masse popolari. Per questo la rinascita del paese non poteva che essere simboleggiata da quei partigiani che, «in una sfida superba al secolare nemico, dall’esempio dei martiri e degli eroi del passato», avevano tratto «incitamento per vincere e morire, innalzando nella lotta la bandiera del Risorgimento» <7.
[…] Al di là dell’esaltazione dei patrioti del nuovo Risorgimento, le diverse interpretazioni dell’esperienza resistenziale portavano alla luce una «memoria divisa» in antitesi coi miti proposti dai partiti politici antifascisti e con l’immagine onorevole del combattente in armi.
Pur in debito coi partigiani per aver permesso all’Italia di poter «rientrare a testa alta nel consorzio delle libere e civili Nazioni», e riscattare «il suo buon nome dalla ignominia del ventennio fascista e soprattutto dalla vergogna della guerra a fianco della Germania nazista» <24, certamente non si poteva negare che una parte del paese avesse difficoltà a riconoscersi nel carattere «rivoluzionario» della guerra partigiana e a condividere la scelta della lotta armata contro il fascismo internazionale.
Il giudizio negativo sulla guerra di guerriglia, giudicata come irregolare e il concetto stesso di violenza illegittima in rapporto ai movimenti di resistenza, non faceva altro che dimostrare quanto il paese faticasse a riconoscersi in una guerra combattuta per libera scelta in base all’«etica della convinzione» che aveva spinto i partigiani ad agire secondo una scelta dettata dalla coscienza e non sulla base «dell’impunità garantita ai militari che, invece, avevano operato nel monopolio della violenza legale esercitata dallo Stato» <25.
La memoria conflittuale nata attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e all’azione partigiana di via Rasella del 23 marzo 1944 può essere considerata il massimo esempio di questa contro-narrazione.
Il processo per l’azione partigiana messa a punto dai Gap centrali, che nell’anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento avevano ucciso in via Rasella 33 soldati altoatesini dell’XI compagnia del III Battaglione SS-PolizeiRegiment Bozen, contribuì a cementare nell’opinione pubblica proprio l’errato senso comune dell’irresponsabilità dei partigiani.
Sobillati da una martellante campagna di stampa incentrata sulla condanna morale dei «colpevoli sfuggiti all’arresto» <26 – come «l’Osservatore Romano» definì i gappisti in un articolo apparso il 26 marzo 1944, appena due giorni dopo la strage – nel 1949 cinque familiari delle vittime delle strage avrebbero intentato causa civile per risarcimento danni proprio contro i partigiani, ritenuti responsabili della reazione tedesca, sia pure in via indiretta, per non essersi
«presentati» al Comando tedesco di Roma, nonostante l’affissione di manifesti nazisti che, si riteneva, avevano invitato gli «attentatori» a costituirsi.
Complementare a questa teoria era invece l’esaltazione dell’olocausto di altri eroi nazionali come il vicebrigadiere dei carabinieri Salvo D’Acquisto, medaglia d’oro al valor militare, fucilato dalle SS il 22 settembre 1943 a Torre in Pietra di Palidoro. Il gesto del «purissimo eroe», autoaccusatosi di un delitto mai commesso per salvare la vita a 22 ostaggi rastrellati dai nazisti a seguito dell’esplosione di una mina in una caserma tedesca, divenne il Leitmotiv della retorica antiresistenziale degli anni Cinquanta; il simbolo di una contro-narrazione dei fatti basata sulla mancata condivisione delle motivazioni etico-politiche che avevano ispirato la resistenza armata dei Gap.
[…] Il significato di queste morti creava così una sorta di contro narrazione mitica dei fatti legati alla «rappresaglia delle Cave Ardeatine», definitivamente consacrata durante il processo celebrato nel 1948 dal Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS Herbert Kappler, condannato all’ergastolo per l’eccidio del 24 marzo. Fu in quell’occasione che si contestò a Rosario Bentivegna, il gappista travestito da spazzino che aveva acceso la miccia dell’esplosivo in via Rasella, di non aver «preso in considerazione [il fatto ] di consegnar[s]i alle autorità tedesche» <29. Eppure era stato proprio Kappler a dichiarare, dal banco degli imputati, di non aver voluto avvertire nessuno
dell’imminente strage nel timore di una reazione dei partigiani <30.
Ma al di là del falso mito del Befehlsnotstand, dell’obbligo assoluto per i militari della Wehrmacht e delle SS d’obbedire a qualsiasi ordine superiore, pena la condanna a morte, per Kappler e gli alti comandi dell’esercito tedesco occupante, combattere le formazioni partigiane tra il 1943 e il 1945, aveva in realtà significato condurre una guerra terroristica di tipo preventivo e intimidatorio, fatta di ritorsioni contro la popolazione civile al puro scopo di spezzare il legame tra la Resistenza e gli abitanti di un territorio. Una strategia che aveva agito per mezzo del terrorismo diffuso, in nome della tattica meno dispendiosa e più efficace per assicurarsi il controllo militare di un territorio: non riuscendo a stanare le formazioni partigiane dalla clandestinità e a sconfiggerle impegnandosi con esse in uno scontro bellico regolare, seppur alla «macchia», la scelta era caduta sulla ritorsione contro i civili, al fine di colpire l’habitat e attraverso di esso di eliminare tutte le condizioni che avevano reso possibile l’operatività e la sopravvivenza delle brigate partigiane <31.
Era questa la logica che nel marzo del 1944 aveva ispirato la decisione di massacrare 335 uomini, in assoluto silenzio e in meno di 24 ore, nel fondo di alcune cave di pozzolana abbandonate lungo la via Ardeatina.
Nonostante ciò, i temi del martirio cristiano e dell’olocausto per la patria, tornavano in auge alla vigilia del processo che nel 1996, a più di cinquant’anni di distanza dai fatti, avrebbe condannato all’ergastolo l’ex capitano delle SS Eric Priebke per il massacro delle Ardeatine.
Incurante del fatto che Priebke fosse giudicato per crimini di guerra, e non per aver eseguito una legittima rappresaglia, il senso comune sui «fatti di Via Rasella» rimaneva ancorato alla retorica del «dovere d’obbedienza agli ordini superiori», sebbene nessuna legge avesse mai vincolato i membri dell’esercito tedesco a commettere massacri, secondo quanto previsto dall’art. 47 del codice penale militare di guerra tedesco <32. […]
[NOTE]
1 Questo saggio è la rielaborazione di alcuni capitoli della mia tesi di laurea discussa con Vittorio Vidotto nell’anno accademico 2001-2002, Le Fosse Ardeatine: dal massacro al mausoleo (1944-1996). La tesi ha vinto la V edizione del Premio Pier Paolo D’Attorre, indetto dalla Fondazione «Casa di Oriani» di Ravenna nel maggio 2004.
2 Le celebrazioni erano state precedute dalla Settimana del partigiano, un evento organizzato a Modena, nel novembre 1944, per la raccolta d’indumenti, viveri, pacchi dono e medicinali a favore di tutti i «volontari della libertà» che continuavano a combattere a Nord. Cfr. il telegramma del ministro dell’Italia occupata, Mauro Scoccimarro, al Comitato centrale di liberazione nazionale, 30 gennaio 1945, in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Fondo CCLN, b. 1, fasc. 5. Una generica descrizione della cerimonia è riportata anche in G. Schwarz, La guerra non più nobile. Trasformazioni del lutto e destrutturazione del mito della bella morte nell’Italia postfascista, in La morte per la Patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di O. Janz e L. Klinkhammer, Donzelli, Roma 2008, pp. 213-214.
3 Discorso di Alessandro Casati in 18 febbraio 1945. Giornata del partigiano e del soldato, Ministero dell’Italia occupata, Roma 1945, p. 7.
4 Mi permetto di rinviare al mio saggio Il mito del secondo Risorgimento nazionale. Retorica e legittimità della resistenza nel linguaggio politico istituzionale: il caso delle Fosse Ardeatine, in «Annali della Fondazione L. Einaudi», XXXVII, 2003, pp. 199-258.
5 Cfr. supra, nota 3.
6 Lettera di Bonomi al Ccln, 28 dicembre 1944, in ACS, Fondo CCLN, b. 1, fasc. 7.
7 Decreto legislativo luogotenenziale 15 febbraio 1945, in Medaglie d’oro al valor militare, Gruppo medaglie d’oro al valor militare in Italia, vol. I, Tipografia Imperiale, Roma 1965, p. 98. Il Cvl venne riconosciuto come parte delle Forze armate dello Stato solo con legge 21 marzo 1958, n. 285.
24 Manifesto del Ccln per la Giornata del partigiano e del soldato, 12 febbraio 1945, in ACS, Fondo CCLN, b. 1, f. 5.
25 C. Pavone, Priebke e il massacro delle Ardeatine, l’Unità/IRSIFAR, Roma 1996, p. 43.
26 Cfr. Parole chiare per i romani, in «l’Osservatore Romano», 26 marzo 1944.
27 Rievocazione del sacrificio del vicebrigadiere dei carabinieri medaglia d’oro al V. M. Salvo D’Acquisto, Palidoro, 24 maggio 1963, in ANFIM, Dal XIX anniversario dell’eccidio Ardeatino (24 marzo 1963) al XLV anniversario della Vittoria (4 novembre 1963), Ufficio stampa ANFIM, Roma 1963, p. 82.
28 Cfr. la relazione per il monumento da eseguirsi al cimitero del Verano, in ACS, PCM (1951-1954), f. 11772, cat. 14.5.
29 R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, con M. Ponzani, Einaudi, Torino 2011, p. 254.
30 Su queste motivazioni il colonnello delle SS sarebbe tornato alla vigilia della sua fuga dal carcere militare del Celio, nel 1977. Cfr. Herbert Kappler nove mesi contro Roma. Il famigerato capo delle SS ha scritto le sue memorie, Biblioteca dell’Istituto storico Germanico di Roma (DHI-Rom), Fondo Susmel B: S. x. 7. 9. 4.
31 Fu la stessa strategia applicata in altre zone d’Italia come l’Appennino bolognese, nei pressi di Monte Sole, in un massacro che costò la vita a quasi ottocento persone, uccise in oltre cento diverse località distribuite sul territorio. Cfr. L. Baldissara, P. Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna 2009.
32 Cfr. G. Schreiber, Processo Priebke dall’8/5 al 16/7/96 - STATO Maggiore Esercito, in Archivio audiovisivo ANFIM. Cfr. anche L.M. Baiada, Da Via Rasella a Kabul, in «Il Ponte», LXVI, 5, maggio 2010, pp. 48-55.
Michela Ponzani, Per l’onore d’Italia, per l’unità del popolo. Il mausoleo delle Fosse Ardeatine e la memoria della Resistenza nell’Italia repubblicana, Academia.edu

Carla Capponi in visita alle Fosse Ardeatine - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit. infra

La memoria conflittuale nata attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e all’azione di via Rasella del 23 marzo 1944 può essere considerata il massimo esempio di questa contro-narrazione. Ricordando quell’azione di guerra, molti anni dopo nel corso di un’intervista, Maria Teresa Regard torna a rivendicare con orgoglio l’operatività militare delle formazioni partigiane gappiste a sostegno dello sforzo bellico degli alleati, che «avevano bisogno di avere delle azioni forti a Roma» e le «sollecitavano […] per sostenere l’insurrezione della città» <56.
Contro ogni distorsione della verità Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Franco Calamandrei e altri combattenti che prendono parte a quell’azione di guerra, si sono del resto battuti fino alla fine, nel corso di una lunga battaglia per stabilire la verità, contrastando ogni volta le tante polemiche incentrate sul criterio dell’irresponsabilità dei partigiani, accusati di non essersi costituiti ai nazisti per evitare la rappresaglia delle Ardeatine.
“Assassini”, “vigliacchi”, “terroristi”, “stragisti”, “combattenti illegittimi”, “Banditen”: utilizzando questa terminologia nel definire i membri dei Gap, l’azione di via Rasella è presentata come un atto isolato e sconsiderato; un atto compiuto da giovani irresponsabili che in quegli anni hanno avuto voglia di giocare alla guerra, in una Roma “città aperta” pacificata dall’intervento di Papa Pacelli; un “gesto” inutile perché compiuto «quando ormai era certo che Roma sarebbe stata liberata di lì a poco» <57 dagli alleati.
[NOTE]
56 Intervista di Maria Teresa Regard ad Alessandro Portelli, 20 aprile 1998, in ASSR, Fondo famiglia Calamandrei Regard, serie 2 Resistenza, s.serie 2, b. 3, fasc. 4.
57 Rievocazione del sacrificio del vicebrigadiere dei carabinieri medaglia d’oro al V. M. Salvo D’Acquisto, Palidoro, 24 maggio 1963, in ANFIM, Dal XIX anniversario dell’eccidio Ardeatino (24 marzo 1963) al XLV anniversario della Vittoria (4 novembre 1963), Roma, Ufficio stampa ANFIM, 1963, p. 82.
Michela Ponzani, Una legittimità contestata: il caso “via Rasella” in Scegliere la disobbedienza. La dimensione esistenziale dell’antifascismo nelle memorie di Rosario Bentivegna e Carla Capponi. Introduzione agli inventari dei fondi Bentivegna e Capponi, Senato della Repubblica, 2016

Carla Capponi negli anni ’50 - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit.

Il caso di via Rasella, fra tutti, dimostrava quanto sia assurdo «tenere distinte le posizioni di chi ordinò e di chi eseguì» <93; e cioè porre una differenziazione di carattere giuridico tra la Giunta militare del Cln, che ha segnalato l’XI compagnia dell’SS Polizeiregiment Bozen quale obiettivo da colpire nell’azione del 23 marzo 1944, e i membri dei Gap centrali, autori della messa a punto del piano operativo. A detta di Dante Livio Bianco, chiamato a far parte del collegio di difesa, questa narrazione ha inevitabilmente fatto «ricadere la responsabilità sugli esecutori» dell’azione partigiana e dunque sui gappisti, giudicati «come isolati che [avevano] agito di propria iniziativa» <94. Il rischio è stato pertanto quello di avvalorare la tesi sostenuta da tanta opinione pubblica corrente, cioè quella dei giovani irresponsabili che con le loro azioni sconsiderate hanno messo a repentaglio la vita di tanti innocenti.
La vittoria della causa in prima istanza ha dunque indotto a una logica «rivalutazione della resistenza e dell’antifascismo attivo, che erano allora lo Stato, la Nazione italiana». Come a dire che sarebbe stato a dir poco illogico condannare per omicidio quei partigiani che con le loro azioni hanno contribuito a fondare la nuova Repubblica democratica: valutare dunque le motivazioni politiche, anzitutto per evitare di essere considerati «alla stregua di automobilisti investitori o di incauti maneggiatori esplosivo, sul terreno del diritto comune» <95.
Al di là della difesa legale garantita ai gappisti di via Rasella e ad altri partigiani per azioni di guerra altrettanto eclatanti, il Pci sceglie tuttavia di non rivendicare quell’“etica della convinzione” che si è posta a fondamento di tante azioni di guerriglia partigiana: nel dilemma di doversi rapportare con l’uso della violenza, mantiene, invece, una certa distanza rispetto alla scelta d’imbracciare le armi. In una lettera indirizzata ad Antonello Trombadori e Giorgio Amendola nel maggio 1979, Bentivegna stesso è, del resto, ritornato sulla questione della mancata rivendicazione di quella e di altre azioni di violenza armata dei Gap, da parte della dirigenza del suo partito. Il XV congresso del Pci ha infatti fornito l’occasione per riprendere alcune polemiche su via Rasella, pervenute stavolta dal segretario del Msi, Giorgio Almirante, e dal leader dei radicali, Marco Pannella, denunciati dalla dirigenza del Pci per vilipendio, per aver accusato i Gap di essere fiancheggiatori del terrorismo o quantomeno ispiratori di certi atteggiamenti provocatori. E pur mostrando “la solidarietà e l’affetto di sempre” per i suoi compagni, Bentivegna decide di non partecipare a quell’azione legale, avendo già pagato ampiamente, da solo, per quell’azione di guerra.
“Desidero dissociarmi dalla vostra iniziativa pur se ne condivido lo spirito. Sono più di trent’anni che rimasto quasi solo a via Rasella, sono stato il bersaglio pubblico e privato degli insulti di certa gente: cominciarono i monarchici, Guglielmo Giannini con il suo “L’Uomo qualunque” e “Il Tempo” di Angiolillo, hanno proseguito filistei e fascisti di tutte le estrazioni. Ma non mi sono mai sentito vilipeso. Dopo trentacinque anni a via Rasella siamo diventati tanti, così che – per fortuna, ed era ora – il mio nome quasi non si vede o addirittura non c’è. Ma io, come voi, del resto, a via Rasella ci stavo allora e ci sono rimasto sempre. E se in questi trent’anni gli insulti dei Pannella e degli Almirante non mi hanno neppure sfiorato, perché dovrebbero cominciare a farlo ora?” <96
[…] Parallelamente alle accuse sull’irresponsabilità degli ex combattenti della Resistenza, la contestazione di legittimità delle azioni partigiane deve poi accompagnarsi a una «guerra di miti e di simboli nazionali» <98, che ha finito per coinvolgere tutti i luoghi del cordoglio nazionale, non ultimo il mausoleo delle Fosse Ardeatine, inaugurato il 24 marzo 1949 dal ministro dei Lavori pubblici Umberto Tupini, nel centenario della Repubblica romana del 1849.
Un luogo di per sé destinato a divenire il sacro emblema della retorica celebrativa della Resistenza, quasi un «nuovo Altare della Patria», che ricordi nei secoli la «guerra del nuovo Risorgimento italiano», meta di pellegrinaggio per commemorare lo «sterminio di tutti gli italiani impegnati nella lotta di liberazione nazionale». Costruito sul luogo «della vendetta tedesca» accanto alle tombe dei primi martiri cristiani, lungo l’antica via romana che da Porta San Sebastiano conduce alle catacombe di Santa Domitilla e di San Callisto e alla tomba di Cecilia Metella, il monumento diviene un’area sacra di preghiera e di lutto per i «nuovi martiri della nazione», con il compito di ricordare chi
ha «cospirato e combattuto sul fronte clandestino del grande esercito partigiano» salvando «l’unità del popolo» e ristabilendo «l’onore della nazione» <99.
[NOTE]
93 Lettera di Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, 22 marzo 1949, in ASSR, Fondo famiglia Calamandrei Regard, serie 2 Resistenza, s.serie 1, b. 3, fasc. 3.
94 Ivi, lettera di Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, 7 maggio 1949.
95 Ivi, lettera di Dante Livio Bianco a Federico Comandini, 24 maggio 1949.
96 Lettera a Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, 29 maggio 1979, in ASSR, Fondo Rosario Bentivegna, serie 5
Corrispondenza, interventi e relazioni, b. 17, fasc. 51 Lettere al Pci 1973-1992.
98 E. Gentile, La grande Italia. Il mito della Nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 250.
99 Relazione al Consiglio dei Ministri sullo schema di decreto legislativo recante norme per la sistemazione delle «Fosse Ardeatine» in Roma, in ACS, PCM (1948-1950), 10268, cat. 14.6.
Michela Ponzani, Un lungo dopoguerra in Scegliere la disobbedienza Op. cit.

Ma il mio nido quest’anno, l'ho fatto a Bordighera

Bordighera (IM), Premio Cinque Bettole del 1956: da sinistra Giacomo Natta, Carlo Betocchi e signora; in piedi i pittori Antonio Camarca, Giuseppe Balbo e Giovanni Omiccioli - Foto di Beppe Maiolino - Fonte: Archivio Balbo

Ricordavo Ventimiglia di trent’anni fa: una stazione grande, lunga; noiosa e burocratica; senonchè sui marciapiedi si incontravano doganieri italiani e francesi; e questa era una novità per lo spirito giovane. Anche fuori se ne incontrava qualcuno, che tra due servizi ciondolava sulle panchine del grande viale di palme che andava al mare, lungo il mercato dei fiori. Tra qualche palma rimasta, quel viale oggi è diventato di platani, e la stazione è più bella. Ho cercato là in fondo la vecchia passerella di legno che cavalcava la foce del Roja; ce n'é un’altra di cemento. Non ho voluto vedere altro che la lunata, derelitta spiaggia di ciottoli che geme di sporchi relitti, slabbrata dalla foce del fiume: sempre eguale. Dal breve frangiflutto di massi ho ficcato gli occhi lungo l’ispido letto ciottoloso, verso le Alpi, per la cara via che porta al colle di Tenda: cara Liguria estrema, Liguria di monte!

Ma il mio nido quest’anno, l'ho fatto a Bordighera, e sempre, anche dal mare di Bordighera, dai giardini di palme tra siepi di gelsomino, guardavo la collina. Le serre, gli orti, i campi di garofani strapazzati tra le case sulla breve fascia del litorale, mi invitavano a quell’altra pace, anch’essa di lavoro, ma più rispettata e recondita; e sempre, nel frastaglio degli interessi, cercavo di capire e di intendere il segreto delle intime forze che fanno così viva quella parte della Liguria.

I muratori chiamano “ a cuci e scuci “ il lavoro col quale rassettano un muro malandato, con sassi nuovi in calce migliore, scartando il vecchio e slegato. In nessuna regione d’Italia, come lungo le coste e le colline liguri, se se ne tolgono i grandi complessi industriali, la vita è regolata da un così paziente, assiduo minuzioso lavoro di ripresa "a cuci e scuci". E’ la singolarità e la industriosità di questi caratteri umani, che vi si adatta e ne vive; e il risultato consiste in una bellezza e utilità di insieme di particolari che si adatta alla necessità sempre mutevole: sulla costa necessità di turismo, tanto cambiata da trent’anni in qua e pazientemente evolutasi in campagna e sui colli necessità delle assidue, puntigliose coltivazioni; fors’anche redditizie, ma non senza la presenza costante dell’uomo, si può dire, su ogni metro quadrato di terra.

Di terrazza in terrazza, quale a fiori, a fragole, a ortaggio, a vigna, a uliveto, scorribandando col mio passo calmo e lo sguardo accorto in cerca di quella novità antica che è la virtù, e che si vede meglio nelle piccole cose, industriosamente ricche di essa, qui un uomo, là una donna col suo bimbetto, sempre qualcuno seguiva con lo sguardo rialzato sotto il cappellaccio di paglia il mio andare per i viottoli propri, nessuno negandomi il passo, tutti aiutandomi a ritrovarmi, e tutti in faccende.

Sboccavo in paesi, Ventimiglia alta, Bordighera alta, e più lontano, dalle strade boscose, a Sasso, a Seborga, e scoprivo nelle vie ripide la vena dell’antico esistere paesano, quando avevo appena lasciato il chiasso motorizzato e le nudità multicolori della Riviera; e tra le case vecchie l’antico silenzio, nelle chiese spesso maestose, e nell’ora meridiana deserte, una capacità d’attesa infinita, perchè la fede non si misura con le statistiche, la verità è miracolo.

La stessa letteratura ligure, splendidamente fiorita in questo secolo sulle due coste (di ponente e di levante), dal tempo di “Riviera Ligure” e dei primi accenti di Mario Novaro per venire a Sbarbaro, a Boine, quindi al primo Montale (il più ligure), a Barile, Grande, Descalzo, Caproni, coi movimenti attivissimi di altre riviste come “Circoli”, come “Maestrale”, e poi rinnovata dopo la guerra coi narratori della resistenza (a Bordighera è Seborga) e i giovani di questi anni, anch’essa ha agito con questi medesimi caratteri, di assidua ripresa e cultura del tessuto della civiltà letteraria nazionale che andava a marcire nel disfarsi dei vuoti estetismi; e lo ha fatto quasi al margine, con una operazione penetrante, col rimedio di una sanità, di una schiettezza senza riserve o finzioni, sull’opera viva inserendo le sue migliorie, quasi in cantiere, senza chiasso di demolizioni: quanto meglio, si osservi, tra il ’15 e il ’30 dei suoi futuristi, o dello strapaesanesimo fiorito in Toscana. La virtù ligure nasce lì, si fa riconoscere per tale, ma ha una fioritura più diligente, se meno vistosa, una mira più lontana, dello spiccato individualismo toscano di allora: e quasi si direbbe, più pensiero delle basi su cui costruisce, di ciò che sarà, della eredità da lasciare.

I suoi documenti hanno una precisione che alla lunga determina la validità della carica umana nel tessuto sociale, meno immodesto dei documenti toscani, più appropriata a una vita in continua trasformazione ma che va legalizzata puntualmente con appositi strumenti: e non a caso rammento, come la vidi vent’anni fa, l’antica e rispettata casa notarile di Sestri Levante dalla quale Carlo Bo è venuto ad essere uno degli spiriti più preziosi dell’Italia moderna: la cui informazione e documentazione, e le cui proposte per il futuro, sono fatte sul vivo d’una ricerca spirituale fondata su un patrimonio autentico, su dei beni reali. Ricordo, nell’anticamera dello studio notarile paterno, la buona gente che s’aspettava l’entrata, come usa, col pugno chiuso nell’altra palma aperta, la testa china, quasi stringendo nel gesto gli interessosi pensieri: e accompagnando Carlo più giovane, ma grande e grosso anche allora, per le strette vie dietro il porticciolo di Sestri, quel ricambio fitto ma schivo di saluti che lo accompagnava, sugo di conoscenza vecchia, di meritata stima e di familiare rispetto.

Su queste basi di probità, tra l’altro, è nato a Bordighera in questi anni il premio letterario “Cinque Bettole”, che si circonda di altri di pittura e di giornalismo. Quello letterario fu vinto l’anno scorso da Giacomo Natta, originale ed estroso scrittore in cui si raccoglie, si può dire tradizionalmente, lo spirito vivo dei rapporti tra la letteratura ligure militante e la migliore cultura italiana; quest’anno, diventato di insospettata larghezza ha premiato un racconto già stampato in giornali o riviste con mezzo milione (meritato da Giuseppe Berto); aggiunti altri premi, d’incoraggiamento, per dei racconti inediti di giovani. È un premio che promette di crescere, perchè non è soltanto di ambizione locale, o di mondanità, ma legato ad attività e interessi precisi culturalmente definiti e in sviluppo.

E forse per questo ha una originalità che appare sana ed evidente, quando si rivela nell’impianto della bella serata in cui viene assegnato. Nasce dalla Azienda autonoma del Turismo, tra i giardini, le spiagge e gli alberghi, e gli interessi che vi sono collegati; ma viene consegnato nella vecchia cornice di Bordighera alta, dal sagrato della chiesa, e si sente che non è per far colore, ma per restituire al popolo quello che è suo, il quale affolla la piazza, una folla di donne, di pescatori e di agricoltori, e in prima fila una ciurma di bambini: e finisce con una cena imbandita dalle molte osterie, che non so se sono cinque, a lunghe tavolate per le ripide strade, e sotto gli archi scuri, mentre dalle mura lievitate dal salino pendono i quadri del parallelo concorso di pittura.

Vederla, per esempio, questa pittura; come mai si è formato un centro d’interesse per la pittura, così vivace ed attivo, a Bordighera. È Giuseppe Balbo, buon pittore e segretario di tutti i premi, che ha fatto questa sua scuola; e che spera di animare se avrà i mezzi, un artigianato di ceramiche artistiche.

C’è a Bordighera un gruppo di artisti attivissimo; e un vivaio di giovani. Mi sono avvicinato ad uno di essi, Maiolino, che insegna disegno ai ragazzi nelle scuole medie, e ne ottiene dei risultati eccellenti. Si va da Maria Pia, alla Piccola Libreria, dove si può sapere sempre qual’è un libro buono, dov’è uno spirito fine, da quelle parti; e mi ha fissato un appuntamento col giovane pittore. Allo studio gli ho accennato a ciò che vedevo ripetersi nelle loro pitture di giovani, lì intorno, di fedeltà al loro paese, di sincerità di espressione; ed egli mi ha ripetuto, come Camarca, che deve a Balbo, oltre a tutto, la serietà dell’impegno, la passione per l’onestà del lavoro. Lontani da Roma, da Milano, da Firenze, senza albagia, pochi guadagni, punto chiasso, forse ancora modesti artisti, ma veri uomini, anime vive.

Carlo Betocchi, Rapporto ligure, febbraio 1957
 

Guido Hess (1909-1990), discendente del comunista e protosionista Moses che ebbe una certa influenza sul pensiero del giovane Marx, torinese di nascita, adottò nell’immediato dopoguerra lo pseudonimo di Seborga, preso a prestito proprio da un paese dell’entroterra ligure. Giornalista, poeta, romanziere e poi pittore e scultore, a Bordighera Seborga fu tra i fondatori del Premio «Cinque Bettole» cui Biamonti partecipò nel 1956 con il racconto Dite a mio padre, premiato e pubblicato ne Il nuovo eco della Riviera del 12 agosto di quell’anno. Seborga promosse anche un’altra pubblicazione dell’amico, il frammento di romanzo Colpo di grazia, presentato dallo stesso Seborga nel foglio A Barcà. Notizie da Bordighera, stampato dall’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Bordighera nel 1960. I testi sono stati ripubblicati in Mallone 2001: 99-101 e 107-113.
Claudio Panella, “Francesco Biamonti: del «donner à voir» sul confine tra l’immagine pittorica e la parola”, Nota n° 3, Between, I.1 (2011), http://www.Between-journal.it/

 

Era diventato possibile creare automaticamente delle immagini

L’Atelier de l’artiste: un dagherrotipo - Fonte: Wikipedia

[...] Altri e diversi erano gli inconvenienti del dagherrotipo, nato nel 1839 (l’anno in cui l’Accademia di Francia rende noto il metodo inventato da Jacques Daguerre): si potevano ottenere immagini uniche e non duplicabili (usando una lastra che doveva essere preparata immediatamente prima con un’esposizione ai vapori di iodio), speculari (perchè ricavate grazie ad una superficie riflettente), che richiedevano tempi di esposizione di decine di minuti (e l’uso di apparecchi che pesavano cinquanta chili), leggibili solo grazie a particolari accorgimenti per annullare l’effetto visivo del sottile strato ossidato, che aveva un effetto specchiante, e così delicato e leggero da dover essere subito sigillato da un vetro). Racconta Walter Benjamin: “Le fotografie di Daguerre erano lastre d’argento allo iodio impresse nella camera oscura, che richiedevano di essere voltate e rivoltate in tutti i sensi per potervi riconoscere con la giusta illuminazione, un’immagine di un grigio delicato. Erano esemplari unici; nel 1839, per una lastra si pagavano 25 franchi oro. Non di rado venivano conservate in appositi astucci, come gioielli.”
Poi, nel 1847, Claude Niepce de Saint-Victor (cugino di Joseph-Nicéphore) descrive il metodo fotografico dell’albumina e propone le prime lastre di vetro sensibilizzate. E nel 1850 viene introdotto il procedimento al collodio umido che sostituirà in poco tempo la dagherrotipia e la calotipia.
La nuova invenzione diventa presto un affare industriale. Pare che a Parigi, nel 1847, si vendessero duemila apparecchi e più di mezzo milione di lastre, che nel solo 1853 diecimila dagherrotipisti americani scattarono tre milioni di immagini, che a Londra fu creato un atelier con vetrate, che ospitava chi voleva scattare foto, e che nel 1856 l’Università londinese inaugurò i corsi di fotografia.
C’era meraviglia e stupore nel constatare che era diventato possibile creare automaticamente delle immagini, fedeli in ogni particolare alla realtà.
D’altra parte se un pittore visionario come Turner ha veramente detto, quando ebbe sotto gli occhi per la prima volta una fotografia: Da oggi la pittura è morta (ma forse a dirlo è stato il più modesto Delaroche); se Ingres ha veramente detto: questa è la precisione che vorrei raggiungere nel mio lavoro; se tanti pittori, come han fatto Daguerre e Talbot, hanno abbandonato pennelli e colori per darsi alla fotografia sospinti dalla speranza di trovare il modo di imprimere durevolmente sulla carta le immagini naturali, è facile capire il clima di idillio che ha caratterizzato i primi rapporti tra fotografi e pittori.
Qualcuno pensò che questo potesse significare però la morte della pittura. Quel che è certo è che la ritrattistica di cui la classe borghese faceva gran uso - soprattutto nella variante della miniaturistica - fu ben presto soppiantata dal nuovo mezzo espressivo.
Nel momento in cui Daguerre era riuscito a fissare le immagini nella camera oscura, i pittori erano stati congedati, a questo punto, dal tecnico. Ma la vera vittima della fotografia non fu la pittura di paesaggio, bensì il ritratto miniato. Le cose si sviluppano con una tale rapidità che già verso il 1840 moltissimi tra gli innumerevoli pittori di miniature diventano fotografi professionisti, dapprima a tempo perso, poi in modo esclusivo. Si giovavano delle esperienze derivanti dal loro mestiere precedente, e l’alto livello delle loro realizzazioni fotografiche è dovuto non alla loro preparazione artistica bensì alla loro preparazione artigianale.
Nasce al contempo la foto di reportage sociale, la foto erotica, la foto scientifica, che documenta la natura o le creazioni umane - opere d’arte che un tempo venivano duplicate particolare per particolare ora possono essere riprodotte con un’enorme riduzione di tempo e di lavoro: “Per copiare i milioni e milioni di geroglifici che coprono, anche all’esterno, i grandi monumenti di Tebe, di Memphis, di Karnak, ecc., occorrerebbero diecine e diecine d’anni e legioni di disegnatori. Con il dagherrotipo, un solo uomo potrà portare a buon fine quest’immenso lavoro”, “… potremo fare delle carte fotografiche del nostro satellite. Ciò significa che in pochi minuti eseguiremo uno dei lavori più lunghi, più delicati dell’astronomia” [Dominique-François-Jean Arago, Comptes rendus des séances de l’Académie des sciences, tomo IX, pp. 257-66, seduta di lunedì 19 agosto 1839, citato in Gisèle Freund, Fotografia e società, Giulio Einaudi editore, Torino 1976 (titolo originale: Photographie e société, 1974, traduzione di Laura Lovisetti Fuà)].
E a quel punto lì, naturalmente, c’era già gente che andava in giro per il mondo: il turismo, appunto, va di pari passo con la fotografia. I viaggiatori fotografano ciò che vedono, e si fotografano a vicenda. Osservano il mondo, ancora, certo: è lontana la degenerazione novecentesca del turista che partecipa a viaggi organizzati scattando foto per il gusto di portarsi poi le immagini a casa, senza vivere negli ambienti attraversati, anzi, magari neppure osservandoli davvero: foto incorniciate dai contorni del finestrino perché scattate dall’interno del pullman dal quale evidentemente non si scendeva mai oppure foto tutte uguali, clonate da un prototipo cartolinesco-kitsch, con le stesse continue soluzioni: dal sorriso tipo “cheese” al monumento o al panorama alle spalle.
[...] Nella Premessa che apre il suo Fotografia e società Gisèle Freund scrive che già la litografia “segnò un gran passo verso la democratizzazione dell’arte. L’invenzione della fotografia ebbe un peso decisivo in questa evoluzione”. E poco oltre: “È il mezzo di espressione tipico di una società, fondata sulla civiltà tecnica, cosciente degli scopi che s’impone, pervasa di spirito razionalistico, basata su una gerarchia di professioni. Nello stesso tempo è diventata, per questa società, uno strumento di prim’ordine. La sua capacità di riprodurre esattamente la realtà esteriore - capacità inerente alla sua tecnica - le conferisce un carattere documentario e la fa apparire come il procedimento di riproduzione più fedele, più imparziale della vita sociale”. Ma è un’obiettività solo apparente: “La lente, questo presunto occhio imparziale, permette tutte le possibili deformazioni della realtà, giacché il carattere dell’immagine è ogni volta determinato dal modo di vedere dell’operatore e dalle esigenze dei suoi committenti. […] Oggi, nonostante i continui miglioramenti della vita materiale, l’uomo si sente sempre meno implicato nel gioco degli eventi e relegato a una parte sempre più passiva. Fare fotografie gli sembra un’esteriorizzazione dei propri sentimenti, una sorta di creazione. Di qui il numero ognora crescente di fotografi dilettanti che si calcola oggi a centinaia di milioni e che tende vieppiù ad aumentare”. Ma scrive, anni dopo, Roland Barthes [La camera chiara. Nota sulla fotografia, Giulio Einaudi editore, Torino 1980 (titolo originale: La chambre claire. Note sur la photographie, 1980, traduzione di Renzo Guidieri)] - ed è come se chiosasse questo discorso - che “l’età della Fotografia corrisponde precisamente all’irruzione del privato nel pubblico, o piuttosto alla creazione di un nuovo valore sociale, che è la pubblicità del privato: il privato viene consumato come tale, pubblicamente”. E poco oltre: "Di solito, il dilettante è definito come un’immaturazione dell’artista: uno che non può - o non vuole - innalzarsi sino a dominare una professione. Ma nel campo della pratica fotografica, è invece il dilettante a essere l’esaltazione del professionista: è lui infatti che sta più vicino al noema della Fotografia". [...]
Marco Innocenti, Viaggiare, fotografare in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018

[  altri scritti di Marco Innocenti: articoli in Il Regesto, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM) e in Mellophonium; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sandro Bajini, Del modo di trascorrere le ore. Intervista a cura di Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2012; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006  ]

Gianni Brera partigiano

Gianni Brera - Fonte: Pasquale Coccia, art. cit. infra

Prima del giornalista sportivo Gianni Brera, ci fu il Gioann partigiano che armi in pugno difese la Repubblica partigiana della Val d’Ossola. Un aspetto sconosciuto della sua controversa biografia. Firmò come direttore la prima copia de L’Unità delle valli liberate. Il Pci voleva farne un intellettuale di sinistra, ma Brera scelse la Gazzetta dello Sport, che diresse a 30 anni.
Ne parliamo con Sergio Giuntini, autore di Il Partigiano Gianni (sedizioni, euro 23).
Gianni Brera partigiano, un passato sconosciuto?
Nella biografia di Gianni Brera, come ha sostenuto il prof. Franco Contorbia, studioso del giornalista, ci sono ancora alcune zone d’ombra. Una fase complessa della sua vita va dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione. Si laurea a Pavia in scienze politiche, fa il militare come sottufficiale a Barletta, scrive. Intuisce che un corpo dove può fare il capo ufficio stampa, è quello della Folgore perché in via di organizzazione, a Tarquinia si sta costituendo la prima scuola di paracadutisti, perciò chiede di essere trasferito. Era interessato al volo, ma aveva anche paura di lanciarsi con il paracadute, alla fine la vive come una di quelle esperienze virili, che a lui non dispiaceva. A Tarquinia scrive sul giornale della Folgore, effettua otto lanci con il paracadute, e racconta queste sue esperienze anche attraverso due articoli sul Popolo d’Italia, il quotidiano del fascismo.
Dopo Tarquinia?
Dopo l’8 settembre del ’43 anche Gianni Brera è tra gli sbandati, comincia il periodo più discutibile della sua vita. Tornato a Pavia, sembra che avesse preso qualche contatto con gli ambienti antifascisti, ma non vi sono certezze. I Brera erano antifascisti, suo padre era stato consigliere comunale socialista a San Zenone Po, paese natio di Brera, e non ha mai preso la tessera fascista. Insieme al fratello, che rispetto a Gianni era più vicino alle posizioni socialiste, visse quel periodo in maniera confusa, , si rende conto di che cosa era il fascismo attraverso la Repubblica di Salò. In quel periodo commette un errore gravissimo, nel marzo del ’44 il federale fascista di Pavia lo convoca e gli propone di dirigere Il Popolo Repubblicano il settimanale del fascio repubblichino di Pavia. Brera è indeciso, ma alla fine accetta, perché il federale gli lascia intendere che il fascismo della Repubblica di Salò era molto meno dogmatico e che avrebbe goduto di una certa libertà nella direzione, vi avrebbero potuto scrivere anche fascisti non dichiarati. Brera lo dirige per quattro numeri, dopo si dimette o è costretto a farlo. L’ipotesi più plausibile è che la sua direzione, meno dogmatica e ortodossa, non fosse piaciuta ai fanatici del fascismo pavese. Le dimissioni non interrompono la collaborazione al settimanale, che continua ancora per qualche mese. Dopo questo periodo per Brera l’aria di Pavia si fa irrespirabile.
Perché?
Possiamo ipotizzare due motivi: il primo che avendo diretto quel settimanale fascista, fosse nel mirino degli antifascisti, mentre dall’altra parte i fanatici repubblichini lo vedevano come un frondista. Il 16 giugno del ’44 Brera cambia aria e passa clandestinamente il confine svizzero, viene assegnato al campo di internamento di Balerna, dove c’erano gli esuli antifascisti. Le condizioni di vita non erano facili, mangiavano poco, conobbe diversi antifascisti, in particolare i comunisti Attilio Bonacina e Cino Bemporad, i quali gli fecero capire che per lavare la macchia di aver diretto una testata repubblichina, cosa che nell’Italia successiva alla Liberazione non sarebbe passata inosservata, avrebbe dovuto rifarsi una verginità politica. Penso che Brera abbia vissuto una crisi interiore profonda, che si sia reso conto della gravità della direzione di quel settimanale fascista pavese, d’altro canto aveva una vera malattia dello scrivere, era un grafomane poliedrico, non lo fece per soldi o ambizioni personali, nella sua vita non desiderava altro che scrivere. Bonacina e Bemporad gli dicono che in Italia c’è un’esperienza partigiana importante come la Repubblica della Val d’Ossola, dove molti esuli italiani, tra i quali Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini, rientravano per difenderla dagli attacchi nazisti.
E Brera che fa?
Accetta la proposta. Arriva a Domodossola nel settembre del ’44, il mese della Repubblica dell’Ossola, viene ricevuto all’albergo Terminus, dove c’era lo stato maggiore della repubblica partigiana, e sottoposto a un interrogatorio-processo da parte di Cino Moscatelli e Giulio Seniga, due figure importantissime della Resistenza. Avevano già acquisito informazioni, sapevano del suo passato e della direzione della rivista fascista, volevano accertarsi che non fosse un infiltrato, gli chiedono perché aveva fatto quella scelta e al termine dell’interrogatorio Giulio Seniga garantisce per Brera.
Si conoscevano?
No, probabilmente Seniga aveva capito che la scelta di Brera era stata vissuta all’insegna della confusione, in modo travagliato, e gli dà la possibilità di riabilitarsi, in realtà aveva ricevuto buone referenze da Cino Bemporad, che era un importante dirigente del partito comunista di Lugano, città dove vi era una forte concentrazione di comunisti espatriati, e da Attilio Bonacina, nome di battaglia Catilina. Brera fu assegnato alla brigata Garibaldi, quella dei comunisti, 2^ divisione d’assalto, 83^ brigata Luigi Comoli, intitolata a un partigiano fucilato dai fascisti nel ’44 nella piazza di Forni. Lavora all’ufficio stampa del governo provvisorio con il grado di aiutante maggiore, un ruolo militare importante, avendo alle spalle un corso di allievo ufficiale e l’esperienza nei paracadutisti, aveva un’idea di tattica e strategia militare.
Tutto così liscio?
No, in realtà il 1 dicembre del ’44 al comandante Iso, Aldo Aniasi, arriva la lettera di un certo Sandro Chiodi, ex compagno di università e tra i paracadutisti di Brera, il quale informa non solo della direzione del settimanale repubblichino di Pavia, ma lo accusa di essere stato un delatore grazie al quale sarebbe finito in carcere, ma sulla delazione non ci sono prove, infine accusa Brera di essere un doppiogiochista. Chiodi chiede ad Iso di poterlo interrogare o comunque di espellerlo dalla formazione partigiana. Aniasi finge di ascoltarlo mantiene la corrispondenza con Chiodi, ma alla fine si assume la responsabilità e chiude il caso.
La riabilitazione “politica” di Brera si limita al lavoro all’ufficio stampa?
Brera non si riteneva un eroe, non sceglie un nome di battaglia, continua a chiamarsi Gianni, anzi Gioann del Po, ha partecipato a operazioni belliche, è stato ferito anche al naso, infatti dopo la Liberazione scrisse il romanzo Naso Bugiardo. Il 6 aprile del ’45 è con altri partigiani in una casa a Valpiana, circondato dai nazisti riesce a salvarsi dopo uno scontro a fuoco. I nazifascisti volevano far saltare le principali centrali idroelettriche dell’Ossola, determinando una gravissima crisi del sistema industriale, inoltre avrebbero fatto saltare una parte del traforo del Sempione per coprirsi la ritirata e interrompere i collegamenti con la Svizzera. I partigiani vengono a sapere del piano e dei grandi quantitativi di esplosivo fatti affluire a Varzo, in val d’Ossola. Nella notte tra il 21 e il 22 aprile del 1945, Brera e altri partigiani si fanno carico di far saltare i depositi di esplosivo. Brera disegna molti schizzi in cui mostra le azioni da fare, individua le centrali da salvare, partecipa a tutta l’operazione di attacco e ad altre azioni rischiose. Il 23 aprile a Crodo per controllare una centralina telefonica, sfugge per un pelo ai nazisti. Il 24 aprile del 1945, per festeggiare la Liberazione, insieme al comandante Catilina, Gianni Brera firma come direttore l’edizione straordinaria dell’Unità delle valli ossolane, scrive parecchi pezzi, ma non li firma.
Dopo il 25 aprile?
Tra il maggio e il giugno del 1945, gli viene affidata la stesura del diario storico partigiano della divisione d’assalto Garibaldi-Redi, che va dal marzo del ’44 all’aprile del ’45, un lavoro di circa 150 pagine, che raccoglie i diari delle varie organizzazioni partigiane sui quali scrivevano le azioni che avevano fatto, le perdite avute, le zone conquistate. Al suo fianco “vigila” il commissario politico Bellelli, nome di battaglia Modena. Brera rimette insieme tutto il materiale e mese per mese traccia i bilanci operativi, il diario esce anonimo ma la scrittura è sua.
Che cosa scrive Brera nel diario partigiano?
Usa spesso metafore sportive, sostiene che la lotta partigiana deve caratterizzarsi con azioni di guerriglia, non con lo scontro aperto frontale, perché non vi sono mezzi, usa l’espressione “fugone” partigiano, un termine che userà spesso nei suoi articoli sul calcio. Emerge forte la polemica politica con le divisioni partigiane cattoliche, che Brera chiama “l’opera Pia”, e monarchiche definite semicollaborazioniste. L’impronta politica di questi diari è fortissima, emerge un Brera laico, ateo e liberale.
Dopo la Liberazione cosa gli resta della lotta partigiana?
Alcuni anni dopo la Liberazione Gianni Brera voleva scrivere un libro sulla sua esperienza in Val d’Ossola, il titolo era In Svizzera senza le scarpe. Una storia partigiana. Scrive solo alcuni capitoli, vi sono contenute interessanti descrizioni di comandanti partigiani, Cino Moscatelli è chiamato il ciclista, ma non è chiaro il motivo. Nell’immaginario partigiano Cino Moscatelli viene associato a un’automobile rossa, che in realtà non è mai esistita, si spostava in auto, ma non era rossa, visto che Brera lo chiama il ciclista non è escluso che Moscatelli si muovesse anche in bicicletta. L’esperienza partigiana è rimasta per sempre nella sua vita, è stato un periodo formativo fondamentale. Come non rinnega il periodo da paracadutista nella Folgore, altrettanto fa con l’esperienza partigiana, non ama vantarsene, ma gli è rimasta dentro. Dopo la Liberazione, il Pci vuole affidargli la direzione di un quotidiano comunista di Novara, ma Gianni Brera non accetta, anche perché contemporaneamente gli arriva la proposta di Bruno Roghi di lavorare alla Gazzetta dello Sport, lui voleva scrivere di sport e con la fine della Resistenza considera chiusa la sua esperienza politica. Brera arriva alla Resistenza faticosamente, l’ha considerata una parentesi della sua vita, un modo per riabilitarsi e mettersi in pace con la coscienza, ma il Brera partigiano non dimentica [...]
Pasquale Coccia, Partigiano Gioann in Val d’Ossola, il Manifesto, 24 aprile 2015

La Brigata “Comoli” fece il suo ingresso vittorioso a Domodossola il 24 aprile 1945, e il giorno successivo sarà Brera, condirettore con Giorgio Colorni, a licenziare il primo numero non clandestino de L’Unità, organo dei “comunisti delle valli ossolane”, stampato presso la tipografia Antonioni. In esso apparvero due suoi pezzi: l’«editoriale » “Per sempre” sulle esaltanti fasi della Liberazione in atto, e un “elzeviro” intitolato “Un bicchier d’acqua”, dedicato a una contadina che, per lui, si era sentitamente commossa e addolorata avendolo creduto morto durante un rastrellamento del novembre precedente.
Di più, nell’estate 1945 Brera aveva fin progettato di scrivere un libro su quella sua stagione di vita, immaginando di dargli il titolo di Nel bosco degli eroi. Un lavoro rimasto purtroppo solamente sulla carta, ma di cui restano alcuni preziosi squarci nel dattiloscritto In Svizzera, senza le scarpe (una storia partigiana).
Tant’è, ecco l’approccio di Brera a quella ipotizzata narrazione nella quale, a ben vedere, sono già precisamente prefigurati i canoni del suo stile inconfondibile e personalissimo: «Questa è la storia dei garibaldini dell’Ossola, del Cusio e del Verbano; la storia della II Divisione Garibaldi e dei pochi anziani garibaldini di Moscatelli che la formarono, quando Cino Moscatelli stava a Rimella col capitano Ciro, e comandavano insieme la Brigata Gramsci. Moscatelli dinamico geniale entusiasta: ciclonico addirittura nelle trovate; Ciro calmo sorridente ponderatore; quei due stavano benissimo insieme. E avevano capito qual era il concetto base della guerra partigiana, donchisciottesche idee non ne avevano. Quattro colpi aggiustati, il partigiano, una raffica e via. Inseguire sì, ma in territorio proprio. Accettare combattimento mai, perché significa subire, quando è il nemico ad aver l’iniziativa. Allora, senza tante storie, “piantarci il fugone”».
Venendo smobilitato nella tarda estate del ’45, dopo che gli era stato affidato il compito di riordinare l’Archivio storico del movimento partigiano dell’Ossola, a Brera il Partito comunista offrì subito di dirigere un suo giornale che stava per nascere a Novara. Richiesta allettante, ma il giornalista e scrittore di San Zenone Po preferì seguire la sua più intima, vera vocazione.
Contemporaneamente non seppe cioè dir di no a una proposta di Bruno Roghi, che lo voleva alla Gazzetta dello Sport. Si iniziava così la lunga, brillante carriera del “principe” di tutti i cronisti sportivi italiani della seconda metà del Novecento.
Sergio Giuntini, Il partigiano Gianni Brera, Patria Indipendente, luglio 2003 

[...] e lo si capisce nel 1954.
Nel 1954?
Giulio Seniga è in rotta con il Pci, perché lo considera un partito revisionista, che non fa mai la rivoluzione annunciata. Seniga era responsabile del servizio d’ordine del Pci e braccio destro di Pietro Secchia, il vicesegretario del Pci. Il partito gli aveva fatto prendere il patentino di pilota, perché in caso di colpo di stato in Italia, Seniga aveva il compito di portare Palmiro Togliatti in Albania, in Austria o in Cecoslovacchia. Il Pci aveva acquistato un aereo cecoslovacco, il Sokol, che era costantemente parcheggiato all’aeroporto di Centocelle. Nel 1954 Seniga entra in rotta di collisione con il Pci togliattiano, ha un colpo di testa, ruba una parte della cassa del Pci, e dei documenti molto importanti, sperando che Pietro Secchia lo segua ed entri in rotta con Togliatti, ma Secchia lo sconfessa, è il 25 luglio del 1954. Seniga vorrebbe scappare in Svizzera, raggiunge Milano, la mattina del 26 luglio telefona a Brera, che allora era direttore della Gazzetta dello Sport, ein nome di un passato in cui Seniga si era fatto garante di Brera presso Moscatelli in Val d’Ossola,chiededi tenerlo nascosto in casa per qualche giorno, cosa che avviene. Brera non stava aiutando un rinnegato, un traditore, ma il partigiano “Nino” che aveva fatto la Resistenza con lui. Seniga e Brera erano due figure simili, che hanno buttato a mare una quantità di occasioni, il primo si bruciò definitivamente la carriera politica, Brera si dimise da direttore della Gazzetta a 35 anni, quando era in carriera, cambiò diversi giornali, passò al Giorno dove ritrovò Pietrino Bianchi un suo amico partigiano, che aveva fatto la Resistenza nell’Oltrepò pavese.
[...] Brera mancato scrittore non pubblica con una casa editrice di prestigio perché dopo la Liberazione non si schiera con il Pci?
Penso di sì. Se lui avesse continuato la sua “militanza” con la stesura del diario partigiano e avesse scritto un romanzo partigiano, sarebbe stato incoraggiato a proseguire e avrebbe trovato anche un importante editore che glielo avrebbe pubblicato. C’era allora un’editoria a sinistra molto forte. Il Pci aveva manifestato interesse per lui, voleva farne un proprio intellettuale, gli voleva affidare la direzione di un giornale politico, gli riconosceva delle qualità, ma fu Brera a rifiutare.
Pasquale Coccia, Art. cit.