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venerdì 29 ottobre 2021

La memoria conflittuale attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e all’azione partigiana di via Rasella

Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine - Fonte: New Tuscia

L’attentato di via Rasella, e la strage delle Fosse Ardeatine che ne fu la conseguenza, posero allora alla coscienza civile, e lo pongono tuttora allo storico, il problema d’un giudizio sulla legittimità morale dell’attentato, sulla ammissibilità della rappresaglia, sulla responsabilità personale di chi volle l’attentato e di chi volle la rappresaglia. L’attacco al reparto tedesco che ogni pomeriggio, puntualmente, percorreva la via Rasella, una parallela di via Tritone in pieno centro di Roma, era stato preparato da un GAP comunista con scrupolosa cura, e con un controllo minuzioso dei tempi. L’incarico di collocare le due bombe - l’una dodici chili di tritolo, l’altra sei chili - fu affidato a Rosario Bentivegna, studente in medicina, che sarebbe stato aiutato, al momento della fuga, da Carla Capponi. Erano entrambi giovani ma sperimentati gappisti, cimentatisi in imprese contro il cinema Barberini, e contro Regina Coeli. In una via laterale si sarebbero appostati altri partigiani, tra essi Franco Calamandrei, pronti a segnalare a Bentivegna il sopraggiungere della colonna di soldati e a sparare contro i tedeschi dopo lo scoppio per accrescere il panico. Bentivegna si travestì da spazzino, pose su un carretto due bidoni con l’esplosivo, e rimase in attesa.
Quel giorno i tedeschi erano in ritardo. Attesi per le 15, fecero udire il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Calamandrei si tolse il cappello (era il segnale convenuto), Bentivegna accese la miccia e si allontanò verso via Quattro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi, che lo coprì con un impermeabile. Quella che stava marciando era la lla compagnia del terzo battaglione del Polizei Regiment Bozen, territoriali altoatesini che, troppo anziani per essere mandati al fronte, erano stati destinati al servizio d’ordine in città. L’esplosione fu apocalittica, e seguita da raffiche di mitra. Il leader comunista Giorgio Amendola discuteva in quel momento con De Gasperi, in un edificio non lontano. A De Gasperi, che si domandava cosa potesse essere quella esplosione, Amendola rispose asciutto «deve essere una delle nostre» e l’altro, con un blando sorriso: «Dev’essere così. Voi una ne pensate e mille ne fate». Poi ripresero a occuparsi della crisi del CLN, con Bonomi che minacciava di dimettersi per i contrasti che lo dilaniavano.
Gli ordigni esplosivi fecero strage. Trentadue militari tedeschi rimasero sul terreno insieme a un bambino e a sei civili italiani, che per fatalità erano in quei pressi (il comando partigiano affermò poi che i civili erano stati vittime della sparatoria forsennata cui i tedeschi si erano abbandonati, nella prima reazione all’attentato). Il decesso d’un ferito portò poi il totale delle vittime tedesche a 33. Sopraggiunsero in breve il comandante militare di Roma generale Maeltzer, il colonnello Dollmann e il console Moellhausen. Congestionato per l’emozione, e anche perché veniva da un lungo e copioso pranzo all’Hotel Excelsior, Maeltzer urlava, gli occhi pieni di lacrime, e inveiva contro Moellhausen e la sua politica «morbida». Hitler, avvertito al suo Quartier generale (era malandato in salute, e pochi giorni prima aveva dovuto ordinare l’occupazione dell’Ungheria per timore di un «tradimento all’italiana» dell’ammiraglio Horthy), dispose che fosse raso al suolo un intero quartiere, e che venissero passati per le armi cinquanta italiani per ogni morto tedesco. Kesselring, in ispezione al fronte, era introvabile, ma quando tornò ritenne eccessiva la misura della rappresaglia. Vi fu una sorta di patteggiamento tra Kappler - il maggiore delle SS cui sarebbe toccato il compito di trovare gli ostaggi da sacrificare - Kesselring e il Quartier generale del Fùhrer, e la proporzione di dieci a uno fu accettata, e ritenuta da Kesselring equa, tanto che alle 7 del giorno successivo ripartì per il fronte. Dollmann a sua volta andò a visitare padre Pfeiffer, che aveva accesso al Papa e lo pregò di intervenire perché si preparava qualcosa di grave. Dal Vaticano fu fatta una telefonata all’ambasciata tedesca, per sapere se fossero in vista esecuzioni, e la risposta fu evasiva. La Santa Sede stava portando a conclusione la trattativa con i tedeschi per la proclamazione di Roma città aperta, e non aveva interesse a rompere i ponti.
Kappler si mise al lavoro, quella sera stessa, per compilare l’elenco delle vittime; e Moellhausen (l’episodio è riportato in Roma 1944 di Raleigh Trevelyan) lo trovò che accarezzava un cane ammalato mentre allineava i nomi. Anche includendo tutti gli ebrei disponibili, all’alba Kappler aveva non più di 223 nomi (su quattro soltanto era già stata pronunciata una condanna a morte). Chiese aiuto al questore Caruso e a Koch, che interpellarono Buffarini Guidi, ministro dell’Interno di Salò, casualmente a Roma e alloggiato nell’Hotel Excelsior. Il ministro, svegliato di soprassalto e ansante, assentì. «Sì sì dateglieli sennò chissà cosa potrebbe succedere.» Ma anche con l’aiuto di Caruso la lista rimaneva incompleta, e così ci si rivolse a Celeste di Porto perché procurasse altri ebrei. L’orribile «pieno» fu così raggiunto (anzi, come si vide poi, risultò sovrabbondante).
Per la legge di guerra il dubbio «onore» di sterminare gli ostaggi sarebbe toccato al battaglione Bozen, ma il maggiore che lo comandava, Dobrich, rifiutò perché «i miei uomini sono vecchi, alcuni molto religiosi, altri pieni di superstizioni». Lincarico passò alle SS di Kappler. Fu superato anche un problema di macabra logistica. Dove ammassare tanti corpi? Un ufficiale del genio suggerì delle cave di pozzolana sulla via Ardeatina, da lui visitate alla ricerca di rifugi antiaerei. Eseguita l’operazione, l’ingresso sarebbe stato fatto saltare, trasformando le cave in una fossa comune.
Cinque alla volta, i prigionieri tratti da via Tasso e da Regina Coeli – molti convinti che li si stesse avviando al lavoro forzato in Germania – furono fatti entrare e finiti con colpi alla nuca. Gli ufficiali erano tenuti a dare il buon esempio sparando anch’essi, e Kappler rincuorò i carnefici, alcuni dei quali assaliti da nausea e disgusto, facendo fuoco personalmente e distribuendo cognac in abbondanza. Alle otto di sera – 24 marzo – tutto era finito. 335 corpi – 5 in più di quelli che la proporzione di dieci a uno avrebbe sia pure crudelmente legittimato – erano accatastati nelle cave. Caddero alle Fosse Ardeatine, con un gran numero di ebrei, alcune tra le più luminose figure della Resistenza: il colonnello Montezemolo, il generale Simoni, il generale Fenulli già vice comandante della divisione Ariete, i comunisti Valerio Fiorentini e Gioacchino Gesmundo, gli azionisti Armando Bussi e Pilo Albertelli, il colonnello dei carabinieri Frignani, alcuni giovanissimi, quasi adolescenti. Il 25 marzo i quotidiani pubblicarono un comunicato che parlava della «vile imboscata» ordita da «comunisti badogliani» e annunciava la rappresaglia, «già eseguita». Quando si seppe cos’era avvenuto Carla Capponi provò secondo quanto essa stessa ha detto «un’angoscia, una disperazione terribile» e Bentivegna fu assalito «da ira dolore sdegno per la vigliaccheria di una rappresaglia simile». Capi ed esecutori materiali già capivano che l’immane tragedia non sarebbe stata addebitata ai soli tedeschi, e Amendola scrisse, in tono di autogiustificazione: «Noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti… Avevamo solo un dovere: continuare la lotta». Ma EOsservatore Romano, pur nel suo linguaggio circospetto, ricordò le oltre trecento «persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto». Il che non piacque né ai tedeschi né ai gappisti.
Due fatti sono certi: il primo è che non vi fu alcun invito delle autorità tedesche perché gli autori materiali dell’attentato si costituissero. La ritorsione terribile fu ordinata a tambur battente, e attuata in segreto. Il secondo è che i gappisti non potevano pensare che la strage, progettata ed eseguita mentre si negoziava per proclamare Roma città aperta, e rivolta contro un reparto non impegnato nei combattimenti, restasse senza conseguenze per gli sventurati, ebrei e non ebrei, che erano in mani naziste e fasciste. Sul piano militare, l’azione avrebbe potuto avere un significato, sia pure simbolico – era chiaro che Roma sarebbe stata liberata entro breve termine – solo se si fosse collegata a una insurrezione cittadina. Roma non prese le armi, né allora né quando le truppe alleate furono a distanza di pochi chilometri. Le divisioni di Kesselring poterono ripiegare in ordine. I morti delle Ardeatine erano stati sacrificati alla ragione politica, al proposito di dimostrare, per fini appunto politici, che i tedeschi se ne andavano non soltanto perché incalzati dagli anglo-americani, ma perché scacciati dalla popolazione. Questo scopo fallì. In un libro (Achtung Banditeti!) pubblicato di recente Bentivegna ha rivendicato la legittimità, anche morale, dell’attentato, aggiungendo: «E probabile che di fronte alla sconvolgente minaccia di quel delitto (la rappresaglia, N.d.A.) qualcuno di noi, o forse tutti, avremmo preferito morire al posto dei martiri delle Ardeatine. È veramente diffìcile dire dopo se ci saremmo spontaneamente presentati ove ce ne fosse stata offerta prima l’opportunità».
Indro Montanelli - Mario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983

Nell’Italia della guerra civile, un episodio in particolare accese le discussioni sulla legittimità dell’uso della violenza da parte dei resistenti: la strage delle Fosse Ardeatine, dove furono fucilati 335 ostaggi come rappresaglia a un attentato partigiano che aveva provocato 33 morti e decine di feriti tra le file del SS Polizei Regiment Bozen (Bolzano).
Nelle fila dei resistenti, si aprirono subito intense discussioni sulle ragioni dell’attentato e fece esplodere i dissidi all’interno del CLN. I partiti che lo componevano avevano infatti concezioni differenti della lotta armata. Ad ogni buon conto, i comunisti decisero di assumersi tutta la responsabilità dell’azione. Un comunicato pubblicato il 30 marzo sull’Unità clandestina ribadiva con durezza: «Contro il nemico che occupa il nostro suolo, saccheggia i nostri beni, provoca la distruzione delle nostre città […] affama i nostri bambini, razzia i nostri lavoratori, tortura, uccide, massacra, uno solo è il dovere di tutti gli italiani: colpirlo, senza esitazione, in ogni momento, dove si trovi, negli uomini e nelle cose ]…]. Le azioni dei GAP [Gruppi d’azione patriottica] saranno sviluppate fino all’insurrezione armata nazionale per la cacciata dei tedeschi dall’Italia, la distruzione del fascismo, la conquista dell’indipendenza e della libertà.» <30
In effetti, la strategia comunista metteva consapevolmente nel conto le rappresaglie naziste contro la popolazione civile, anzi, individuava proprio in esse un efficace strumento per accrescere l’ostilità degli italiani nei confronti dell’occupante.
La strategia comunista era stata peraltro già chiarita qualche mese prima da Luigi Longo, comandante delle Brigate Garibaldi. «Il criterio se il nemico con le sue rappresaglie e la sua reazione ci potrà portare colpi ancora più duri, non può essere preso in considerazione: è l’argomento di cui si servono gli attendisti, ed è sbagliato, non perché, caso per caso, il loro calcolo non possa corrispondere a verità, anzi in astratto il loro calcolo è sempre giusto, perché è evidente che se il nemico vuole, caso per caso ci può sempre infliggere più perdite di quante noi ne possiamo infliggere a lui. Ma il fatto è che la convenienza o meno della lotta… si deve valutare sempre e solo nel quadro generale politico e militare della lotta contro il nazismo e il fascismo: il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi fucilati, ma si devono considerare tutte le misure di sicurezza che il nemico deve prendere, tutta l’atmosfera di diffidenza e di paura che questo crea nelle file nemiche, lo spirito di lotta che queste azioni partigiane esaltano nelle masse nazionali.» <31
Se il partigiano Franco Calamandrei aveva scritto nel suo diario del «senso di sovrumana fatica all’idea di poter mettere in moto il popolo. Una secolare inerzia che stenta a riscuotersi… una gigantesca ruota arrugginita» <32, acuire lo scontro avrebbe inoltre significato, nell’ottica comunista, mobilitare energie popolari fino a quel momento restate inattive.
Si presentava dunque come impossibile da sciogliere il dilemma tra la volontà di non mostrare alcun cedimento di fronte al nemico e il desiderio di non provocare vittime innocenti. Quest’ambiguità, che il leader del Partito d’azione Ferruccio Parri sintetizzò come «un non risolto e forse non solvibile problema di responsabilità» <33, accompagnò la vita di gran parte delle formazioni combattenti antifasciste.
[NOTE]
30 Cfr F. Malgeri, La Chiesa di fronte alla RSI, in La Repubblica Sociale Italiana, pp. 296-297.
31 Lettera di L. Longo al CLN di Roma, 8 gennaio 1944, cit. in Idem, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 295 ss.
32 F. Calamandrei, La vita indivisibile, cit., p. 131.
33 Cit. in C. Pavone, Una guerra civile, cit., p. 475.
Angelo Ventrone, «Italia 1943-1945: le ragioni della violenza», Amnis, 30 gennaio 2015

Roma, 7 dicembre 1951. Bentivegna viene arrestato per “blocco stradale” a seguito di una manifestazione di protesta contro la visita di Dwight Eisenhower in Italia - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit. infra

<1 «Di una egual luce cristiana risplendono le fronti dei martiri di Belfiore e delle Fosse Ardeatine».
Con queste parole il ministro della Guerra, Alessandro Casati, apriva il suo discorso al Vittoriano per la Giornata del soldato e del partigiano, inaugurata il 18 febbraio 1945 <2.
Su quello stesso colle del Campidoglio che già «una sera dei primi del marzo 1849» aveva visto «entrare per l’antica porta, nella città del suo sogno, Giuseppe Mazzini» <3, la strage delle Fosse Ardeatine, uno dei maggiori crimini di guerra di tutta l’Europa occidentale, compiuta a Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe occupanti tedesche, trovava pieno spazio nella grande tradizione commemorativa dei caduti di tutte le guerre d’Italia <4.
Il riconoscimento dei nuovi patrioti, «figli in armi» cui il popolo italiano aveva scelto di affidare «la tutela della propria indipendenza e dignità» <5, era del resto garantito dal conferimento della medaglia d’oro alla bandiera del Cvl, benedetta con rito cattolico da un cappellano partigiano, proprio sulla scalinata del Campidoglio e portata dinanzi al sacello del Milite Ignoto da Arrigo Boldrini, comandante della XXVIII brigata Garibaldi «Mario Gordini».
Il «tacito e solenne patto tra le Forze armate, cui - si diceva - infondono vita nuova e sangue nuovo gli eroici partigiani», assumeva così una funzione pedagogica essenziale: quella di reintegrare l’esperienza della guerra irregolare partigiana nel quadro della più rispettabile tradizione bellica nazional-popolare garibaldina e mazziniana, risollevando nel contempo il prestigio delle forze armate italiane in Europa, per mostrare l’estraneità dell’Italia alla guerra fascista e al nazionalismo di regime.
Non è un caso che nel suo discorso d’apertura alla cerimonia, il presidente del Consiglio dei ministri Ivanoe Bonomi avesse colto l’occasione per ricordare quanto l’Italia fosse stato il «primo paese d’Europa che in piena occupazione tedesca aveva avuto il coraggio morale e fisico di ribellarsi apertamente all’oppressore nazista», già acerrimo nemico risorgimentale, e quanto gli italiani potessero dimostrare, a testa alta, la loro estraneità al regime di Mussolini.
Dall’8 settembre 1943 ad oggi – aveva detto – una massa imponente di fatti, una successione ininterrotta di eroismi, una serie di sacrifici e di martiri, attestano che l’Italia, appena sciolta dai durissimi vincoli che le impedivano ogni movimento, ha ritrovato subito la sua antica anima e ha operato secondo la sua antica tradizione. È questa una prova […] che la guerra impostaci dal fascismo non era radicata nel cuore del popolo, talché, appena questo cuore ha potuto battere liberamente secondo le sue inclinazioni, il popolo, in tutti i suoi strati, si è trovato accanto al nemico di ieri e contro coloro che si voleva coattivamente fossero i suoi Alleati […]. Una tradizione di martirio e di sacrificio si è riaperta in Italia per affermare che quel meraviglioso Risorgimento italiano […] non è ancora chiuso e rinverdisce e fiorisce nel nuovo clima eroico della Nazione <6.
L’evento promosso dal ministro dell’Italia occupata Mauro Scoccimarro nell’anniversario del 18 febbraio 1861, a ricordo della prima seduta del Parlamento nazionale, riunito a Torino dopo l’Unità d’Italia, festeggiava così la fine di quel «vizio d’origine» dello Stato, derivante dal fatto d’essersi costituito al di fuori di una reale mobilitazione e partecipazione delle masse popolari. Per questo la rinascita del paese non poteva che essere simboleggiata da quei partigiani che, «in una sfida superba al secolare nemico, dall’esempio dei martiri e degli eroi del passato», avevano tratto «incitamento per vincere e morire, innalzando nella lotta la bandiera del Risorgimento» <7.
[…] Al di là dell’esaltazione dei patrioti del nuovo Risorgimento, le diverse interpretazioni dell’esperienza resistenziale portavano alla luce una «memoria divisa» in antitesi coi miti proposti dai partiti politici antifascisti e con l’immagine onorevole del combattente in armi.
Pur in debito coi partigiani per aver permesso all’Italia di poter «rientrare a testa alta nel consorzio delle libere e civili Nazioni», e riscattare «il suo buon nome dalla ignominia del ventennio fascista e soprattutto dalla vergogna della guerra a fianco della Germania nazista» <24, certamente non si poteva negare che una parte del paese avesse difficoltà a riconoscersi nel carattere «rivoluzionario» della guerra partigiana e a condividere la scelta della lotta armata contro il fascismo internazionale.
Il giudizio negativo sulla guerra di guerriglia, giudicata come irregolare e il concetto stesso di violenza illegittima in rapporto ai movimenti di resistenza, non faceva altro che dimostrare quanto il paese faticasse a riconoscersi in una guerra combattuta per libera scelta in base all’«etica della convinzione» che aveva spinto i partigiani ad agire secondo una scelta dettata dalla coscienza e non sulla base «dell’impunità garantita ai militari che, invece, avevano operato nel monopolio della violenza legale esercitata dallo Stato» <25.
La memoria conflittuale nata attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e all’azione partigiana di via Rasella del 23 marzo 1944 può essere considerata il massimo esempio di questa contro-narrazione.
Il processo per l’azione partigiana messa a punto dai Gap centrali, che nell’anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento avevano ucciso in via Rasella 33 soldati altoatesini dell’XI compagnia del III Battaglione SS-PolizeiRegiment Bozen, contribuì a cementare nell’opinione pubblica proprio l’errato senso comune dell’irresponsabilità dei partigiani.
Sobillati da una martellante campagna di stampa incentrata sulla condanna morale dei «colpevoli sfuggiti all’arresto» <26 – come «l’Osservatore Romano» definì i gappisti in un articolo apparso il 26 marzo 1944, appena due giorni dopo la strage – nel 1949 cinque familiari delle vittime delle strage avrebbero intentato causa civile per risarcimento danni proprio contro i partigiani, ritenuti responsabili della reazione tedesca, sia pure in via indiretta, per non essersi
«presentati» al Comando tedesco di Roma, nonostante l’affissione di manifesti nazisti che, si riteneva, avevano invitato gli «attentatori» a costituirsi.
Complementare a questa teoria era invece l’esaltazione dell’olocausto di altri eroi nazionali come il vicebrigadiere dei carabinieri Salvo D’Acquisto, medaglia d’oro al valor militare, fucilato dalle SS il 22 settembre 1943 a Torre in Pietra di Palidoro. Il gesto del «purissimo eroe», autoaccusatosi di un delitto mai commesso per salvare la vita a 22 ostaggi rastrellati dai nazisti a seguito dell’esplosione di una mina in una caserma tedesca, divenne il Leitmotiv della retorica antiresistenziale degli anni Cinquanta; il simbolo di una contro-narrazione dei fatti basata sulla mancata condivisione delle motivazioni etico-politiche che avevano ispirato la resistenza armata dei Gap.
[…] Il significato di queste morti creava così una sorta di contro narrazione mitica dei fatti legati alla «rappresaglia delle Cave Ardeatine», definitivamente consacrata durante il processo celebrato nel 1948 dal Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS Herbert Kappler, condannato all’ergastolo per l’eccidio del 24 marzo. Fu in quell’occasione che si contestò a Rosario Bentivegna, il gappista travestito da spazzino che aveva acceso la miccia dell’esplosivo in via Rasella, di non aver «preso in considerazione [il fatto ] di consegnar[s]i alle autorità tedesche» <29. Eppure era stato proprio Kappler a dichiarare, dal banco degli imputati, di non aver voluto avvertire nessuno
dell’imminente strage nel timore di una reazione dei partigiani <30.
Ma al di là del falso mito del Befehlsnotstand, dell’obbligo assoluto per i militari della Wehrmacht e delle SS d’obbedire a qualsiasi ordine superiore, pena la condanna a morte, per Kappler e gli alti comandi dell’esercito tedesco occupante, combattere le formazioni partigiane tra il 1943 e il 1945, aveva in realtà significato condurre una guerra terroristica di tipo preventivo e intimidatorio, fatta di ritorsioni contro la popolazione civile al puro scopo di spezzare il legame tra la Resistenza e gli abitanti di un territorio. Una strategia che aveva agito per mezzo del terrorismo diffuso, in nome della tattica meno dispendiosa e più efficace per assicurarsi il controllo militare di un territorio: non riuscendo a stanare le formazioni partigiane dalla clandestinità e a sconfiggerle impegnandosi con esse in uno scontro bellico regolare, seppur alla «macchia», la scelta era caduta sulla ritorsione contro i civili, al fine di colpire l’habitat e attraverso di esso di eliminare tutte le condizioni che avevano reso possibile l’operatività e la sopravvivenza delle brigate partigiane <31.
Era questa la logica che nel marzo del 1944 aveva ispirato la decisione di massacrare 335 uomini, in assoluto silenzio e in meno di 24 ore, nel fondo di alcune cave di pozzolana abbandonate lungo la via Ardeatina.
Nonostante ciò, i temi del martirio cristiano e dell’olocausto per la patria, tornavano in auge alla vigilia del processo che nel 1996, a più di cinquant’anni di distanza dai fatti, avrebbe condannato all’ergastolo l’ex capitano delle SS Eric Priebke per il massacro delle Ardeatine.
Incurante del fatto che Priebke fosse giudicato per crimini di guerra, e non per aver eseguito una legittima rappresaglia, il senso comune sui «fatti di Via Rasella» rimaneva ancorato alla retorica del «dovere d’obbedienza agli ordini superiori», sebbene nessuna legge avesse mai vincolato i membri dell’esercito tedesco a commettere massacri, secondo quanto previsto dall’art. 47 del codice penale militare di guerra tedesco <32. […]
[NOTE]
1 Questo saggio è la rielaborazione di alcuni capitoli della mia tesi di laurea discussa con Vittorio Vidotto nell’anno accademico 2001-2002, Le Fosse Ardeatine: dal massacro al mausoleo (1944-1996). La tesi ha vinto la V edizione del Premio Pier Paolo D’Attorre, indetto dalla Fondazione «Casa di Oriani» di Ravenna nel maggio 2004.
2 Le celebrazioni erano state precedute dalla Settimana del partigiano, un evento organizzato a Modena, nel novembre 1944, per la raccolta d’indumenti, viveri, pacchi dono e medicinali a favore di tutti i «volontari della libertà» che continuavano a combattere a Nord. Cfr. il telegramma del ministro dell’Italia occupata, Mauro Scoccimarro, al Comitato centrale di liberazione nazionale, 30 gennaio 1945, in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Fondo CCLN, b. 1, fasc. 5. Una generica descrizione della cerimonia è riportata anche in G. Schwarz, La guerra non più nobile. Trasformazioni del lutto e destrutturazione del mito della bella morte nell’Italia postfascista, in La morte per la Patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di O. Janz e L. Klinkhammer, Donzelli, Roma 2008, pp. 213-214.
3 Discorso di Alessandro Casati in 18 febbraio 1945. Giornata del partigiano e del soldato, Ministero dell’Italia occupata, Roma 1945, p. 7.
4 Mi permetto di rinviare al mio saggio Il mito del secondo Risorgimento nazionale. Retorica e legittimità della resistenza nel linguaggio politico istituzionale: il caso delle Fosse Ardeatine, in «Annali della Fondazione L. Einaudi», XXXVII, 2003, pp. 199-258.
5 Cfr. supra, nota 3.
6 Lettera di Bonomi al Ccln, 28 dicembre 1944, in ACS, Fondo CCLN, b. 1, fasc. 7.
7 Decreto legislativo luogotenenziale 15 febbraio 1945, in Medaglie d’oro al valor militare, Gruppo medaglie d’oro al valor militare in Italia, vol. I, Tipografia Imperiale, Roma 1965, p. 98. Il Cvl venne riconosciuto come parte delle Forze armate dello Stato solo con legge 21 marzo 1958, n. 285.
24 Manifesto del Ccln per la Giornata del partigiano e del soldato, 12 febbraio 1945, in ACS, Fondo CCLN, b. 1, f. 5.
25 C. Pavone, Priebke e il massacro delle Ardeatine, l’Unità/IRSIFAR, Roma 1996, p. 43.
26 Cfr. Parole chiare per i romani, in «l’Osservatore Romano», 26 marzo 1944.
27 Rievocazione del sacrificio del vicebrigadiere dei carabinieri medaglia d’oro al V. M. Salvo D’Acquisto, Palidoro, 24 maggio 1963, in ANFIM, Dal XIX anniversario dell’eccidio Ardeatino (24 marzo 1963) al XLV anniversario della Vittoria (4 novembre 1963), Ufficio stampa ANFIM, Roma 1963, p. 82.
28 Cfr. la relazione per il monumento da eseguirsi al cimitero del Verano, in ACS, PCM (1951-1954), f. 11772, cat. 14.5.
29 R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, con M. Ponzani, Einaudi, Torino 2011, p. 254.
30 Su queste motivazioni il colonnello delle SS sarebbe tornato alla vigilia della sua fuga dal carcere militare del Celio, nel 1977. Cfr. Herbert Kappler nove mesi contro Roma. Il famigerato capo delle SS ha scritto le sue memorie, Biblioteca dell’Istituto storico Germanico di Roma (DHI-Rom), Fondo Susmel B: S. x. 7. 9. 4.
31 Fu la stessa strategia applicata in altre zone d’Italia come l’Appennino bolognese, nei pressi di Monte Sole, in un massacro che costò la vita a quasi ottocento persone, uccise in oltre cento diverse località distribuite sul territorio. Cfr. L. Baldissara, P. Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna 2009.
32 Cfr. G. Schreiber, Processo Priebke dall’8/5 al 16/7/96 - STATO Maggiore Esercito, in Archivio audiovisivo ANFIM. Cfr. anche L.M. Baiada, Da Via Rasella a Kabul, in «Il Ponte», LXVI, 5, maggio 2010, pp. 48-55.
Michela Ponzani, Per l’onore d’Italia, per l’unità del popolo. Il mausoleo delle Fosse Ardeatine e la memoria della Resistenza nell’Italia repubblicana, Academia.edu

Carla Capponi in visita alle Fosse Ardeatine - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit. infra

La memoria conflittuale nata attorno alla strage delle Fosse Ardeatine e all’azione di via Rasella del 23 marzo 1944 può essere considerata il massimo esempio di questa contro-narrazione. Ricordando quell’azione di guerra, molti anni dopo nel corso di un’intervista, Maria Teresa Regard torna a rivendicare con orgoglio l’operatività militare delle formazioni partigiane gappiste a sostegno dello sforzo bellico degli alleati, che «avevano bisogno di avere delle azioni forti a Roma» e le «sollecitavano […] per sostenere l’insurrezione della città» <56.
Contro ogni distorsione della verità Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Franco Calamandrei e altri combattenti che prendono parte a quell’azione di guerra, si sono del resto battuti fino alla fine, nel corso di una lunga battaglia per stabilire la verità, contrastando ogni volta le tante polemiche incentrate sul criterio dell’irresponsabilità dei partigiani, accusati di non essersi costituiti ai nazisti per evitare la rappresaglia delle Ardeatine.
“Assassini”, “vigliacchi”, “terroristi”, “stragisti”, “combattenti illegittimi”, “Banditen”: utilizzando questa terminologia nel definire i membri dei Gap, l’azione di via Rasella è presentata come un atto isolato e sconsiderato; un atto compiuto da giovani irresponsabili che in quegli anni hanno avuto voglia di giocare alla guerra, in una Roma “città aperta” pacificata dall’intervento di Papa Pacelli; un “gesto” inutile perché compiuto «quando ormai era certo che Roma sarebbe stata liberata di lì a poco» <57 dagli alleati.
[NOTE]
56 Intervista di Maria Teresa Regard ad Alessandro Portelli, 20 aprile 1998, in ASSR, Fondo famiglia Calamandrei Regard, serie 2 Resistenza, s.serie 2, b. 3, fasc. 4.
57 Rievocazione del sacrificio del vicebrigadiere dei carabinieri medaglia d’oro al V. M. Salvo D’Acquisto, Palidoro, 24 maggio 1963, in ANFIM, Dal XIX anniversario dell’eccidio Ardeatino (24 marzo 1963) al XLV anniversario della Vittoria (4 novembre 1963), Roma, Ufficio stampa ANFIM, 1963, p. 82.
Michela Ponzani, Una legittimità contestata: il caso “via Rasella” in Scegliere la disobbedienza. La dimensione esistenziale dell’antifascismo nelle memorie di Rosario Bentivegna e Carla Capponi. Introduzione agli inventari dei fondi Bentivegna e Capponi, Senato della Repubblica, 2016

Carla Capponi negli anni ’50 - Fonte: Michela Ponzani, Scegliere… cit.

Il caso di via Rasella, fra tutti, dimostrava quanto sia assurdo «tenere distinte le posizioni di chi ordinò e di chi eseguì» <93; e cioè porre una differenziazione di carattere giuridico tra la Giunta militare del Cln, che ha segnalato l’XI compagnia dell’SS Polizeiregiment Bozen quale obiettivo da colpire nell’azione del 23 marzo 1944, e i membri dei Gap centrali, autori della messa a punto del piano operativo. A detta di Dante Livio Bianco, chiamato a far parte del collegio di difesa, questa narrazione ha inevitabilmente fatto «ricadere la responsabilità sugli esecutori» dell’azione partigiana e dunque sui gappisti, giudicati «come isolati che [avevano] agito di propria iniziativa» <94. Il rischio è stato pertanto quello di avvalorare la tesi sostenuta da tanta opinione pubblica corrente, cioè quella dei giovani irresponsabili che con le loro azioni sconsiderate hanno messo a repentaglio la vita di tanti innocenti.
La vittoria della causa in prima istanza ha dunque indotto a una logica «rivalutazione della resistenza e dell’antifascismo attivo, che erano allora lo Stato, la Nazione italiana». Come a dire che sarebbe stato a dir poco illogico condannare per omicidio quei partigiani che con le loro azioni hanno contribuito a fondare la nuova Repubblica democratica: valutare dunque le motivazioni politiche, anzitutto per evitare di essere considerati «alla stregua di automobilisti investitori o di incauti maneggiatori esplosivo, sul terreno del diritto comune» <95.
Al di là della difesa legale garantita ai gappisti di via Rasella e ad altri partigiani per azioni di guerra altrettanto eclatanti, il Pci sceglie tuttavia di non rivendicare quell’“etica della convinzione” che si è posta a fondamento di tante azioni di guerriglia partigiana: nel dilemma di doversi rapportare con l’uso della violenza, mantiene, invece, una certa distanza rispetto alla scelta d’imbracciare le armi. In una lettera indirizzata ad Antonello Trombadori e Giorgio Amendola nel maggio 1979, Bentivegna stesso è, del resto, ritornato sulla questione della mancata rivendicazione di quella e di altre azioni di violenza armata dei Gap, da parte della dirigenza del suo partito. Il XV congresso del Pci ha infatti fornito l’occasione per riprendere alcune polemiche su via Rasella, pervenute stavolta dal segretario del Msi, Giorgio Almirante, e dal leader dei radicali, Marco Pannella, denunciati dalla dirigenza del Pci per vilipendio, per aver accusato i Gap di essere fiancheggiatori del terrorismo o quantomeno ispiratori di certi atteggiamenti provocatori. E pur mostrando “la solidarietà e l’affetto di sempre” per i suoi compagni, Bentivegna decide di non partecipare a quell’azione legale, avendo già pagato ampiamente, da solo, per quell’azione di guerra.
“Desidero dissociarmi dalla vostra iniziativa pur se ne condivido lo spirito. Sono più di trent’anni che rimasto quasi solo a via Rasella, sono stato il bersaglio pubblico e privato degli insulti di certa gente: cominciarono i monarchici, Guglielmo Giannini con il suo “L’Uomo qualunque” e “Il Tempo” di Angiolillo, hanno proseguito filistei e fascisti di tutte le estrazioni. Ma non mi sono mai sentito vilipeso. Dopo trentacinque anni a via Rasella siamo diventati tanti, così che – per fortuna, ed era ora – il mio nome quasi non si vede o addirittura non c’è. Ma io, come voi, del resto, a via Rasella ci stavo allora e ci sono rimasto sempre. E se in questi trent’anni gli insulti dei Pannella e degli Almirante non mi hanno neppure sfiorato, perché dovrebbero cominciare a farlo ora?” <96
[…] Parallelamente alle accuse sull’irresponsabilità degli ex combattenti della Resistenza, la contestazione di legittimità delle azioni partigiane deve poi accompagnarsi a una «guerra di miti e di simboli nazionali» <98, che ha finito per coinvolgere tutti i luoghi del cordoglio nazionale, non ultimo il mausoleo delle Fosse Ardeatine, inaugurato il 24 marzo 1949 dal ministro dei Lavori pubblici Umberto Tupini, nel centenario della Repubblica romana del 1849.
Un luogo di per sé destinato a divenire il sacro emblema della retorica celebrativa della Resistenza, quasi un «nuovo Altare della Patria», che ricordi nei secoli la «guerra del nuovo Risorgimento italiano», meta di pellegrinaggio per commemorare lo «sterminio di tutti gli italiani impegnati nella lotta di liberazione nazionale». Costruito sul luogo «della vendetta tedesca» accanto alle tombe dei primi martiri cristiani, lungo l’antica via romana che da Porta San Sebastiano conduce alle catacombe di Santa Domitilla e di San Callisto e alla tomba di Cecilia Metella, il monumento diviene un’area sacra di preghiera e di lutto per i «nuovi martiri della nazione», con il compito di ricordare chi
ha «cospirato e combattuto sul fronte clandestino del grande esercito partigiano» salvando «l’unità del popolo» e ristabilendo «l’onore della nazione» <99.
[NOTE]
93 Lettera di Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, 22 marzo 1949, in ASSR, Fondo famiglia Calamandrei Regard, serie 2 Resistenza, s.serie 1, b. 3, fasc. 3.
94 Ivi, lettera di Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, 7 maggio 1949.
95 Ivi, lettera di Dante Livio Bianco a Federico Comandini, 24 maggio 1949.
96 Lettera a Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, 29 maggio 1979, in ASSR, Fondo Rosario Bentivegna, serie 5
Corrispondenza, interventi e relazioni, b. 17, fasc. 51 Lettere al Pci 1973-1992.
98 E. Gentile, La grande Italia. Il mito della Nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 250.
99 Relazione al Consiglio dei Ministri sullo schema di decreto legislativo recante norme per la sistemazione delle «Fosse Ardeatine» in Roma, in ACS, PCM (1948-1950), 10268, cat. 14.6.
Michela Ponzani, Un lungo dopoguerra in Scegliere la disobbedienza Op. cit.