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sabato 30 aprile 2022

A Napoli il Pci impone la chiusura di un innocuo giornaletto nato dagli sforzi di una compagnia di giovani promesse dalle vaghe aspirazioni letterarie


Se dal fronte La Capria scriveva lettere disperate in cui si augurava di ritrovare gli amici di ieri, negli ultimi mesi del ’43, quando i disordini dell’occupazione alleata lo consentono, lo scrittore collabora [n.d.r.: a Napoli] con alcuni di quegli amici per costruire insieme a loro un nuovo domani. Per risollevarsi dalle macerie e iniziare a mettersi alla prova, quei ragazzi maturano un «diverso engagement» della letteratura. A scriverlo è Caprara, non senza menzionare il testo che ha orientato il loro impegno in questa direzione:
«Letteratura come vita» erano, del resto, le parole con le quali Carlo Bo, luminare di parte cattolica della critica letteraria (che per noi si incarnò nella corrente impropriamente chiamata Ermetismo) aveva intitolato la sua raccolta di testi esemplari del settembre del 1938. <53
Il paragone di Bo è una fonte di ispirazione, e i suoi «scritti fascinosi» su Jacques Rivière, Sainte-Beuve, Gide, Mallarmé, Montale, passando per Pascal e Port-Royal, non sono né più né meno che «appelli a quegli “altri doveri”» a cui invitava pure il Gran Lombardo nella Conversazione in Sicilia di Vittorini. <54
Ma Caprara non è il solo a pensarla così, perché in uno dei suoi Esercizi superficiali, La Capria confesserà a una giovane lettrice che anche lui riteneva allora di poter cambiare il mondo con il potere della letteratura: credevamo - ma era bello crederlo! - che la lettura, la letteratura, questi libri insomma, fossero una chiave per aprire tutte le porte, per conoscere le cose del mondo, per preparare chissà quale cambiamento di cui sentivamo l’esigenza e che speravamo imminente. <55
Inebriati da questo spirito, attorno al tavolo del novello direttore del gruppo Caprara, siedono amici di vecchia data come La Capria, Compagnone, Giglio, Patroni Griffi, Napolitano, Scognamiglio e Barendson, ora affiancati da Aldo Palumbo e Spartaco Galdo. <56 Sul tavolo del confronto c’è un progetto editoriale umile nei toni ma ambizioso nei propositi: si tratta di «Latitudine», un mensile di letteratura e politica che, attraverso una «scelta esemplare di autori», intende fornire ai “naviganti” le giuste coordinate per approssimarsi, con la dovuta cautela dopo «anni così disperati» per la navigazione, a quella «nuova cultura europea» che solo adesso incomincia ad affacciarsi all’orizzonte, seducente come una promessa. <57
Oltre all’ispirato editoriale di Caprara, che deve la sua piega «mistico-moralista» all’influenza di Bo e ai suoi referenti d’oltralpe, <58 il primo numero di «Latitudine» ospita numerosi contributi: un saggio di Max Raphael sulla dialettica materialista (nella versione italiana di Palumbo); un brano di Lucrezio sul sentimento del tempo; le strofe I e VII de La Dernière nuit di Paul Éluard, dal volume Poésie et vérité del ’42, e Les Hommes, non la terre di Pierre Emmanuel, dal Poème senza titolo apparso un anno dopo sul numero ventinove di «Fontaine» (entrambi nella traduzione collaborativa di La Capria e Caprara); <59 un inedito di Patroni Griffi, intitolato La grande stagione; una riflessione di Compagnone sulla letteratura americana; The World, un racconto di Saroyan tratto dalla raccolta The Trouble with Tigers del ’38 (anch’esso tradotto da La Capria); i partecipi versi di Galdo e quelli musicali di Giglio; e infine, un brano sulla pittura, siglato da Caprara; una nota di Scognamiglio sulla musica contemporanea; una considerazione di Napolitano sul rinnovamento del teatro; e un pezzo sulla storicità del film, a cura di Barendson. A dispetto del vento universalista che soffia da questi «contributi alla cultura», le coordinate suggerite nel primo numero di «Latitudine», che vanta inoltre una presentazione bilingue, in italiano e in francese, conducono l’equipaggio di quella piccola imbarcazione alla deriva, perché il fascicolo pubblicato nel gennaio del ’44 sarà anche l’ultimo.
L’incidente è doloso e il movente va ricercato proprio in quei referenti tanto ingenuamente citati, quei letterati di sinistra di area non comunista come il «cattolico» Charles Péguy, il «delicatissimo» Alain-Fournier e soprattutto il «cosmopolita» André Malraux, per il quale «scrivere» era, in quel momento, «la sola maniera di continuare a vivere». <60
Ignaro delle reali motivazioni e in ossequio a tanta autorità, Caprara accetta di partecipare a una riunione di partito nella sua duplice veste di «candidato» e di direttore della nuova rivista: «Gettate la maschera, siete dei trotzkisti», grugnisce uno dei funzionari di via San Potito, ma è piuttosto lui a scoprire la vera natura di quell’incontro, rivelatosi un «informale processo» senza difesa. <61 Il capo d’accusa è infamante, “alto tradimento”: a leggere uno scrittore come Malraux, che si batte al fianco di De Gaulle, anche se è nel contempo opposto a Pétain e ai tedeschi, ci si espone automaticamente al giudizio di chi non potrebbe mai redimere «uno che si batte dalla parte sbagliata». <62 Caprara è profondamente deluso. Senza saperlo, ha rischiato di finire come Palla di Neve, il maiale espulso dalla Fattoria degli animali, in anticipo di un anno sulla satira che George Orwell ancora non ha scritto. Al momento, sa solo che il suo progetto è stato affossato da «rivoluzionari di professione» che aveva del tutto mitizzato: <63
"Più che le parole, mi colpiva l’atmosfera che era di odio contro chi, come noi, avevamo osato fare una rivista senza ottenere né sapere dell’imprimatur necessario. «Malraux à la lanterne», al palo, sussurrò un altro suscitando l’approvazione scomposta degli altri nostri giudici". <64
Dopo vent’anni di oppressione fascista, il cielo di Napoli non sembra essersi fatto più terso se il “Santo Uffizio” del Partito Comunista, presieduto dal dirigente Clemente Maglietta, impone la chiusura di un innocuo giornaletto nato dagli sforzi di una compagnia di giovani promesse dalle vaghe aspirazioni letterarie.
IX. IL PIANO MALAPARTE
La vicenda deve aver provocato qualche pettegolezzo se l’eco della notizia giunge all’orecchio di Curzio Malaparte, da poco uscito dal carcere di Regina Coeli. Informato della frattura con Maglietta e i suoi, lo scrittore offre a Caprara l’intrigante consiglio di «Scavalcarli». <65 L’ex direttore di «Latitudine» raggiunge Malaparte a Capri, dove lo scrittore fa gli onori di casa mostrando al suo ospite la villa che ha fatto edificare sulla sommità di Capo Massullo. Per l’indomani, fissa un appuntamento con Eugenio Reale, un dirigente comunista di spicco che aiuterà Caprara a «riannodare i fili» con il partito. <66 Ma la mano di Malaparte si ferma qui, perché in occasione del suo primo incontro con Togliatti, per ottenere una legittimazione a sinistra, il maestro preferisce scavalcare i funzionari di San Potito da solo, piuttosto che perorare la causa del suo preoccupato ma speranzoso discepolo. Così l’esperienza di «Latitudine» può dirsi archiviata in via definitiva, come pure la collana di monografie che la sua redazione aveva messo in cantiere. Soltanto più tardi Napolitano, che era allora sfollato a Capri con una parte della famiglia, informerà Caprara della dedica con cui Malaparte lo avrebbe omaggiato, mostrandosi - almeno con lui - un po’ più generoso: "non conoscevamo il suo passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo sentivamo vicino a noi […]. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco; ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole […]. Era quasi una replica di Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: «A Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante l’Apocalisse». <67
La stampa del numero uno di «Latitudine» viene completata poco prima dell’Apocalisse, due mesi prima della memorabile eruzione del Vesuvio, registrata dall’occhio «attento e infallibile» di un agente dell’Intelligence inglese ancora sconosciuto, che il 19 marzo annoterà sul suo diario: «È lo spettacolo più maestoso e terribile che abbia mai visto, e credo che una cosa del genere non la vedrò mai più». <68 Della raccolta di Racconti di Saroyan e del Ritorno dall’U.R.S.S. di Gide, entrambi previsti nella traduzione di La Capria, ci resta solo l’annuncio in terza di copertina, dove il primo risulta «in corso di stampa» e il secondo «in preparazione».
I successivi mesi del ’44 nulla sapranno degli innumerevoli echi che suscitò in lui la lettura diretta di Saroyan - echi che, garantisce La Capria, la «mirabile traduzione» di Vittorini non aveva del tutto esauriti - né sapranno della «moralità» che riverberava oltre la pagina dello scrittore: «Break down the stupid structure [of] language and make it life», aveva scritto Saroyan. <69
E per quanto conforme a un fenomeno di rottura iniziato con Joyce e proseguito fino alla Stein, non sarà certo la poetica del «piccolo Saroyan» ad abbattere le stupide strutture del linguaggio, perché nella tumultuosa Napoli occupata dagli alleati e trasformata in una specie di «Saigon mediterranea», a rompere gli schemi della lingua e del costume sarà la vita stessa, al ritmo sincopato del jazz. <70
[NOTE]
53 MASSIMO CAPRARA, Paesaggi con figure, Ares, Milano 2000, p. 17. Si riproduce il testo emendato da refusi tipografici evidenti.
54 Ibid.
55 RAFFAELE LA CAPRIA, Cara Sofia… Dostoevskij, Proust, Kafka: la tua identità è ciò che leggi, «CdS», 7 settembre 2008; poi Sofia, in Esercizi superficiali. Nuotando in superficie (2012); rist. in Opere, cit., vol. II, pp. 2175-80: 2177.
56 Si veda MOZZILLO, I ragazzi di Monte di Dio, cit., p. 7, dove anche Ghirelli figura tra i collaboratori, benché il suo nome non venga menzionato sulla rivista.
57 Presentazione di «Latitudine», n.u. (1944), p. 1.
58 CAPRARA, Paesaggi con figure, p. 42.
59 Si noti che il nome dell’A. figura solo nell’indice di «Latitudine». I versi di Emmanuel riappariranno in marzo, in lingua originale, tre mesi dopo l’uscita della rivista, nella rassegna di A.[NTONIO] C.[ARACINI], Lettere francesi, «Aretusa», 1:1 (1944), pp. 124-28: 125.
60 MASSIMO CAPRARA e ROBERTO FONTOLAN, Riscoprirsi uomo. Storia di una coscienza, Marietti, Genova-Milano 2004, p. 22; ANDRÉ MALRAUX, cit. a piè di pagina nel Taccuino del lettore, «Latitudine», n.u. (1944), p. 22.
61 CAPRARA, Paesaggi con figure, p. 41.
62 Ivi, p. 42. L’episodio è raccontato anche in NELLO AJELLO, Intellettuali e PCI. 1944-1958 (1979), Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 27-34.
63 CAPRARA, Paesaggi con figure, p. 41.
64 Ivi, p. 43.
65 Ivi, p. 45.
66 Ivi, p. 50.
67 MAURIZIO SERRA, Intervista a Napolitano: dialoghi a Capri con Malaparte, «M», 17 febbraio 2011; poi «Era quasi una replica di Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi…», in Malaparte. Vite e leggende, trad. di Alberto Folin, Marsilio, Venezia 2012, pp. 547-50: 548-49. Si veda M.[ARIO] A.[JELLO], Intervista a La Capria: Malaparte disse di lui che mantiene la calma pure nell’Apocalisse, «Il Messaggero», 15 aprile 2013, pp. 4-5. Si veda anche FRANCHI, Giorgio Napolitano, cit., p. 48, dove Napolitano racconta che: «All’allarme, sempre più incalzante, delle incursioni aeree, imparai a reagire con molto autocontrollo e con ragionevole fatalismo: un apprendimento che mi sarebbe tornato utile anche in altri drammatici periodi della convivenza nazionale».
68 RAFFAELE LA CAPRIA, Napoli è meravigliosa, sir, «CdS», 28 agosto 1993; poi Norman Lewis, in Ultimi viaggi nell’Italia perduta (1999), Bompiani, Milano 2015, pp. 52-58: 52; NORMAN LEWIS, Napoli ’44 (1978), Adelphi, Milano 2013, p. 120.
69 RAFFAELE LA CAPRIA, Introduzione a WILLIAM SAROYAN, Il Mondo, «Latitudine», n.u. (1944), p. 20.
70 LA CAPRIA, Esperienze letterarie…, cit., p. 49; RAFFAELE LA CAPRIA, Quando Napoli era Saigon, «CdS», 13 aprile 1993, p. 28
Luca Federico, L'apprendistato letterario di Raffaele La Capria, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2020

venerdì 29 aprile 2022

Pisanò si era rifiutato di ammettere di essere un agente


Ben presto l'appoggio del SIM si rivelò particolarmente utile per gli Alleati perché i servizi segreti tedeschi, l'Abwehr dell'esercito e il Sicherheistdienst delle SS, si avvalsero nel nostro Paese di agenti autoctoni da inviare nel Sud Italia come spie e sabotatori. L'organizzazione dei due servizi del Reich in Italia fu inevitabilmente collegata con l'evoluzione della presenza militare tedesca. Fino al 1943 il SD era presente a Roma solamente tramite la sezione dedicata allo spionaggio estero (Ausland-SD) mentre l'Abwehr si occupava principalmente di controspionaggio (Terzo Abwehr o Abwehr III) oltre che del reclutamento di agenti da inviare in missioni in Grecia o nel Medio Oriente <48. Già nell'agosto del 1943, tuttavia, il generale Karl Wolff era stato designato come Comandante supremo della polizia e delle SS in Italia il quale da Monaco aveva iniziato ad organizzare la futura struttura delle SS in Italia <49. A sua volta il generale Wilhelm Harster, giurista bavarese, venne designato come comandante della Sicherheitspolizei (Sipo, Polizia di sicurezza) e del SD in Italia con sede a Verona, ovvero l'organismo che coordinava l'attività della Gestapo, della Kripo (Polizia criminale) e del SD (al quale veniva aggiunta la sezione Inland) <50. Pertanto, anche le altre due polizie iniziarono ad operare nel territorio italiano e, secondo i Servizi italiani, erano dirette inizialmente da Eugen Dollmann e Herbert Kappler <51. Anche l'Abwehr, il servizio dell'esercito, non esitò ad inviare personale che potesse organizzare anche in Italia la Prima e la Seconda sezione, rispettivamente avente compiti di spionaggio e sabotaggio. L'Ausland-SD, diretto da Karl Hass, prima a Roma e poi a Verona, iniziò ad interessarsi anche all'attività di sabotaggio sia materiale che morale, la cosiddetta attività di quinta colonna, andando a scontrarsi e intralciarsi con il Secondo Abwehr <52. Entrambi i servizi disponevano inoltre di proprie scuole per addestrare potenziali spie e sabotatori, anche in questo caso spesso non lavorando in sinergia ma cercando ognuno di accaparrarsi il maggior numero possibile di agenti.
Per complicare ulteriormente la situazione, oltre al già citato Ufficio PdM, organizzazione più ufficiosa che ufficiale, nell'ottobre 1943 veniva creato il nuovo servizio informativo della Repubblica Sociale, il Servizio Informazioni Difensivo (SID), il quale avrebbe dovuto rappresentare il contraltare del SIM. L'organismo era stato posto sotto la guida di Vittorio Foschini, giornalista ma anche ex agente del cosiddetto servizio 6x, un servizio informativo attivato verso la fine del 1942 su iniziativa dello stesso Foschini, approvato prima dal Ministro della Cultura Popolare Buffarini Guidi e in seguito dal Duce stesso al quale venivano indirizzate le 'veline' <53. Come si può intuire dal nome, l'organizzazione contemplava esclusivamente attività di controspionaggio e non di spionaggio, la quale era demandata ai servizi informativi tedeschi <54.
Avocando a sé queste due importanti prerogative, Abwehr e SD poterono costituire delle reti di spionaggio e sabotaggio nel territorio occupato dagli Alleati. Tra la seconda metà del 1943 e i primi mesi del 1944 vennero arruolati principalmente tedeschi e sudtirolesi che conoscessero la lingua italiana, in modo tale da permettere loro di operare più facilmente alle spalle della linea del fronte. Verso la fine del 1944 tuttavia, come ci informa il contro-spionaggio italiano, la situazione era molto differente. Tra gli agenti nemici arrestati sia dal SIM che dagli Alleati nel corso di quell'anno infatti, più dell'85% erano italiani <55. Lo stesso report ci illustra che tra costoro figuravano disertori, persone ricercate per crimini comuni, ma la maggior parte erano fascisti fanatici <56. L'iniziale difficoltà per i Servizi tedeschi di arruolare personale in loco, aveva portato ad ingaggiare persone poco affidabili che avevano accettato di diventare agenti solamente per la generosa remunerazione che veniva loro garantita <57. Tuttavia, nel corso del 1944, la situazione cambiò quando i Servizi tedeschi riuscirono ad arruolare agenti provenienti da organizzazioni fasciste che potessero essere più affidabili come per esempio la Decima MAS di Junio Valerio Borghese, la Guardia nazionale repubblicana o la banda Koch <58. La Decima MAS in particolare svolse un ruolo fondamentale per quanto riguardava la messa a disposizione di uomini per l'Abwehr e il Sicherheitsdienst. Già reparto speciale della Regia Marina, nonostante appartenesse formalmente alla Marina della Repubblica Sociale Italiana, era un'unità militare indipendente e direttamente alleata ai nazisti tramite un accordo siglato dal suo Comandante, Junio Valerio Borghese con il capitano di vascello della Kriegsmarine Max Berninghaus <59. Scrive Ganapini che «Tra tutte, la Decima Mas è la formazione più nettamente connotata e che forse meglio di ogni altra esemplifica le caratteristiche proposte a modello per la struttura militare volontaria fascista repubblicana» <60. L'alone eroico e di leggenda che circonda la soprattutto dalla figura dello stesso Borghese.
[...] Gli uomini della Decima furono impiegati principalmente in azioni contro i partigiani mettendosi in luce non solo per la particolare violenza ma anche per i numerosi abusi compiuti nei confronti della popolazione civile <66. Coloro i quali, pertanto desiderassero partecipare ad azioni dirette nei confronti degli Alleati avevano una sola opportunità: essere impiegati dai servizi segreti tedeschi con compiti informativi e di sabotaggio oltre le linee nemiche.
I futuri agenti venivano avvicinati da reclutatori (sia tedeschi che italiani) per azioni dirette esclusivamente dall'Abwehr o dal SD oppure venivano scelti dalle organizzazioni della RSI in azioni concordate con i tedeschi <67. Ad esempio possiamo citare il tentativo del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI, Francesco Barracu, di organizzare un gruppo di persone di fiducia, capitanate da padre Luciano Usai, con lo scopo di costituire una rete informativa politico-militare e di propaganda in Sardegna, sua regione di origine <68. Il gruppo venne addestrato e in seguito paracadutato nell'isola dall'Abwehr ma anche questa iniziativa tuttavia fallì poiché il gruppo venne arrestato dalle autorità alleate <69.
Ma quali erano le modalità di azione degli agenti inviati dai servizi tedeschi? Innanzitutto si deve distinguere da agenti sabotatori, ''lasciati indietro'' in seguito alla ritirata dell'esercito, muniti di esplosivi per specifiche missioni e in contatto diretto o attraverso intermediari con agenti muniti di radio-trasmittente, dagli agenti di spionaggio, solitamente inviati in missione attraverso le linee con il compito di osservare posizioni e numero di truppe, mezzi e sedi nemiche <70. Una terza categoria è invece l'agente doppiogiochista, il cui rendimento, secondo una relazione del controspionaggio del SIM era «difficilmente accertabile» <71. È probabile però che chi si presentava ai comandi alleati «di sua volontà, raccontando i particolari più minuti della sua missione [potesse] essere in azione di doppio gioco, specie per attività di carattere politico che fermentano e si irradiano in specie dai campi di concentramento ove di solito l'agente viene per principio avviato» <72. L'attività di CS era dunque indispensabile per contrastare le azioni nemiche. Essa, secondo il SIM era dotata di "due armi: l'indagine e l'interrogatorio: quest'ultimo è la base e l'arma più decisiva; occorre imporre la propria supremazia morale e di capacità all'interrogando e non dimenticare di essere abbastanza curiosi e precisi secondo una logica corroborata dal sapere e dalla volontà. Gli schemi per gli interrogatori sono noti: essi sono dovuti al fatto che un interrogatorio deve fornire gli elementi più numerosi che sia possibile per le operazioni repressive successive e gli interrogatori conseguenti. L'interrogatorio vale per quello che apporta all’attività controinformativa non per quello che interessa direttamente l'agente inquisito, ormai individuato. Nei riguardi dell'agente inquisito l'interrogatorio è un dovere per la giustizia; nei riguardi di ulteriori azioni controinformative è sopratutto una necessita procedurale che comporta - in caso di trascuratezza - responsabilità di ordine morale e professionale. Sino ad ora in questo servizio l'informatore più sicuro è l'agente stesso con il vantaggio che - grazie alla capacità ed all'abilità di chi lo esamina - l'informazione ottenuta è controllata e indiscutibile" <73.
Analizzare un interrogatorio di un agente nemico è pertanto un utile strumento per comprendere sia le modalità di reclutamento, di addestramento ma anche per capire la personalità, le motivazioni e i desideri di coloro i quali decidevano di arruolarsi nei servizi di intelligence tedeschi, oltre che ovviamente per cercare di capire come operavano e cosa erano interessati a conoscere i servizi alleati (e italiani).
Un esempio utile può essere l'interrogatorio di Giorgio Pisanò, arruolatosi nel 1943 come paracadutista nella Decima Mas e nel dopoguerra giornalista, saggista, parlamentare e importante esponente del Movimento Sociale Italiano. Un caso non unico tra gli appartenenti al partito ad aver svolto attività di intelligence. L'agente che lo interrogò nel 1945 lo descrisse come «fervent fascist but claims for him Fascism represents Italy. He is intelligent, courageous and very observant. He is anxious to serve his country. Says he would prefer to be tried by Allies, even if it means going before a firing squad» <74. Come molti altri «ardenti fascisti» come lui, si era arruolato nella Decima Mas «partly because he wanted to do something spectacular for his country, and partly because 10th MAS was entirely Italian, and not under the away of the Germans» <75. Sono proprio i tedeschi però, nel giugno del 1944, ad offrire a Pisanò e al suo battaglione di paracadutisti la possibilità di essere addestrati per «lavori speciali» per i quali erano necessari «uomini di coraggio» <76. Al corso di spionaggio, tenuto da istruttori dell'Abwehr, Pisanò e i suoi compagni vennero istruiti nel riconoscimento di aerei, navi, carri armati, armi, uniformi, nel distinguere i distintivi delle unità e delle formazioni, nella lettura delle mappe e nello studio delle fotografie. Completato il corso di durata mensile, a Pisanò venne assegnata una missione in Puglia con il compito di «tenere gli occhi aperti» e notare i distintivi di truppe, veicoli e segnare la loro appartenenza alle truppe britanniche, americane, canadesi o indiane. Gli vennero fornite ventimila lire ed un fazzoletto necessario per il suo riconoscimento nel momento in cui sarebbe tornato presso i comandi tedeschi. In caso di fermo o cattura avrebbe dovuto raccontare di aver lavorato per l'organizzazione Todt ed essere scappato per cercare di raggiungere i familiari nel Sud Italia <77. La sua missione tuttavia fallì miseramente dato che, giunto nei pressi di un comando alleato in Toscana per ottenere i permessi necessari per raggiungere la Puglia, il suo nome e quello del suo compagno di viaggio risultarono essere presenti nelle liste degli agenti nemici <78. Secondo il sergente statunitense responsabile del suo interrogatorio, Pisanò, quando era stato interrogato dal SIM, si era rifiutato di ammettere di essere un agente, riferendo inoltre una storia differente a quella raccontata in precedenza. Negava inoltre di aver partecipato ad altre missioni anche se i compagni di cella riferivano che egli si fosse vantato di averne portato a termine due <79.
[NOTE]
48 AUSSME, SIM, b. 66, f. 1-1-1 1943 Organizzazione informativa tedesca in Italia, Appunti sull'organizzazione informativa tedesca in Italia e su alcune persone maggiormente in vista, 19 ottobre 1943, pp. 1-2. L'unico lavoro che ha analizzato la struttura informativa tedesca in Italia è quello di C. Gentile, I servizi segreti tedeschi in Italia 1943-1945, in P. Ferrari, A. Massignani (a cura di), Conoscere il nemico. Apparati di intelligence e modelli culturali nella storia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2010. Alcune informazioni sul SD in Italia si trovano in E. Collotti, Documenti sull’attività del Sicherheitsdienst nell’Italia occupata, in Il Movimento di liberazione in Italia, a. 1963, vol. 71, n. 2, pp. 38-77
49 L. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia (1943-1945), pp. 84-86.
50 Wilhelm Harster aveva ricoperto lo stesso incarico in Olanda, dove nel dopoguerra venne processato e condannato per la sua attività in quel paese, in particolare per quanto riguardava la deportazione degli ebrei. Fu anche un alto funzionario ministeriale bavarese fino agli anni Sessanta. C. Gentile, I servizi segreti tedeschi in Italia 1943-1945, p. 468.
51 TNA, WO 204/12293, History of German intelligence organization in Italy 1943-1945, Appunti sull'organizzazione informativa tedesca in Italia, s.d., p. 24. Per quanto riguarda il ruolo di Dollmann in Italia, secondo Gentile, tuttavia, egli non fu altro che un «esperto di pubbliche relazioni delle SS in Italia», dove era presente già dal 1937. Vedi C. Gentile, I servizi segreti tedeschi in Italia 1943-1945, p. 465.
52 TNA, WO 204/12293, History of German intelligence organization in Italy 1943-1945, Appunti sull'organizzazione informativa tedesca in Italia, s.d., p. 25. Si tratta del noto Karl Hass, tra i responsabili, assieme a Kappler ed Erich Priebke dell'eccidio delle Fosse Ardeatine.
53 Scarne notizie sull'operato del servizio 6x si possono trovare in G. Leto, Polizia segreta in Italia, Roma, Vito Bianco editore, 1961 p. 42, cit. in R. Canosa, I servizi segreti del Duce. I persecutori e le vittime, Milano, Mondadori, 2000, p. 415; ma anche Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito, Servizio Informazioni Militare (d'ora in avanti AUSSME, SIM), b. 186, f. 1-1-7 Organizzazione e attività del SID, sottof. Documenti riguardanti il SID, lettera di Vittorio Foschini a Benito Mussolini, 24 marzo 1943. Foschini venne però molto presto sostituito (gennaio 1944) dal colonnello dei Carabinieri Candeloro De Leo e addirittura internato dai tedeschi. Vedi E. Pala, Il Servizio Informazioni Difesa della Repubblica sociale italiana. Il caso del nucleo di controspionaggio di Brescia, in Annale dell'Archivio della Resistenza bresciana e dell'età contemporanea, n.5, 2009, p. 162.
54 AUSSME, SIM, b. 68, fasc. 1-1-7 Organizzazione e attività del SID, Servizio informazioni difesa, s.d., p.1. In realtà esisteva una sezione Alfa addetta allo spionaggio ma come si evince dallo stesso documento la sua attività al di fuori dalla Repubblica è sempre stata impedita dai tedeschi. Vedi ivi, p. 4.
55 AUSSME, SIM, b. 150, f. 1-18-85 Relazione annuale sull'attività di C.S., Relazione sull'attività svolta dai Centri e Sezioni C.S. nell'anno 1944, 17 dicembre 1944, p. 3.
56 Ibidem.
57 Ivi, p. 2, ma anche TNA WO 204/12987 German intelligence service vol.1, Enemy intelligence service in Italy, 15 aprile 1944, pp. 3-4.
58 La Guardia Nazionale Repubblicana, erede nella RSI della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, era nata come corpo di polizia militare che accorpava ex Carabinieri, uomini della Miliza, ufficiali di Polizia e membri della Polizia Africa Italiana (PAI). La banda Koch era invece uno corpo speciale di Polizia con a capo Pietro Koch incaricata di dare la caccia ai partigiani sotto la protezione di Kappler. Per approfondire vedi L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, pp. 30-46; M. Griner, La «Banda Koch».
59 L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, p. 61.
60 Ivi, p. 60.
66 A. Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell'odio e della violenza, Milano, Mondadori, 1999, pp. 176-181.
67 TNA, WO 204/12450 X Flotilla MAS and S. Marco regiment vol. 1, Abwehr Abt II. Interest in Italian special formations, 1 giugno 1944, p. 1.
68 AUSSME, SIM, b. 27, f. 1-7-40 Lancio nelle campagne di Cabras a mezzo paracadute di presunti agenti nemici, Appunto del 27 luglio 1944, prot. n. 290/1944.
69 ACS, Allied Control Commission (d'ora in avanti ACC), Legal, f. 443 Case of Usai Luciano & others (enemy agents, Sardinia), Report ''Case of Usai Luciano and others'', p. 1-4.
70 AUSSME, SIM, b. 334, fasc. 1-1-26 Studio sull'organizzazione del S.I. tedesco e repubblicano in Italia, Cenni riepilogativi sull'organizzazione informativa nemica, s.d. [gennaio 1945], p. 5.
71 Ibidem.
72 Ivi, p. 6.
73 Ivi, p. 6-7.
74 NARA, rg 226, e. 174, b. 93, f. 753 IV corps, Supplementary report on detailed interrogation of enemy agent - Pisanò Giorgio, p. 9.
75 Ivi, p. 1.
76 Ibidem.
77 Ivi, p. 2-4.
78 Ivi, p. 6. Pisanò in seguito riuscì a scappare per essere poi riarrestato dagli alleati nel 1945.
79 Questa versione verrà sostenuta anche nelle sue opere autobiografiche. Vedi in particolare G. Pisanò, Io, fascista 1945-1946. La testimonianza di un superstite, Milano, Il Saggiatore, 2002, pp. 102-122.
Nicola Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, anno accademico 2016-2017 
 
Il punto cronologico di partenza di questa ricerca si situa però nella fase immediatamente precedente la caduta del fascismo, quando Mussolini, ritenendo ormai prossima l’invasione delle regioni meridionali da parte delle truppe Alleate, decise la costituzione di una formazione paramilitare che avrebbe dovuto costituire l’ultimo baluardo del regime. Questa organizzazione fu chiamata, significativamente, “Guardia ai Labari” e a dirigerla - su indicazione di Carlo Scorza - fu chiamato il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, personaggio complesso e dalla personalità poliedrica. Il principe, che si trovava in Calabria, fu convocato in gran fretta a Roma, dove però arrivò dopo che il Gran Consiglio aveva approvato l’ordine del giorno Grandi e soprattutto dopo che il Re aveva sostituito Mussolini con Badoglio alla presidenza del Consiglio dei ministri. Pignatelli, tuttavia, ottemperò ugualmente al suo compito e, dopo la nascita della Repubblica sociale italiana, mise rapidamente in piedi una milizia armata e una rete informativa in diverse province meridionali.
In Calabria l’organizzazione, che avrebbe dovuto agire in vista di uno sfondamento delle forze Alleate per attuare un’azione sabotatrice di retroguardia, fu particolarmente sviluppata; la scoperta della sua attività da parte delle autorità di pubblica sicurezza, diede luogo al cosiddetto processo degli “ottantotto” (così chiamato dal numero degli imputati), che portò alla sbarra molti imputati giovanissimi e alcuni personaggi eccellenti e che si concluse con una sentenza di condanna solo per pochissimi accusati, puniti comunque con pene non particolarmente severe.
Anche in Sicilia l’azione neofascista si manifestò subito dopo lo sbarco degli angloamericani, quando si costituirono organismi clandestini a Palermo, Trapani e Catania. Inoltre, dal dicembre 1944 al gennaio 1945, in diverse zone dell’isola si registrarono manifestazioni tese ad evitare l’arruolamento dei giovani nell’esercito regio impegnato nella liberazione dell’Italia continentale, che in alcuni casi si tradussero in vere e proprie sommosse e che sono passati alla storia come i moti dei “non si parte”, sfociati, nel gennaio 1945, in un’azione insurrezionale culminata nella nascita dell’effimera “Repubblica di Comiso” <1.
Nell’altra isola, la Sardegna, si verificarono numerose dimostrazioni contro il governo che portarono all’arresto di diversi giovani accusati di fare parte delle organizzazione clandestine sarde e siciliane, mentre a Bari nasceva il primo giornale neofascista, “Il Manifesto”, diretto da Pietro Marengo.
Movimenti neofascisti di varia pericolosità operarono anche a Roma dopo l’arrivo degli Alleati, venendo coadiuvati dalle unità dei servizi segreti della Repubblica Sociale Italiana <2 inviate al Sud per contribuire a sferrare l’attacco alle spalle al nemico.
[NOTE]
1 Sebbene il movimento dei “non si parte” e la “Repubblica di Comiso” non possano ascriversi tra le responsabilità esclusive dei “fascisti”, è tuttavia certo che il clandestinismo fascista, oltre ad esservi direttamente coinvolto, ebbe ogni interesse a sostenere queste esperienze che, evidentemente, miravano ad indebolire l’autorità del nuovo governo italiano.
2 D’ora in poi RSI.

Domenico Sorrenti, Il neofascismo nell'Italia meridionale tra eversione e legalità, Tesi di dottorato, Università della Calabria, 2017

mercoledì 27 aprile 2022

Umberto Eco coniando il termine paleotelevisione voleva sottolineare la forte impronta didattica che ha connotato i primi venti anni della televisione pubblica


Da un punto di vista tecnologico, la televisione è un'applicazione delle telecomunicazioni implementata attraverso l'uso del dispositivo elettronico televisore.
Il termine "televisione" venne stabilito il 10 marzo 1947 durante la conferenza mondiale delle radiocomunicazioni di Atlantic City dai delegati di 60 nazioni che stabilirono di adottare come abbreviazione la sigla "TV".
Per comprendere come funziona l’attuale sistema televisivo, occorre conoscerne la storia. Abbiamo precedentemente parlato, non a caso, della storia della radio e del cinema, perché da entrambi questi mezzi di comunicazione la tv ha preso le movenze. Il rapporto con questi media ha dato forma alla tv come la conosciamo oggi e continua ad influire tuttora.
La tv eredita dalla radio la possibilità di entrare nelle case di un sempre maggior numero di italiani a partire dagli anni ’60, di trasmettere in diretta, e l’appartenenza ai sistemi dello stato (almeno nel caso della tv pubblica).
Sempre dalla radio, la tv eredita il palinsesto su cui declinerà anche visivamente i generi in essa precedentemente diffusi: i telegiornali derivano dai radiogiornali, i festival della canzone traslocano sui palchi televisivi e i radio sceneggiati diventano veri e propri antenati delle soap opera.
Se dalla radio la tv ha rubato la programmazione, col cinema condivide il linguaggio espressivo, cioè il mix audiovisivo.
Possiamo quindi vedere la tv come l'incontro della riproduzione di contenuti audio in diretta e la riproduzione di contenuti audiovisivi in differita.
La televisione nasce all’interno del sistema pre-esistente della radio (dal punto di vista aziendale, di produzione e distribuzione), in un contesto storico in cui l’offerta di mezzi di comunicazione di massa stava diventando sempre più tele-comunicativa.
Il suo inizio può essere fatto risalire al 25 marzo 1925, quando l'ingegnere scozzese John Logie Baird ne diede dimostrazione nel centro commerciale Selfridges di Londra. All’epoca le immagini in movimento erano composte da due sole tonalità di grigio. Nel 1927 Baird trasmise la televisione da Londra a Glasgow (700 km di distanza) attraverso una normale linea telefonica in cavo. Nel 1928 realizzò la prima trasmissione televisiva transoceanica, da Londra a New York.
Sempre nello stesso anno riuscì a trasmettere le prime immagini a colori.
Considerata concettualmente un'evoluzione della radio e del cinema, la televisione fu parallelamente sviluppata da diversi gruppi di lavoro in diversi paesi e fu resa disponibile al pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Mentre per l'audio si poteva sfruttare la tecnologia della radio, per la ripresa, la trasmissione e la ricezione delle immagini dovevano studiarsi nuove forme tecniche da affiancare. Partendo dal concetto della persistenza delle immagini sulla retina umana, il cui principale utilizzo comunicativo era il cinema, si pensò di rendere su uno schermo idoneo (televisore) un'immagine elettronica scandita altrove da una telecamera e trasmessa via radio.
Vediamone il funzionamento.
[...] Sino ad alcuni anni fa, cinema e televisione erano due media ben distinti: se il primo fondava la sua forza sulla qualità della pellicola e sulla visione dei film in apposite sale ove la proiezione avveniva al buio (favorendo l'attenzione degli spettatori); il secondo risultava imbattibile per la capacità di rappresentare l'evento contestualmente al suo verificarsi.
Con i sistemi digitali di registrazione-riproduzione diffusi in entrambi i mondi, che hanno livellato la qualità delle immagini e i costi di produzione, la distanza dal punto di vista tecnologico e produttivo che li separava è venuta meno.
La televisione si è accostata al cinema, da un punto di vista dei contenuti, quando ha iniziato a portare nelle case i film su videocassetta, consentendo per la prima volta un tipo di visione on demand. Tra l’approdo dell’home video e la fruizione dei film su tablet dei giorni nostri, c’è però una lunga strada. Vediamo dunque in Italia quale evoluzione ha avuto la televisione nei suoi primi ‘60 anni di storia.
[...] Sulla linea temporale della storia della televisione vengono fissate da diversi studiosi varie “ere” (noi utilizziamo quelle fissate da Umberto Eco e Luca Tommasini insieme) che sono: “paleotelevisione”, “neotelevisione”, “TV verità”, “TV personale”, “televisione 3.0”.
Si copre, così, un arco temporale che parte dalla metà degli anni Cinquanta, precisamente dal 1954, e giunge fino ai giorni nostri.
In Italia i primi studi e le prime prove sperimentali di trasmissioni televisive furono effettuate a Torino a partire dal 1934, città che già ospitava il Centro di Direzione dell'EIAR <3.
Le prime trasmissioni della programmazione regolare furono le interviste con l'ingegner Filiberto Guala, amministratore delegato, che definì il nuovo mezzo come «il focolare del nostro tempo»; lo spettacolo intitolato "L'orchestra delle 15", presentato da Febo Conti; la rubrica musicale "Settenote" e "La domenica sportiva".
Altri contenuti erano le pellicole cinematografiche, che già dai primi anni la tv italiana inizia a trasmettere sotto acquisto dei diritti, e gli appuntamenti di teleteatro.
La trasmissione di spettacoli teatrali avveniva secondo due differenti modalità: attraverso la messa in scena di un testo in studio con logiche comunicative prettamente televisive, oppure la ripresa di spettacoli allestiti in teatro. Il repertorio spaziava dai classici greci al Rinascimento italiano, dalle tragedie di Shakespeare ai drammi del secondo '800.
Il 3 gennaio 1954, giorno d'esordio della programmazione regolare, i televisori accesi furono solamente ottantamila. Un mese dopo gli abbonati non superavano le ventimila unità e il prezzo del mezzo sfiorava le dodici mensilità di un reddito medio annuo (1954). Il segnale arrivò su tutto il territorio nazionale due anni dopo, il 31 dicembre 1956, e a quel momento gli abbonati erano ancora relativamente pochi - 360.000 - a causa del costo elevato degli apparecchi. Nonostante il numero limitato di abbonati, il pubblico televisivo è numerosissimo, coloro i quali non posseggono ancora il televisore affollano le case dei loro vicini più fortunati oppure i ritrovi pubblici: nel 1960 il 21% degli spettatori televisivi guarda la TV in casa di amici, il 33% nei locali pubblici.
La fruizione televisiva è inizialmente collettiva.
Il semiologo Umberto Eco coniando il termine paleotelevisione voleva sottolineare la forte impronta didattica che ha connotato i primi venti anni della televisione pubblica.
L'autoregolamentazione dell'epoca prevedeva, tra i suoi principi fondamentali, la non accettazione di scene turbanti la pace sociale ed incitanti all'odio di classe, il rispetto dei valori familiari e dei principi cattolici, difatti era previsto anche il pieno rispetto della "santità matrimoniale" e il rifiuto delle scene erotiche. Per garantire l'osservanza di queste norme, venne istituito, dal 1947 il "Comitato per la determinazione delle direttive di massima culturali".
L’obiettivo della Rai era alle origini quello educativo e informativo, addirittura l’alfabetizzazione era un compito che, a livello nazionale, sembrava incombere in particolar modo sulle spalle della nascente tv italiana.
Un programma rappresentativo della prima era è sicuramente il programma di Alberto Manzi "Non è mai troppo tardi", nel quale un gruppetto di anziani analfabeti impararono a leggere e scrivere. Vivian Lamarque lo descrive così in un articolo apparso sul Corriere della Sera: «Nella trasmissione di Alberto Manzi degli Anni Sessanta tutto era speciale, prima di tutto lui, il maestro, affettuoso senza retorica, senza paternalismi, chiaro nelle spiegazioni, poi loro, gli allievi, vecchine col fazzoletto a triangolo in testa, vecchini timidi ma attentissimi. Alcune sue lezioni si possono vedere in Rete: una scolaretta di 82 anni dopo due mesi di corso già legge ad alta voce "nella botte c'è buon vino, nella notte c'è un lumino" e - udite udite governanti - "non c'è spiaggia senza mare, non c'è dire senza fare". In trasmissione a volte c'è un ospite (già allora) per far sorridere gli scolari, ecco Carlo Campanini che si complimenta con loro, li incoraggia e loro si coprono il volto con le mani, sorridono emozionati».
In tale periodo, la televisione di Stato, i cui costi più rilevanti erano quelli relativi allo sviluppo della rete di ripetitori, mirava a svolgere la funzione di servizio pubblico e sociale di divulgazione culturale, instaurando un rapporto pedagogico con il telespettatore, vi era «la necessità di “educare” alla modernità, di elevare e di unificare le popolazioni col nuovo mezzo» <4.
Il palinsesto era strutturato su una rigida organizzazione settimanale, basata sulla suddivisione dei generi per serata, come ad esempio il varietà al sabato sera, tradizione che si è prolungata sinora. Nasce la tv per i ragazzi, nella fascia di programmazione pomeridiana, che riconosce nei giovani un target diverso, iniziando così a distinguere le varie fasce di età, per cui elaborare regole e temi diversi.
[NOTE]
3. Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, in seguito RAI, Radiotelevisione Italiana S.p.A.
4. Massimo Scaglioni, Fuori format, come (e perchè) l'anti-tv si fece tv, in Link 10 idee per la televisione. Decode or die, l'infografica applicata alla tv, pag 32
Valentina Beraldo - Jessica Maullu, I contenuti televisivi nello scenario transmediale: format culturali attraverso la tv e il web, Tesi di laurea, Politecnico di Milano, Anno accademico 2010/2011

sabato 23 aprile 2022

Desidero molto allargare la collaborazione della rivista Comunità


Durante il suo soggiorno a Reading, Meneghello collabora alla rivista “Comunità” come corrispondente dall’estero.
Il suo contributo alla rivista inizia nel dicembre 1952. In accordo con la linea editoriale del giornale, invia in redazione più di 100 scritti, articolati nel corso di nove anni (1952-1961).
[...] La proposta di scrivere per la rivista di Olivetti nasce dal suo amico e collega universitario Renzo Zorzi, direttore della rivista all’epoca. In una lettera del 27 ottobre del ’52, Zorzi scrive a Meneghello: «Desidero molto allargare la collaborazione della rivista, ed il tuo nome è tra i primi tra quanti vado cercando» <226.
I primi tre articoli (Ritratti di Fabiani. «…Entra Beatrice Webb», VI, 16, dicembre 1952; Ritratti di Fabiani. L’opera dei Webb, VII, 17, febbraio 1953; Ritratti Fabiani. I primi «Saggi», VII, 18, aprile 1953), hanno la firma di Luigi Meneghello, mentre il quarto (Hitler e il destino dell’Europa, VII, 19 giugno 1953), riporta in calce la firma di Andrea Lampugnani, uno degli pseudonimi cui ricorre l’autore, ma che sulla rivista figura solo in questo caso: "Quando mi sono trovato in Inghilterra, negli anni dopo il 1947, mi è capitato di scrivere - inevitabilmente, perché insegnavo in un’università - della roba di tipo accademico, saggi, recensioni, ecc., qualche volta in inglese e qualche volta in italiano (tra parentesi, ho pubblicato solo una frazione minima di questi scritti e scarabocchiamenti, e per lo più sotto altro nome) <227.
A proposito della scelta di questo pseudonimo (Andrea Lampugnani) è l’autore stesso a commentare: «ridicola scelta; è il nome dell’autore, con Carlo Visconti, della congiura del 1476 contro Galeazzo Maria Visconti <228».
Tutti gli altri articoli riportano la firma di Ugo Varnai (con riferimento ad Eugenio Varnai, marito di Olga, la sorella della moglie Katia, deportati a Malo nel 1941).
"Sono io biografo di mio fratello? Per ora si facciano soltanto due titoli: (a) Successori f.lli Meneghello; (b) I fratelli Meneghello, di Ugo Varnai. <229 Circa la faccenda degli pseudonimi, la questione è importante per me, per un complesso di motivi accademici che sarebbe lungo spiegare. Se quello che t’ho proposto per lo Hitler (il primo che m’è venuto in mente) non ti va, ne troveremo di migliori" <230.
Dopo la pubblicazione dei primi articoli sui Saggi Fabiani, Meneghello scrive all’amico proponendo nuove correnti da seguire per la sua collaborazione alla rivista: "Insieme con la documentazione attuale, perché non puntare sulla divulgazione storica? Storia del socialismo, dei sindacati, dei “servizi sociali”, delle “utopie”, dei partiti politici, ecc., ecc.; scritta con scrupolo e chiarezza, senza pretese di contributi specializzati ma anche senza concessioni alle debolezze di una parte di pubblico. Gioverebbe forse riattaccarsi proprio ai vari argomenti storpiati di volta in volta dai periodici a rotocalco. Bandirei i “contributi scientifici” che fanno camminare gli studi ma non le riviste. Punterei su un’opera culturale più modesta ma più vasta; cercando di informare, senza né scoprire ne imbonire. Occorrerebbe rivolgersi alla persona di media cultura che sa poco di storia italiana ed europea e d’altra parte si trova isolata tra le riviste specializzate e i periodici a sensazione" <231.
Argomento ricorrente nei contributi fra il 1953 e il 1954 è il nazismo. Meneghello motiva così al suo amico la scelta dell’argomento: "Carissimo, eccoti un articolo su Hitler basato su una recensione del libro di cui ti parlai un mese fa a Milano […]. E’ un po’ lungo, ma mi sono reso conto che l’argomento non è molto conosciuto dal pubblico medio italiano, e penso che tu sia d’accordo che è importante rinfrescare la memoria alla gente". <232
Ancora, tra il dicembre del 1953 e l’aprile del 1954 esce, in tre puntate, uno scritto documentato sui campi di annientamento tedeschi e sullo sterminio degli ebrei. "Mi gioverò soprattutto di un esauriente volume appena uscito (G. Reitlinger, "The Final Solution" […] ). Sarebbe importantissimo render noto al nostro pubblico queste cose, di cui i nazionalisti nostrani vanno dicendo che mancano le prove!" <233
Meneghello decide inoltre di mettersi in contatto epistolare con Reitlinger, ma ne nasce un equivoco: "La stessa lunghezza dell’articolo - che a me pareva un eccezionale tributo all’importanza del libro - sembra avergli dato l’idea che un tale Ugo Varnai abbia voluto “pirateggiargli il libro”. […] la conclusione di tutto l’episodio è semplice: il recensore che si mette in contatto con gli autori cerca guai!" <234
Dall’aprile del 1955 i contributi di Meneghello iniziano ad apparire nella rivista sotto la sezione "Libri inglesi" e a tal proposito scrive a Zorzi chiedendogli delucidazioni sull’organizzazione della rubrica ideata in redazione e consigli su come strutturare gli scritti: "Vedo che hai adottato come occhiello 'Libri inglesi', e questo mi suggerisce qualche considerazione che già da tempo volevo sottoporti. Una rubrica fissa sui libri inglesi sarebbe veramente utile, e mi piacerebbe molto farla: naturalmente sarebbe molto più adatta ad una rivista mensile, dove avrebbe il carattere di un buon repertorio regolare di novità librarie inglesi di interesse storico, sociale, ecc. Le recensioni dovrebbero essere brevi (3-6 cartelle) ma sufficienti a orientare il lettore e - secondo la mia esperienza qui - ce ne potrebbero essere da due a quattro ogni mese. L’aspirazione sarebbe quella di dare un panorama ristretto, ma organico e a suo modo completo, delle opere o più lette o più discusse o più interessanti che escono via via in Inghilterra. E’ inteso che alcune opere che meritano un articolo a sé andrebbero trattate come abbiamo sempre fatto - o sotto un titolo speciale, o in una bibliografia politica o in altro modo […]. Accennavi a una corrispondenza fissa dall’Inghilterra - sempre per la rivista mensile: o anche qui intenderesti incominciare subito? Inoltre che tipo di corrispondenza avevi in mente? Se strettamente politica, pensavi a un sommario informativo imparziale una volta al mese, oppure a un commento vivamente personale? L’uno e l’altro sarebbero estremamente utili in Italia, per correggere errori e leggerezze nel reportage dei quotidiani, ma è ben difficile trovare la persona veramente adatta. Per quanto mi riguarda, non so davvero se (supponendo che avessi le necessarie capacità; si dovrebbe provare) potrei permettermi il lusso di dedicare a un lavoro del genere tutto il tempo che sono sicuro mi prenderebbe, per poterlo fare bene. Dovrei rinunciare a qualche altro impegno di lavoro, e fare di questo una specie di secondo impiego". <235
In seguito, per alcuni numeri nel 1956 (L’affare Dreyfus, n. 36; Maturità di Freud, n. 36; Ritratto di Bismarck, La diplomazia e la storia, «Discriminati» e leggi in Inghilterra, L’assimilazione degli Ebrei, n. 37; La «Storia vera» di Stanley Baldwin, «I Presume», n. 40; La Gestapo, Morte d’un poeta, Il miraggio del potere n. 41; Il Conte matto, Le memorie di Trauman, n. 42), scrive per la rubrica "Libri in Inghilterra" («perché è essenziale che io possa parlare di libri americani pubblicati o diffusi qui, e se occorre di traduzioni da altre lingue» <236).
Nel novembre dello stesso anno i suoi interventi figurano nuovamente sotto la dicitura "Libri in Inghilterra". Si tratta per lo più di recensioni a libri pubblicati in Inghilterra (The Genius and the Goddess, Brave New World Revisited rispettivamente scritti da Julian e Aldous Huxley, Lord of the Flies, Pincher Martin di Golding, per citarne alcuni), ma anche di saggi di stampo letterario, biografie (da Freud a Bismarck, da Livingstone a Trockij, da Baldwin a Monsignor Knox), memorialistica, “divagazioni autobiografiche” (Year of Decision. 1045, di Truman, Portraits from Memory, and Other Essay, di Russel), ancora saggi storici (sull’epoca vittoriana e previttoriana e il movimento delle suffragette). Si spazia da tematiche come la pena di morte, soffermandosi poi sull’Unione Sovietica, sulle SS, sulla società australiana e i paesi arretrati, sulla corsa all’ascesa al potere della Cina (è un tema caro all’autore, che si sofferma su quest’articolo per più di venti pagine, il più corposo tra i suoi scritti pubblicati su “Comunità”), sulla “società dell’opulenza” o riflessioni sull’attualità (la campagna antinucleare in Inghilterra, la polemica contro la pena di morte e l’impiccagione, la questione dei rapporti tra “scienza e governo”) e la divulgazione scientifica (sull’evoluzione del cervello e le malattie psicosomatiche) <237.
Tanti sono pure i personaggi presi in esame, di più spiccato rilievo o meno, e in diversi casi i nomi di alcuni si ripropongono in più articoli (Huxley, Webb, Hiltler, Attle, Russel, Gunther, Shaw).
Meneghello, nei carteggi reperiti, appare estremamente interessato e dedito alla collaborazione alla rivista; a questo proposito è rilevante lo studio della Caputo inserito nei Meridiani Mondadori: "Il carteggio editoriale testimonia anche la particolare attenzione di Meneghello ad accompagnare gli scritti con fotografie: avanza proposte, si attiva per recuperarle personalmente, a conferma di quella sensibilità per l’immagine, per l’elemento visivo capace di veicolare concetti, derivata dal metodo proprio degli studiosi del Warburg Institute, che già lo aveva guidato nel progettare una Collezione Fotografica presso l’Università". <238
Più volte nelle sue corrispondenze epistolari l’autore fa riferimento alle letture svolte durante il suo soggiorno inglese. Alcune di queste potrebbero essere tra quelle recensite sulla rivista.
Ne "Il dispatrio" si legge: "Uno dei libri più interessanti che ho incontrato nel primo anno in Inghilterra, nell’ambito delle mie letture sull’Ottocento fu 'Il Capitale' di Marx, in traduzione inglese. […] Negli anni successivi ho studiato poi con qualche puntiglio le cronache della rivoluzione bolscevica e dell’avvento del regime sovietico, mese per mese, giorno per giorno, nei libri di E. H. Carr <239: e in seguito (con le biografie di Stalin e di Trotzky) la storia agghiacciante delle purghe degli anni Trenta. E mentre stavo lassù si vedeva cosa c’era in Marx, e com’era andata in Unione Sovietica, loro, in Italia, disputavano di… Non posso indurmi a rievocarlo… Shame!" <240
[NOTE]
226 Le lettere di e a R. Zorzi sono conservate presso l’Archivio Storico Olivetti di Ivrea.
227 L. Meneghello, Il tremaio, in Opere scelte, a c. di F. Caputo, Mondadori, Milano, 2006, p. 1073.
228 Giovanni Andrea Lampugnani, fu un nobile milanese (sec. 15º) che organizzò con Carlo Visconti e Girolamo Olgiati la congiura che soppresse (1476) Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. Lampugnani fu ucciso a sua volta da un servo del duca.
229 L. Meneghello, Le Carte, vol. 2, Rizzoli, Milano 2000, p. 88.
230 Lettera di L. Meneghello a R. Zorzi del 27 maggio 1953. (Cfr, L. Meneghello, Opere scelte, a c. di F. Caputo, Cronologia, p. CXXX).
231 Lettera del 28 dicembre 1952. (Ivi, pp. CXXX-CXXXI)
232 Lettera del 1 maggio 1953. (Cfr. il capitolo su Promemoria).
233 Lettera del 27 maggio del 1953.(Cfr, L. Meneghello, Opere Scelte, a c. di F. Caputo, Mondadori, Milano, 2006, Cronologia, p. CXXX).
234 Lettera del 12 febbraio 1954. (Cfr. ivi, p. CXXXI).
235 Lettera del 23 aprile 1955. (Cfr, id., Opere scelte, a c. di F. Caputo, Mondadori, Milano, 2006, Cronologia, pp. CXXXVI-CXXXVII)
236 Lettera del 7 gennaio 1956. (Cfr. ibidem).
237 Cfr. id., Opere Scelte, a c. di F. Caputo, Mondadori, Milano, 2006, p. CXXXVII.
238 Ivi, p. CXXXI.
239 Su E. H. Carr, Meneghello si sofferma anche in Russificarsi o perire [rec. a E.H. Carr, Socialism in One Country. 1924-1926, I, Macmillan, Londra, 1959], in “Comunità”, XIII, 71, luglio 1959, pp. 111-113.
240 L. Meneghello, Il dispatrio, Rizzoli, Milano 1993, p. 99.
Maria Parisi, Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, 2014

mercoledì 20 aprile 2022

Il campo di Fossoli via via per prigionieri di guerra, deportati ebrei e politici, orfani di Nomadelfia, profughi giuliano-dalmati

Fig. 50 - Il campo vecchio di Fossoli in costruzione, giugno 1942 (Archivio Storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Fig. 51 - Il campo nuovo attendato, campo per prigionieri di guerra, 1943 (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Situato in una piccola località nei dintorni di Carpi (MO), il campo di Fossoli <1 fu in funzione a partire da luglio 1942 come campo per prigionieri di guerra (PG n. 73) <2, fino alla notte tra l'8 e il 9 settembre 1943, quando le truppe tedesche lo circondarono e ne iniziarono lo sgombero deportando i detenuti in Germania (fig. 50, fig. 51). A seguito dell'ordine di polizia n. 5 del 30 novembre 1943, la persecuzione degli ebrei in Italia entrò in una nuova fase di radicalizzazione nell’ambito della Repubblica sociale italiana e dell’occupazione tedesca, prevedendo l’arresto e l’invio dei prigionieri ebrei in un “campo di concentramento provinciale, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati” <3. Questi luoghi avrebbero costituito la prima tappa verso la “Soluzione finale”, che si sarebbe compiuta per mano tedesca in Europa orientale.
Il campo di Fossoli venne scelto probabilmente in virtù della sua posizione isolata e facilmente controllabile, nonché per la sua vicinanza con la linea ferroviaria che congiungeva l'Italia al nord Europa. Oltre agli ebrei internati tra dicembre 1943 e luglio 1944, vi furono anche altre categorie di detenuti, tra cui “prigionieri di guerra sotto l'amministrazione italiana (luglio 1942-settembre 1943), civili arrestati perché accusati di attività sovversiva (fine febbraio 1944-21 luglio 1944), internati civili trasferiti da altri campi di internamento smantellati (2 marzo 1944-giugno 1944), rastrellati, ostaggi e persone sospette al regime” <4.
Gli episodi di violenza sui prigionieri furono rari, ma egualmente impressionanti, come l’uccisione di Pacifico Di Castro, prigioniero ebreo, il 1 maggio 1944 per mano dell’ufficiale Otto Rieckhoff, infastidito dal fatto che il ragazzo non avesse capito l’ordine impartito <5. Seguì l’assassinio di Leopoldo Gasparotto, tenente d’artiglieria alpina ed esponente di spicco del Partito d’Azione, che fu prelevato dal campo e ucciso il 22 giugno 1944 da un commando tedesco proveniente dall’ufficio IVB4 di Verona. Poche settimane dopo, si verificò l’episodio di sangue più grave avvenuto a Fossoli: il 12 luglio 1944 vennero fucilati 67 detenuti al vicino poligono di tiro di Cibeno <6. Nel luogo della strage è stata apposta una targa commemorativa nel 1946, e i nomi delle vittime dell’eccidio compaiono oggi nella Sala dei Nomi del Museo Monumento al Deportato Politico e Razziale di Carpi, inaugurato nel 1973 <7. Nonostante ciò, la memoria dell’eccidio è stata a lungo caratterizzata da omissioni e narrazioni particolarmente retoriche; soltanto in tempi recenti si è arrivati ad esempio a conoscere l’identità delle vittime, chiamate a lungo indistintamente “Martiri” <8.
Nonostante questi episodi estremi, la rigida disciplina a cui i detenuti venivano sottoposti non era paragonabile ai metodi brutali che vigevano nei campi di concentramento del nord Europa. Stando ai ricordi di Ludovico Barbiano di Belgiojoso, internato a Fossoli nell’aprile del 1944, la vita nel campo di Fossoli si svolgeva secondo ritmi regolari e i prigionieri cui erano attribuiti incarichi precisi lavoravano aiutati dalla manovalanza, che veniva scelta a turno tra i detenuti. Le mansioni riguardavano il lavoro d’ufficio, la pulizia dei locali, la manutenzione delle baracche e delle strade, le nuove costruzioni, i lavoro in laboratorio e in officina, la cucina, l’orto e i campi <9.
Tuttavia, dopo qualche mese di detenzione a Fossoli, quello che a molti era parso all’inizio un soggiorno migliore rispetto a quello nel carcere San Vittore, il campo svelava la sua vera atmosfera: "Comincio già a comprendere quali sono le vere torture di un campo di concentramento come questo. La prima è quella di non poter essere mai soli, dico, mai, neanche quando si va a dormire, neanche se si è in certi posti... qui si è sempre di pubblico dominio. La seconda tortura è meno individuabile della prima, ma è più grave, anzi è senza dubbio la peggiore. È uno stato d’animo sofferente, frutto attossicato di un complesso di disagi interiori che si sviluppano ogni giorno di più in qualunque internato il quale abbia un minimo di sensibilità. Forse questa tortura, tutta interiore e complessa, si potrebbe definire in senso largo con una parola che affiora molto spesso sulle labbra di molti: noia". <10
Dietro la noia, il terrore e l’angoscia restavano, non solo rispetto al timore di violenze fisiche, ma soprattutto all’ignota destinazione verso la quale partivano i convogli carichi di persone. Le deportazioni, dirette dall’ufficio IVB4 di Verona sotto l'autorità del SS-Sturmbannführer Friedrich Bosshammer (sebbene il campo fosse gestito da autorità e militi italiani fino al marzo 1944), iniziarono infatti il 26 gennaio 1944 e si protrassero fino al 1 agosto 1944, periodo durante il quale vennero trasferiti con 12 convogli - in collaborazione tra tedeschi e italiani - 2.801 ebrei verso i lager di Auschwitz, Bergen Belsen, Ravensbrück e Buchenwald.
Primo Levi in una celebre pagina di "Se questo è un uomo" ricorda l'inizio del viaggio del convoglio che il 22 febbraio 1944 lasciava Fossoli in direzione di Auschwitz: "L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia". <11
A seguito dell'avanzata degli alleati, lo sgombero del campo da parte tedesca iniziò il 21 luglio e si concluse il 5 agosto 1944, con il trasferimento dei prigionieri nel campo di polizia e di transito di Bolzano-Gries <12.
Ma la lunga storia del campo di Fossoli non finì con l'abbandono da parte delle autorità tedesche: come ricorda Costantino di Sante, “la struttura rimase sotto la giurisdizione del comando della 5° Armata: parte di essa fu utilizzata dagli Alleati per recludervi prigionieri tedeschi e collaborazionisti della RSI, catturati durante l'avanzata verso nord” <13.
In seguito, il campo divenne centro di raccolta per profughi stranieri e “indesiderabili” tra il 1945 e il 1947 <14 (fig. 52), quindi sede della comunità di Nomadelfia e successivamente Villaggio San Marco per l'accoglienza dei profughi giuliano-dalmati.
Fu proprio con la nascita di Nomadelfia, “la città dove la fraternità è legge”, una comunità di ispirazione cattolica religiosa sorta con lo scopo di dare accoglienza agli orfani di guerra, che l’ex campo di concentramento iniziò il suo percorso di rinascita. Un architetto, l’ex soldato tedesco Sigmund Erlinger, sposato ad una donna italiana e rimasto nei pressi di Carpi dopo il conflitto, ottenne l’incarico di intervenire sulle baracche per trasformarle in appartamenti che avrebbero accolto famiglie intere, orfani e mamme “per vocazione” <15, tentando di modificare il volto tetro del campo in quello sereno e prospero di una cittadina <16 (fig. 53). L’arrivo a Fossoli di Don Zeno Saltini e degli orfani dell’Opera dei Piccoli Apostoli (OPA) <17, ancor prima dell’autorizzazione ufficiale, rappresentò un nuovo inizio per l'ex campo di transito e concentramento: nelle fotografie dell’epoca, conservate presso l’Archivio Storico di Nomadelfia, situato oggi nell’omonima località nelle vicinanze di Grosseto, si vedono bambini di tutte le età intenti ad abbattere il muro di cinta che circondava il campo alla fine degli anni Quaranta, a ritinteggiare le pareti, a “trasformare il luogo dell’odio nel luogo della fraternità” <18 (fig. 54).
Il progetto naufragò tuttavia nel 1952, a causa dei debiti contratti dalla comunità e del venir meno del sostegno da parte delle autorità ecclesiastiche e statali, poco in armonia con l’esperimento sociale utopico e autonomista di Don Zeno. Gran parte degli orfani vennero allora destinati a collegi e orfanotrofi e il resto della comunità si ritirò nella tenuta dell’OPA nei pressi di Grosseto, dove venne fondata e ha sede ancora oggi una nuova Nomadelfia <19.
Ma il campo non restò inutilizzato per molto tempo: da giugno 1954 esso divenne infatti il “Villaggio San Marco”, un centro di accoglienza per i profughi giuliano-dalmati che già dal ’47 arrivarono copiosamente a Carpi (fig. 55) <20.
Il campo venne così riadattato per accogliere le famiglie in maggioranza provenienti dalla zona B dell’Istria, ad esempio furono risistemate le strade interne, così come l’interno delle baracche, suddivise in appartamenti, e vi furono collocate delle stufe a legna per il riscaldamento. <21 La chiesetta del campo, costruita all’epoca in cui le baracche erano abitate dalla comunità di Nomadelfia, fu elevata a rango di parrocchia, e nel settembre 1955 ci fu inoltre l’apertura di una scuola elementare <22. Poiché i costi del Villaggio divennero presto insostenibili, la stessa Opera per l’assistenza ai profughi giuliano-dalmati incentivò le famiglie a traslocare nei nuovi appartamenti costruiti beneficiando dei finanziamenti statali <23. Le ultime famiglie abbandonarono il Villaggio San Marco il 7 marzo 1970: il trasloco non era ancora finito quando le case dei profughi, una volta baracche dei detenuti del campo di Fossoli, furono depredate dei pochi oggetti rimasti, tra cui porte, finestre, ma anche gabinetti e stufe <24.
 

Fig. 52 - Un momento della vita nel Centro di raccolta per profughi stranieri e indesiderabili, 1945 (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Fig. 53 - Il progetto di trasformazione dell’ex campo di Fossoli in Nomadelfia (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

[NOTE]
1 Cfr. E. Collotti, Introduzione a G. Leoni (a cura di), Trentacinque progetti per Fossoli, Electa, Milano, 1990, p. 15.
2 L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento, cit., p. 35. Per una visione d'insieme della storia del campo, si veda A. M. Ori, Il campo di Fossoli. Da campo di prigionia e deportazione a luogo di memoria 1942-2004, Edizioni APM, Carpi, 2004.
3 L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento, cit., p. 28. La procedura veniva applicata anche nei confronti dei cosiddetti ebrei “discriminati”, cioè quelli che erano parzialmente esentati dalle misure persecutorie per meriti patriottici, ecc.
4 Cfr. ivi, p. 35. Si veda anche G. D’Amico, Sulla strada per il Reich, Fossoli, marzo-luglio 1944, Mursia, Milano, 2015, pp. 43-71.
5 L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento, cit., p. 88-89.
6 Sulla strage del 12 luglio 1944 si veda P. Paoletti, La strage di Fossoli. 12 luglio 1944, Mursia, Milano, 2004 e A. M. Ori, C. Bianchi Iacono, M. Montanari, Uomini nomi memoria. Fossoli 12 luglio 1944, Fondazione ex Campo Fossoli, Carpi, 2004.
7 A. M. Ori, C. Bianchi Iacono, M. Montanari, Uomini nomi memoria, cit., p. 151. Sulla stampa locale, L’inaugurazione di una lapide in ricordo dei Caduti, “Nuova Gazzetta di Modena”, 13 luglio 1946.
8 P. Paoletti, La strage, cit.,p. 6.
9 Cfr. L. B. di Belgiojoso, Notte, nebbia. Racconto di Gusen, Guanda, Parma, 1996, p. 13-14.
10 Cfr. P. Liggeri, Triangolo Rosso: dalle carceri di San Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Dachau marzo 1944-maggio 1945, La Casa, Milano, 1946, p. 93.
11 Cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, p. 7.
12 L. Picciotto, L'alba ci colse, cit., p. 62-63.
13 Cfr. C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il Campo di Fossoli e i “centri raccolta profughi” in Italia (1945-1970), Ombre Corte, Verona, 2011, p. 20.
14 C. Di Sante (a cura di), Il campo per gli “indesiderabili”. Documenti e immagini del “Centro raccolta profughi stranieri” di Fossoli (1945-1947), EGA Editore, Torino, 2008; Id., Stranieri indesiderabili., cit.
15 Si trattava di giovani donne che si erano unite alla comunità di Don Zeno e si offrivano volontariamente di prestare le cure ai bambini.
16 E. Biondi, Una città quasi realizzata, in G. Leoni, (a cura di): Trentacinque progetti per Fossoli, cit., p. 64.
17 Zeno Saltini nasce a Carpi (MO) il 30 agosto del 1900 e muore il 15 gennaio 1981 a Nomadelfia (GR). A 14 anni abbandona la scuola ritenendola un insegnamento inutile per la vita e decide, dopo un breve periodo come soldato di leva nella caserma del III Telegrafisti di Firenze, di divenire sacerdote. Dal 1930 si dedica alle cure dei bambini abbandonati o in difficoltà, fondando durante la guerra l'Opera dei Piccoli Apostoli. Dal 1943-1945 Don Zeno, che aveva adottato posizioni apertamente antifasciste, si sposta a Sud per sfuggire alle persecuzioni: alcuni membri dell'OPA si uniscono alle fila partigiane. Dopo il soggiorno presso il campo di Fossoli tra il 1947 e il 1952, Don Zeno si sposta assieme alla comunità a Batignano, nei pressi di Grosseto, dove Nomadelfia ha tutt'ora sede (www.nomadelfia.it).
18 Cfr. R. Rinaldi, Storia di Don Zeno e Nomadelfia. Volume Secondo (1947-1962), Nomadelfia Edizioni, Roma, 2003, p. 15.
19 Ivi, p. 303.
20 M. L. Molinari, Villaggio San Marco. Via Remesina 32 Fossoli di Carpi, Ega Editore, Torino, 2006, p. 40.
21 Ivi, pp. 66-65.
22 Ivi, pp. 71-93.
23 Ivi, pp. 115 sg.
24 Ivi, p. 118.
 

Fig. 54 - Demolizione del muro di cinta a sud del campo, 1947 (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra


Fig. 55 - Il campo diviene Villaggio San Marco per l’accoglienza ai profughi giuliano-dalmati dal 1954 al 1970 (Archivio storico Comune di Carpi). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Chiara Becattini, Storia della memoria di quattro ex campi di transito e concentramento in Italia e in Francia. 1945-2012, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, 2017 

Fotografia aerea della città di Nomadelfia a lavori completati (1952) - Fonte: Andrea Luccaroni, Op. cit. infra

Dopo la fine della guerra, nel febbraio 1947, approfittando della graduale dismissione del “campo degli indesiderabili” di Fossoli, don Zeno chiese al Ministero dell’Interno l’autorizzazione a entrarvi, per trasformarlo nella nuova sede dell’Opera. <36
Il 19 maggio 1947, a fronte di vaghe promesse ricevute dal Ministero, il sacerdote e i ragazzi occuparono pacificamente, con l’appoggio informale del direttore, alcune baracche libere del campo, che era ancora parzialmente in attività. Il giornale di Nomadelfia avrebbe così descritto i primi istanti dell’occupazione: "finalmente ad una curva della strada, tra i pioppi canadesi e la polvere sollevata dai pesanti automezzi che procedevano lenti, apparvero prima le torrette e poi una lunga e lugubre fila di baracche protette da un triplice e fortificato recinto. Era la meta da conquistare: il campo di concentramento di Fossoli. Si era deciso di partire con il fermo proposito di non tornare più indietro: si era pensato di occupare la parte vuota del campo, che era guardato da uomini armati e protetto da muri e reticolati percorsi dall’alta tensione". <37
Con questo episodio si era dato inizio a un’esperienza di radicale trasformazione. Nelle intenzioni del sacerdote il campo costituiva qualcosa di più che un’opportunità di residenza stabile per i suoi ragazzi: doveva essere il luogo nel quale la comunità avrebbe messo alla prova una nuova idea di giustizia sociale. <38 La conversione delle ex strutture d’internamento rappresentava dunque un primo atto deliberato di rottura e implicava una cosciente volontà di interloquire con il passato tragico del campo, per trasformare quel luogo in un segno tangibile di rinascita: la tomba della morte si era spalancata, risorgeva la vita. Riapparivano le strade, i profili dolci e semplici di una terra modellata con amore dall’uomo: un orizzonte che per anni era stato cancellato, strappato violentemente agli occhi degli internati. <39
La trasformazione venne dunque accuratamente pianificata, progettata e documentata partendo da questi presupposti. Vi lavorò l’architetto Sigmund Erlinger, un ex soldato tedesco accolto nella comunità dopo la fine della guerra, che era già stato coinvolto da don Zeno nel progetto per l’intervento non realizzato di San Giacomo di Roncole. Sulle tavole del progetto, eseguite fra il giugno e l’ottobre 1947, apparve per la prima volta il termine “Nomadelfia”, che sarebbe stato assunto in seguito come denominazione dalla comunità dei piccoli apostoli, la cui doppia etimologia da nomòs (legge) e adelphòs (fratello) indica l’amore fraterno come principale regola di convivenza. La dicitura «Progetto Nomadelfia» riportata sulle intestazioni datate e firmate da Erlinger rappresentava già dunque l’aspirazione a trasformare questo luogo segregato in una vera e propria città aperta. Le planimetrie di progetto rendono esplicita tale aspirazione, che si concretizza nell’interpretazione degli edifici e degli spazi esterni, ciascuno in funzione delle proprie caratteristiche, come sintagmi di un vero e proprio tessuto urbano. <40
[...] Il periodo di permanenza delle famiglie giuliane all’interno dell’ex campo di concentramento, compreso tra il 1954 e il 1970, trova una singolare corrispondenza cronologica con la prima fase del processo di costruzione di una memoria nazionale della deportazione, che ebbe nella città di Carpi e nelle iniziative che vi si tennero tra il 1955 e il 1973 un punto di snodo fondamentale. <58
Come si è visto, nel 1955 a Carpi si era svolta la prima Manifestazione nazionale dedicata alla vicenda dei campi di sterminio. La celebrazione in ricordo delle vittime e la dedica del muro-memoriale eretto all’esterno del campo si erano tenute dunque solo pochi mesi dopo il primo insediamento dei profughi, mentre all’interno del perimetro, quasi contestualmente, si svolgevano i lavori di adeguamento delle baracche e venivano apportate ulteriori alterazioni alla loro conformazione originaria.
Gli avvenimenti che ebbero luogo nei due decenni seguenti avrebbero poi condotto al compimento del Museo Monumento al Deportato, vale a dire alla produzione di un luogo materiale intenzionalmente progettato per la memoria, idealmente correlato alla presenza del campo di Fossoli ma fatalmente alternativo a quest’ultimo.
La data dell’inaugurazione del museo, il 14 ottobre 1973, risulta di poco successiva al definitivo abbandono del campo da parte dei suoi ultimi occupanti. Non vi sono elementi sufficienti che inducano a ritenere le due vicende direttamente collegate, tuttavia è indicativa la sovrapposizione cronologica di due processi contraddittori e apparentemente inconciliabili: da una parte l’impulso alla costruzione di una memoria stabile delle vicende della deportazione che potesse trovare ricovero in uno spazio significativo, dall’altra il perfezionamento dell’uso del campo come villaggio residenziale, che ne implicava un ulteriore allontanamento dalle memorie oggetto di attenzione. Rispetto a tale condizione, il 1973 segna un evidente cambio di prospettiva. Se l’apertura del Museo Monumento si può ragionevolmente collocare alla conclusione di un ciclo che aveva contribuito a formare una consapevolezza nazionale sulla vicenda della Deportazione, senza tuttavia riuscire ad affrontarne le testimonianze materiali, nel periodo seguente, con le strutture del campo definitivamente libere e il consolidamento di un’opinione pubblica in merito, sarebbe stato possibile attuare una politica d’interventi diretti sul luogo, per farne un memoriale.
L’11 agosto 1973, con leggero anticipo rispetto all’inaugurazione del Museo Monumento e probabilmente proprio in previsione di questa, il Comune di Carpi inoltrò dunque all’Intendenza di Finanza la richiesta per l’acquisto dell’area dell’ex campo di concentramento. Una nota della Segreteria del Sindaco emessa in tale occasione riporta: "È intendimento di questa civica amministrazione procedere alla recinzione del medesimo trasformandolo in un ampio parco, del quale verrebbero mantenute alcune baracche e la chiesetta, con tutte le prerogative ecclesiastiche ad essa connesse, a testimonianza dell’esistenza del campo, mentre al centro dell’area verrebbe collocato il muro-ricordo con l’epigrafe di Pietro Calamandrei su Fossoli, che attualmente si trova all’estremo lato Nord del Campo". <59
 

I Piccoli Apostoli entrano nel campo: fotogrammi estratti dei filmati girati da Nomadelfia (1947) - Fonte: Andrea Luccaroni, Op. cit. infra

[NOTE]
36. Per una ricostruzione accurata degli eventi cfr. E. Biondi, Una città quasi realizzata, in G. Leoni, op. cit., pp. 64-72.
37. I piccoli apostoli occupano il campo di concentramento di Fossoli, in “Nomadelfia è una proposta”, XI, 28 febbraio 1978, n. 3-4, p. 2.
38. Cfr. D. Bettenzoli, Nomadelfia: utopia realizzata?, Celuc Libri, Milano 1976.
39. Il campo di Fossoli diventa Nomadelfia: l’amore fraterno è legge, in “Nomadelfia è una proposta”, XI, 31 marzo 1978, n. 5-6, p. 4.
40. ANG, Campo di Fossoli, 014D-01, “Progetto Nomadelfia”, S. Erlinger, Progetto Nomadelfia planimetria 1:500, 16 settembre 1947; Id., Progetto Nomadelfia prospetto lato sud della piazza, 20 settembre 1947; Id., Progetto Nomadelfia planimetria 1:500, 31 ottobre 1947.
58. Vedi “Un paradigma: il Museo monumento al Deportato politico e razziale”, Parte I, p. 85.
59. ASCC, Campo di Concentramento di Fossoli, Comune di Carpi, Segreteria del Sindaco, prot. n. 15481, 11 agosto 1973. Cfr. ASCC, Protocolli (1800-2003).
 
Don Zeno Saltini con il comandante del campo “degli indesiderabili”, prima che i Piccoli Apostoli ne prendessero possesso. 1947 - Fonte: Andrea Luccaroni, Op. cit. infra

Andrea Luccaroni
, Inimmaginabile e progetto. Architettura e memoria nei luoghi della Deportazione, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2015

domenica 17 aprile 2022

Ottocentomila lettori sono anch’essi un partito


«Ottocentomila lettori sono anch’essi un partito». Nitida, l’equazione gramsciana contenuta nel testo dell’unico intervento del pensatore di Ales pronunciato alla Camera dei deputati il 16 maggio del 1925 è riportata da Nicola Tranfaglia nel ribadire l’indubbia funzione politica del quotidiano diretto da Albertini in un’Italia postunitaria che ancora non aveva conosciuto la nascita di un moderno partito liberale e conservatore:
"[…] Il ‘Corriere della Sera’ servì da coaugulo a interessi borghesi (ma anche di proprietà terriera) che potevano definirsi ‘progressivi’ di fronte alla regressione storica rappresentata, per certi versi, dalla vittoria fascista. I suoi lettori erano, in larga parte, tra i sostenitori di quella soluzione. Ma forse, non solo di quello si trattò. […] Espressione di una borghesia più solida e compatta di quella che era dietro ad altri quotidiani del nord, diretto da un uomo che aveva una passione autentica politico-imprenditoriale, riuscì ad adottare un filtro sufficientemente largo tra i propri obiettivi di fondo e la funzione informativa di cui aveva bisogno un numero crescente di esponenti della borghesia industriale e intellettuale. Di qui la sua fortuna e il suo successo" <321.
Peraltro, lo stesso Albertini non mancò di illustrare le linee portanti di un progetto a lungo caldeggiato, ovverossia quello di dar vita ad un partito liberale riformatore, latamente rappresentativo di posizioni liberiste - in contrapposizione alle istanze avanzate da socialdemocrazie anch’esse ammodernate ed ipso facto non più radicalmente anticapitaliste <322 - portate avanti dalla borghesia industriale ed intellettuale, intendendo genericamente per ‘borghesia’ la classe detentrice dei mezzi di produzione, ceto di imprenditori e commercianti che si colloca in medio fra aristocrazia e lavoratori dipendenti (prendendo in prestito la nota definizione crociana <323 sostanzialmente riproposta nelle sue linee essenziali da Federico Chabod <324) .
Né si può tralasciare di ricordare la coeva esistenza di un ceto borghese non produttivo, «ancorato alla categoria del sapere più che a quella del profitto» <325; middle class che marcava le distanze rispetto agli strati sociali inferiori - oltre che per ovvie ragioni reddituali , per il «prezioso monopolio sulla cultura» <326; ancora in epoca preunitaria infatti
"[...] la società italiana restò caratterizzata dalla schiacciante predominanza dell’agricoltura nel ciclo economico; ne derivò una grande povertà relativa non solo in termini materiali, ma anche in termini culturali. I dati statistici più significativi a questo proposito sono offerti dalle percentuali di analfabetismo [...] La borghesia umanistica deteneva il monopolio delle funzioni di organizzazione a partire da moduli di potere estranei al mondo della produzione; essa saldava una società civile spiritualmente debole e disgregata a uno stato-nazione in fase di faticosa irradiazione" <327.
Pignolo quanto impietoso identikit della ‘borghesia umanistica’ di cui sopra lo forniva nel 1923 Luigi Salvatorelli, condirettore del quotidiano torinese «La Stampa» dal 1921 al 1925 (fra i suoi corrispondenti figurano tra gli altri Albertini, Aleramo, Amendola, Bobbio, Borgese, Cantimori, Chabod, Croce, De Gasperi, Einaudi, Ojetti, Pancrazi) <328:
"[...] La mentalità della piccola borghesia umanistica si riassume in una sola parola: retorica [...] provenendo generalmente dalla scuola classica essa possiede la cosiddetta ‘cultura generale’, che potrebbe definirsi ‘l’analfabetismo degli alfabeti’. [...] una infarinatura storico-letteraria in cui la parte letteraria è puramente grammaticale e formalistica, mentre quella storica si riduce a un cumulo di date di battaglie e di nomi di sovrani, con la salsa di una trasfigurazione o di uno sfiguramento patriottico, i cui due elementi essenziali sono l’esaltazione di Roma e dell’Impero romano come nostri antenati, e il racconto del Risorgimento ad usum delphini. Tutto l’insegnamento è una congerie di nozioni generiche, astratte, da imparare meccanicamente, senza stimolo al senso critico e senza contatto col processo e la realtà attuale. Di qui nella piccola borghesia umanistica la tendenza all’affermazione dogmatica, alla credulità dell’ipse dixit, alla esaltazione per il gesto e la parola usurpanti il posto dei fatti e delle idee, al fanatismo per la formula indiscussa e indiscutibile" <329.
Ciò premesso (e tornando a Gramsci: ‘ottocentomila lettori sono anch’essi un partito’), si può maggiormente e da un angolo visuale ulteriormente allargato - che garantisca «sia una conoscenza approfondita della società civile in tutte le sue articolazioni essenziali al fine di cogliere con precisione il quadro specifico in cui i giornali si collocano, sia l’uso di strumenti critici che appartengono a più d’una disciplina» <330 - comprendere l’intento albertiniano di dar vita attraverso le colonne del «Corriere» (dunque per litteras) ad un grande movimento d’opinione ante litteram, avente come coacervo il bacino dei lettori di quello che già allora si configurava come un grande quotidiano generalista:
"[…] Dar voce alle diverse posizioni della borghesia liberale non è infine indice di una mancanza di orientamento politico, ma solo del tentativo di esprimerlo in forma moderata, evitando gli eccessi polemici per non esasperare gli animi. […] Una varietà di posizioni che è specchio fedele della complessa diversificazione della borghesia italiana, di cui il «Corriere» si propone come guida e allo stesso tempo interprete. Una borghesia imprenditoriale e culturale colta nel suo problematico confronto con la modernità […] Albertini stesso esprime chiaramente questa compenetrazione tra tradizione e modernità, fatta di tratti ancora ottocenteschi e spinte al cambiamento, come ad esempio un indirizzo politico conservatore e un prodotto editoriale innovativo […] un piglio severo e una condotta dinamica, un comportamento austero e uno spirito cosmopolita […]" <331.
Attenzione alle novità tecnologie dunque - di contro ad una «chiusura preconcetta verso quelle artistiche e letterarie» <332 che inevitabilmente figliava un terzapaginismo rispetto al quale la collaborazione deleddiana al quotidiano risulterà per più aspetti eslege - in toto funzionale ad avere il favore di quel grande pubblico borghese nato dalle nozze di habermasiana memoria fra editoria e carta stampata:
"[…] La lettura di romanzi dà corpo a un pubblico che ha ormai ampiamente superato i confini di quelle prime istituzioni che furono i caffè, i salons, società conviviali, e che ora è tenuto insieme dall’istanza di mediazione della stampa e della sua critica professionale" <333.
Nasceva allora, nella Milano ‘specimen di Parigi’ di cui s’è detto, il concetto di spazio pubblico culturale virtuale: ecumene, habitat non più performato e delimitato da un insieme di individui nella loro contingenza fisica e spaziale, ma piuttosto «costituito astrattamente dall’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione collettiva» <334; piattaforma massmediatica ove si genera la nozione di opinione pubblica quale è oggi a noi nota, benché essa all’epoca si palesasse nella sua prima versione, storicamente determinata: ovvero in una dimensione collettiva ma ancora esclusiva. Due difatti, ad avviso di Lorenzo Cini, le condizioni di ingresso a tale dimensione, altamente restrittive: «proprietà» e «cultura»:
"[…] il primo è appunto il requisito fondamentale per istituire la sfera intima familiare (borghese) in cui personalità libere possono agire autonomamente. Il secondo definisce invece il limite di entrata del pubblico dei lettori. La sfera pubblica letteraria è difatti uno spazio sociale altamente selettivo, dove si esprime una società colta e perciò numericamente minoritaria: quella propria della società civile borghese" <335.
Ontogenesi e filogenesi di quella «istituzione tipicamente borghese e, anche, tipicamente italiana, che è la terza pagina» <336 originano dunque in tale humus: e dalla ‘Terza’ quale culla di idealità, orientamenti, Weltanschauungen e sollecitazioni culturali molteplici origina a sua volta, quasi per partenogenesi e con innumerevoli successive geminazioni, il giornalismo culturale tout court:
"[…] il giornalismo attraverso la ‘Terza’ diventava letteratura ed è stato il ‘canale naturale’ con cui una certa borghesia italiana entrava in contatto con la cultura del proprio tempo. La terza pagina adempiva così una funzione di cui non si può non riconoscere il merito. Se, da un lato, attraverso la terza pagina, il lettore dell’epoca era in qualche modo istruito sull’operazione sottile, artigianale, che sottende la scrittura, dall’altro la letteratura e la scrittura gli appariranno finalmente meno mitiche e irraggiungibili, attraverso quel processo benjaminiano di ‘decadenza dell’aura’ che caratterizza tutto il percorso artistico e culturale del XX secolo […]: mentalità ‘antiborghese’ nata in seno alla borghesia" <337.
Tale ‘decadenza dall’aura’ è in qualche modo degnamente rappresentata ed incarnata dal ruolo che la stampa periodica, quotidiana e non, ebbe nell’unificazione linguistica del Paese e nella nascita dell’italiano moderno. È noto come la lingua dei giornali (o ‘giornalese’) da sempre si mostri maggiormente ricettiva rispetto alla lingua letteraria nell’accoglimento di neologismi e novità lessicali, essendo in una certa misura meno soggetta ai condizionamenti della tradizione ed inglobando nelle pagine dei quotidiani i mutamenti del costume e con essi quelli delle tecniche di comunicazione <338.
La ‘Terza’ albertiniana era tuttavia - come detto - in controtendenza, insula beata celebrante "[…] il primato politico e culturale della lingua italiana e il suo carattere, per secoli, di lingua prevalentemente letteraria, scritta, non popolare, appresa attraverso lo studio come una lingua morta […] connessa - come Gramsci ha particolarmente contribuito a mostrare - con le particolari vicende del-lo sviluppo della borghesia italiana, con le particolari caratteristiche del ceto intellettuale italiano e con i particolari caratteri della ideologia dominante da essi rappresentata" <339.
Peraltro il dibattito novecentesco intorno alla lingua letteraria, culminato nella crociana crociata (l’annominatio non è casuale) contro lo studio di grammatica e retorica, portava al contempo nuova linfa alle ragioni di quanti erano propensi a trarre vantaggio dai benefici del bilinguismo (italiano ↔ dialetti) al fine di far almeno in parte decadere la citata aura di bellettrismo, la ‘pomposità retorica’, l’eccessivo culto della forma stigmatizzato a suo tempo da Graziadio Isaia Ascoli <340.
Tuttavia proprio a metà degli anni Venti, periodo in cui la direzione degli Albertini era avversata dalla dittatura, furono varati dal regime fascista provvedimenti legislativi, figli del forte centralismo nazionalista, atti a scoraggiare l’uso del dialetto e delle lingue straniere, visti come minaccia per la salute e la sopravvivenza del futuro stato corporativo, ed a promuovere un italiano standard, laddove standard è sinonimo di regola e regola di equilibrio; ‘sobrietà’ <341 (vocabolo com’è noto caro alla propaganda di regime) che incontra - liaison evidentemente gravida di conseguenza per ciò che attiene il linguaggio da utilizzarsi da parte dei terzapaginisti del «Corriere» - la cittadina «medietà borghese» <342: «il borghese è misura, è decoro, è privacy, da non confondere con pruderie» <343.
Classicista aurea mediocritas dunque, disposta a tollerare finanche note dissonanti ma mai - continuando con metafora musicale - accordi eccedenti, come si evince chiaramente dal carteggio tra Aldo Borelli e il terzapaginista romano Marcello Gallian (nostri i corsivi): "[…] Questa volta Ella ha talmente ecceduto nei termini violenti ed è stato di un realismo così crudo che mi è impossibile presentare ai lettori il problema della maternità e delle nuove generazioni sotto un aspetto che in qualche punto diventa quasi crudele. Io non sono certo un ‘prude’ ed Ella lo ha potuto veder nell’accoglienza dei precedenti articoli; anzi amo le forme brusche e sane. Ma questa volta mi sarebbe impossibile pubblicare l’articolo senza suscitare proteste e non solo dai lettori. Perciò non perda l’argomento che, Le ripeto, è originalissimo e interessante e rifaccia l’articolo in forma più pacata" <344.
Borelli non era dunque, per sua stessa ammissione, un prude e certamente nemmeno il futuro direttore Alfio Russo lo era; eppure molti anni più tardi quest’ultimo confesserà, fuor di metafora e ad un Landolfi sempre in bilico tra cassature ed espunzioni, la necessità di dover fare i conti con una tranche di lettori del Corriere per vocazione prude senza rimedio: "[…] L’altro articolo del 'Bacio', che a mio parere è bellissimo, può irritare gravemente molti nostri lettori. Lo tengo ancora qui e vedrò di farlo passare con qualche piccolo taglio, sempre che Lei lo permetta. Nella massa dei nostri lettori vi sono quelli che arricciano il naso, e ci insultano, per certe parole e espressioni. Io devo tenere conto anche di questi lettori stupidi, bigotti, moralisti" <345.
Emergono peraltro ulteriormente dal carteggio tra Borelli e Giorgio Scerbanenco notizie circa la tipologia di novelle prediletta dall’allora direttore del «Corriere»: "[…] Il direttore Borelli è esplicito e candidamente esigente: vuole vere e proprie novelle, originali certo, ma di forma chiusa, secondo la buona tradizione italiana. Novelle munite di un intreccio preferibilmente chiaro, rapido, nervoso, con personaggi a tutto tondo, e meglio se con ragionevoli avventure. Solo così - aggiunge, in due righe che valgono un saggio di tema elzeviristico - «differenzieremmo l’edizione del pomeriggio dall’edizione del mattino, la quale pubblica per lo più lavori di fondo narrativo e non di argomento narrativo» " <346.
[NOTE]
321 N. TRANFAGLIA, Il Corriere della Sera cento anni dopo, in Ma esiste il quarto potere in Italia? Stampa e potere politico nella storia dell’italia unita, Milano, Baldini&Castoldi, 2005, p. 295.
322 Cfr. L. ALBERTINI, Sulla riforma della rappresentanza politica, in In difesa della libertà, cit., p. 108; ID., Epistolario 1911-1926, cit., pp. 209-14; G. BAGLIONI, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974.
323 Cfr. B. CROCE, Di un equivoco concetto storico: la ‘borghesia’, in Atti della regia accademia di scienze morali e politiche di Napoli, Napoli, s.i.t., 1927, 51, p. 21; poi in «La critica», XVI, 1 928,ora in Etica e politica, Bari, Laterza, 1956, pp. 321-38.
324 Cfr. F. CHABOD, Borghesia (ad vocem), Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, Treccani,1930,VII, p. 471–3.
325 M. MERIGGI, La borghesia italiana, in J. KOCKA (a c. di), Borghesie europee dell'Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989, pp.173-4).
326 Ibidem.
327 Ibidem.
328 Cfr. L. ABBONDANZA (a c. di), L’archivio di Luigi Salvatorelli. Biografie dei corrispondenti, Perugia, Soprintendenza archivistica per l’Umbria - Fondazione Luigi Salvatorelli, 2011, pp. 3-157. Per una bibliografia su Salvatorelli cfr. A. D’ORSI, F. CHIAROTTO (a c. di), Luigi Salvatorelli. Storico, giornalista, testimone (1886-1974), Torino, Aragno, 2008, pp. 547-553.
329 Cfr. O. DEL BUONO, Eia Eia alalà. La stampa italiana sotto il fascismo 1919-1943, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 3
330 V. CASTRONOVO, N. TRANFAGLIA (a c. di), Storia della stampa italiana, Roma-Bari, Laterza, 1976, I, p. XI.
331 L. BENADUSI, Introduzione a Il ‘Corriere della Sera’ di Luigi Albertini. Nascita e sviluppo della prima industria culturale di massa, Roma, Aracne, 2012, p. 19.
332 Ibidem.
333 J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, a c. di A. Illuminati, F. Masini, W. Perretta, Roma-Bari, Later-za, 1971[1962], p. 699.
334 L. CINI, Una ‘parziale’ ricostruzione del concetto, in Società civile e democrazia radicale, Firenze, Firenze Universi-ty Press, 2012, p. 41.
335 Ibidem.
336 F. PIZZUTI, Essere per apparire: usi e costumi della borghesia, in B. COCCIA (a c. di), Borghesia, Roma, Apes, 2010, p. 206.
337 Ibidem.
338 Le pagine dei principali quotidiani di fine Ottocento, come ad esempio «Il Secolo» che negli anni Ottanta vendeva già circa centomila copie al giorno, erano un vero e proprio ricettacolo di neologismi e forestierismi; cfr. G. ADAMO - V. DELLA VALLE, Il Vocabolario Treccani. Neologismi. Parole nuove dai giornali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2008.
339 J.B. MARCELLESI et al., Linguaggio e classi sociali, Bari, Dedalo, 1978, p. 46.
340 «[…] Il grande glottologo rimproverava agli accademici di voler mettere a tacere, con il loro rigido fiorentinismo, i molti ‘figliuoli bilingui’ della Nazione, quanti cioè avevano nel dialetto la propria lingua nativa e nell’italiano semmai una vera e propria lingua straniera» (R. GIACOMELLI, Stile Novecento. La lingua negli anni Trenta e la restituzione del ‘cognome atesino’ nell’Alto Adige-Sudtirolo, in «ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», LIX, fasc. I, gennaio-aprile 2006, p. 192).
341 Sull’argomento cfr. P. V. CANNISTRARO, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975; V. DE GRAZIA, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1981
342 G. BÀRBERI SQUAROTTI (a c. di) Introduzione a G. GOZZANO, Milano, Rizzoli, 1996, p. 1875. Secondo Squarotti è coessenziale al contesto borghese ed ai suoi valori la «[…] richiesta di semplicità, normalità, medietà […] di fronte all’eccesso di sublime» (ID., Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976, p. 36).
344 LETTERA DI ALDO BORELLI A MARCELLO GALLIAN datata MILANO 2 OTTOBRE 1934: «[…] Gallian fu in quegli anni collaboratore ordinario della terza pagina del ‘Corriere della Sera’. […] l’articolo in questione, non accettato dal direttore, faceva parte del libro Storia dell’infanzia, mai pubblicato da Gallian, ma di cui uscì nel maggio 1936 un’anticipazione sulla rivista ‘Ottobre’. L’uscita del volume venne preannunciata anche sul n. 32 di ‘Quadrivio’, dove l’autore si dichiarò consapevole che la pubblicazione gli avrebbe procurato ‘molti grattacapi e molte molestie» (N. TROTTA [a c. di], Ribellione e avanguardia fra le due guerre. I libri e le carte di Marcello Gallian, catalogo della mostra documentaria allestita presso la Biblioteca Universitaria di Pavia (17 dicembre 2008 - 17 gennaio 2009), Pavia, Centro di ricerca interdipartimentale sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei, 2008, p. 36). Marcello Gallian (Roma 1902 - ivi 1968), scrittore ed esponente del ‘fascismo di sinistra’ soi disant, poliedrica figura di intellettuale del primo Novecento e protagonista dell’avanguardismo romano «[…] fu, come lo ha definito Umberto Carpi, ‘uno scrittore di primissimo rango’, ‘il più forte scrittore dell’area bontempelliana e novecentista’, l’unico capace di autentiche accensioni e suggestioni surrealiste’. ‘Irriducibile fascista antiborghese’, ebbe un ruolo rilevante nella vita culturale del regime fascista e collaborò ad alcune fra le riviste più significative del Ventennio» (N. TROTTA [a c. di], Ribellione e avanguardia…, cit., p.39).
345 Cfr. T. LANDOLFI, Opere, cit., II, pp. 1283-4.
346 B. PISCHEDDA, Il narratore a cottimo, «La Domenica del Sole 24 Ore», 3 marzo 2013. Sul carteggio Borelli-Scerbanenco si veda G. SCERBANENCO, Racconti e romanzi per il «Corriere» (1941-1943), a c. di C. Fiumi, Milano, Fondazione Corriere della Sera, 2012.
Gianbernardo Piroddi, Grazia Deledda pubblicista: il carteggio col «Corriere della Sera» (1909-1936), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Sassari, Anno Accademico 2012-2013
 
Il mondo cambia, i fondamenti dell’ordine sociale slittano nelle zone più difficili da raggiungere per la teoria politica, gli strumenti intellettuali fanno fatica ad adattarsi al nuovo panorama.
Il marxismo, tra Otto e Novecento, risponde alla sfida con un’intensa stagione di revisionismo, ma non riesce a mantenere vivo un pensiero autonomo e parziale sulla società, finendo con l’arrendersi allo scorrere “naturale” delle relazioni di potere. La temperie teorica in cui questo lento ma inesorabile processo si materializza, e che in gran parte contribuisce a creare, vede da una parte la crisi dell’impianto politico ottocentesco concretizzatosi nella forma dell’ordine liberale, dall’altra la crisi del paradigma alternativo a quell’ordine che la teoria marxista aveva saputo produrre nella forma del marxismo della seconda e poi della terza internazionale. Il periodo a cavallo degli ultimi due secoli è quindi un vero e proprio periodo di crisi, in cui lo spettro del disfacimento dell’ordine sociale si manifesta in tutta la sua potenza sotto le spinte congiunte di un movimento operaio non più interpretabile e risolvibile nei termini della “questione sociale” e di una pletora di soggetti sociali non riconducibili allo schema della contrapposizione di classe ma altrettanto potenzialmente destabilizzanti. Il sociale diventa il luogo del politico, l’asse strategico del ragionamento sul mantenimento degli istituti di mediazione politica si sposta dalla titolarità per grazia di Dio alla legittimità per “disciplina terrena”: una disciplina che va conquistata e mantenuta, difesa e riprodotta nella quotidianità delle relazioni sociali. In questi anni vengono poste le fondamenta per un tipo di organizzazione, legata appunto a una particolare disciplina, che affonda le sue radici d’ordine nella vita sociale stessa, come assicurazione in grado di coprire il pericolo sempre più minaccioso di una serie di crisi organiche. Le «varie forme di sociologia» che nascono e si sviluppano in questo periodo, quelle che meglio esprimono la situazione sociale e intellettuale, rispondono allora alla necessità incombente di interpretare le relazioni sociali nel loro contenuto politico, diventando lo strumentario teorico e pratico del governo della società, della riproduzione delle sue relazioni, del comando su di essa.
Antonio Gramsci vive i primi anni del suo impegno politico e giornalistico in questa temperie teorica. La sua formazione politica, infatti, si compie all’interno della tradizione riformista del partito socialista italiano, in quel periodo ancora legato alle teorie della seconda internazionale e innervato quindi di suggestioni idealiste, positiviste ed evoluzioniste. È però al tempo stesso uno spettatore disincantato ma attento del grande pensiero borghese che si esprime in quegli anni a Torino, città baluardo del pensiero razionalista e positivista. Dalla fine della prima guerra mondiale è poi il promotore della svolta leninista dei consigli e di quella stagione di lotte che nel “biennio rosso” segneranno l’apogeo e la crisi del movimento operaio italiano. La sua formazione politica si svolge quindi nel mezzo di tre crisi epocali: quella del socialismo riformista, quella delle istituzioni dell’ordine liberale e quella della risposta leninista che in Italia assume l’immagine dell’isolamento degli operai torinesi alla fine del 1920, asserragliati nelle fabbriche e destinati alla sconfitta.
Sin dai primi scritti giovanili è presente in Gramsci la consapevolezza di questi fallimenti, i limiti di queste esperienze politiche che si confrontano con una realtà sociale che si sta modificando rapidamente e che non viene colta nelle sue determinanti essenziali. Sin dai primi scritti giovanili appare però anche una capacità tutta gramsciana di recuperare quegli elementi che nelle diverse tradizioni emergono come segno dell’assunzione del mutato paradigma, quelle riformulazioni concettuali e lessicali che vanno a formare uno strumentario in grado di fare i conti con il piano sempre più sociale della politica. La domanda di fondo alla quale cercheremo di rispondere è in che misura il lessico proprio delle scienze sociali contemporanee, che nascono dentro queste crisi teoriche e che si propongono come agenti di una nuova “disciplina sociale”, i loro dispositivi argomentativi, i loro movimenti concettuali, vengono assunti e declinati da Gramsci all’interno di un progetto complessivo di una “sociologia del politico” all’altezza delle trasformazioni in corso. Diciamo “sociologia del politico” per significare il tentativo gramsciano di organizzare in un discorso comune la radicale contrapposizione che egli - da marxista - continua a considerare un carattere costitutivo della società contemporanea e gli strumenti, le tecnologie, le «casematte» sociali che si incaricano di neutralizzare, relativizzare, governare politicamente quella contrapposizione.
Michele Filippini, Una filologia della società. Antonio Gramsci e la scoperta delle scienze sociali nella crisi dell'ordine liberale, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2008