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sabato 25 marzo 2023

Nel Parmense, il primo scontro tra forze nazifasciste e nuclei partigiani avviene il giorno di Natale del 1943

Bardi (PR). Fonte: Wikipedia

Scopo di questa ricerca è quello di indagare cosa avvenne nel periodo successivo al famoso armistizio annunciato l’8 settembre del 1943, preludio che portò alla nascita della Resistenza.
In particolare la tesi si concentra sul territorio della Provincia di Parma, dove sui monti sorsero le prime bande armate che diedero vita alla lotta di Liberazione dall’occupazione nazifascista. Più che sulle azioni militari condotte, già studiate in diverse pubblicazioni memorialistiche, il presente elaborato si concentra sull’esame della struttura del Comando che si costituì nel corso della guerra partigiana, assumendo come prospettiva d’analisi quella di chi concretamente aveva condotto la guerra, i Comandanti dei reparti partigiani.
Sulla base delle azioni compiute, delle questioni interne ed esterne alle proprie Brigate, che li vedono coinvolti, si cerca di tracciare un profilo più storiografico e personale di chi fu a capo del movimento parmense, portando ad un’analisi scevra di quei sentimenti celebrativi che hanno caratterizzato alcune precedenti pubblicazioni. Mentre la maggior parte degli studi sulla Resistenza parmense tendono a esaminare il movimento nella sua interezza e a fornire un resoconto complessivo dei fatti d’arme e degli eventi più importanti, in questa ricerca l’attenzione è concentrata principalmente sulla disamina dei rapporti di Comando tra i maggiori protagonisti della lotta parmense.
Attraverso l’analisi dei Comandanti parmensi la tesi si pone diversi scopi, tra cui quello di comprendere e mettere in luce la struttura e la natura dei rapporti di comando nell’esercito partigiano, partendo dal contesto nazionale per poter approfondire quello locale. In secondo luogo, rispetto ai doveri richiesti ai Comandanti di Brigata dagli organi superiori, viene analizzato come effettivamente questi capi, esercitarono il comando, approfondendo quali aspetti della loro personalità prevalgono, quali sono le criticità, che rapporto intercorre con la Brigata e con i comandi superiori; questo permette di mettere in luce alcune caratteristiche della lotta parmense.
Da questo emerge come la gestione del Comando sia dovuta, da una parte, alla relazione tra le diverse personalità che lo componevano, dall’altra alla situazione politica, sociale e militare della provincia di Parma. Infine, attraverso una ricerca basata principalmente sulle fonti archivistiche, un ulteriore obiettivo della tesi è quello di mettere in luce alcuni rilevanti snodi e questioni riguardanti i capi parmigiani, che nei precedenti lavori vengono solo accennate o brevemente riportate, ma su cui invece esiste un interessane e consistente documentazione.
La scelta dei soggetti
I soggetti individuati appartengono a diverse formazioni partigiane, zone territoriali, appartenenze politiche e ricoprono cariche di diverso livello: dai Comandanti e Commissari dei due Comandi Unici operativi (nel caso di Parma esisteva un Comando per la Zona Ovest e uno per la Zona Est della Cisa) a quelli di Brigata.
Essi sono stati scelti sulla base di diversi criteri, quali una significativa presenza nei documenti, per l’importanza del loro ruolo e contributo per la lotta di Liberazione; infine sono stati scelti quei Comandanti le cui vicende e operato, per motivi differenti, sono significativi ai fini di questa ricerca, che ha per scopo quello di indagare l’esercizio del Comando nell’esercito partigiano. Le singole vicende personali e di Brigata, emerse dalle fonti vengono analizzate inquadrandole in un contesto più ampio, quello del movimento parmense nel suo complesso.
Le fonti utilizzate
Le principali fonti utilizzate sono quelle archivistiche, presenti nell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma, dove si trova il Fondo sulla Lotta di Liberazione, sui Comitati di Liberazione Nazionale Provinciali, un Fondo Testimonianze e alcuni Fondi personali di noti esponenti del movimento parmense. In particolare, molto importante al fine di questa ricerca è stata la consultazione del Fondo Lotta di Liberazione, che comprende i carteggi inviati dagli Organi direttivi centrali (Comitato di Liberazione Alta Italia e Comando Generale Italia Occupata), regionali (Comando Unico Militare Emilia Romagna e Comando Nord Emilia) e dagli Organi politici provinciali come il CLN Provinciale di Parma, il Partito e la Federazione Comunista e il Partito Democristiano.
Rispetto a questi documenti più generali, è stata di maggior rilevanza l’analisi dei documenti riguardanti il Comando Unico Operativo della Provincia di Parma sia per la Zona Ovest che Est della Cisa.
Insieme a questi, altrettanto indispensabile è stato lo studio del consistente carteggio relativo alle singole Brigate e alle Divisioni operanti sul territorio parmense. Insieme a questa documentazione sono state consultate le buste relative alla stampa partigiana, ai CLN locali sorti nella provincia parmense, al Fondo Quadri del Partito Comunista e le testimonianze lasciate dai partigiani sull’esperienza resistenziale. Infine è stata utile la lettura dei Fondi di Archivio personali di alcune figure chiave per l’antifascismo e Resistenza parmense, quali ad esempio, Giacomo Ferrari e Ettore Cosenza, due noti Comandanti partigiani.
Tutto il materiale raccolto e le principali questioni, o dubbi, emersi sono stati confrontati con la bibliografia parmense sulla Resistenza. In merito alla letteratura esistente sulla lotta di liberazione si possono distinguere diverse impostazioni.
Una parte della bibliografia è volta ad analizzare il movimento parmigiano nel suo complesso, consentendo di avere un quadro complessivo e completo dei principali eventi e delle questioni più rilevanti, ma che lascia poco spazio all’approfondimento delle singole personalità.
Mentre un’altra parte della bibliografia su Parma si concentra o sullo studio nel movimento in una particolare zona, per esempio quella della Val Taro, o sull’analisi di alcune importanti figure. A questi filoni va aggiunta una parte relativa alle opere memorialistiche.
La maggior parte di queste pubblicazioni è stata scritta da ex partigiani che nel dopoguerra si sono dedicati alla rielaborazione dell’esperienza vissuta; per quanto non si possa mettere in discussione l’utilità e la veridicità delle loro riflessioni, questo rischiano comunque di essere influenzati da una parzialità politica o personale che potrebbe ridurne l’obiettività.
Costanza Guidetti, La struttura del comando nel movimento resistenziale a Parma, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2017-2018

In una situazione di per se già estremamente caotica, con l’esercito allo sbando e i militari in fuga, con l’Italia spaccata in due, occupata dai tedeschi al Centro-Nord e dagli Alleati al Sud, nulla poteva aggiungere più caos che la nascita di uno “stato fantoccio” controllato dai tedeschi con lo scopo mal celato di tener buoni gli animi e convincere gli italiani che nulla era cambiato: la guerra andava ottimamente e presto avremmo ricacciato in mare gli Alleati per il trionfo del nazi-fascismo.
In pochi ormai credevano a tutto questo ma la Repubblica Sociale Italiana prese vita ugualmente, imposta manu militari dai tedeschi, portando nell’Italia occupata un nuovo fascismo repubblicano più aggressivo, più spietato e più sanguinario che mai.
Il primo atto politico, la prima manifestazione reale della nuova “Repubblica”, è la chiamata alle armi dei giovani: dal novembre 1943 i muri dell’Italia occupata si ricoprono di manifesti che minacciano pesanti sanzioni per coloro che decideranno di non rispondere.
Ma il fatto nuovo, imprevisto e di dimensioni impensabili all’epoca, è la diserzione di massa dei giovani italiani. Un’intera generazione educata a “Credere, Obbedire, Combattere” si rifiuta di rispondere ai bandi della RSI.
Uno dei compiti nei quali il CLN di Parma è maggiormente attivo è proprio quello della propaganda rivolta ai ragazzi in età di leva, per invitarli a disertare ed unirsi alle bande che si stanno formando in montagna. Sì, perché nelle zone collinari e montagnose della provincia, a partire dal tardo autunno del 1943 si erano formate le prime bande di “ribelli”, nuclei costituitivi di quelle che saranno le formazioni partigiane vere e proprie.
Si tratta di gruppi compositi, che raccolgono uomini con storie di vita e motivazioni differenti ed eterogenee.
Ad impegnarsi nella lotta antifascista sono innanzitutto individui politicizzati che si impegnano nella lotta di Liberazione in base a convinte e radicate idee antifasciste e democratiche.
E poi, spinti dalla fedeltà al giuramento prestato al Re o da convinzioni antifasciste maturate attraverso le esperienze dirette in guerra, anche molti soldati si danno alla macchia, persuasi, più che da un’educazione politica vera e propria, dalla volontà di non combattere più per il Duce. A loro si unisce un’altra tipologia di soldati e ufficiali: gli ex prigionieri stranieri evasi dai campi in seguito allo sbando dell’esercito <xii. Attorno a questi poli si raggrupperà, poco dopo, l’enorme massa dei “giovani”, renitenti alla leva delle classi 1923 - 26 in primis <xiii. Sono questi ragazzi che costituiranno oltre il 36 percento dei partigiani riconosciuti parmensi <xiv.
Questi primi “ribelli” si dirigono verso la montagna, dove è più facile nascondersi perché la presenza nazifascista è più rarefatta, e si saldano spontaneamente in piccoli gruppi, concepiti prima di tutto come nuclei di sopravvivenza che come consapevoli formazioni di combattenti.
E’ facile immaginare lo spaesamento e la mancanza di punti di riferimento che portano questa massa confusa ad aggregarsi attorno a coloro che, per età o storia di vita, avevano una maggiore esperienza di guerra e un più delineato progetto di lotta. I primi quadri delle bande partigiane, formati da ex militari italiani e stranieri e da antifascisti storici, sorgeranno quindi spontaneamente dalla fiducia che in loro ripongono gli sbandati e i renitenti.
Queste bande costruiscono con le popolazioni montane un fitto rapporto di comunicazione basato su due pressanti necessità: quella di difendere renitenti e richiamati, e quella di ricevere aiuto e appoggio, cibo e riparo, evitando delazioni e arresti <xv.
Nel Parmense, il primo scontro tra forze nazifasciste e nuclei partigiani avviene il giorno di Natale del 1943. Approfittando della giornata festiva, e sperando di cogliere di sorpresa quei “ribelli” dei quali si cominciava a sentir parlare, un gruppo di militi fascisti raggiunge la Val Noveglia, e il piccolo abitato di Osacca [Frazione di Bardi (PR)], dove uno sparuto gruppo di renitenti e militari si era riunito intorno a un operaio antifascista, Alceste Bertoli, incaricato dal CLN di raccogliere gli sbandati sulle montagne del Bardigiano. Ma, grazie alla provvidenziale “soffiata” di una contadina, l’imboscata fascista non riesce. I partigiani rispondono prontamente al fuoco mettendo in fuga i militi: una vittoria inaspettata e trionfale che, al di là del reale valore strategico-militare ha importanti conseguenze psicologiche, perché finalmente «l’incubo dell’invincibilità e della invulnerabilità dell’apparato militare nazifascista era rotto» <xvi. Una vittoria importante, riconosciuta anche dalla prima amministrazione libera di Parma che intitolerà una delle più imponenti vie cittadine proprio Viale Osacca.
L’estate del 1944: zone libere e rastrellamenti
La vittoria di Osacca non è che la prima di una serie di azioni partigiane contro caserme, sedi delle milizie della RSI ed esponenti del fascismo repubblicano. Brevi “puntate” che si fanno gradualmente più audaci e sempre più spesso sono coronate da successo, anche grazie agli aviolanci alleati che riforniscono i combattenti delle colline parmensi di viveri, armi, munizioni.
La primavera-estate del 1944 costituisce una fase particolarmente importante per il movimento partigiano, a Parma e non solo: si assiste infatti a un forte consolidamento delle bande, che si danno una organizzazione più strutturata e solida, rafforzano i contatti tra loro e col CLN e intensificano le azioni.
Cresce rapidamente anche l’afflusso di nuove reclute, e le formazioni si fanno via via più numerose e organizzate. Si passa da bande di disertori nascosti in montagna per sfuggire alla guerra, a formazioni partigiane in armi che attaccano i presidi della Repubblica Sociale.
Il 12 marzo 1944, a Valmozzola, i partigiani del Comandante “Betti” attaccano audacemente un convoglio ferroviario per liberare tre compagni caduti nelle mani della X Mas. Il 23 dello stesso mese i militi fascisti del presidio di Santo Stefano vengono presi d’assalto e catturati.
E’ questa l’estate delle “zone libere” e delle cosiddette “repubbliche partigiane”: incalzati dall’avanzata alleata, i tedeschi allentano la sorveglianza sui partigiani, che si trovano a fronteggiare le sole truppe della RSI, del tutto inadeguate a mantenere il controllo della totalità del territorio, facile preda di un esercito partigiano in veloce espansione.
In Val Taro, in Val Ceno, nell’alta Val Parma le formazioni partigiane, sconfitti e costretti alla fuga i presidi fascisti, assumono il controllo militare e amministrativo del territorio.
A Borgotaro, Bedonia, Albareto, Compiano, Corniglio si stampano giornali partigiani, si predispongono presidi medici e scuole e si compiono sperimentazioni di autogoverno e partecipazione alle amministrazioni locali.
Con la crescita delle formazioni e dei territori controllati si rende necessario coordinare efficacemente le operazioni militari: nell’agosto 1944 nasce il Comando Unico Operativo, alla guida dell’ufficiale siciliano Giacomo di Crollalanza “Pablo”, che viene incaricato di coordinare le azioni militari, organizzare la rete di informazione e collegamento, risolvere controversie e divergenze. Parallelamente al CUO, che si occupava delle formazioni della montagna, nasceva, nella città di Parma, un altro organismo centrale, il Comando Militare di Piazza, con il compito di dirigere le forze resistenziali in città.
Ma, in quell’estate di azioni vittoriose e crescita delle formazioni, arrivano anche alcuni duri colpi per movimento partigiano parmense. La pressante necessità di risorse per sostenere la macchina bellica e di prigionieri da impiegare nell'industria del Reich spinge i Comandi della Wermacht a dare il via all’imponente “Operazione Wallenstein”. Si tratta di una serie ravvicinata di manovre antiguerriglia e rastrellamenti che mette a dura prova l’esercito di Liberazione parmense e soprattutto la popolazione civile, sottoposta a rappresaglie, saccheggi, deportazioni, fucilazioni. Piccoli paesi come Strela di Compiano o Neviano degli Arduini diventano teatro di veri e propri eccidi, con decine di civili rastrellati e fucilati <xvii.
[NOTE]
xii Peli S., Storia della Resistenza in Italia, Torino, Einaudi, 2006, pp. 26-34.
xiii Casali L., Aspetti sociali della Resistenza in Emilia Romagna. Alcune considerazioni.
xiv Becchetti M., Parma, in Casali L., Preti A. (a cura di), Identikit della Resistenza. I partigiani dell’Emilia Romagna, Bologna, CLUEB, 2011.
xv Minardi M., Guerra sui monti. Guerra e Resistenza nell’Appennino parmense, in AA.VV., Guerra, guerriglia e comunità contadine in Emilia Romagna 1943-1945, Reggio Emilia, RS Libri, 1999.
xvi Savani P., Antifascismo e guerra di liberazione a Parma, cit.
xvii Minardi M., Parma, in Casali L., Gagliani D., La politica del terrore. Stragi e violenze naziste e fasciste in Emilia Romagna, Roma-Napoli, L’ancora , 2008. Per una mappatura completa delle violenze compiute dalle forze armate tedesche e dai reparti militari della Repubblica Sociale Italiana contro la popolazione civile e i partigiani combattenti nella Provincia si rimanda all’ottimo sito internet tematico realizzato dall’Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea di Parma.
Iara Meloni, Occupazione tedesca e lotta di Liberazione a Parma: una breve introduzione storica in Stefano Rotta, Partigiano Carbonaro. Un ragazzo nella Prima Julia, Parma, Graphital, 2015

lunedì 20 marzo 2023

1960: il partito comunista contro il congresso del MSI a Genova

Genova: Piazza De Ferrari

Il 16 febbraio del 1959, la caduta del governo ‘monocolore’ democristiano, in carica dal luglio dell’anno precedente, fu il primo di una serie di eventi che segnarono uno snodo importante nell’immaginario della sinistra italiana, e forse non solo di questa. Dopo le dimissioni del secondo governo di Amintore Fanfani, e di un altro, brevissimo, guidato per la seconda volta dal democristiano Antonio Segni, il 26 marzo 1960 il presidente della repubblica Giovanni Gronchi incaricò un altro esponente della DC, Fernando Tambroni, di formare un nuovo governo. Il nuovo monocolore proposto ottenne una stretta fiducia alla Camera grazie all’appoggio del movimento sociale italiano e, successivamente, in Senato, grazie ancora all’appoggio missino e a quello dei monarchici.
Il mese successivo, il MSI, guidato da Arturo Michelini, annunciò che il VI congresso del partito avrebbe avuto luogo a Genova a inizio luglio. La decisione missina, considerando il fatto che Genova era medaglia d’oro per la Resistenza, fu interpretata dalla sinistra come una provocazione, ad aggravare la quale concorse la comunicazione della partecipazione al convegno di Carlo Emanuele Basile. Questi era stato infatti deputato e consigliere nazionale della Camera dei fasci e delle corporazioni durante il fascismo, aveva dichiarato immediata adesione alla repubblica di Salò, era stato prefetto di Genova ed era stato tra i responsabili degli arresti di molti operai e antifascisti per gli scioperi del giugno 1944, a cui aveva fatto seguito la deportazione di oltre un migliaio di operai in Germania. Sedici anni dopo, il pomeriggio del 30 giugno del 1960, un corteo di migliaia di manifestanti sfilò per le strade della città, fino a raggiungere piazza della Vittoria per il comizio finale. La manifestazione, accompagnata da molte altre in svariate città d’Italia, la sera degenerò in scontri aperti all’altezza di piazza de Ferrari. Fu infine presa la decisione di rinviare il congresso, mentre proseguivano le manifestazioni e gli scontri non solo a Genova, nuovi reparti di polizia venivano inviati in città, e le organizzazioni partigiane davano vita a un comitato di liberazione. Manifestazioni e disordini continuarono nei giorni seguenti. A Licata, in Sicilia, il 5 luglio un manifestante fu ucciso e ne furono feriti molti altri; due giorni dopo, a Reggio Emilia, furono uccisi altri cinque manifestanti.
Tambroni si dimise il 22 luglio, lasciando infine spazio per un terzo governo Fanfani, monocolore, che rimase in carica fino al febbraio 1962.
Le strategie discorsive che contraddistinsero la narrazione degli eventi da parte della stampa comunista durante il breve governo Tambroni sono un chiaro esempio di quella sovradeterminazione linguistica e concettuale in cui era incorsa una parte del discorso comunista tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, idiomatizzazione in cui era stata coinvolta anche la concettualizzazione del ‘popolo’. "l’Unità" del 6 aprile dipinse il governo proposto da Tambroni alla Camera, che nel frattempo aveva ottenuto l’appoggio missino e che aveva provocato le proteste di parte del suo partito, come una «offesa» «al Parlamento» e un «danno» «al prestigio delle istituzioni democratiche, sollecitando un voto che non avrebbe [avuto] altro senso, evidentemente, che di imporre alle Camere e al Paese questo stato di cose, e di lasciare che la Democrazia Cristiana [conservasse] il suo monopolio politico e [continuasse] ad esercitarlo per conto di forze ed interessi che [erano] fuori del gioco della democrazia» <117.
Nei giorni seguenti, mentre davano le dimissioni dieci ministri democristiani, tra cui Giulio Pastore e Nullo Biaggi, seguìti dai ministri Giorgio Bo e Fiorentino Sullo e dai sottosegretari Antonio Pecoraro e Lorenzo Spallino, "l’Unità" pubblicava il suo dissenso «contro il vergognoso connubio fra la DC e il MSI» <118. Ingrao sottolineava poi lo «scandalo», la «vergogna» e «la gravità» del fatto, e cioè che nella «Repubblica sorta dalla Resistenza» ci fosse «un governo che [stava] in piedi solo grazie al consenso della forza politica che [rappresentava] ed [esaltava] la parte peggiore e più umiliante» della storia italiana. D’altra parte, continuava il dirigente comunista, nonostante le dimissioni dei ministri democristiani, l’ala sinistra del partito non poteva essere assolta: perché aveva consentito «questo risultato sciagurato» e perché si era compromessa «in una grottesca operazione trasformistica», vendendo, «per un piatto di lenticchie», la possibilità di opporsi «non solo alla svolta a destra, ma alla sagra degli inganni, delle ipocrisie, delle doppiezze» <119.
Il pericolo proveniva dunque dalla minaccia alla democrazia e, nelle parole di Togliatti a una manifestazione organizzata dalla FGCI ad Albano, dalla potenziale «involuzione reazionaria» del paese <120. In definitiva, veniva utilizzata la stessa retorica politica che aveva caratterizzato il discorso pubblico comunista degli ultimi anni di guerra e dell’immediato dopoguerra, quello della lotta contro il fascismo, prima, e del pericolo di un suo ritorno, poi.
Ora come allora, il popolo era chiamato a svolgere sulla stampa una funzione politica legittimante, che si snodava attraverso due plessi narrativi tra loro intrecciati: quello che faceva leva sull’oltraggio perpetrato dalle forze reazionarie sul popolo e quello della legittimità della protesta politica di opposizione in sua difesa. «La DC», si sosteneva, era «diretta di fatto da quelle forze clericali e autorità ecclesiastiche che [volevano] togliere al popolo le sue conquiste democratiche» <121.
Nell’intervallo tra la fiducia ottenuta dal governo alla Camera (4 aprile) e la fiducia ottenuta al Senato (29 aprile), Tambroni presentò le dimissioni (11 aprile). Prima che Gronchi le respingesse, l’Unità aprì il numero del 12 aprile con “Il paese non tollera il ritorno a un passato di vergogna”. Alfredo Reichlin commentò le dimissioni con un articolo dal titolo fortemente evocativo, “Vittoria antifascista”, che instaurava un’equivalenza diretta tra le dimissioni del ministro democristiano e la caduta del fascismo:
«L’avventura del governo DC-fascisti è finita in tre giorni nel modo più vergognoso. […] La vergognosa conclusione dell’avventura di Tambroni è una chiara vittoria dell’antifascismo. Ancora una volta la DC ha dovuto prendere atto che il Paese non tollera che si superi un certo limite, il limite oltre il quale le manovre reazionarie assumono apertamente le sembianze ripugnanti del fascismo. Ma non solo questo: per la prima volta si è visto che i partiti di
ispirazione democratica o liberale […] non sembrano più disposti a servire da comodino alla DC. […] Tuttavia, sarebbe sciocco negare che la situazione è molto seria e che gravi sono le minacce che incombono sulla democrazia italiana. L’opinione pubblica avverte queste minacce ed è bene che sia così. Ritornare ai tempi delle camicie nere è impossibile, perché il popolo non lo permetterebbe mai» <122.
L’equivalenza tra nazione, popolo e antifascismo era stato il refrain della retorica comunista nei primi anni della repubblica, così come lo era stato l’accento sull’unità delle forze democratiche contro quelle reazionarie (in questo caso richiamata da «i partiti di ispirazione democratica o liberale»). La ‘riesumazione’ del governo a opera del presidente della repubblica, nelle parole de "l’Unità", era descritta sul quotidiano come «grave offesa alla coscienza democratica e antifascista del paese» contro la quale si faceva appello affinché «si [unissero] nella lotta e nella protesta le masse lavoratrici e gli antifascisti» <123. Il parallelismo tra la DC e il fascismo era piuttosto esplicito nella maggioranza degli articoli e dei commenti, alcune volte per accostamento diretto per giustapposizione. L.P., per esempio, sullo stesso numero, si chiedeva:
«Avrebbero mai immaginato coloro che quindici anni fa insorsero vittoriosamente contro l’invasore tedesco e i suoi servi fascisti, che nell’anniversario di quelle giornate gloriose si sarebbe tentato di dar vita, per la seconda volta, a un governo sostenuto da quattro cialtroni eredi del fascismo? Quale moto di rivolta avvertiranno oggi, nell’animo loro, i cittadini di fede democratica che si riuniscono in tutto il paese per celebrare il 25 aprile? La decisione di ieri, il rinnovato tentativo di imporre il governo Tambroni, è prima di tutto uno schiaffo all’antifascismo. Un tale governo fu travolto e si dimise per la ribellione suscitata nella coscienza antifascista di tutto il popolo e di tutte le forze democratiche, laiche e cattoliche: la resurrezione del governo è una sfida a questa coscienza» <124.
Per questo, dichiarava Togliatti, «Questo partito è ormai, agli occhi di tutti, uno ostacolo che apertamente si frappone a che il Paese abbia un governo, e soprattutto a che abbia un governo rispondente alle necessità odierne, alle aspirazioni e alla volontà della grande maggioranza del popolo» <125.
Era il popolo per primo, dunque, che rifiutava in massa il fascismo, almeno la sua «grande maggioranza», quella che era espressione «di tutte le forze democratiche, laiche e cattoliche», quella che aveva «coscienza antifascista». «Occorre un governo nuovo», scriveva "l’Unità" del 30 aprile, «e il popolo riuscirà a imporlo» <126. Così, in giugno, alla notizia del congresso missino, alcuni ambienti a Genova stilarono un manifesto che venne sottoscritto da PCI, PSI, PSDI, PRI e PR: «I partiti democratici», era scritto, «denunciano questa grave provocazione e, mentre esprimono il disprezzo del popolo genovese nei confronti degli eredi del fascismo, testimoniano l’indignazione e la protesta di Genova, medaglia d’oro della Resistenza» <127.
[NOTE]
117 Fondo “La scelta c’è già”, in “31 deputati DC si pronunciano contro il monocolore Tambroni”, l’Unità, XXXVII, 97 (6 aprile 1960).
118 “Dieci ministri dimissionari. Convocata la direzione DC”, l’Unità, XXXVII, 101 (10 aprile 1960)
119 Pietro Ingrao, “Risposta a una sfida”, l’Unità, XXXVII, 101 (10 aprile 1960).
120 “Il pericolo di involuzione reazionaria viene dalla DC e dalla sua politica”, l’Unità, XXXVII, 102 (11 aprile 1960).
121 “Il pericolo di involuzione reazionaria viene dalla DC e dalla sua politica”, l’Unità, XXXVII, 102 (11 aprile 1960).
122 Alfredo Reichlin, “Vittoria antifascista”, l’Unità, XXXVII, 103 (12 aprile 1960).
123 “Riesumato il governo DC-MSI di Tambroni”, l’Unità, XXXVII, 115 (24 aprile 1960).
124 L.P., “Una sfida”, l’Unità, XXXVII, 115 (24 aprile 1960).
125 “Una dichiarazione di Togliatti”, l’Unità, XXXVII, 115 (24 aprile 1960).
126 “Tambroni passa anche al Senato solo coi voti della DC e del MSI”, l’Unità, XXXVII, 121 (30 aprile 1960).
127 “Manifesto unitario a Genova contro il congresso del MSI”, l’Unità, XXXVII, 159 (8 giugno 1960).
Giulia Bassi, Parole che mobilitano. Il concetto di ‘popolo’ tra storia politica e semantica storica nel partito comunista italiano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2015/2016

Nella primavera del 1960, falliti ben tre tentativi di accordo fra democristiani e socialisti, perché questi ultimi esigono l'inclusione nel programma di governo della nazionalizzazione dell'industria elettrica, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi affida il compito di formare un nuovo governo al democristiano Tambroni. Il suo governo ebbe la fiducia grazie al voto determinante dei monarchici e del MSI.
Pochi mesi dopo la formazione del nuovo governo, nel giugno 1960, il MSI annunciò che avrebbe tenuto il suo congresso nazionale a Genova, città simbolo della Resistenza durante l'oppressione fascista. La scelta di Genova fu una scelta provocatoria e la risposta della popolazione non si fece attendere. Come già nel luglio del '48 all'epoca dell'attentato di Togliatti, Genova mostrò di essere la città italiana più pronta all'insurrezione. Il 30 giugno la CGIL proclamò lo sciopero generale e nel capoluogo ligure scoppiò il finimondo. Nel pomeriggio una manifestazione, a cui parteciparono decine di migliaia di persone, attraversò le strade della città. La repressione del governo fu immediata, si accesero duri scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. In questa atmosfera carica di tensione il prefetto di Genova, d'accordo con Tambroni, decise di rinviare il congresso del MSI.
Dopo questa sconfitta Tambroni volle riaffermare la sua autorità ad ogni costo, e diede il permesso alla polizia di sparare qualora si fossero verificate situazioni d'emergenza. In diverse città italiane ci furono scontri tra la popolazione e la polizia e alcuni dimostranti rimasero uccisi. La direzione democristiana allarmata cercò di sostituire Tambroni il più in fretta possibile. Il 19 luglio 1960, Tambroni fu costretto a dimettersi dalla carica di primo ministro. “L'Unità” ne dà l'annuncio con un titolo storico, «Vittoria del popolo e dell'unità antifascista. Tambroni cacciato», proponendo tuttavia contemporaneamente - attraverso i resoconti del Comitato centrale - l'impegno comunista di «raccogliere la spinta espressa dal movimento popolare» <21.
Fanfani fu richiamato per costituire un nuovo governo, formato da soli democristiani, con l'appoggio esterno di monarchici e socialdemocratici <22.
La vicenda, drammatica e grottesca, del governo Tambroni rese evidente a tutti che l'antifascismo era ormai radicato nella società italiana e ogni tentativo di svolta autoritaria e ogni attacco alle libertà costituzionali avrebbe incontrato l'opposizione di «un grandioso e incontrollabile movimento di massa di cui le forze comuniste sarebbero state una componente importante ma non certo unica» <23.
Ma in realtà, quei moti denunciano anche la questione comunista, «non è tanto la forza elettorale, infatti, a rendere impossibili l'isolamento e l'emarginazione ad aeternum del PCI, quanto piuttosto la sua partecipazione a pieno titolo al patto costituente: nonostante Stalin, la guerra fredda e gli stessi avvenimenti del 1956, resta il fatto che la carta fondamentale della Repubblica reca il marchio incancellabile del contributo comunista» <24.
[NOTE]
21 Cfr. “l'Unità”, 20 luglio 1960.
22 Cfr. P. Ginsborg, op. cit., pp. 346–348.
23 Ibid.
24 S. Lanaro, op. cit., p. 402.
Vincenzo Aristotele Sei, Il partito comunista nella società italiana da Togliatti a Berlinguer, Tesi di laurea, Università della Calabria, 2010

mercoledì 15 marzo 2023

A partire dagli anni Cinquanta del Ventesimo secolo il rotocalco diviene nella storia della stampa italiana uno dei generi editoriali più originali

Fonte: PetitesOndes

La nascita del rotocalco in Italia può ascriversi tuttavia a buon diritto intorno agli anni Trenta e si innesta all'interno di un processo di trasformazioni che investe il campo dei media. Proprio in questi anni avviene l'industrializzazione dell'editoria italiana attraverso l'allargamento dell'offerta: cresce il numero di romanzi pubblicati e tutta la letteratura d'intrattenimento o d'evasione raggiunge percentuali mai ottenute prima. Si afferma in questo periodo la «letteratura di consumo» rivolta a un pubblico non più d'élite, ma di lettori medi, e si registra il successo di generi quali la «letteratura rosa» (Salani e Sonzogno), i libri gialli e i bestseller. La produzione editoriale si fa articolata e, oltre un tipo di letteratura "accessibile", propone anche pubblicazioni di periodici e rotocalchi di diversa natura, dall'attualità all'umorismo, dalle riviste femminili a quelle cinematografiche.
Quando nel 1937 nasce, ad opera di Leo Longanesi, «Omnibus» <2, considerato antesignano e padre del rotocalco in Italia, già nella scelta del titolo della testata era insita l'idea di un giornale "per tutti": "Tutti chi? Padre e madre, figli e nonna, datore di lavoro e dipendenti, borghesi e ceti bassi, alfabetizzati e intellettuali. Un miscuglio abile, un intreccio dichiarato di fatti e di lettori dalle caratteristiche molto distanti, dietro il quale non esiste alcuno studio, nè analisi di marketing, ma solo la generica intenzione di acchiappare l'interesse di soggetti diversi». […]. Per la tv è stato inventato l'aggettivo generalista" (Roidi 2001:48)
Il nuovo target di riferimento diveniva così la famiglia e in tal senso le scelte editoriali si indirizzarono verso pubblicazioni periodiche (tra cui si ricordino il settimanale «Grazia», destinato al pubblico femminile del ceto medio, e «Tempo», rivolto a un pubblico non esclusivamente intellettuale. Edito da Mondadori, tra il 1939 e il 1943 «Tempo» segnò una svolta segnò una svolta visibile nella stampa periodica. La formula di «Tempo» sopravvisse in un senso duplice, biforcandosi tra il nuovo «Tempo» risorto nel 1946 e la mondadoriana «Epoca». A differenza dell'acuto sentore di élite che circolava nelle pagine di «Omnibus» e di «Oggi», «Tempo» volle caratterizzarsi come rivista di divulgazione, modellata su schemi americani, basandosi su un criterio antologico della compilazione che si giovava di firme di primo piano in campo culturale, artistico e scientifico (Ajello 1976: 190).
A partire dal 1943 cominciarono a diffondersi settimanali "a sensazione" (Ajello 1976:191), caratterizzati da una spiegazione cruda, e in certi casi tendenziosa, degli eventi di cronaca nera di quegli anni e degli avvenimenti da poco conclusi dell'occupazione e della guerra civile. Nacquero così testate quali «Crimen», «Reportage», «Cronaca nera», testimonianza («espressione-limite» di quella ricerca di verità e chiarezza che trovò espressione anche nel cinema dell'immediato dopoguerra.
In generale tutta l'editoria di quegli anni fu caratterizzata dalla "ricerca assidua dei fatti": l'editoria romana tra il '44 e il '45 registra un elevato numero di testate tra cui si ricordino giornali legati agli schieramenti politici come «La Nuova Europa» o «Città libera», a testate di ispirazione longanesiana quale «Città», a periodici illustrati a sfondo enciclopedico come «Cosmopolita» e «Domenica»; dai periodici di pura documentazione (non sempre di buona fattura) come «Quadrante», «Atlante», «La Settimana», «Folla» a quelli di spettacolo come «Star» (diretto da Ercole Patti); da testate dedicate a temi internazionali come il quindicinale «Mondo nuovo» (diretto da Arrigo Benedetti e Giorgio Bassani) a settimanali umoristico-satirici quali il «Cantachiaro» <3. Fra le testate citate spiccano, per ricchezza di indicazioni tecniche e di costume, «Cosmopolita» e «Domenica». Simili nell'impostazione editoriale i due settimanali accolgono le firme dei migliori esponenti della letteratura e del giornalismo d'elite (firme del «Selvaggio», dell'«Italiano», di «Omnibus», di «Oggi», di «Tempo»). Sia «Cosmopolita» che «Domenica», oltre a una precisa invocazione, in politica estera, di un'unione europea, mostrano un interesse particolare per un momento fondamentale della storia italiana: il passaggio dal fascismo alla democrazia. I redattori dei primi settimanali dell'Italia libera esprimevano uno stato d'animo diffuso e sintomatico: la successiva fortuna della stampa di attualità recherà il segno della loro generazione, della cosiddetta "generazione di mezzo" (Ajello 1976: 193).
All'indomani della seconda guerra mondiale la fortuna dei rotocalchi deve molto all'intraprendenza dei singoli editori quali Rizzoli e Mondadori.
All'attività di Angelo Rizzoli <4 si deve, nel luglio del 1945, la rinascita di «Oggi» che era stato già pubblicato nel triennio 1939-1942 sotto la direzione di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio. Nel '48, quando fu promulgata la legge sulla stampa, la testata fu acquistata interamente da Rizzoli e fu tra le più diffuse con 300.000 copie a settimana, poi raddoppiate negli anni Cinquanta. Nella nuova fase «Oggi» <5, diretto da Edilio Rusconi per la casa editrice Rizzoli <6, mostra «un cauto approccio alle notizie di cronaca e una disposizione di riguardo nei confronti della politica» <7. Ma, nel secondo anno di vita del periodico avviene una «svolta editoriale» <8 con la pubblicazione del servizio giornalistico dedicato all'esilio del re Umberto di Savoia: per la prima volta vengono mostrate in pubblico le immagine della villa di Cascais in cui era confinata la famiglia reale. Questo reportage fotografico inaugura il genere delle «favole moderne» <9 narrazioni sulle vicende dei divi e dei monarchi.
Nel '53 Rizzoli rilevava dall'editore Gianni Mazzocchi un altro settimanale destinato ad avere notevole importanza nel panorama della stampa italiana: «L'Europeo», nato nel '45 e diretto da Arrigo Benedetti, di grande formato e con grandi fotografie. «L'Europeo» <10 sviluppa un «interesse per le persone» <11, introducendo nel resoconto giornalistico annotazioni sull'abbigliamento, il carattere, i modi di fare di coloro che si affacciano sulla mutata scena politica. Il settimanale di Benedetti presenta i tratti distintivi dello stile dei rotocalchi odierni: un linguaggio semplice, "profili bibliografici" a puntate, corrispondenze estere, interesse per la cronaca mondana e i nuovi stili di vita, reportage in forma di racconto; in particolar modo «L'Europeo», sul modello anglosassone, si specializza nell'inchiesta investigativa: i giornalisti indagano sui fatti «al fine di rendere note verità nascoste» <12.
Sotto la direzione di Alberto Mondadori nacque nel '50 il settimanale «Epoca» che si presentava diverso rispetto agli altri periodici dello stesso genere (e al giornale «Tempo»), caratterizzandosi per un notevole salto di qualità sul piano grafico, per un maggior uso di colore e per la presenza di molti servizi fotografici. Il settimanale, che si ispirava all'americano «Life», fu negli anni Cinquanta tra i settimanali più diffusi, toccando nel '55 le 500.000 copie.
All'attività di Alberto Mondadori si deve la nascita nel '50 del settimanale «Epoca» <13 che si presentava diverso rispetto agli altri periodici dello stesso genere. Ideato sul modello di altri periodici statunitensi, la rivista si erge a simbolo di un paese industrialmente progredito. Offre al lettore una sezione politica degna della migliore stampa quotidiana e ha una linea editoriale attenta alle notizie internazionali senza, però, tralasciare i fatti di cronaca che coinvolgono la gente comune. Tuttavia, la carta vincente adottata da «Epoca» è rappresentata dalle «pagine spettacolari: di divulgazione artistica, scientifica, storica e paesaggistica» <14 che conferiscono al settimanale, edito da Mondadori, il ruolo di un «moderno atlante visivo» <15. Nell'ambito scientifico si assiste su questo settimanale alle prime esibizioni «di una particolare tecnica di racconto […] fondata sul susseguirsi di immagini cosmiche, di forme impreviste, di fatti fiabeschi collegati alla vita dell'uomo e del mondo» <16 (Ajello 1976: 205) .
Se Mondadori e Rizzoli, nella loro articolata attività, si caratterizzarono anche come editori di periodici e di rotocalchi che ebbero un particolare sviluppo nell'Italia del dopoguerra, altre case editrici si specializzarono in questo settore, destinato, fino alla vigilia del boom televisivo, ad avere un'enorme espansione: nel 1952 si vendeva in Italia circa 30 volte il numero di copie di settimanali di attualità rispetto all'anteguerra, cioè 12.600.000 copie a settimana, divenute 15.750.000 dieci anni dopo. Un simile impatto di pubblico ebbe un influsso modellizzante sulla cultura e sulla lingua degli italiani in quegli anni e contribuì alla formazione di un'opinione pubblica condivisa nel Paese.
Simile l'operato di editori quali Edilio Rusconi, inizialmente direttore di «Oggi», che diede avvio alla propria attività di editore nel '54 quando acquistò le testate femminili «Gioia» e «Rakam» per poi fondare nel '56 il settimanale «Gente» diretto concorrente di «Oggi», a cui venne data un'impronta ancora più popolare.
A partire dagli anni Cinquanta del Ventesimo secolo il rotocalco diviene nella storia della stampa italiana uno dei generi editoriali più originali, assumendo una funzione centrale nell'ambito «dell'informazione illustrata» (Ajello 1976: 206).
Nel 1955 Arrigo Benedetti fonda «L'Espresso» insieme ad alcuni editori e raccoglie attorno a sé un gruppo di giornalisti nonché scrittori e studiosi <17 che godranno di larga notorietà. Si tratta di un settimanale «di grande formato e con numerose fotografie, diverso come contenuti da giornali tipo «Oggi», polemico nei confronti del potere politico e anticonformista nel linguaggio <18». Una caratteristica del settimanale è quella di «deliziare o scandalizzare i lettori con le vicende pubbliche o intime degli idoli del giorno» <19. Tuttavia anche un «giornale d'assalto», come quello di Benedetti, comincia ad avvertire alcuni sintomi della crisi che si inizia a registrare nell'ambito del rotocalco tradizionale.
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta il settore dei giornali subisce non solo la concorrenza della radio ma anche quella della televisione <20. Se è vero che in Italia in questi anni si afferma l'industria culturale moderna in Italia è anche vero che essa si esercita principalmente sulla televisione: di questo medium è sovente sottolineato il ruolo essenziale nella formazione dell'opinione pubblica, la rilevanza come strumento d'informazione alla pari o in concorrenza con la stampa e la radio, il ruolo di definizione e ridefinizione della cultura popolare
Nei settimanali, lo spazio riservato alle iniziative del video cresce progressivamente sin dalle origini della Tv. Il pubblico televisivo richiede maggiori indiscrezioni e commenti "scritti" riguardo al nuovo strumento audiovisivo. Nel campo della cronaca, soprattutto politica, le informazioni fornite inizialmente dal video sono nulle e ciò contribuisce a ritardare l'effettiva crisi del giornalismo su carta. Ma contemporaneamente i telequiz, i festival canori, le rubriche ricreative, iniziano ad assolvere il ruolo svolto con successo sino ad allora dai settimanali: «rivelare il paese a se stesso» <21. La richiesta di un giornalismo per immagini, che era stata la novità introdotta dai rotocalchi «s'indirizza ora verso il piccolo schermo e ne ottiene crescenti soddisfazioni» <22. La concorrenza dei canali Tv, ai danni dei periodici, agisce su due piani: «confisca di contenuti spettacolari e sottrazione di nutrimento pubblicitario» <23. La crisi per il settore dei periodici raggiunge il culmine a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta soprattutto perché il ruolo di «calamita pubblicitaria» della televisione diviene sempre più forte.
Gli anni Settanta rappresentano infatti una tappa fondamentale per il giornalismo: si infittisce, infatti, il gioco di interrelazione tra quotidiani, stampa periodica e altri media (radio, televisione, cinema). In particolare il quotidiano aumenta la tendenza a elaborare «pacchetti» d'informazione il più possibile completi e sintetici attraverso un processo di «settimanalizzazione» (Dardano 1981: 450) ovvero l'inserimento di elementi propri del settimanale all'interno dei quotidiani, che assumono una veste grafica più gradevole, un arricchimento con nuovi contenuti, una lettura più agevole <24. Per fronteggiare la competizione con il quotidiano, «il vecchio rotocalco viene sostituito dal giornale in formato tabloid» <25: una veste editoriale più comoda e maneggevole che meglio si adatta alle diverse occasioni di lettura.
Il primo settimanale che adotta la formula tabloid è «Panorama» <26 seguito, nel 1974 da «L'Espresso» <27. Nello stesso anno vi è una corsa generale verso il nuovo formato. Fra la primavera e l'autunno la formula viene adottata da «Epoca», «Tempo», «ABC», la «Domenica del Corriere». L'unico a mantenere l'antica veste è «L'Europeo».
Ma le innovazioni non si fermano qui: la proposta di un giornalismo per immagini, che era stata la novità introdotta dai rotocalchi «s'indirizza ora verso il piccolo schermo <28 e all'interno dei settimanali, lo spazio riservato alle iniziative del video cresce progressivamente. Il pubblico televisivo richiede maggiori indiscrezioni e commenti 'scritti' riguardo al nuovo strumento audiovisivo: i continui telequiz, i festival canori, le rubriche ricreative, iniziano ad assolvere il ruolo svolto con successo sino ad allora dai settimanali: «rivelare il paese a se stesso» <29. Del resto non mancano contaminazioni in senso contrario: già agli inizi degli anni Sessanta (nel 1962 per la precisione) nella televisione italiana fu introdotto il termine "rotocalco televisivo" utilizzato dal giornalista Enzo Biagi per titolare un suo celebre programma RT-rotocalco televisivo, (Grasso 2002: 627) <30.
Nel 1974 i settimanali di cultura e di politica più influenti sono quattro: «Panorama» <31, «L'Espresso», e «con una certa distanza di autorevolezza, di impegno giornalistico se non ancora di diffusione» <32 «Epoca» <33 e «L'Europeo». «Epoca», la cui pubblicazione è stata sospesa nel 1997, si accosta di più al «giornalismo familiare» <34, alle questioni che toccano il cittadino più da vicino, è ricco di reportage fotografici e non manca di gettare uno sguardo sul jet-set; «L'Europeo» <35 possiede una linea editoriale e politica «meno pronunciata» <36, più conservatrice, e si accosta a «Epoca» per la formula familiare <37.
Negli anni Ottanta nascono le reti televisive commerciali, mentre la legge per l'editoria consente di compiere indispensabili riconversioni tecnologiche. L'introduzione del computer poi consente la «sopravvivenza della stampa nell'era della televisione» <38: razionalizza e accelera la produzione di giornali e ne abbatte i costi; modifica i processi di raccolta, elaborazione e immagazzinamento dell'informazione. <39
 


[NOTE]
2 Il settimanale «Omnibus» fondeva attualità, politica e interessi letterari: un rotocalco che rivoluzionò il giornalismo (grandi foto, testi asciutti, eleganza, ironia sottile) e che allargò la platea dei lettori. Arrivò ad una tiratura di 100 mila copie, ma presto venne soppresso da Mussolini. Il termine 'omnibus' venne poi utilizzato per indicare quei giornali che si dedicano alla politica, ai fatti interni, a quelli esteri, alla cultura, agli spettacoli, alla cultura, agli spettacoli, alla cronaca locale, in una «mescolanza che è differente da caso a caso solo per quantità e per qualità, ma il cui principio di base è identico (Roidi 2001: 48).
3 Per ulteriori notizie riguardo i rotocalchi citati cfr Ajello 1976: 192).
4 Notevole fu anche l'attenzione di Rizzoli in questi anni per le riviste femminili quali «Annabella», «Bella», «Novella», «La Donna».
5 Il periodico riprese vita nel luglio del 1945 dopo la chiusura decisa dal regime fascista nel 1939, ivi, p. 199
6 «Oggi» figurava giuridicamente diretto ed edito da Edilio Rusconi, poiché Rizzoli non aveva avuto l'autorizzazione necessaria dallo Psicological War Bureau. Nel '48 quando venne promulgata la legge sulla stampa, la testata fu acquistata interamente da Rizzoli, e sarebbe stata tra le più diffuse con 300.000 copie a settimana, raddoppiate negli anni Cinquanta; Rusconi ne rimase direttore fino al '55 (Tranfaglia 2007: 414-415).
7 Ajello 1976: 199.
8 Ivi, p. 200.
9 Murialdi 1980: 247-249.
10 «L'Europeo» uscito alla fine del '45, era pubblicato dall'Editoriale Domus, fondata a Milano (nel 1938) da Gianni Mazzocchi e dall'architetto Giò Ponti. Nel 1945 il settimanale era diretto da Arrigo Benedetti. Nel 1953 Rizzoli prelevò a Mazzocchi il settimanale destinato ad avere «notevole importanza nel panorama della stampa italiana» (Tranfaglia 2007: 415).
11 «Scomparsi i vecchi feticci del fascismo, ora la cronaca va innalzando sul podio della notorietà volti e figure di cui bisogna comunicare con rapidità i dati segnaletici. Per farlo, si ricorre alla tecnica del particolare apparentemente casuale ed accessorio, giustapposto, nelle didascalie che accompagnano le foto, all'essenziale della notizia» (Ajello1976: 195).
12 Cfr. Papuzzi, 1998:50
13 «Epoca», nato nel 1950, è diretto nel primo anno dallo stesso editore: Alberto Mondadori. Il periodico si presentava, rispetto ai periodici dello stesso genere degli anni precedenti, qualitativamente migliore nella grafica, nell'uso del colore, nel tipo di carta e nei molti servizi fotografici. Negli anni Cinquanta sarà tra i settimanali più diffusi. Cfr. Tranfaglia, 2007: 411.
14 N. Ajello 1976: 205.
15 Ivi, p. 206.
16 Tra i direttori di «Epoca» si ricordano personalità illustri come Arnoldo Mondadori (direttore dall'11 ottobre 1952 al 23 dicembre 1956 e poi nell'agosto 1960) e Enzo Biagi caporedattore responsabile (dal 16 gennaio al 27 febbraio 1955 e poi condirettore dal 6 marzo 1955 al 23 dicembre 1956). Il 25 gennaio 1997 Epoca ha sospeso le pubblicazioni, riprese in forma di periodico monografico, come supplemento del settimanale «Panorama». Il sito http://www.petitesondes.net/Epoca.htm mette a disposizione on line le raccolta completa del famoso settimanale Epoca, dal primo numero (del 1950) fino alla fine del 1984. Nel sito si legge la motivazione che hanno spinto i curatori a fornire questo servizio: « Pensiamo che possa essere piacevole sfogliarne ogni tanto qualche fascicolo, ripercorrendo così la nostra storia, non solo quella che si studia sui libri, ma soprattutto quella piccola, dei piccoli avvenimenti provinciali, della pubblicità, degli avvenimenti sportivi o culturali di un momento. Per condividere con voi questo piacere abbiamo deciso di pubblicare con una cadenza periodica la scansione completa di un fascicolo, da sfogliare rapidamente o leggere, a seconda dell'interesse».
17 Tra cui ricordiamo: E. Scalfari, C. Cederna, A. Olivetti, G. Fusco, M. Cncogni, U. Stille, V. Gorresio, e tra gli scrittori A. Moravia, P. Milano, M. Mila, B. Zevi (Tranfaglia, 2007: 417).
18 Ajello 1976: 224
19 Ajello 1976: 220
20 In Italia i sintomi della crisi, per via della concorrenza della televisione, arrivarono con cinque anni di ritardo rispetto a Francia, Germania occidentale, Gran Bretagna e di almeno dieci anni rispetto agli Stati Uniti. Paesi in cui la concorrenza si era avvertita prima (Ajello 1976: 223).
Con l'ampliamento del campo dei mass media, inoltre, cresce il ruolo e l'importanza delle agenzie distampa, che sin dal loro sorgere rappresentano una struttura portante della raccolta e diffusione delle notizie. Murialdi 2000: 234.
21 Ajello 1976: 223.
22 Ivi, 224.
23 Ibidem.
24 «Negli anni Settanta si avviano quei procedimenti pragmatico-testuali della stampa quotidiana. Mediante l'aumento del numero delle pagine e delle immagini, mediante l'assunzione di un nuovo stile espositivo, il quotidiano imita, a partire dalla fine degli anni Settanta il più fortunato (per diffusione e livelli di vendita) settimanale. Tale fenomeno riguarda sia gli aspetti testuali quali la cosiddetta «struttura a stella« degli articoli, che consiste nel disporre accanto all'articolo principale articoli più brevi e riquadri esplicativi: interviste, glossari di termini tecnici, riepiloghi storici, fotografie, disegni, grafici di varia natura. (Dardano 2008: 251).
25 Nei paesi in cui la crisi del settore si era manifestata prima (Francia, Germania occidentale, Stati Uniti) la formula tabloid era risultata una carta vincente. (Ajello 1976: 229)
26 «Panorama» aveva già da tempo superato una faticosa stagione pioneristica e iniziava a raccogliere i frutti di questa invenzione tecnica (il tabloid), imposta, oltretutto in regime di monopolio. Si trattò di «un successo dovuto, in parti uguali alla preveggenza e alla tenacia». Sebbene l'intuizione industriale di Panorama consistesse nel seguire la fortunata scia della stampa periodica mondiale che si muoveva verso la riduzione dei formati. Come «Time» negli Stati Uniti, «L'Express» in Francia, «Der Spiegel» in Germania. (Ajello 1976: 229-230).
27 L'Espresso fu fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti, diretto da Eugenio Scalfari dal 1963 al 1968, da Gianni Corbi fino al '70 e poi per quattordici anni da Livio Zanetti. Passò al formato tabloid il 10 ottobre del 1974. In quel momento direttore è Livio Zanetti. Il giornale è diviso in tre sezioni: politica, cultura ed economia. (Volli 2008: 357-358).
28 La concorrenza dei canali Tv, ai danni dei periodici, agisce su due piani: «confisca di contenuti spettacolari e sottrazione di nutrimento pubblicitario»28. La crisi per il settore dei periodici raggiunge il culmine a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta soprattutto perché il ruolo di «calamita pubblicitaria» della televisione diviene sempre più forte. Ajello 1976: 224.
29 N. Ajello 1976: 223.
30 Lo stile innovativo del genere si fondava nell'impiego dell'immagine a scopo documentale e nella sua forza suggestiva. Atzori, Travisi, Bonomu2008: 26
31 «Panorama» fu stampato per la prima volta nel 1962, inizialmente era un mensile d'attualità, cinque anni dopo, si trasformò in settimanale. Mondadori aveva inizialmente preso accordi con il gruppo Time Life di New York per una collaborazione editoriale, successivamente, con il passaggio di «Panorama» da mensile a settimanale, Mondadori ne divenne l'unico proprietario Tranfaglia, 2007: 412.
32 Ivi, p. 347
33 «Epoca», fondato da Arnoldo Mondadori nel 1950, ha sospeso la pubblicazione nel 1997.
34 Ibidem
35 «L'Europeo» ha chiuso i battenti nel 1995. Dal 2008 è diventato un periodico mensile che ripropone gli articoli del proprio archivio contestualizzandoli e collegandoli ai fatti contemporanei.
36 Ibidem.
37 Ugo Volli sottolinea come questi settimanali hanno, ancora oggi, una caratterizzazione laica e democratica e i diversi tentativi fatti per ampliare quest'informazione politica "a quattro voci", hanno portato solo difficoltà economiche e insuccessi di diffusione. Volli, 2008: 347-348.
38 Murialdi 2006: 270
39 «In una parola, il fattore tecnologico rivoluziona il modo di fare e di produrre i giornali […]. Al vecchio sistema detto "a caldo" per l'impiego del piombo, subentra quello della fotocomposizione, detto "a freddo"», Ibidem.

 




Milena Elisa Romano, La "popolarizzazione" di lingua e cultura nell'Italia del Novecento. Il rotocalco dagli anni Cinquanta a oggi, tra editoria cartacea ed editoria multimediale, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Catania, Anno accademico 2012-2013

martedì 7 marzo 2023

Discutere ancora del terremoto in Irpinia del 1980


Gli anni Ottanta sono il periodo in cui la mafia comincia a far sentire incisivamente la sua presenza, attraverso attacchi terroristici e stragi, motivo per cui, sebbene in precedenza la controinformazione ed il giornalismo investigativo italiani abbiano avuto come principale oggetto di ricerca il terrorismo, molti giornalisti convergono ora sui temi legati alla mafia. Il 1980 è però anche lo sfortunato anno della strage di Ustica, dove muoiono 81 persone, e del terremoto dell’Irpinia, in cui a morire sono poco meno di tremila persone.
Dopo otto anni da quel 23 novembre 1980 e nonostante i vari aiuti internazionali ricevuti <217 e gli investimenti dello Stato, la ricostruzione dell’Irpinia non è ancora avvenuta così Indro Montanelli, allora direttore de Il Giornale, intuisce "che quel terremoto non aveva trasformato solo una regione d’Italia, ma addirittura una classe politica" <218 e, deciso a scoprire che fine hanno fatto i soldi destinati alla ricostruzione, decide di condurre un’inchiesta, affidandola a Paolo Liguori.
Racconta quest’ultimo che, recandosi sul posto, erano emersi due aspetti fra loro diversi e complementari. Il primo era di carattere pratico:
dopo otto anni gli ingenti fondi avevano consentito non solo una semplice ricostruzione, ma un vero e proprio rilancio dell’economia irpina; banche, finanziarie ed esagerazioni edilizie, il trionfo dei geometrie di una generazione che prima del sisma non era niente ma ora era diventata potentissima. Il secondo aspetto era invece politico: in quegli anni gli amici d’Irpinia erano diventati gruppo di potere assoluto, prendendo in mano il governo e la maggioranza <219.
Liguori, fra il 19 e il 27 novembre, scrive quindi cinque articoli raccontando situazioni bizzarre: ha infatti scoperto che alcuni soci della Banca d’Irpinia sono minorenni ed anche la regione è costellata di finte aziende che hanno preso i contributi senza poi però produrre nulla.
Il primo episodio dell’inchiesta, pubblicato il 19 novembre e intitolato "Quei terremotati della ricchezza", racconta come gli effetti della scossa siano stati quasi una benedizione per la zona ove ora vi sono legioni di automobili di lusso e dove non c’è nessuno che lava vetri ai semafori in quanto i più poveri tra gli abitanti della provincia di Avellino hanno sempre almeno una pensione di invalidità. Il 90 per cento dei comuni è ancora invaso da baracche, prefabbricati e container ma in compenso i comuni terremotati da 389 sono diventati 687. Il sisma, secondo Liguori, ha sotterrato l’economia della zona ma ne ha creata un’altra, florida e senza crisi, dipendente esclusivamente dal bilancio dello Stato.
Nell’ultimo articolo, "Il silenzio irpino sulle imprese del clan De Luca", il giornalista racconta invece di come l’allora Presidente del Consiglio fosse riuscito a controllare l’intera zona collocando parenti o amici fidatissimi lì dove non poteva arrivare in prima persona.
L’inchiesta si sviluppa in assoluta solitudine, procurando ai relatori del quotidiano un ostracismo pazzesco, in primis da parte del potere politico dell’epoca tanto che De Mita fa minacciare l’editore de Il Giornale <220 in sede politica. Ad ogni puntata il clima diventa più pesante: i reporter della testata a Montecitorio sono accolti tra la freddezza ed aperta ostilità non solo da parte dei politici, ma anche dalla maggioranza dei giornalisti. Per fermare l’inchiesta inizialmente si cerca di coprirla con una coltre di silenzio, poi si sparge la voce che questa venga manovrata dai servizi segreti, mentre le fonti migliori sono proprio i politici della DC e gli attivisti del Pci locale furenti perché il loro partito ha coperto lo scandalo per esigenze di coalizione <221.
Per qualche giorno l’inchiesta cade nel vuoto finché, dopo un’interrogazione parlamentare dell’allora radicale Calderisi, L’Unità, diretta dall’onorevole Massimo D’Alema, pubblica un articolo di taglio basso firmato da Geremicca in cui si accusa di abuso di potere la corrente De Mita. È il segnale che il Pci non intende più difendere, dopo anni di unità nazionale, la sinistra democristiana che governa il Paese; è l’inizio delle polemiche che dureranno diciotto giorni, ovvero fino alla costituzione della commissione parlamentare d’inchiesta che avrebbe potuto far tremare i muri del Palazzo ma che, affidata a Oscar Luigi Scalfaro, finisce per coprire tutto ciò che i reporter hanno scoperto.
[NOTE]
217 Settanta milioni di dollari dagli Stati Uniti, trenta milioni dalla Repubblica Federale Tedesca, dieci dall’Arabia Saudita, che si aggiungono ai sessantatre miliardi di lire investiti dallo Stato.
218 LIGUORI P., Irpiniagate, in Il Giornale, 24 novembre 2004.
219 Erano gli anni del doppio incarico a Ciriaco De Mita, il suo segretario era Riccardo Mussi, il segretario del partito in Campania era Clemente Mastella, il capogruppo DC al Senato era Nicola Mancino e il direttore della Rai era Biagio Agnes.
220 Era già Silvio Berlusconi.
221 De Mita e i comunisti avevano infatti un obiettivo comune: fare la guerra a Craxi.
Nicolò Maria Salvi, Il requisito della verità della notizia nel giornalismo d'inchiesta, Tesi di laurea, Università LUISS Guido Carli, Anno accademico 2015-2016

Intervista a Gabriele Ivo Moscaritolo, autore del saggio Memorie dal cratere (Editpress)
[...] Dottor Moscaritolo, da cosa è scaturito il suo interesse per il sisma del 1980?
«Prima di tutto, c’è un aspetto di carattere personale che presiede a questo lavoro: sono originario di Mirabella Eclano, in Irpinia, e faccio parte della generazione post-terremoto, che ha dunque vissuto il sisma attraverso le testimonianze dei familiari e ha assistito al processo di ricostruzione dei paesi. Durante il mio percorso universitario, poi, mi sono appassionato agli studi sulla memoria, ai quali ho affiancato l’interesse e la curiosità per questo argomento, per la verità poco considerato dalla letteratura scientifica. Non a caso, ho dedicato al terremoto dell’Irpinia sia le mie tesi di laurea, sia la tesi di dottorato».
La sua ricerca si occupa di due comuni del cratere, Sant’Angelo dei Lombardi e Conza della Campania. Per quale motivo ha deciso di focalizzare l’attenzione su questi due centri?
«Ho voluto concentrarmi su questi due casi perché rappresentano due modelli opposti di ricostruzione, che si possono associare al classico dibattito sul destino dei luoghi colpiti da una grande catastrofe: ripristinare il passato “com’era e dov’era” oppure provare ad avviare un nuovo corso? Le storie di Sant’Angelo dei Lombardi e di Conza sono i punti estremi di un orizzonte che tiene dentro tutte le dinamiche che caratterizzarono la ricostruzione, anche perché la legge dell’epoca lasciava agli enti locali ampia libertà di iniziativa».
La gestione illecita dei fondi per la ricostruzione e il rilancio dell’economia delle zone disastrate è stata oggetto di inchieste giornalistiche (il famoso Irpiniagate raccontato dal «Giornale» di Montanelli nel 1987) e di indagini della magistratura, che hanno a loro volta alimentato una serie di luoghi comuni e stereotipi sul dopo-terremoto. Come si possono superare le interpretazioni sommarie, offrendo così all’opinione pubblica un punto di vista diverso sugli eventi?
«Nella storia d’Italia, le catastrofi sono state generalmente esaminate in maniera parziale e stereotipata. Questo aspetto è particolarmente evidente nel caso dell’Irpinia, perché la narrazione degli scandali ha occupato tutta la scena, oscurando perciò ogni altro aspetto del terremoto. Ovviamente, non si possono negare i risvolti giudiziari del dopo-sisma, tanto è vero che è stata istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta. L’enfasi con cui sono stati presentati questi episodi, però, ha confuso le acque: la stessa definizione di Irpiniagate sembra indicare uno scandalo circoscritto a un determinato territorio, con la conseguenza di attribuire a tutta la popolazione irpina le colpe del malaffare. In realtà, sappiamo che le cose sono andate diversamente: se gli enti locali si sono occupati della ricostruzione e del recupero degli insediamenti urbani, il finanziamento delle aree industriali è stato gestito dallo Stato centrale. Oltretutto, molti studi hanno dimostrato che, in provincia di Napoli, la criminalità organizzata rafforzò proprio in quegli anni la sua sfera di influenza, inserendosi nei circuiti dei subappalti e delle concessioni. Tutto questo per dire che c’è un’altra storia da raccontare: quella delle popolazioni dei comuni terremotati che, dopo i lutti e la distruzione, hanno dovuto vivere in un ambiente in continua trasformazione, adattandosi continuamente ai mutamenti sociali, economici e culturali».
Lei si è soffermato a lungo sulle differenze tra la gestione della ricostruzione a Sant’Angelo dei Lombardi e ciò che avvenne a Conza. Nel primo caso, si decise di ricostruire il paese lì dove sorgeva, mentre l’abitato di Conza fu trasferito a valle. Come hanno vissuto questa situazione gli abitanti dei due comuni, in particolar modo negli anni del «secondo terremoto»?
«Naturalmente, ci sono molte differenze tra questi due casi, soprattutto alla luce degli obiettivi di medio e lungo periodo che le due comunità intendevano conseguire. Se osserviamo da vicino il caso di Conza, sappiamo che all’inizio non c’erano aspettative ben precise: il futuro del paese dipendeva dalla forza dei suoi abitanti e dalle idee dell’amministrazione cittadina. Per come sono andate le cose, Conza rappresenta senz’altro un esempio positivo perché, nel corso degli anni, il paese è stato “vissuto” dalla sua gente. Sant’Angelo dei Lombardi, invece, rivestiva un ruolo molto importante anche in passato, dal momento che era sede di uffici e servizi pubblici essenziali come l’ospedale e il tribunale».
Nel libro trovano spazio anche le testimonianze di chi, come lei, fa parte della generazione nata dopo il 23 novembre 1980. Che cosa si è sedimentato nell’immaginario dei più giovani?
«Anche se le generazioni più giovani non hanno vissuto in prima persona quella tragedia, non c’è dubbio che il sisma sia profondamente radicato nell’identità e nel vissuto di tutti. Molte persone che, come me, sono nate negli anni Ottanta dicono di essere nate nel terremoto, in quanto hanno vissuto in contesti che oggi si definirebbero post-apocalittici: paesi distrutti, cantieri in costruzione. Dall’indagine che ho condotto emergono sensazioni molto diverse tra loro: da una parte, la curiosità per le vicende del terremoto, unita alla consapevolezza che quel passato sia un elemento imprescindibile nella storia della comunità e della famiglia di appartenenza; dall’altra c’è il desiderio di vivere il presente a partire da ciò che si ha intorno. Parlo soprattutto di persone che hanno vissuto la loro infanzia a stretto contatto con gli effetti del terremoto. Questa consapevolezza, infatti, tende progressivamente a sfumarsi tra coloro che sono nati a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta» [...]
Carmine Marino, Irpinia 1980-2020, oltre gli stereotipi, Venti blog, 10 novembre 2020

[...] Il giudizio complessivo sul progetto di sviluppo dell'Irpinia, per tutta la serie di motivazioni esplicitate nel paragrafo precedente, non può che essere negativo sia sotto il profilo della regolarità che sotto i profili dell'efficacia e dell'efficienza.
Ciononostante non sono da sottovalutare, a distanza di decenni dal sisma, alcuni elementi positivi. Sebbene non sia mai stata realizzata l'industrializzazione così come sognata dal legislatore negli anni ottanta, è innegabile che a distanza di trent'anni l'Irpinia abbia ampliato il suo secondo settore grazie a otto aree industriali in più (rispetto alle sole tre del 1980), che impiegano complessivamente oltre 2900 operai.
Certo, non una grande cifra se confrontata al totale degli impiegati negli undici nuclei industriali della provincia di Avellino (circa 11.000) ma occorre tener presente, come spiegò alla Camera l'allora vicepresidente della Confindustria Luigi Abete, che gli investimenti furono «realizzati in zone sostanzialmente senza alcun livello di industrializzazione e in località interne, quindi con problemi sia di localizzazione, sia di infrastrutture, sia di cultura degli operatori; pertanto, alla luce di queste considerazioni, risulta evidente che il livello dell'effetto quantitativo degli investimenti non può essere misurato con lo stesso metro con il quale si valuterebbe analogo investimento realizzato in una realtà a cultura industriale avanzata o con infrastrutture di servizi - sia di gestione, sia di carattere generale - in grado di risultare competitivi con quella che può essere una media di riferimento normale».
Nonostante le non rosee premesse, tra le aziende nate dall'articolo 32 si possono segnalare alcuni esempi di successo imprenditoriale e occupazionale, come la Ferrero, un'impresa di livello internazionale che decise di costruire nell'area del cratere due stabilimenti: uno a Sant'Angelo dei Lombardi e l'altro a Balvano, il paese lucano che il 23 novembre 1980 vide la morte di 66 bambini in seguito al crollo della chiesa di Santa Maria Assunta. Nell'opificio irpino l'azienda piemontese si dotò dei più sofisticati sistemi tecnologici oltre a un magazzino prodotti completamente automatizzato e un nuovo impianto di trattamento delle acque. Sfruttando le competenze consolidate e una politica di marketing di successo, impiegò un numero di addetti superiore alle previsioni iniziali (a Sant'Angelo dei Lombardi 396 addetti nel 1995 rispetto ai 142 previsti). Oggi la Ferrero, dopo aver ottenuto 80 miliardi di lire dallo Stato, conta 400 occupati con contratti stabili; anche grazie all'ottima qualità della materia prima messa a disposizione in minima parte dal territorio irpino, tra le linee produttive dello stabilimento di Sant'Angelo si distinguono quelle che hanno la nocciola come ingrediente base, tra cui la Nutella.
Tra gli esempi di imprese che ce l'hanno fatta va citata la Desmon, un'azienda avviata nel 1998 da tre imprenditori irpini di Montemiletto e specializzata nella produzione di impianti di refrigerazione che esporta i suoi prodotti per l'85% del suo fatturato. La fabbrica dispone di un laboratorio termodinamico che consente di fare il check-up a un frigo situato dall'altra parte del mondo. Nel 2008 la Desmon, che ha stabilimenti anche in Turchia, Cina e India, ha ricevuto il "Confindustria Awards for Excellence" come riconoscimento alla sua attività.
A Morra De Sanctis ha invece sede l'EMA (Europea Microfusioni Aerospaziali), azienda che si occupa di componenti per veicoli aerei militari e civili. Si è insediata a Morra nel 1998 per iniziativa di Finmeccanica e Rolls Royce, per poi essere acquisita al 100% dall'azienda inglese nel gennaio 2010. Attualmente l'EMA ha 448 addetti, conta un fatturato di 38 milioni di euro l'anno ed esporta principalmente nel Regno Unito. [...]
Giuseppe Ceglia, Irpinia Anno Zero. Come il terremoto del 1980 ha cambiato l’economia del territorio negli ultimi trent’anni, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma La Sapienza, Anno accademico 2011-2012