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martedì 27 dicembre 2022

Il 22 luglio comunque Patton era già entrato a Palermo


Il successivo impegno americano nel Mediterraneo, era però più che altro conseguenza della pressione britannica in questo senso, e alla decisione di uno sbarco in Italia, presa a Casablanca nel gennaio del '43, Roosevelt giungeva trascinato dal primo ministro britannico <7. Tuttavia, lo spirito con cui gli Stati Uniti affrontavano la loro missione, la loro “crociata in Europa”, come Eisenhower intitolerà le sue memorie di guerra <8, era quello della guerra necessaria, da combattere per il bene delle popolazioni da liberare. Così infatti era impostata tutta la propaganda alleata verso l'Italia <9, e così continuerà ad essere rappresentata la relazione fra occupanti ed occupati nei mesi successivi allo sbarco in Sicilia. Lo sbarco in Sicilia del 10 luglio del 1943 è dunque il primo momento in cui aspettative, intenti e illusioni, alleate e italiane, si incontrano, scontrandosi però molto presto <10. Nella costa sud-orientale sbarcano i britannici dell'VIII Armata di Montgomery; nella costa occidentale, fra Gela e Licata, gli americani della VII Armata guidati da Patton <11. Non ripercorreremo qui le note vicende della lunga e sanguinosa battaglia che vide impegnati italiani da un lato, e anglo-americani dall'altro, ci concentreremo piuttosto sulle dinamiche socioeconomiche dell'occupazione alleata. La prima certezza a crollare, per gli Alleati, fu quella di una facile conquista della regione, che di fatto cadde definitivamente solo il 17 agosto. Il 22 luglio comunque Patton era già entrato a Palermo e quasi dappertutto l'accoglienza della popolazione, stremata dalla guerra e dalla fame, si era rivelata spesso superiore ad ogni aspettativa. La stampa americana del tempo continuava ad esaltare l'atteggiamento dei siciliani, che avevano accolto gli angloamericani non come “conquistatori”, ma piuttosto come “authorities who have simply taken over from the Italians. They are at least not afraid” <12. Ma dopo una prima fase di accoglienza friendly, la popolazione inizia pian piano a riconsiderare la posizione verso i liberatori occupanti, o comunque a chiedere loro il mantenimento delle promesse fatte <13. Il cibo scarseggia, e dopo una prima ondata di arresti e deposizioni di podestà e prefetti fascisti, l'azione contro il sistema esistente si fa meno incisiva. La necessità di garantire stabilità al sistema è prioritaria, e per questo, se da un lato si cooptano "un numero limitato di Siciliani della classe migliore per lavoro amministrativo nei posti dell'economia, della finanza e della dirigenza-amministrazione" <14, dall'altro un ufficiale AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories) ha spiegato privatamente che molti di questi funzionari fascisti dovranno tenere i loro impieghi. Insomma il primo obiettivo non era la defascistizzazione, ma l'elusione dei guasti amministrativi <15. A dicembre del 1943, gli esiti di un sondaggio del PWB (Psycological Warfare Branch) presso la popolazione di Palermo, consentono di tracciare un quadro dei risultati dei primi mesi d'occupazione <16. Le prime 400 interviste, fatte scegliendo a caso cinque abitazioni per ogni strada, rivelano una generalizzata sfiducia nei pubblici ufficiali italiani. All'ultimo posto nel gradimento della gente stanno i funzionari addetti all'amministrazione delle risorse alimentari, subito seguiti dalle forze dell'ordine. Il problema di fondo, per la maggior parte degli intervistati, è comunque la presenza di ex fascisti in cariche pubbliche. E più o meno le stesse sono le riflessioni registrate in un rapporto dei servizi segreti civili, l'OSS, del 14 dicembre del '43 <17, le condizioni dell'isola, deterioratesi sin dai primi giorni, sono gravi e il chiaro disordine sociale è imputato alle agenzie governative (americane), incapaci di fornire cibo, abiti e ricovero persino ad un mero livello di sussistenza. Ma a peggiorare il quadro concorrono la negazione alla popolazione della libertà di stampa, parola e assemblee pubbliche, soggetta, ovviamente, alla censura militare, oltre alla mancata epurazione. Il mercato nero continua a prosperare, insieme alla criminalità. La popolazione è di nuovo allo stremo, e tutte le promesse che hanno animato la good war sono di difficile attuazione. Le responsabilità di questo stato di cose viene perlopiù attribuita al Governo militare alleato, anche se in genere la gente mostra tolleranza e pazienza. In linea con le direttive della sezione della guerra psicologica (PWB), la stampa americana continua ad esaltare le gloriose imprese militari dell'esercito alleato, presentato come una macchina da guerra coesa e forte, che deve il suo continuo successo anche all'esperienza siciliana <18. In realtà il “laboratorio Sicilia” ha già insegnato molto altro all'AMGOT. I successi militari insomma non sono sufficienti a garantire quelli amministrativi, e i problemi che gli Alleati incontreranno nei successivi due anni sono già tutti lì.
1.2 OSS chiama mafia
Fino ad ora non abbiamo fatto cenno ad uno dei temi costantemente associati nel dibattito pubblico allo sbarco alleato in Sicilia, e cioè la presunta collaborazione della mafia all’invasione alleata. La collaborazione tra mafia e Alleati è ripreso in ambito ufficiale, dalla Commissione parlamentare antimafia <19, che ha acquisito come verità quella di una collaborazione "tra mafiosi italiani o italoamericani che erano nel loro territorio e mafiosi che erano in Sicilia per preparare il terreno per lo sbarco" <20. In tutte queste ricostruzioni il trait d'union fra l'esercito americano e la mafia siciliana è stato individuato in Lucky Luciano.
[...] La necessità per l'esercito americano di avere al proprio interno collegamenti stretti con la mafia derivava non tanto dal vuoto di informazioni o sul come sbarcare, bensì dal programma degli Alleati, i quali ben sapevano di dover affrontare un problema assai più urgente: quello del governo dell'isola e del mantenimento di un determinato assetto sociale ed economico che potesse servire da modello "nella semplicistica visione del Dipartimento di Stato" <33 all'amministrazione di tutta l'Italia. "Come poter governare un paese del tutto sconosciuto ma sicuramente sottosviluppato, senza appoggiarsi alle forme di potere tradizionali e secolari come il clero e la mafia?" <34
Fu così che Brennan decise di arruolare per la sezione italiana, da inviare in Sicilia, quei personaggi che fossero in grado di avvicinare il potere locale. Saranno gli uomini di Brennan a formare, dentro i servizi strategici americani, il “cerchio della mafia”, come ammetterà esplicitamente un rapporto dell'OSS del 1945.
[NOTE]
7 La politica angloamericana verso l'Italia è un tema ampiamente studiato dalla storiografia. Si citano qui alcuni tra i numerosi saggi sull'argomento: E. A. Rossi, Una nazione allo sbando 8 settembre 1943, Mulino 2003. D. W. Ellwood,
L'alleato nemico, Feltrinelli 1977.
8 D. D. Eisenhower, Crociata in Europa, Mondadori, 1949.
9 Per la propaganda alleata in Italia si rimanda in generale a L. Mercuri, Guerra psicologica. La propaganda anglo-americana in Italia. 1942-1946, Archivio Trimestrale Roma, 1983.
10 Prima azione dell'OSS sarà la corsa del gruppo di Max Corvo e Vincent Scamporino all'isola di Favignana, per restituire la libertà ai mafiosi incarcerati dal regime fascista. La realtà siciliana delle settimane che seguirono allo sbarco racchiude e prefigura l'esperienza futura dell'Italia, dalla disgregazione dell'esercito agli inizi della resistenza.
Cfr., R. Faenza M. Fini, Gli Americani in Italia, Feltrinelli 1976, p. 13.
11 Per una puntuale ricostruzione della situazione nell'isola dopo lo sbarco, cfr. R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50), in Storia d'Italia - Le Regioni dall'unità ad oggi, M. Aymard e G. Giarrizzo (a cura di), La Sicilia, Einaudi, 1987, pp. 483-600.
12 Battle of Sicily - The Enemy: Friendly Isle, “Time”, 26 luglio 1943.
13 Sull'argomento si vedano i rapporti di Rennel of Rodd, SCAO dell'isola, del 2 agosto 1943, dell'8 agosto 1943 in Civil Affairs Soldiers become Governors, United States Government Printing Office, 1964.
14 Rennel of Rodd, op. cit., p. 202.
15 Ivi, p. 195.
16 First interim report of the public opinion survey section of PWB in Sicily, 4 dicembre 1943
17 Rapporto OSS n. J 116, 14 dicembre 1943, Sicilia, V. Scamporino al colonnello Glavin, Mr. Shepardson e Mr. Brennan
18 Cfr., per esempio M. Bracker, Allies Find Lessons in Sicily, NYT, 15 agosto 1943.
19 Cfr., Commissione parlamentare antimafia, Mafia e politica, Relazione del 6 aprile 1993, prefazione di N. Tranfaglia, Laterza, 1993, pp. 72-74.
20 Ivi, p. 72.
30 "Luciano ha detto, testimonia Geroge White di fronte alla commissione, che se avessimo accettato, … , allora lui avrebbe accettato di andare segretamente in Sicilia a stabilire i collegamenti necessari" US Senate Committee, doc. cit.,
p. 1182.
31 Cfr., Fini Faenza, op. cit, p. 11.
32 Ibidem.
33 Ivi, p. 12
34 Ibidem. Persino il generale Castellano, comandante dei carabinieri in Sicilia, vede nella mafia e nelle forze separatiste le uniche organizzazioni in grado di garantire l'ordine.
Vincenzo Aristotele Sei, Italia e Stati Uniti. L’alleato ingombrante (1943-1949), Tesi di laurea, Università della Calabria, 2014

giovedì 22 dicembre 2022

Staffette partigiane nel Trevigiano


Le protagoniste della diffusione: le staffette.
Dopo aver parlato di alcune questioni quantitative è bene chiarire quali fossero le particolarità del lavoro delle staffette, ovvero quali furono gli elementi che caratterizzarono la loro attività. Si cercherà qui di tracciare un ‘profilo tipo’ della staffetta e del peso della sua responsabilità.
Orari
In riferimento all’immagine n. 7 si è affermato che la seconda area di diffusione, detta ‘locale’, è circolare e ha un raggio di circa 12 km. Una staffetta, in casi di emergenza, poteva percorrere in bicicletta anche 30 chilometri in un’ora. <313 Quindi, in quest’area, i membri del servizio di informazione e propaganda potevano, virtualmente, raggiungere una destinazione ed essere di ritorno nel giro di 60 minuti. Queste valutazioni potrebbero sembrare una sterile speculazione data la contingenza e l’accidentalità della lotta clandestina. Specificare invece quali fossero i tempi di percorrenza è importante perché questi erano direttamente correlati agli orari nei quali potevano spostarsi le staffette. La ripartizione del lavoro era tesa alla diminuzione del tempo utile al raggiungimento della meta e i tempi di percorrenza non crescevano concordemente alla distanza tra le tipografie e le destinazioni. Infatti recapitare 10 o 15 volantini a tutti i paesi siti nelle vicinanze di Treviso poteva richiedere più tempo che non trasportare un singolo pacco dal capoluogo a Castelfranco o a Mogliano. Il pericolo non cresceva proporzionalmente alla distanza, ma al tempo e agli orari in cui si muovevano le staffette. Paradossalmente poteva essere più ‘facile’ muoversi di mattina per le campagne, che non in città di notte.
Era infatti molto importante dividere il lavoro tra le staffette, come dice Romeo Marangon (nome di battaglia Andrea) intervistato da Bizzi: “le informazioni e la propaganda venivano portate fino ad un certo punto e poi venivano lasciate. Il compito passava ad un’altra staffetta” <314. Anche la terminologia, in riferimento alla parola ‘staffetta’, evidenzia questo lato del compito delle partigiane: essere staffette significava trasmettere il ‘testimone’ ad altre in un’opera in cui ogni contributo era una frazione del totale.
Per inquadrare queste affermazioni si descrive l’attività di Tina Anselmi, staffetta partigiana che operava tra Castelfranco, Bassano e Treviso. Ella afferma di aver potuto percorrere anche 100-120 chilometri di strada al giorno “muovendosi alle 5.30 del mattino appena finito il coprifuoco”. <315 I suoi viaggi li potremmo definire ‘lunghe puntate’ e fanno riferimento all’area provinciale (la più grande delle tre). Il suo compito era finalizzato alla consegna di interi pacchi o di materiale a singoli recapiti.
Altro genere di spostamenti erano quelli affrontati da Bruna Fregonese. Era lei a portare il cibo ai dirigenti del Partito comunista alloggiati nelle case degli sfollati a Treviso. Per portare a termine questo compito Bruna si muoveva di notte durante il coprifuoco. <316 Se invece doveva consegnare della stampa in città, Bruna poteva servirsi di un’altra strategia da lei esplicitata chiaramente: “Andavo […] per incontri o impegni in città tra le 12 e le 13, quando di solito c’erano gli allarmi aerei. Allora tutti scappavano. Ognuno pensava per sé e nessuno faceva caso se qualcuno andava in senso contrario.” <317
La cosa non rimaneva comunque per nulla sicura perché come ricorda la staffetta: “avevo paura perché generalmente i bombardieri volavano scortati da caccia e gli angloamericani erano delle carognette, che a volte facevano delle picchiate e mitragliavano i poveri cristi in fuga dai centri” <318. Muoversi in corrispondenza dei bombardamenti poteva mettere al riparo magari da tedeschi o dai fascisti, ma significava esporsi ai mitragliamenti dei caccia alleati. L’orario scelto corrispondeva quindi alla tipologia del percorso e al genere di cose che si trasportavano. La costante rilevabile in tutte e tre queste modalità è quella di incontrare meno persone possibili lungo la strada: chiunque esse fossero.
Le “regole della clandestinità” <319
È così, con “regole della clandestinità”, che Bruna Fregonese si riferisce alla serie di norme non scritte alle quali ci si doveva attenere. Questi principi coinvolgevano aspetti di ‘metodo’ e ‘comportamentali’. Il metodo consisteva in delle buone pratiche, per esempio relative agli orari o ai percorsi, come nel fatto di distribuire tutta la propaganda senza mai rimanerne in possesso a fine giornata. <320 Ma le regole si rivolgevano principalmente al ‘contegno’, al comportamento che l’appartenente all’organizzazione doveva tenere. La clandestinità non fu una dimensione facile dell’esistenza perché coinvolgeva ogni aspetto della vita del militante. Le staffette non potevano permettersi nessuna leggerezza e dovevano diffidare di tutto e tutti.
Fu un partigiano traditore, Firmino Morello (nome di battaglia Tarzan), <321 a tendere un tranello alla staffetta Noris Guizzo e a scortarla alle carceri dove subì terribili torture. Fu sempre lei, in seguito, ad essere utilizzata come esca e fatta passeggiare liberamente per Treviso con l’intento di trasformarla in “un muto e involontario strumento di delazione” <322. Sarebbe stato sufficiente che qualcuno la salutasse per permettere ai fascisti di individuare altri membri, o sostenitori, dell’organizzazione. Fu Bruna Fregonese a incrociarla in quel frangente. Le sue parole restituiscono la tensione e la sofferenza di quel momento: “Un giorno venendo da via Canova e girando per piazza Duomo, la vidi, non era che ci fosse tanta gente in giro in quei tempi, lei dalla parte del Duomo veniva verso il Calmaggiore, sapevamo che la facevano muovere per la città per vedere se qualcuno la salutava, ci vedemmo, ed ognuna proseguì per i fatti propri. Non ricordo dove fossi diretta, so che avevo soldi e documenti addosso. Ricordo che mi mancarono le gambe, fu difficile proseguire e ricordo anche che prima di ritornare a casa passai da Carrer per dargli la notizia rassicurante: non ci tradiva!” <323 Carmen “non tradiva” perché aveva fatto finta di non conoscere Bruna, che con un solo cenno, dell’una o dell’altra, sarebbe stata immediatamente condannata a causa dei documenti che portava addosso. Questa era la dimensione della vita clandestina: fatta di imprevisti e di una selezione rigidissima nella quale non ci si poteva sciogliere nemmeno in un saluto. Venivano meno tutte le basilari forme di relazione: la chiacchiera, l’ironia e la spontaneità. Ognuna di queste esplicitazioni sociali poteva trasformare i membri dell’organizzazione in traditori: prima di tutto di sé stessi.
È questo che intende Laura Stancari quando parla del sollievo e della liberazione che si provava varcando la soglia delle ‘case’ amiche dove si ritrovava, anche per un momento, la serenità e la normalità del vivere: dentro “esiste la sicurezza di poter parlare, la sicurezza di non essere tradite, esiste fiducia reciproca e solidarietà. […] All’esterno ciò non è possibile, fuori non si possono salutare le persone che si conoscono, fuori c’è il nemico”. <324
Il clima della vita clandestina, pressata dalle perquisizioni, è ben presente nei quaderni di Nicola Paoli. Il militante comunista ritrovò proprio in questa ‘non-vita’ la scelta antifascista fatta dal giovane figlio Vladimiro. Dice Paoli “Se il mio Vladimiro portava con sé l’odio contro questi affamatori del popolo [leggi: fascisti], aveva la sua ragione: era cresciuto, nei continui spaventi”. <325 L’autenticità di questa scrittura popolare chiarisce con quelle due parole, “continui spaventi”, il senso di una gioventù vissuta nella paura. Alla dimensione umana della sofferenza, potremmo dire privata, di questo “trionfo del silenzio” <326, ne corrisponde poi un’altra legata ai componenti dell’organizzazione.
Come una tessera del domino, la caduta di uno dei pezzi poteva facilmente farne finire giù molti altri. Infatti, al di là delle accortezze che si tenevano nel ridurre al minimo la conoscenza e i contatti tra un membro e l’altro, nell’azione pratica, erano diverse le persone di cui si veniva a conoscenza. Infatti la responsabilità e la fatica non finivano con l’arresto: semmai raddoppiavano. A quel punto non era più in gioco soltanto la vita dell’imprigionato, ma quella di tutti i suoi cari, degli amici o degli appartenenti all’organizzazione che si potevano condannare cedendo alla tortura. Nel libro "Eravamo fatte di stoffa buona" (2008) <327 curato da Maria Teresa Sega, sono descritte le torture alle quali erano sottoposte le detenute. Dai racconti tragici delle violenze subite emerge la difficoltà che vi era nel tacere <328 di fronte alle percosse, le violenze sessuali e la corrente elettrica applicata anche ai  genitali. <329 In questi casi erano soltanto lo spirito d’abnegazione e la resistenza mentale, prima che fisica, a fare da garanzia per gli altri membri dell’organizzazione.
Si è parlato delle accortezze pratiche con le quali si mossero le staffette, ma sembra che, oltre ad alcune coordinate minime, non rimanessero loro altre risorse che inventiva e destrezza. È ormai chiaro che tutti gli appartenenti all’organizzazione dovessero attenersi a precise regole, ovvero ad un contegno contrario a tutto ciò che si può considerare ‘spontaneo’ in una persona.
Fu dalla capacità di dissimulazione che le staffette trassero la più importante delle loro armi. Infatti, prima di preoccuparsi di come superare i controlli, queste donne e ragazze si premuravano di sottrarsi alle perquisizioni. Qui entrava in gioco l’azzardo, la possibilità di far valere l’innocenza e la spensieratezza dei loro volti, sotto i quali in realtà si nascondeva a forza la paura. Tina Anselmi fu ad esempio l’autrice di un’imprudenza incredibile. Per trasportare una radio da Treviso a Castelfranco approfittò di un passaggio di un camion di soldati tedeschi. <330 Viene da pensare che soltanto la disinvoltura e l’ostentata sicurezza le garantirono di non essere scoperta e arrestata.
Queste considerazioni, sulle difficoltà che vi erano nel superare i controlli, nascono dalle testimonianze che hanno lasciato le staffette relativamente alle tecniche usate per occultare i volantini. Gli ordini, ovvero singoli fogli, potevano essere nascosti tra i capelli, nel reggiseno, o sotto le gonna. <331 I pacchi di propaganda richiedevano invece borse con doppifondi <332 o altri oggetti che li coprissero. Ma queste soluzioni non erano sufficienti.
Bruna Fregonese racconta che trovando dei pacchi molto grandi, spessi qualche centimetro, né arrotolati né piegati in due, fu costretta a metterli nel portapacchi della bicicletta e soltanto 3 o 4 nella borsa. Lei stessa scrive: “E poi ti chiedono dove nascondevi la stampa?!!!”. <333 Se si ripensa alla radio trasportata da Anselmi, per condannarla sarebbe bastato che uno dei soldati, anche solo per curiosità, sbirciasse nella borsa.
Era infatti molto difficile per le staffette non essere scoperte se perquisite. Lo si capisce anche dall’arresto di Nedda Zanfranceschi che fu trovata in possesso di volantini nascosti nel tubo della bicicletta e del manubrio, <334 posti certamente meno evidenti del portapacchi della bici.
Quindi, anche se sembrerà banale, per non essere trovate in possesso di stampa, ordini o i più diversi materiali che a loro venivano affidati, le staffette si adoperavano in ogni modo per evitare di essere perquisite.
Il profilo
Una questione molto importante è che la quasi totalità delle staffette di cui si ha memoria sono donne. Per spiegare questa preponderanza femminile, generalmente, si fa riferimento alla maggiore libertà di movimento delle donne: esse non erano soggette ad obblighi di leva militare. Questa giustificazione non è sufficiente perché le donne potevano essere comunque cooptate per la realizzazione di opere difensive. <335 Certo, la guerra aveva ribaltato il confine tra spazio pubblico e privato. Le ragazze incontravano minore difficoltà a muoversi perché, come osserva Sonia Residori: “Il confine tra sfera privata e pubblica viene scardinato dal conflitto in corso e la natura stessa della guerriglia porta le donne a una mobilità intensa e vivissima, fuori dai confini della quotidianità” <336. Sono loro che “ai posti di blocco si confondono con [altre] donne in cerca di cibo o in movimento per questioni familiari, ma le [loro] borse nascondono materiale antifascista e armi smontate.” <337
Questa considerazione ha comunque un secondo risvolto, perché dà l’impressione che le partigiane occupassero quei ruoli che gli uomini non volevano ricoprire, o comunque fossero da questi ritenuti ‘secondari’. L’osservazione nasce dal caso di Pietro Bovolato, antifascista castellano. Appresa la notizia della morte del fratello Lenin, Pietro dichiarò la volontà di sostituirlo nella lotta: “Pietro […] si reca al CLN e al Partito [comunista], da Pietro Bresolin, chiedendo di poter prendere il posto del fratello. […] Sarebbe stato necessario metterlo alla prova prima. Per questo gli affidarono il compito di staffetta tra Castelfranco e Treviso e nella zona della Pedemontana.” <338
Da questi elementi emerge come una persona non ritenuta idonea ad essere immediatamente inserita nei quadri combattenti venisse destinata a ricoprire l’incarico di staffetta. Sembrerebbe che la divisione dei ruoli non fosse dettata dall’opportunità o dalla predisposizione del soggetto, ma dall’essere appartenenti all’uno o all’altro sesso. Certo si trovano casi di donne partigiane <339 o di uomini staffette <340, ma questo non cambia la sostanza delle cose.
Le donne e ragazze che svolgevano quel compito avevano comunque gravi difficoltà a muoversi alla luce del sole, tanto che per giustificare il loro impegno in questo settore non è sufficiente la motivazione legata agli obblighi di leva.
Non vi sono infatti degli elementi ‘interni’ a questo compito che possano farne una prerogativa femminile. A dispetto di ciò, la gerarchizzazione ideale interna al movimento vide una minore considerazione di questo ruolo a dispetto delle responsabilità che pesavano sulle spalle di chi lo ricopriva. Nel libro "In guerra senza armi" (1995), che affronta la Resistenza con un approccio di genere, si scopre che le responsabilità ed attività delle donne nella Resistenza vengono generalmente indicate con le parole “contributo e partecipazione”. <341 Questi due vocaboli, detti “deboli” dalle autrici, nascondono proprio un’idea di secondarietà, se non di accessorietà, dell’esperienza e della lotta condotta dalle donne. Da questa idea nascono anche le interpretazioni del “maternage di massa” quale scelta istintiva, quasi pre-morale. Le autrici sottolineano invece come la scelta di ospitare o aiutare uno sbandato sia “una forma di resistenza civile insieme rafforzata e mediata dalla carica simbolica connessa alla figura femminile”. <342 Infatti la fame, la stanchezza della guerra o l’orgoglio, sono catalizzatori che non bastavano da soli a far varcare la soglia del disconoscimento della legalità fascista. <343
[NOTE]
312 Ivi, p. 51.
313 I. Bizzi, Il cammino di un popolo, Vol. I, op. cit., p. 34.
314 I. Bizzi, Il cammino di un popolo,vol. II. op. cit.,p. 37.
315 T. Anselmi, Ricordi di una staffetta partigiana di 17 anni tra città e campagna, op. cit., p. 122.
316 B. Fregonese, Le carte di Bruna, op. cit., p. 30.
317 Ivi, p. 50.
318 Ivi, p. 36. Queste osservazione sul carattere dei mitragliamenti operati dagli Alleati sono confortate anche da altre testimonianze. Pier Paolo Brescacin ne La colonna d’oro del Menarè afferma che durante il bombardamento alleato occorso a sud di Vittorio Veneto il 30 aprile 1945 “Gli Alleati non distinguevano amici e nemici e le bombe e le pallottole piovvero anche su civili e partigiani” cfr. Pier Paolo Brescacin, La colonna d’oro del Menarè, Vittorio Veneto, ISREV, 2009. p. 82.
319 B. Fregonese, Le carte di Bruna, op. cit., p. 67.
320 Ivi, p. 56.
321 F. Maistrello, Nome di battaglia: “Carmen”, op. cit., p. 105.
322 Ivi, p. 109.
323 B. Fregonese, Le carte di Bruna, op. cit., p. 73.
324 L. Stancari, “Case Partigiane” nella memoria di Bruna Fregonese, op. cit., p. 156.
325 Corsivo mio, M. Anastasio, I quaderni di Nicola Paoli, op. cit., p. 70.
326 A. Casellato, Una piccola Russia, op. cit., p. 125.
327 Luisa Bellina, Ida e le sue sorelle. Ragazze cattoliche nella Resistenza veneta, in Maria Teresa Sega (a cura di), Eravamo fatte di stoffa buona. Donne e Resistenza in Veneto, IVESER, Nuova Dimensione Portogruaro 2008, pp. 39-68.
328 Sonia Residori, Gli ideali superano la paura, in Maria Teresa Sega (a cura di), Eravamo fatte di stoffa buona. Donne e Resistenza in Veneto, IVESER, Nuova Dimensione Portogruaro 2008, p. 94.
329 Riccardo Caporale, La violenza contro le partigiane: il caso della banda Carità in Maria Teresa Sega (a cura di), Eravamo fatte di stoffa buona. Donne e Resistenza in Veneto, IVESER, Nuova Dimensione Portogruaro 2008, p. 108.
330 T. Anselmi, Ricordi di una staffetta partigiana di 17 anni tra città e campagna, op. cit., p. 123.
331 L. Tempesta, Memorie di partigiane in provincia di Treviso, op. cit., p. 34.
332 Wanda Canna, Ricordi di una staffetta partigiana, Ottobre 1943 Aprile 1945, Giacobino editore, Susegana 2010. p. 38.
333 B. Fregonese, Le carte di bruna, op. cit., p. 41.
334 I. Bizzi, Il cammino di un popolo, vol. II. op. cit.,p. 37.
335 B. Fregonese, Le carte di bruna, op. cit., pp. 31-32.
336 S. Residori, “Gli ideali superano la paura”: le donne vicentine nella Resistenza , op. cit., p. 81
337 Ibidem.
338 I. Bizzi, Il cammino di un popolo, Vol II, op. cit., p. 126.
339 Partigiana combattente in Cansiglio è stata Leda Azzalini, nome di battaglia “Mariska”. Cfr. Irene della Pietà, Michela Tocchet (a cura di), Mi chiamavano Mariska, Vittorio Veneto, ISREV, 2003.
340 Vi sono uomini come il “Sauro” (nome di battaglia Marcello Cadalto) il quale, una volta ricevuta da Bruna la propaganda in via Callalta di Treviso, la trasportava a Biancade e Roncade. Cfr. B. Fregonese,
Le carte di Bruna, op. cit., p. 56.
341 Io stesso in questa ricerca ho fatto, involontariamente, abbondante uso di questi due termini. Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi: storie di donne, 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 1995.
p. 16.
342 Ivi, p. 18
343 Ivi, p. 17.
Giuliano Casagrande, Le parole della Resistenza. La propaganda partigiana nel Trevigiano, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2012/2013

martedì 20 dicembre 2022

Uno degli agenti del SIM inviati sulla riviera venne intercettato dai réseaux

Sanremo (IM): uno scorcio del porto vecchio

Le mire fasciste su Nizza si concretizzano tra il novembre 1942 e il settembre 1943, con l’occupazione italiana. Jean Médecin viene costretto alle dimissioni [n.d.r.: da sindaco della città] nel luglio 1943; continua infatti a sostenere la radice francese di Nizza. Per quanto riguarda le vicissitudini belliche successive all’attacco italiano, le Alpi Marittime subirono l’occupazione da parte dei tedeschi, i quali distrussero villaggi, frazioni o qualsiasi altra cosa che potesse giovare alla Resistenza. Infine le distruzioni maggiori furono causate dai bombardamenti alleati sulle posizioni nemiche, tra il novembre del ’43 e l’agosto del ’44.
Al termine della guerra a Nizza si trovano, distrutti o danneggiati, 13.000 abitazioni, 2.400 edifici agricoli e 399 edifici pubblici <40. Il razionamento dei viveri viene effettuato ogni giorno, ma vista la penuria di prodotti alimentari il mercato nero dilaga. L’inflazione è molto forte, e i salari non aumentano proporzionalmente ai prezzi. La popolazione in tutto il dipartimento è diminuita, dal 1936, di 65.000 unità. La diminuzione ha interessato soprattutto gli stranieri, passati da 113.645 a 59.352. Siccome la stragrande maggioranza degli stranieri prima della guerra erano italiani (più del 90%), la colonia italiana, nel 1944, risulta dimezzata. Inoltre la popolazione rimasta risulta composta soprattutto da persone di età elevata, cosa che rende difficile il riavvio delle attività nelle Alpi Marittime.
Il 28 agosto 1944 Nizza fu liberata dal movimento di Resistenza. In città la CGT aveva lanciato lo sciopero generale già dal 20 agosto. Il 19 settembre 1944 Virgile Barel è designato come presidente della Delegazione speciale che dovrà guidare la città fino alle nuove elezioni. Barel era stato eletto Maire [n.d.r.: in verità deputato e non sindaco] di Nizza nel 1936. Il 13 maggio 1945 vincerà le elezioni la lista Républicaine, socialiste et de la Résistance, con 46.000 voti, contro i 33.000 della lista del PCF [n.d.r.: in cui militava Barel]. A capo della città si trova ora l’avvocato Cotta, messosi in luce nelle file della Resistenza. Resterà in carica fino al 1947.
40 André Nouschi, La guerre de 1939-1945 e Nice et son pays aujourd’hui (depuis 1946), in Histoire de Nice et du pays niçois, a cura di Maurice Bordes, Privat, Toulose, 1976, pp. 407-462.
Alessandro Dall'Aglio, Emigrazione italiana e sport a Nizza nel secondo dopoguerra (1945-1960), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Parma, Anno Accademico 2002/2003  

L’attività del tribunale militare di Sanremo
Inizialmente il tribunale si occupava di fatti accaduti nel settore di competenza territoriale del XV° CA, poi, dopo l’11 novembre 1942, diventò un annesso di quello della 4ª Armata che aveva sede a Breil-sur-Roya. Non affronteremo il tema delle sanzioni toccate ai militari della guarnigione nella Riviera dei Fiori, ma solamente quelle riguardanti i civili, francesi ma anche italiani, residenti a Mentone o soldati che occupavano la «città dei limoni».
Abbiamo recensito 159 sentenze pronunciate dal 14 gennaio 1942 al 27 luglio 1943 per fatti che risalivano fino al 3 settembre 1941. Queste sentenze hanno riguardato 78 cittadini italiani, 47 francesi, 2 austriaci, 1 monegasco, 1 olandese, 1 ungherese, 1 jugoslavo, 1 inglese, 1 svizzero e 1 cecoslovacco, e anche 25 militari italiani. I capi d’imputazione furono vari: passaggio illegale della linea di demarcazione (32), rialzo illecito dei prezzi (24), mancata occultazione delle luci (19), furto aggravato (17), contrabbando (10), furto (9), vendita di prodotti contraffatti o inadatti al consumo (6), trasporto illegale di lettere non controllate dalla censura (6), diserzione (6), violenza (5), ubriachezza (5), oltraggio al capo del governo italiano (3), documenti falsi (3), abbandono di posto (3), propositi disfattisti (2), omicidio involontario (2), detenzione di armi (1), oltraggio a un agente (1), ascolto della radio inglese (1), più tre situazioni assai complesse <35. Il tribunale assolse 41 accusati (25,7%), si dichiarò incompetente in 7 casi (4,4%) che trasferì ai tribunali civili o al tribunale di guerra della 4ª Armata, condannò 48 imputati al pagamento di ammende (30%) che andavano da 20 a 3000 lire, mentre altri 56 a pene carcerarie (35%) che andavano da 1 mese a 8 anni; infine altri 7 a pene carcerarie con il beneficio della sospensione (4,4%). Le punizioni più pesanti riguardavano il furto aggravato e toccarono sovente a militari italiani mentre i disertori, paradossalmente, furono condannati al massimo a tre anni di carcere <36. Le ammende furono inflitte quasi esclusivamente a commercianti italiani (73,5%) e le pene carcerarie toccarono al 53,5% dei cittadini italiani, molto spesso militari, un fatto che dimostra una certa imparzialità del tribunale <37, anche se del 62,5% delle assoluzioni beneficiarono cittadini italiani. Il reato di passaggio illegale della linea di demarcazione fu sanzionato in modo assai ineguale (6 assoluzioni, 3 pene carcerarie col privilegio della sospensione, 4 condanne a 8 mesi, 13 a 1 anno, 1 a 1 anno e 8 mesi, 3 a 2 anni, 1 a 2 anni e 6 mesi e 1 a 3 anni) e colpì quasi esclusivamente cittadini francesi (65,6%) e/o stranieri (28,1%).
[NOTE]
35 ACS, Tribunali militari della 4ª Armata, Sezione XV CA, Sentenze, volumi 11-15.
36 Contrariamente al tribunale militare di Breil dove i disertori furono condannati da 7 a 26 anni di prigione.
37 Segnaliamo che il francese perseguito per aver ascoltato la BBC fu assolto e che i tre francesi perseguiti per oltraggio al capo del governo italiano si videro infliggere solamente da 6 a 8 mesi di prigione.

Jean-Louis Panicacci, Le ripercussioni dell’occupazione italiana in Francia nella provincia di Imperia, Intemelion, n° 18 (2012) 
 
L’uomo ammise, peraltro, di aver fornito in precedenza ai réseaux della Resistenza francese altre importanti notizie sulla nostra marina, da lui specificate in sede di interrogatorio, senza però rivelare la fonte di cui era tramite […] Gli elementi informativi venuti in possesso dei réseaux della Resistenza francese solo da un organo centrale della nostra marina potevano essere attinti e di là soltanto provenire […] Il fortunato colpo del sottocentro di controspionaggio di San Remo, dipendente dal centro impiantato dal SIM a Nizza, schiudeva insperate possibilità  […] Il tragico crollo della situazione [8 settembre 1943] e la fine delle ostilità misero fine ad ogni indagine e determinarono l’immediata scarcerazione del “corriere” e informatore italiano […] un documento acquisito dal SIFAR nel 1953 […] Redatto da un elemento direttivo della Resistenza francese, tale documento illustra con ricchezza di elementi i successi ottenuti nella raccolta delle informazioni concernenti la nostra marina […] Uno degli agenti del SIM inviati sulla riviera venne intercettato dai réseaux che misero le mani sul questionario compilato dal nostro Servizio per una “verifica” presso la Delegazione navale centrale di armistizio. A questo punto i réseaux si precipitarono a dare l’allarme per coprire appunto la loro “fonte” […]  Qual era l’organico degli operatori radio del SIM all’estero? Dove erano dislocati? […] Nizza - sergenti maggiori Giovanni Pittini e Bignotti; Corsica - sergente maggiore Tussini […]
Carlo De Risio, Generali, Servizi Segreti e Fascismo. La guerra nella guerra 1940-1943, Libreria Editrice Goriziana, 2011 
 
Nizza

Durante il proprio periodo di occupazione della Francia, l'Italia mantenne due stazioni di controspionaggio, una a Nizza, diretta dal maggiore Valenti, l'altra a Genoble, diretta dal capitano Bassi. Garthe e Dernbach furono incaricati da Berlino, Abt III, di stabilire e mantenere buone relazioni con queste stazioni italiane [...] il servizio segreto italiano mantenne operativi il maggiore Valenti a Nizza ed il capitano Bassi a Grenoble. Le relazioni [di Dernbach] con i due ufficiali rimasero amichevoli, ma gli italiani cifravano i rapporti trasmessi, mentre il III-F [la struttura di Dernbach] relazionava in chiaro tutte le informazioni riguardanti la zona italiana. I due italiani non dovrebbero aver tenuto rapporti con l'SD.
Le pratiche  di solito non venivano risolte correttamente dagli italiani, che, anzi, le lasciavano andare in scadenza, fino a quando dovevano essere chiuse per mancanza di rilevanza tattica o strategica.
Dernbach ritiene che Valenti e Bassi stessero seguendo una politica di morbido sabotaggio all'insegna della linea tesa ad affrettare la fine della guerra.
Dopo l'armistizio dell'Italia, Valenti raggiunse Badoglio e Bassi la sua unità. Sembra che un assistente di Bassi, segretario di consolato ad Annemasse, entrato in qualche modo in possesso di documenti dell'Abw [Abwehr, il servizio segreto militare tedesco], li abbia portati in Svizzera per venderli a qualche servizio segreto nemico [della Germania].
Documento (W 90 CI - IIR-57) del servizio segreto dell'esercito statunitense, Rapporto sull'interrogatorio di Friedrich Dernbach, già ufficiale del controspionaggio tedesco, operante in Francia, 11 dicembre 1946
 
Map 2 Combat Zone (Zone A) and Rear Zone (Zone B), April 1943 (source: Le Petit Niçois, 30 April 1943). Fonte: Emanuele Sica, Italiani Brava Gente? L'occupazione italiana del sud-est della Francia durante la seconda guerra mondiale, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Waterloo (Ontario, Canada), 2011

s.fasc.2
Documenti con classifica 3a relativi all’attività svolta dal maggiore dei CC. Riccardo Valenti nel 1943 nel Centro controspionaggio di Nizza, ritenuto criminale di guerra dai francesi
[...]
s. fasc. 1. “ Valenti Riccardo maggiore CC. [carabinieri] spe [servizio permanente effettivo] 2 esemplari“ <142.
cc 90 1943 luglio 7-1951 aprile 21 ins. 1 “accuse francesi” in duplice copia.
Nota dell’Ufficio informazioni su presunti criminali di guerra richiesti dalla Francia, lettera del Comando generale dell’Arma dei CC del 12 dicembre 1948, dichiarazione del mar. CC Di Resta, note verbali dell’Ambasciata francese in Italia del 1947.
ins. 2 “difesa dell’interessato” in duplice copia.
3 relazioni difensive del maggiore Valenti del 1947.
ins. 3 “elementi raccolti in merito all’attività svolta dall’interessato” in duplice copia.
attestati di ufficiali italiani dei servizi di informazione sull’attività del maggiore Valenti al Centro di contro spionaggio di Nizza del 1948 (gen. Amè, tenente colonello Fatarappa-Sandri, CV Galleani; lettere del 1946 dell’Ufficio Informazioni relative alla concessione di ricompensa da parte del governo statunitense e attestati di ufficiali americani sull’operato del maggiore Valenti a favore della causa alleata.
Ins. 4 “Valenti Riccardo Maggiore CC. [carabinieri] spe [servizio permanente effettivo] 2 esemplari (fascicolo suppletivo)” in duplice copia.
Ulteriori dichiarazioni di ufficiali italiani (colonnelli: Bertacchi, Borla, Duran, Fetarappa-Sandri; tenenti colonnelli: Tessitore, Bodo; dichiarazione del 1951 del ten col. CC. Valenti, con allegati documenti del 1943 e 1946.
42 Fu capo del Centro di contro spionaggio di Nizza del Servizio informazioni militare dal 21 marzo 1943 all’8 settembre 1943.
aa.vv, cataloghi di AUSSME, Stato Maggiore dell'Esercito, Ministero della Difesa

Nizza

Nel luglio del 1943 una buona parte del Comitato di Informazione italiano e dell'O.V.R.A. [presenti in Francia] erano passati sotto il quadro dell'Intelligence Service inglese (2).
[...] Alla fine di agosto le suddette sagge misure, e notizie, permisero di allacciare contatti e tenere riunioni comuni con soldati e ufficiali italiani che, grazie anche ad una efficace e discreta propaganda, erano diventati filofrancesi ed erano arrivati a rifiutare l'atto di occupazione della Francia da parte dell'esercito italiano, strategicamente e politicamente insensato, attribuito più che altro alla follia di Mussolini e della sua cricca, ma che non era stato mai approvato dal popolo italiano. Non mancarono anche riunioni clandestine con vari membri dei partiti comunisti e socialisti (3).
Dal 25 luglio all'8 settembre 1943, con la caduta di Mussolini e la formazione del governo del generale Pietro Badoglio, una catena di evasioni e di protezioni veniva assicurata dai gruppi della Resistenza francese del comandante Giuseppe Manzoni [n.d.r.: nella maggior parte delle fonti un cognome, tuttavia, riportato come Manzone], detto «Joseph le Fou», della «F.T.P.» e dalle popolazioni di St. Raphael, di Cannes, di Nizza e di Monaco, a favore dei soldati italiani che abbandonavano le formazioni e si rifugiavano nelle montagne costiere e interne della zona di frontiera. Anche marinai di Villafranca e di Monaco effettuarono imbarchi clandestini di militari verso la costa ligure.
Dopo la capitolazione dell'8 settembre 1943 diciassette guide francesi prendevano in consegna, individualmente o a piccoli gruppi, gli elementi sbandati della IV armata italiana dissoltasi, e, oltre a curarne i feriti, li rifornivano di cibo e di abiti borghesi, accompagnandoli quindi con tutta sicurezza verso il rifugio «Nizza», situato nella regione di Tenda. Al passaggio della frontiera questi sbandati venivano presi in consegna da elementi italiani che lavoravano  in pieno accordo con i Francesi, e si cercava di convincerli a costituirsi in formazioni partigiane sia sulle alpi che sulla costa ligure, in previsione di uno sbarco delle truppe alleate.
Un tenente italiano P.M. e quattro militari dell'ex IV armata italiana si erano messi a disposizione del gruppo «Joseph le Fou» per sabotare i pezzi di artiglieria che dovevano essere consegnati in perfetto stato di efficienza alle truppe tedesche. Furono distrutti ventotto pezzi di artiglieria e recuperato un enorme quantitativo di armi individuali che, dal novembre 1943 al gennaio 1945, permise uno scambio di armi provenienti dalla IV armata e in possesso di partigiani italiani.
Su ordine del B.C.R.A. di Londra e di Algeri, venivano rinforzate le zone di frontiera delle Alpi Marittime presidiate da alpini italiani e dalle prime formazioni garibaldine della Resistenza.
Una seconda catena di protezioni e di aiuti agli sbandati italiani era stata costituita nelle regioni di St. Martin Vesubie, di Boreau e del colle della «Ciriegia». Messi in contatto alla frontiera con i primi elementi della Resistenza italiana, chi aveva abbandonato l'esercito veniva diretto su San Giacomo e su Entraque (4).
Tutte le suddette missioni compiute nella prima fase della lotta, vennero condotte a termine con efficacia e con poco rischio; invece quelle della seconda fase si rivelarono molto difficili e pericolose. Per sviluppare ulteriormente le informazioni militari, politiche ed economiche della parte di territorio italiano sotto il loro controllo, i resistenti francesi prendevano contatto con Lauck Albert, responsabile di collegamento con i capi del movimento «Combat», e nella zona di Ventimiglia-Grimaldi, con Vincenzo Pallanca che, durante il fascismo in Italia, era stato uno dei responsabili addetti alla protezione degli antifascisti (5).
Il Pallanca si metteva immediatamente a disposizione dei resistenti francesi e italiani con suo cognato Giovanni Raffa, proprietario di un garage a Nizza, Avenue Desambras. Ad essi si aggiungeva un certo Squarciafichi detto «Gima», Alberto Pallanca fratello di Vincenzo e suo cognato Silvestri Claudio. L'attività del Silvestri divenne di capitale importanza: infatti grazie alle sue funzioni di maresciallo dei carabinieri ed alle sue complicità con una donna guardiana delle carceri di Ventimiglia in contatto con la Resistenza francese, riuscì a far evadere parecchi partigiani francesi prigionieri.
Come è noto nel settembre del 1943 gran parte dei soldati della IV armata italiana furono catturati, maltrattati e a reparti interi fucilati dai Tedeschi. In questi frangenti difficili la catena costituita per le evasioni riusciva a mettere in salvo un altro centinaio di uomini che, dopo molte difficoltà, raggiungevano l'Italia o i «Maquis» della Resistenza francese.
Furono atti e sacrifici di sangue che consolidarono ulteriormente, in modo fraterno, l'amicizia franco-italiana.
Un episodio che ha favorito le relazioni italo-francesi è stato quello che ha avuto per protagonista Salvatore Bono comandante di una sezione della IV armata di presidio nella stazione forroviaria di Nizza: l'8 di settembre non solo non si arrese e non consegnò l'edificio alle truppe d'occupazione tedesche, ma con coraggio, autorità e sprezzo del pericolo, fece aprire il fuoco dai suoi uomini contro il nuovo nemico. Tra l'altro l'atto eroico rinforzò la volontà degli  Italiani residenti in Francia di liberarsi dal giogo nazifascista (6).
Nel gennaio del 1944 sulla costa ligure i contatti tra partigiani italiani e francesi erano già abbastanza consistenti e si cercò di rinforzarli. Tre resistenti italiani riusciranno ad infiltrarsi in seno alle formazioni repubblicane fasciste per intervento dei Francesi. Grazie a loro si stabilirono relazioni con l'insieme della costa ligure da Ventimiglia a Genova.
Un altro protagonista e fautore della fraternità d'anni tra partigiani francesi e italiani a Vallecrosia, fu il dottor Giacomo Gibelli (di cui abbiamo già parlato), residente in Camporosso, che fece la sua parte per organizzare la Resistenza imperiese. La sua attività permise di far entrare nei ranghi dell'Azione italo-francese della Resistenza i partigiani Ugo Lorenzi, Francesco Marcenaro (ex radiolettricista della Marina italiana) e Mario Lorenzi conoscitore esperto di tutti i più reconditi passaggi della frontiera delle Alpi Marittime (7).
Da parte della Resistenza francese vennero stabiliti altri contatti con due membri del Partito comunista italiano di Boves, con l'ex tenente della IV armata Nadio Pranzati e con Primo Giovanni Rocca, comandante della IX divisione garibaldina; furono prese iniziative per sviluppare ulteriormente la lotta sulla costa ligure e lungo la vallata del Roja dove i contatti erano già stati presi con i partigiani di Casterino, di Collardente e della regione di Briga-Tenda allora italiana, dove Camillo Maurando del luogo, Pierino Lanciolli di San Dalmazzo e un certo Massa avevano costituito i primi gruppi di partigiani francesi (8).
[NOTE]
(2) Da una testimonianza scritta del comandante partigiano francese Joseph Manzone detto «Joseph le Fou»
(3) Dalla testimonianza scritta succitata. Le prime riunioni si svolsero a Boves, a Borgo San Dalmazzo e a Entracque.
(4) Questa testimonianza scritta - scrive «Joseph le Fou» - è destinata a onorare la resistenza italo-francese e soprattutto a onorare gli abitanti dei paesi e delle città che hanno aiutato tanti giovani senza aver chiesto o ricevuto nessuna ricompensa e nessun riconoscimento, come Pieracci Costantino, di Nizza, ecc.
(5) Vincenzo Pallanca aveva facilitato l'evasione verso la Francia di tutti i nemici del Regime, braccati o condannati nel loro paese, dal 1929 al 1939, anni precendentì alla seconda guerra mondiale. Come vedremo nelle note che seguono,  lui e i suoi famigliari vennero sterminati dai Tedeschi il 9 dicembre 1944.
(6) Bono Salvatore, medaglia d'oro, uccide un ufficiale delle S.S. Colpito da una raffica di mitra mentre lancia una bomba a mano, viene ricoverato dilaniato nell'ospedale di Nizza in gravissime condizioni. Vedi: Secchia Pietro, Enciclopedia dell'Antifascismo e della Resistenza - Edit. La Pietra, Milano, 1968, Vol. I, pag. 329
(7) In una sua testimonianza il partigiano Francesco Marcenaro scrive quanto segue: « .. Uno dei tanti episodi della guerra partigiana sconosciuto ai più, è quello vissuto da Ugo Lorenzi, Mario Lorenzi e Francesco Marcenaro, che, dopo  gli avvenimenti dell'8 settembre 1943, si erano trovati nella zona tra Ventimiglia e il confine francese. Soli e con il solo scopo di contribuire alla lotta di liberazione, dopo un lungo peregrinare per sottrarsi alle rappresaglie  tedesche e dopo una fuga da una casa di Grimaldi dove erano stati accerchiati, con grande coraggio tentarono l'impossibile attaccando per primi con bombe a mano le truppe che effettuavano l'accerchiamento, creando un disorientamento tale da poter evadere dalla casa saltando da una finestra. Oltre ai succitati, nella casa si trovavano dei giovanissimi ragazzi: Alberto Lorenzi, Oreste Tarabusi ed Enrico Tarabusi; quest'ultimo venne poi preso da una pattuglia mentre tentava di raggiungere Ventimiglia, e si deve al suo coraggio, nel negare di essere a conoscenza del fatto, se le famiglie dei protagonisti della lotta non subirono rappresaglie. Mentre i giovani rientravano a Ventimiglia, i tre succitati raggiungevano un rifugio, sul limite del confine, di proprietà  di Antonio Lorenzi e  del fratello Alberto. Questi erano già in contatto con Vincenzo Pallanca e con Giovanni Raffa garagista di Nizza. Vagliate le conseguenze dell'episodio passarono il confine e raggiunsero le formazioni partigiane francesi comandate da «Joseph le fou». Ai suoi ordini parteciparono a numerose azioni di sabotaggio ed attuarono molti collegamenti via terra e via mare con le forze italiane  di liberazione come testimoniano i documenti rilasciati dalle Autorità militari franco-alleate... ».
(8) Dalla testimonianza scritta di «Joseph le Fou».

Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977
 
Con l’8 settembre e la caduta del fascismo la situazione evolvette: lo sbandamento della IV Armata nei territori occupati rafforzò notevolmente la posizione degli antifascisti, che disponevano di una maggiore libertà di manovra e di nuove reclute, che disertavano e si univano alla Resistenza portando con sé armi ed esperienza di guerra.
All’inizio del ‘44 tutta la Costa Azzurra fu teatro di una serie di attentati, sabotaggi, esecuzioni di fascisti e collaborazionisti, che trovarono anche il sostegno della popolazione francese locale.
Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista in Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015
 

lunedì 19 dicembre 2022

Nei documenti di Pecorelli si trovarono fascicoli sul caso Borghese

In quel particolare momento storico si stavano sperimentando in Italia i primi governi di centro sinistra che non riscuotevano l’approvazione di alcuni settori politici e di parte dei servizi segreti italiani e statunitensi. Il piano Solo non venne messo in pratica, anche se probabilmente aveva una sua validità visto che un piano simile permise il colpo di Stato dei colonnelli greci <97, ma solo la notizia, che era stata fatta trapelare, della sua possibile organizzazione ebbe il risultato di inibire le volontà riformiste del governo e del partito socialista, secondo le testimonianze dei protagonisti. «Il tentativo della destra di far passare una soluzione politica non solo conservatrice, ma reazionaria» <98, fu infatti, secondo l’allora segretario del partito socialista Pietro Nenni, uno dei motivi dell’accettazione di un “congelamento” del centro sinistra. Inoltre, "la minaccia del golpe autoritario negli anni tra il 1965 e il 1970 è più forte, più che il suo opposto, la rivoluzione proletaria. […]. La preoccupazione è diffusa in tutta la sinistra" <99.
L’ipotesi golpista venne messa in pratica nel 1970, la notte della festa dell’Immacolata, quando sotto il comando di Valerio Junio Borghese, ex-comandante della X^ Mas e fondatore del Fronte nazionale, militanti neofascisti e reparti della Guardia forestale si mossero per occupare il Ministero degli interni. Il colpo di Stato venne bloccato e ancora oggi non è possibile sapere molto su questo tentativo né perché venne bruscamente interrotto <100, né è possibile comprendere se la realizzazione del Golpe fosse davvero il fine o se lo scopo fosse quello dimostrativo. Del resto pochi giorni prima della strage di piazza Fontana su alcuni giornali conservatori si era prospettato l’intervento dell’esercito: "forze armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immediatamente la legalità repubblicana. Questo non sarebbe un colpo di Stato, ma un atto di volontà politica a tutela della libertà e della democrazia" <101.
Come è evidente, non è né possibile né corretto, leggere la storia nazionale come una lunga e organica sequenza di strategie occulte organizzate in collaborazione con i servizi segreti italiani e stranieri, ma d’altra parte non è possibile analizzare la storia repubblicana senza indagarne anche i fatti meno chiaramente spiegati, i contesti nazionali ed internazionali, le strutture politiche e di intelligence <102. Se è vero che in Italia, così come in nessun altro paese europeo, il confronto Est Ovest condizionò la politica interna, lo sviluppo e la vita delle istituzioni democratiche del paese <103, è altrettanto vero che è indispensabile analizzare la storia repubblicana facendo riferimento alla politica, alla società, alla storia delle ideologie e alla loro evoluzione con le loro peculiarità nazionali pur sullo sfondo della Guerra fredda. L’intreccio violenza e democrazia è un tema di grande interesse e importanza per l’analisi della nostra storia ed essenziale risulta cercare di capire quale scopo abbiano avuto le differenti manifestazioni di violenza a cui abbiamo assistito durante gli anni repubblicani, provando ad inserire questa analisi nel lungo periodo <104.
[NOTE]
97 In Grecia assunse il nome di Prometeo.
98 P. Nenni, Intervista sul socialismo italiano, a cura di G. Tamburano, Laterza, Bari,1977, pp. 99-100.
99 G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, Rizzoli, Milano, 1978, pp. 15-16.
100 F. Germinario, Destre radicali e nuove destre. Neofascismo, neonazismo e movimenti populisti, in P. Milza, S. Berstein ; N. Tranfaglia, B. Mantelli, Dizionario dei fascismi, Milano Dizionari Bompiani, 2002. p. 711
101 Editoriale apparso sul settimanale «Epoca» alla vigilia della strage di Milano, citato in G. Boatti, Piazza Fontana, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Editori Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 489.
102 Su queste si veda, fra l’altro, G. De Lutiis, I servizi segreti in Italia. Dal fascismo alla seconda Repubblica, Editori Riuniti, Roma, 1998.
103 P. Craveri, op. cit., 1995, p. 454.
104 L. Paggi, Violenza e democrazia nella storia della Repubblica in «Studi Storici» ottobre/dicembre, anno 39, 1998. F. M. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell'antifascismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Cinzia Venturoli, Stragi fra memoria e storia. Piazza Fontana, Piazza della Loggia, La stazione di Bologna: dal discorso pubblico all’elaborazione didattica. Il data base per la gestione delle fonti, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Anno accademico 2006/2007

Intanto, la risposta dello Stato si faceva attendere o risultava assolutamente insoddisfacente, ed i presunti responsabili ne uscivano spesso impuni. A parte il processo per la strage di Piazza Fontana, si deve ricordare che anche nel caso di Peteano, ad esempio, furono accertate manovre di depistaggio ad opera di alcuni funzionari del Sid che consentirono la fuga all’estero di alcuni degli imputati e servirono a tenere nascosta all’opinione pubblica la sezione italiana della struttura Stay Behind. <33
Oltre agli attentati dinamitardi e a numerosi reati minori contro sedi e simboli di sinistra, oltre alle aggressioni squadriste ed alle intimidazioni, fatti che sono stati interpretati da alcuni osservatori come un’alternativa alle stragi all’interno della “strategia della tensione”, nell’estrema destra italiana ci fu anche chi tentò una via golpista. Solo un anno dopo la strage di Piazza Fontana il tentativo di colpo di Stato capeggiato da Junio Valerio Borghese, che riuscì ad occupare il Ministero degli Interni, fallì, eppure contribuì ad aumentare la tensione già presente nel paese. Seguirono altri tentativi di colpo di Stato sempre di matrice di destra ma diversi tra loro, tutti falliti e che non ebbero neppure effetti cruenti, ma che evidenziarono l’esistenza di forze con obiettivi eversivi <34 e che sì propiziarono una reazione da parte delle forze democratiche. <35
A differenza di Satta, Mirco Dondi non separa stragismo e golpismo, ma li riconduce entrambi allo stesso piano eversivo ideato e diretto dagli organi a capo della “strategia della tensione” individuando un nesso di continuità tra gli attentati e i tentativi di colpo di Stato. Dondi riporta il dato acquisito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta che indagò sui fatti negli anni Novanta, secondo il quale i vertici dello Stato non solo erano al corrente dei preparativi del golpe Borghese, ma lo avrebbero persino incoraggiato. <36 Inoltre, oltre ad osservare un notevole ritardo nell’informare l’opinione pubblica dei fatti, Dondi sostiene che anche successivamente i dettagli più preoccupanti vennero taciuti non solo dagli organi di governo e dai partiti, ma anche dalla stampa, probabilmente allo scopo di non diffondere panico fra la popolazione e prevenire eventuali conseguenze istituzionali. <37 Egli intuisce un patto di silenzio tra i partiti democratici (anche quelli all’opposizione erano stati messi a conoscenza del golpe) in tal senso. Ma forse ciò servì ai politici per non essere additati come responsabili diretti o indiretti del golpe (in particolare i democristiani avrebbero avuto molto da perdere dalla diffusione completa delle informazioni).
Nonostante la gravità della situazione, il paese non cadde nell’anarchia o nella guerra civile, come alcuni temevano, e le istituzioni non furono rovesciate. L’ordine pubblico divenne un argomento di discussione costante in Parlamento, dovuto all’escalation della violenza fra i gruppi fascisti e antifascisti. <38 Il processo per il golpe Borghese andò avanti come anche le indagini sugli altri colpi di Stato, <39 nel 1972 le indagini per la strage di Piazza Fontana subirono una svolta decisiva verso la pista neofascista e nel 1973 si arrivò allo scioglimento di ON, la principale formazione dell’estrema destra. Insomma, si poteva già intravvedere il fallimento del terrorismo nero.
[NOTE]
33 Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., p. 427.
34 Sulla presunta pericolosità del golpe Borghese, vid. Mirco Dondi, L’eco del boato..., cit., p. 251; gli altri colpi di stato di quegli anni che fortunatamente non ebbero mai luogo, ma della cui preparazione sono state trovate prove, riguardano: la Rosa dei venti, un’organizzazione composta da militari, estremisti neri e industriali che rimandò due volte il colpo di stato e che alla fine rinunciò (Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., p. 369 e ss.; Mirco Dondi, L’eco del boato..., cit., p. 325 e ss.); il conte Edgardo Sogno, che stava mettendo a punto un piano per sciogliere il Parlamento e far nominare un governo di tecnici e militari. Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., p. 364 e ss.; Mirco Dondi, L’eco del boato..., cit., p. 392 e ss.
35 Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., p. 343 e ss.
36 Mirco Dondi, L’eco del boato..., cit., p. 251 e ss. L’autore cita Mario Tanassi e Giulio Andreotti tra i politici al governo informati dei fatti.
37 Secondo Dondi, la stampa, in tutti gli episodi che si possono ricomprendere sotto la “strategia della tensione”, avrebbe sempre raccontato meno di quello che sapeva.
38 Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica..., cit., p. 280 e ss.
39 Mirco Dondi, L’eco del boato..., cit., p. 394 e s.

Lilia Zanelli, Gli anni di piombo nella letteratura e nell’arte degli anni Duemila, Tesi di dottorato, Università di Salamanca, 2018

Nei documenti di Pecorelli si trovarono fascicoli sul caso Borghese, appunti sull’organizzazione «Rosa dei venti» e fotocopie di corrispondenza segreta e riservata del Sid mentre, tra i documenti non considerati di rilevante interesse ed inizialmente non inventariati, il rapporto ispettivo della Banca d’Italia sull’Italcasse ed il fascicolo Com.In.Form contenente valutazioni dei Servizi segreti su Licio Gelli. Nell’abitazione del giornalista venne anche ritrovato il fascicolo Mi.Fo.Biali, documentazione non autorizzata dalla magistratura effettuata dai Servizi segreti su richiesta del ministro Andreotti, per avere informazioni su Mario Foligni, segretario del Nuovo Partito Popolare.
Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012/2013 

Durante la riunione a casa del boss Calderone, capo della famiglia catanese, venne comunicato che in Italia si stava preparando un colpo di Stato di marca fascista con a capo il principe Borghese, che godeva dell'appoggio di settori politici e di altre istituzioni. Per un effettivo controllo del sud vuole la partecipazione della mafia con mille o duemila uomini. In cambio i golpisti promettevano ai siciliani una revisione dei processi e delle condanne, anche quelle già passate in giudicato, con occhio benevolo.
I mafiosi erano dubbiosi nello stringere alleanze coi fascisti a causa dello storico precedente del prefetto Mori e della lotta che quest'ultimo fece alla mafia, prima di essere deposto da Mussolini. Però sapevano che era importantissimo far uscire di prigione alcuni importanti boss per rafforzare l'organizzazione. Decisero così di avere un incontro a Roma con Borghese, il quale spiegherà nel dettaglio il piano “Tora-Tora” (dal nome in codice dell'attacco a Pearl Harbour). Golpisti e Cosa Nostra raggiungono un'intesa su tutto, compresi i dettagli operativi.
Dalla parte opposta dello stretto erano invece pronti gli 'ndranghetisti delle cosche Nirta (sull'Aspromonte) e De Stefano (a Reggio Calabria). Il 26 ottobre 1969 avvenne una prima riunione a Montalto tra i vertici della 'ndrangheta e uomini dei servizi segreti per decidere se e come partecipare al futuro golpe. Dal 1993 in poi la collaborazione di numerosi pentiti consentì di ricostruire i contatti intercorsi nel 1970 ad Archi tra i potentissimi De Stefano e il principe Borghese. ‘Ndrangheta, Avanguardia nazionale e Ordine nuovo, in particolare, rappresentavano in quel periodo i soggetti di un patto che però vide protagoniste anche altre forze occulte della società italiana, la massoneria e i servizi deviati. Ci sarebbe stata un’occasione, riferita dal noto pentito Giuseppe Albanese, in cui tutti i poteri occulti si sarebbero incontrati, attraverso i loro rappresentanti, in una tenuta di proprietà di Borghese lungo la Costa degli dei, laddove peraltro, durante la seconda metà degli anni ’70, si riscontrò la presenza di alcuni campi paramilitari per l’addestramento alla guerriglia.
I collaboratori indicarono villa “La Spagnola”, ma questa non rientrò mai nei patrimoni di Borghese.
Limitrofa a questa struttura era però situata la villa di Bruno Tassan Din, braccio destro di Angelo Rizzoli, editore del Corriere della Sera, iscritto negli elenchi della P2 e implicato in alcune delle vicende più misteriose della storia italiana. Alla riunione, che si sarebbe tenuta alla Spagnola, secondo le segnalazioni dei collaboratori di giustizia, avrebbero preso parte il gran maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1970 e 1979 e uomo di fiducia di Licio Gelli, Lino Salvini; il marchese Felice Genovese Zerbi assieme al fratello Carmelo iscritto alla P2; i generali con tessera P2 Gianadelio Maletti e Vito Miceli; l’ammiraglio Gino Birindelli; Edgardo Sogno. Al summit sarebbe stato presente anche il fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie, il cui nome collegava l’eversione nera alla massoneria e alla 'ndrangheta, e importanti figure del panorama politico calabrese e italiano. <59
Anche in questa occasione si evidenzia come certi eventi tragici del nostro Paese siano nati da convergenze di interessi tra gruppi criminali e parti deviate dello Stato.
3.8. L'interesse statunitense
Per capire come anche gli americani sapessero tutto da tempo e probabilmente seguivano con attenzione lo svilupparsi della vicenda per poi confermare un possibile appoggio al golpe, è importante ricordare le parole di Tommaso Buscetta di fronte ai giudici Falcone e Borsellino. Il pentito dichiarerà infatti che una volta tornato negli States dopo il meeting in Sicilia viene arrestato dall'FBI, e a sorpresa la prima domanda che gli viene posta è: “Allora lo fate questo golpe?” e alla sua prudente risposta, “Quale golpe?”, specificano “Quello con Borghese!”. <60
Il fallimento del golpe venne così spiegato sempre da Buscetta, il quale aggiunge che "In quei giorni c'era la flotta russa nel Mediterraneo, e agli americani non piaceva questa coincidenza..."
[NOTE]
59 Giovani comunisti di Bovalino Marina (RC), Legami tra estrema destra reggina, 'ndrangheta e massoneria, 13 Luglio 2013, http://digilander.libero.it/fmiccoli10/legami.htm
60 Interrogatorio di Tommaso Buscetta nell'agosto del 1984 ai magistrati di Palermo

Giulia Fiordelli, Dalla Konterguerilla ad Ergenekon. Evoluzioni del Derin Devlet, tra mito e realtà nella Turchia contemporanea: analogia con la stay-behind italiana, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2012/2013

lunedì 5 dicembre 2022

Costretti al ripiegamento verso la val Toncea i partigiani di Marcellin abbandonarono il crinale Susa-Chisone

Adolfo ed Ettore Serafino. Fonte: Ecoistituto della valle del Ticino

I primi nuclei armati di resistenti, lungo il corso del Chisone, si organizzarono già dal pomeriggio del 9 settembre 1943, in seguito allo scioglimento del reparto del btg. alpino Fenestrelle di stanza nell'omonimo villaggio dell'alta valle. Attorno ad alcuni uomini di particolare carisma, quali il cap. Gros di Fenestrelle, Maggiorino Marcellin di Sestriere ed il parroco di Sestriere Borgata, don Bernardino Trombotto, si raccolsero alcuni alpini sbandati, che diedero vita ad un primo gruppo partigiano, che venne inizialmente denominato "Val Chisone". Subito il piccolo nucleo di armati si diede a rastrellare armi e munizioni, nelle innumerevoli casermette collocate lungo il crinale spartiacque Susa-Chisone e Susa-Guil, abbandonate dopo l'armistizio dai vari presidi della G.U.F. o dell'esercito regolare.
Contemporaneamente nella bassa valle, nella zona di Perosa Argentina, prende vita un altro cospicuo gruppo di patrioti, che trovò in Enrico e Gianni Gay, Enrico Pöet, Dario, Ezio e Mario Caffer i massimi animatori. Il primo rastrellamento nazista, interessò la zona di Prarostino, sulla prima collina pinerolese, ove si era organizzato un terzo nucleo di resistenti. Qui, il 20 ottobre, i tedeschi fecero le prime vittime e, nei giorni immediatamente successivi, essi riuscirono a sgominare l'intero C.L.N. di Pinerolo e ad arrestare un buon numero di partigiani nella zona di Roure (questi ultimi quasi tutti liberati dopo un periodo di detenzione alle carceri Nuove di Torino).
Queste drammatiche esperienze furono però il collante che portò all'unificazione delle varie bande costituitesi in valle, in particolare di quelle di Marcellin e dei fratelli Gay, che si fusero nella Divisione Alpina Autonoma "Val Chisone". Individuato il vallone del Bourcet come nascondiglio ideale, assai ben difendibile, i partigiani di Marcellin si acquartierarono a Chasteiran, villaggio dal quale, dopo una strenua difesa, furono costretti alla fuga verso la Val Troncea nel marzo 1944. Nella piccola vallata pragelatese i patrioti si riorganizzarono e, nel corso dell'estate di quello stesso anno, riuscirono addirittura a porre l'intero corso del Chisone e parte dell'alto bacino della Dora Riparia sotto il loro totale controllo. In questo breve ed effimero periodo, la valle fu totalmente isolata dal resto del paese grazie all'interruzione di numerosi ponti e di lunghi tratti di Statale; tra Perosa Argentina e Sestriere erano la 228° Compagnia di Enrico Gay, la 229° di Enrico Poet e la 231° di Ugo Enrico, che presidiavano rispettivamente la zona di Villaretto, quella del Colle delle Finestre ed il crinale che, passando per il Colle di Sestriere, si estendeva dal M. Sises al M. Fraiteve. Oltre ciò, gli Autonomi della val Chisone, presidiavano anche, con un plotone di guastatori al comando di Gianni Daghero, la linea compresa tra Cesana e Champlas du Col e con la 230°, 232° e la 233° compagnia, rispettivamente agli ordini di Fiore Toye, Luciano Beltramo ed Ezio Musso, lo spartiacque Susa-Chisone, dal M. Fraiteve fino al Colle delle Finestre. Nel periodo in cui la valle fu amministrata dai partigiani (libera Repubblica della Val Chisone, la definisce Maggiorino Marcellin nel suo libro: "Alpini.... finché le gambe ci portano") il numero di patrioti che operava nella zona crebbe fino a raggiungere il numero di 1700 unità, ponendo al comando seri problemi di vettovagliamento e di armamento.
Nel luglio 1943 la zona libera cominciò a subire i primi assalti da parte di reparti nazifascisti. Inizialmente, l'urto fu ben contenuto, anche in virtù delle poche bocche da fuoco che i partigiani possedevano (un pezzo da 149 ed uno da 157/32 postati sul M. Banchetta, due cannoncini anticarro collocati all'imbocco della valle, mortai da 81 ed alcune mitragliatrici pesanti). Dopo un primo assalto fallito, diretto verso il M. Triplex, lungo crinale Susa-Chisone, il nemico salendo da Sauze d'Oulx, prese di infilata il settore compreso tra il M. Genevris ed il M. Moucrons, sul lato sinistro orografico del Chisone. Anche in questo caso i difensori riuscirono ad avere la meglio, ma le quote presidiate furono prese e riconquistate a più riprese, con perdita di uomini ed armamenti. Fu questa una prima avvisaglia di ciò che sarebbe successo pochi giorni dopo: fra il 3 ed il 5 agosto entrarono in scena, l'aviazione e l'artiglieria. Un caccia tedesco, infatti, mitragliò Fenestrelle, Usseaux e Pragelato, facendo addirittura 5 vittime tra la popolazione civile, mentre un violentissimo bombardamento, sul versante di Val Susa, ove operava un treno blindato, scompaginò le postazioni partigiane del Moucrons. Su questa quota, un proiettile d'artiglieria centrò la piazzola su cui era installata una mitragliatrice pesante, uccidendo alcuni patrioti, fra i quali il perosino Sergio Stocco. L'1 agosto, intanto, la fanteria tedesca, dopo aver scelto Perosa Argentina come base operativa, aveva attaccato senza successo, con manovra a tenaglia, le Valli Chisone e Germanasca aggredendo i presidi partigiani di Villaretto e Mentoulles; in questa azione persero la vita i fratelli Dario ed Ezio Caffer che, per quanto feriti, rimasero alla mitragliatrice fino allo stremo delle forze.
Costretti al ripiegamento verso la val Toncea gli Autonomi di Marcellin abbandonarono il crinale Susa-Chisone il 5 agosto, raggiungendo dopo breve marcia la più sicura Val Troncea. Questo, ovviamente, significò l'abbandono della zona libera in mano nemica ed il ritiro della linea difensiva verso le più arretrate posizioni dello spartiacque Susa-Guil, dalle quali per altro i partigiani furono rimossi, dopo una strenue difesa del Col Mayt e del Pic Charbonnel, nell'ottobre dello stesso anno.
Il periodo che va dall'autunno 1944 alla liberazione fu drammatico ed assai travagliato: sorpresi ed accerchiati in una baita isolata nei boschi di Cantalupa, il 4 novembre, un nucleo di armati del "Val Chisone" al comando di Adolfo Serafino, cadevano dopo una accanita difesa della posizione. E' questo l'episodio più famoso e drammatico, tra i molti accaduti nelle valli pinerolesi, l'ultimo importante fatto d'armi che precedette la discesa a valle dei partigiani ed il loro dispiegamento nelle campagne che circondano Pinerolo e nei paesi della prima cintura torinese. Il bilancio conclusivo della guerra partigiana in val Chisone conta più di 200 morti fra gli Autonomi, di cui ben 27 ufficiali.
Redazione, La Resistenza nel Pinerolese, Sentieri della Resistenza nel Pinerolese

Adolfo Serafino nasce il 31 maggio 1920 a Rivarolo Canavese (Torino). Tenente s.p.e. (servizio permanente effettivo) fanteria (alpini), partigiano combattente.
Conseguita la maturità classica nel Collegio Militare di Milano nel 1938, entrò all’Accademia di Modena dalla quale uscì sottotenente di fanteria in s.p.e. nell’agosto 1940. Destinato al 3° reggimento alpini ed assegnato al battaglione Pinerolo, frequentò la Scuola d’applicazione d’arma nell’inverno 1940-41 rientrando al reggimento nell’aprile. Dal gennaio 1942 al settembre dello stesso anno fu in Croazia col reggimento, conseguendo la promozione a tenente. Rimpatriato, venne comandato prima quale istruttore all’Accademia di Modena e poi al deposito reggimentale a Pinerolo per l’addestramento reclute. Fece poi ritorno nei territori ex jugoslavi dove rimase fino al giugno 1943 allorché fu trasferito al battaglione Val di Fassa dove si trovava alla dichiarazione dell’armistizio. Prese parte alla lotta clandestina prima nella zona di Massa Carrara e in seguito in Piemonte, dove combatté nelle file della Divisione alpini autonoma Val Chisone della quale divenne capo di S.M. (Stato Maggiore). Morì in combattimento in Frossasco il 4 novembre 1944.
Ufficiale degli alpini, dopo l’armistizio impegnava nella zona di Massa Carrara combattimento contro forze tedesche assumendo di iniziativa anche il comando di una batteria. Ritornato in Piemonte organizzava le prime formazioni partigiane delle valli pinerolesi divenendo poi capo di stato maggiore della Divisione alpina autonoma Val Chisone e partecipando a varie azioni di sabotaggio. Nel novembre 1944, circondato da forze soverchianti, con una banda di patrioti si poneva alla testa di alcuni ufficiali, decisi, pur essendo consci del sicuro sacrificio, a resistere fino all’estremo per ritardare l’avanzata del nemico e consentire di mettere in salvo uomini ed armi. Impegnato il combattimento, dopo varie ore di lotta, esaurite le munizioni, nell’estremo tentativo di aprirsi un varco con le bombe a mano, veniva falciato dal fuoco nemico, unitamente agli altri ufficiali, attirati dal suo sublime esempio di eroismo. Il suo nome è divenuto leggendario in tutta la Val Chisone ed alla sua memoria fu intitolata la , Divisione partigiana Serafino che combatte nella stessa valle valorosamente il tedesco fino alla liberazione. - Italia occupata, settembre 1943- novembre 1944.
Gruppo Medaglie d’Oro al Valore Militare, Le Medaglie d’oro al Valore Militare, volume secondo (1942-1959), [Tipografia Regionale], Roma, 1965, p. 586.
Redazione, Adolfo Serafino, Ancfargl, 21 settembre 2016

A Buscate, ad Adolfo Serafino è dedicata la via adiacente all’abitazione dove, al momento della morte, risultava residente con suo padre Luigi, direttore tecnico della Conceria SACPA, e gli altri componenti della famiglia [n.d.r.: tra cui il fratello Ettore, che realizzò un notevole fondo fotografico relativo alla lotta di Liberazione in Val Chisone].
Redazione, Adolfo Serafino, Ecoistituto della valle del Ticino

Adolfo Serafino (Rivarolo Canavese, 31 maggio 1920 - Frossasco, 4 novembre 1944) fece parte di quella schiera di militari italiani impegnati nella Lotta di Liberazione. Oltre alle truppe regolari, in campo a fianco degli anglo-americani, molti aderirono individualmente alle brigate partigiane già esistenti, mentre interi battaglioni si trasformarono in formazioni partigiane autonome, guidate dai loro stessi ufficiali.
Questa storia di Resistenza iniziò dopo l’Armistizio dell’8 Settembre, quando a Carrara, dove si trovava con il suo Battaglione “Val di Fassa”, ricevette l’intimazione, da parte di un ufficiale tedesco, di consegnare le armi. Adolfo rifiutò e organizzò la difesa della strada che portava verso La Spezia, sostenendo un combattimento, il 10 settembre 1943. Quest’azione consentì alla flotta navale di La Spezia di salpare.
Disciolto il battaglione si rifugiò con la sua compagnia (o parte di essa) a Colonnata, dove, aiutato dal parroco, nascose le armi e si procurò abiti civili. A fine settembre raggiunse Ettore, suo fratello maggiore, a Bobbio Pellice, dove si stavano formando le prime bande partigiane. Nel novembre partecipò a una missione in Francia per prendere contatto con gli alleati, passando dal Col Galizia, a monte delle Valli di Lanzo. A dicembre ritornò a Colonnata per recuperare le armi. In seguito ebbe l’incarico, insieme all’amico e futuro cognato Franco Faldella e al di lui padre, Emilio (colonnello, comandante del Terzo Alpini), di infiltrarsi nelle fila della Repubblica Sociale Italiana. Adolfo fornì preziose informazioni fino a maggio del ’44, poi fu sospettato e incarcerato per due mesi, a Milano. Dopo il rilascio (o la fuga, non è documentato l’episodio), si ricongiunse finalmente al fratello Ettore, partigiano nelle brigate autonome del Piemonte.
Nell’autunno di quell’anno, arrivato in val Chisone, Adolfo assunse il ruolo di capo di stato maggiore della Divisione Alpina Autonoma “Val Chisone”, guidata da Maggiorino Marcellin. Il comando della divisione passò a Ettore Serafino solamente nel marzo del ’45, quando a Marcellin furono affidati altri incarichi.
Adolfo Serafino cadde durante uno scontro con i nazifascisti il 4 novembre 1944 a San Martino di Cantalupa, allora parte del Comune di Frossasco.
Dopo la sua morte, la Divisione “Val Chisone” prese il nome di “Adolfo Serafino”.
Redazione, Adolfo Serafino, Ecoistituto della valle del Ticino

sabato 26 novembre 2022

Tra le tante stragi compiute, una assume un valore emblematico


L'"azione antibanditi", come viene definita dalle autorità di Salò, provoca da marzo a novembre 1944, 42.679 perdite (morti, feriti e catturati in combattimento, arrestati e fermati per sospetto di favoreggiamento e per renitenza e diserzione). Le regioni dove più intensa è l'attività repressiva sono: Piemonte (840 operazioni e circa 11.400 perdite inflitte), Lombardia (840 operazioni e 5.500 perdite inflitte), Venezia Euganea (400 operazioni e 8.000 perdite inflitte), Emilia (300 operazioni e 6.500 perdite inflitte), Liguria (300 operazioni e 6.500 perdite inflitte), Venezia Giulia (214 operazioni e 3.500 perdite inflitte). Considerando gli indici di efficacia delle singole azioni di rastrellamento regionali si ottiene la seguente classificazione: Emilia 28, Venezia Euganea 21, Venezia Giulia 16, Liguria 15, Piemonte 14, Lombardia 6. Nel periodo della “reazione a fondo" (luglio-settembre 1944) si raggiungono la più alta intensità e i valori massimi <779.
Lo scontro tra le forze nazifasciste e quelle partigiane assume, in modo evidente e su vasta scala, non solo il carattere della “guerra civile" quanto, piuttosto, quello della “guerra ai civili". Le attività di rastrellamento e di rappresaglia condotte dai nazisti e dai fascisti colpiscono in modo indiscriminato e criminale soprattutto le popolazioni. Non si tratta, però, di una reazione istintiva dettata dalle sconfitte militari subite e dall'avanzata  anglo-americana.
Le innumerevoli stragi compiute sono state già teorizzate dall'alleato tedesco e attuate soprattutto sul fronte orientale. In alcuni casi, insieme ai militari italiani. Dopo l'8 settembre sono state commesse anche in Italia. Dal sud al nord. Ma è soprattutto in questo periodo, in un arco di tempo relativamente breve e in un territorio relativamente ristretto, che viene esercitata una violenza disumana che segnerà drammaticamente l'esistenza di intere comunità e produrrà una spaccatura nella storia italiana che condizionerà le future vicende della guerra e del difficile dopoguerra. Lo scenario in cui si svolge l'azione è territorio italiano e italiani sono le vittime così come, in molti casi, gli stessi carnefici. E' uno scenario di sangue. Di anime straziate e di carni bruciate. Di supplizio, di tormento, di terrore. Di un qualcosa che arriva prima di esalare l'ultimo respiro. Prima di consumare con dignità l'ultimo scampolo di vita rimasto o subito dopo essersi appena affacciati sul mondo. E' qualcosa che, chi sta dall'altra parte, non riesce a immaginare <780. Può solo idealizzare. In queste terre, però, anche a cercarla, non c'è traccia della “bella morte".
[...] Le stragi compiute tra settembre 1943 e maggio 1945 sono più di 400 e provocano la morte di circa 15.000 persone <786. Sono in tanti a morire e spesso senza alcuna relazione diretta con l'attività dei partigiani. I civili sono ritenuti loro complici, anche se si tratta di vecchi e bambini. La rappresaglia nazifascista non ha limiti, neppure di tipo morale. Si manifesta sotto forme diverse, anche apparentemente contrastanti. Da una parte c'è una esibizione della violenza con fucilazioni in piazza sotto gli occhi di tutti e con l'esposizione dei corpi impiccati; dall'altra, invece, c'è un occultamento di corpi che rappresenta, in quel momento, l'eliminazione e dell'altro e dovrà servire, in seguito, a negare quanto è accaduto.
Basta citare alcuni episodi, anche solo fino al mesi di settembre 1944: "19 settembre 1943, Boves (Cuneo). 21 civili uccisi e il paese dato alle fiamme <787; 4 ottobre, Fornelli (Isernia). Tutta la frazione Castello è rasa al suolo e vengono impiccati nella pubblica piazza 6 civili, tra cui il podestà; 7 ottobre, Bellona (Caserta). 54 ostaggi prelevati dalle loro abitazioni (tra cui alcuni ragazzi e 5 religiosi) sono condotti in una vicina cava di tufo e abbattuti a raffica di mitraglia; 13 ottobre, Caiazzo (Caserta), 22 civili vengono assassinati perché sospettati di essere partigiani. In realtà, sono degli sfollati, di cui 6 donne e 9 bambini con meno di 13 anni; 20-30 ottobre, Roccaraso (L'Aquila), vengono fucilati 128 civili, tra cui 50 donne e 31 bambini minori di quattordici anni; 31 dicembre 1943, Boves (Cuneo), nuova rappresaglia. Muoiono altri 36 civili e oltre 400 immobili sono dati alle fiamme; 21 gennaio 1944, Sant'Agata (Chieti). 35 civili, tra cui donne e bambini, rinchiusi in una casa poi colpita e incendiata a colpi di granate; 11 marzo, Acquasanta (Ascoli Piceno), 10 civili uccisi (tra cui due bambine arse vive nell'incendio della loro casa); 4 giugno, provincia di Arezzo: 173 civili mitragliati e fucilati (88 a Castelnuovo dei Sabbioni; 85 a Meleto); 10 giugno, Badicroce (Arezzo), 13 civili (di cui due giovani donne violentate e una donna anziana) uccisi per rappresaglia per la morte di un soldato tedesco; 11 giugno, Onna (L'Aquila). Per il ferimento di un soldato tedesco 16 civili vengono rinchiusi in una casa, mitragliati e sepolti sotto l'edificio fatto esplodere con le mine; 23 giugno, Bettola (Reggio Emilia). Per ritorsione contro un attentato partigiano 36 civili (tra cui quattro bambini) vengono uccisi, in parte a colpi di mitragliatrice e poi bruciati, altri a bastonate e a colpi di pistola; 29 giugno, Bucine
(Arezzo). 65 uomini, chiusi in una cantina, vengono fatti uscire uno alla volta e freddati con un colpo di pistola, poi cosparsi con benzina e bruciati; 30 giugno, nella zona di Civitella della Chiana (Arezzo) vengono uccise 203 persone; 14 luglio, San Paolo (Arezzo). 50 civili (tra cui una donna incinta e un'altra con un bambino in fasce) fucilati dai tedeschi; 12 agosto, Sant'Anna di Stazzema (Lucca), muoiono 560 persone di cui 61 bambini con meno di 10 anni e 241 donne; 23 agosto, Fucecchio (Pisa). 202 civili uccisi a raffiche di mitragliatrice o con bome a mano; 24 agosto, Valle del Lucido (Alpi Apuane). 54 automezzi scaricano soldati che iniziano a incendiare tutte le case che incontrano sulla loro strada e a rastrellare gli abitanti. Muoiono 174 civili di cui 26 bambini (uno di appena due giorni); 16 settembre, Massa Carrara. Le SS prelevano i detenuti del carcere di Malaspina. Saranno 146 i cadaveri riesumati; 28 settembre, Marzabotto (Bologna). I dati ufficiali parlano di 1830 vittime civili, di cui 1562 identificate" <788.
Tra le tante stragi compiute, una assume un valore emblematico, non solo per estensione e crudeltà, ma anche per le vicende che hanno caratterizzato il lungo dopoguerra, fatto di rimozioni e ricordi, occultamenti e disvelamenti.
All'alba del 12 agosto 1944, alcuni reparti di SS circondano il paese di Sant'Anna di Stazzema [frazione del Comune di Stazzema in provincia di Lucca]. Gli abitanti, alcune centinaia, aumentati di numero negli ultimi tempi a causa degli sfollamenti, pensano a uno dei tanti rastrellamenti effettuati nella zona. Alcuni riescono a fuggire, altri vengono presi con la forza dalle loro case e radunati in piazza. In poco tempo, lo stupore si confonde con il terrore. I tedeschi aprono il fuoco, con i fucili mitragliatori, con le
pistole, con le bombe a mano, con i lanciafiamme <789. Adesso sono i corpi che si confondono con i mobili accatastati, con il bestiame, con le case incendiate. Il fuoco divora ogni cosa, come un mostro insaziabile, come l'orco delle fiabe. In questa storia ci sono anche i bambini, ma questa non è una fiaba. Sette di loro vengono spinti nel forno preparato per il pane. Bruciano anche loro <790. Alle undici la strage è compiuta. Le vittime sono alcune centinaia <791. I soldati tedeschi possono ora scendere a valle, accompagnati dai canti di guerra e dalla musica degli organetti, pronti a proseguire la lotta contro i “banditi".
A Sant'Anna, invece, c'è un silenzio spettrale, ogni tanto interrotto dai lamenti dei feriti e dei sopravvissuti. Ciò che si presenta agli occhi dei testimoni rimarrà nella memoria e nel tempo: "Corpi dilaniati, quasi completamente distrutti all'interno delle case. L'odore… una sensazione, forse quella più sgradevole, che io avvertii, che ancora ho conservato, è proprio l'odore… il classico odore della carne bruciata, dei corpi distrutti dal fuoco. Poi si trovarono anche i corpi dilaniati, sparsi un po' per tutto il territorio, già ricoperti, ormai, da sciami di mosche, di insetti. Appena noi si cercava di alzare, di vedere, a chi appartenessero questi corpi, questo sciame si allontanava: una scena orrenda. Si trovò anche qualcuno vivo. Circa una trentina di persone erano vive ancora. Alcuni di loro erano feriti, altri addirittura incolumi. Avevano una caratteristica in comune: non parlavano. Erano muti. Impietriti dal dolore, dallo shock, forse, che avevano subito" <792.
Due giorni dopo, don Giuseppe Vangelisti, il parroco di una frazione vicina, si reca a Sant'Anna per seppellire le vittime: “Dopo pochi passi io ed i miei uomini cominciammo a sentire odore di putrefazione di corpi umani e trovammo otto cadaveri sparpagliati. Un uomo giovane abbracciava i corpi dell'amata moglie e della figlia. Aiutai il giovane padre in lacrime a raccogliere i corpi, oltre alla moglie e alla figlia, i tedeschi avevano ucciso suo padre, sua madre e le sue due sorelle. Era rimasto solo al mondo. […] Entrai in chiesa, dalla parte in cui si trovava l'acqua benedetta, panche, sedie ed altri oggetti di valore erano bruciati o distrutti. L'organo e i quadri dei Santi erano stati usati come bersagli. Il tabernacolo e l'immagine di Sant'Anna erano ancora in buone condizioni. C'erano voluti molti anni di offerte ai poveri lavoratori per costruire questa chiesa e i tedeschi l'avevano distrutta in pochi minuti […] Non credo che nella storia dell'umanità sia stata compiuta un'azione atroce come quella che i tedeschi fecero in così poco tempo" <793.
La responsabilità della strage è in primo luogo dei tedeschi ma c'è anche una responsabilità dei fascisti. Non solo politica e storica, ma anche personale, individuale. Diversi testimoni, infatti, ricordano di aver sentito parlare in italiano e, in alcuni casi, in dialetto versiliese da "quelli mascherati" che avevano "una retina che gli copriva il viso". La partecipazione dei fascisti, con compiti e ruoli diversi (guide in un territorio a volte impervio e sconosciuto, delatori, esecutori), alle azioni repressive condotte dai tedeschi <794, rientra nel contesto delle scelte politiche e militari. Non si tratta, però, solo, delle scelte di militi delle Brigate Nere o della Decima Mas ma anche delle scelte di civili che uccidono altri civili, a volte appartenenti alla stessa comunità <795.
Le responsabilità della strage sono state oggetto di indagine <796, ma anche di polemiche <797, fin dall'inizio. Eppure, ci sono voluti sessant'anni, e la scoperta dell'"armadio della vergogna" <798, per arrivare a una verità giudiziaria <799 che, sulla base di una accurata ricostruzione, costituisce, a distanza di tempo, e in nome del principio di imprescrittibilità del reato di strage, un particolare valore storico e morale.
[NOTE]
779 ACS, Segreteria part. del Duce, Carteggio ris., b. 70, fasc. 642/R, “Ministero della Difesa nazionale", sottof. 17, “Varie", riportato in Renzo De Felice, Mussolini l'alleato, II. La guerra civile (1943-1945), cit.
780 "Morire non è niente: non esiste. Nessuno riesce ad immaginare la propria morte. E' uccidere il punto! Varcare quel confine!... Quello si è un atto concreto della tua volontà. Perché lì vivi, in quella di un altro, la tua. E' lì che dimostri di possedere qualcosa che senti valere più della vita: della tua e di quella degli altri", Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte. Romanzo, cit., p. 136.
786 La seconda guerra mondiale ci ha abituati ai grandi numeri, soprattutto ai numeri della morte: più di 50 milioni di morti; più di 6 milioni di ebrei sterminati. Forse è impossibile una raffigurazione, al di là dei dati statistici, delle tabelle, dei grafici. Forse è cambiato il concetto stesso di morte, la stessa elaborazione del lutto. O forse non bisogna dimenticare, al di là di ogni discorso retorico, che ai numeri corrispondono le persone. I film, a volte, ci ricordano quanto non riusciamo più a ricordare o a rappresentare. Ci ricordano, insieme ai testi originali, che "chiunque salva una vita salva il mondo intero", Schindler's List, cit.
787 "[…] A un ordine del maggiore Peiper don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo vengono fatti salire su una camionetta. "Fategli ammirare lo spettacolo a questi signori" dice Peiper. Il sadismo non è casuale, nella lezione nazista del terrore. La camionetta percorre lentamente il paese in fiamme, perché il signor prevosto possa vedere che ne è dei suoi parrocchiani […] Alla fine del giro, il parroco e l'industriale vengono cosparsi di benzina, colpiti da raffiche, dati alle fiamme mentre agonizzano", Giorgio Bocca, Storia dell'Italia partigiana, cit., p.56.
788 Gianni Oliva, L'ombra nera. Le stragi nazifasciste che non ricordiamo più, Mondadori, Milano 2008, Cronologia, pp. 194-207.
789 "Gli ordini dei comandi che assimilano quasi automaticamente i civili ai ribelli, la garanzia di impunità di fronte ad ogni eccesso, la sopravvalutazione della minaccia partigiana, la tensione di una guerra che volge verso la sconfitta descrivono il quadro psicologico all'interno del quale si consuma una tragedia che non ha nessuna giustificazione sul piano operativo militare. […] Fanatismo nazista, paura, ansia di vendetta, impreparazione militare costituiscono una miscela esplosiva che si abbatte sugli abitanti di Sant'Anna", Ivi, pp. 133 e 134.
790 Per le testimonianze di alcuni bambini sopravvissuti vedi: Oliviero Toscani, Sant'Anna di Stazzema 12 agosto 1944. I bambini ricordano, Feltrinelli, Milano 2003.
791 E' impossibile determinare con esattezza il numero delle vittime, molte delle quali sono state bruciate o non sono state individuate. Diverse, inoltre, sono le fonti (sopravvissuti, testimoni, inchieste militari, ricostruzioni storiche) e diverse sono le stime. Si va da 363 a 650 persone uccise. Il numero ufficiale è 560. I morti identificati sono 434, tra cui 130 bambini.
792 Testimonianza riportata in Oliviero Toscani, Sant'Anna di Stazzema 12 agosto 1944. I bambini ricordano, cit.
793 Per questa testimonianza vedi: Comune di Stazzema, L'eccidio di S. Anna nella testimonianza di mons. Giuseppe Vangelisti, s.l., Tip. Massarosa 1986.
794 Questo avviene, ad esempio, già prima della terribile estate del 1944: il 18 marzo 1944 a Palagno, in provincia di Modena (129 vittime); il 3 aprile a Cumiana in provincia di Torino (51 civili uccisi); il 13 aprile a Stia in provincia di Arezzo (108 civili uccisi) e a Calvi in provincia di Terni dove un delatore italiano, spacciatosi per un ufficiale inglese, fa fucilare dai tedeschi 14 civili; il 19 aprile a Pomino in provincia di Firenze (11 civili uccisi da SS italiane); il 10 maggio a Forno in provincia di Torino (villaggi incendiati e bombardati; 23 civili fucilati). Vedi Gianni Oliva, L'ombra nera, cit., pp.197-200.
795 "Italiani comunque hanno partecipato a esecuzioni del genere in altre parti d'Italia. La mente recalcitra. Italiani che non si limitarono alla infamia opera di spie, di carcerieri, di aguzzini nelle celle di tortura e nei campi di concentramento, ma che vollero anche macchiarsi del delitto più atroce: la strage degli innocenti. "Vollero" è l'espressione giusta, perché non potevano esservi comandati, e comunque avrebbero potuto facilmente sottrarvisi. "Vollero", alcuni per vera deformità morale, ma i più per criminale vanità, per servile bisogno d'imitazione. Volevano non sentirsi minori dei loro Padroni; dimostrare d'essere capaci di ciò in cui loro eccellevano; dimostrarlo a se stessi e a quanti non lo credevano. Volevano partecipare anch'essi al "gioco" senza preoccuparsi se nella posta vi erano vite umane e la loro stessa anima. Ma non si trattava di vite e di anime per loro, come per i tedeschi, incapaci di commozione e gelati dall'indifferenza. Ma per gli italiani che parteciparono all'eccidio di Sant' Anna come si può parlare d'indifferenza? Non erano gente venuta da fuori; la regione non era per essi un luogo qualunque di passaggio, privo di memorie e di affetti. L'indifferenza lamentata per gli altri non possiamo ammetterla nei loro riguardi, se non a patto di riconoscervi un cinismo ancor più terribile", Manlio Cancogni, La Nazione del Popolo, 29 giugno 1945, riportato in Alfredo Graziani, L'eccidio di S. Anna, Scuola Tipografica Beato Giordano, Pisa 1945. Vedi anche, per questa e per altre notizie, il portale di Sant'Anna di Stazzema www.santannadistazzema.org (Per questa citazione vedi la sezione La Memoria - L'eccidio - Il ruolo dei collaborazionisti).
796 Le prime indagini sono condotte, nel settembre del 1944, da una Commissione d'inchiesta americana. Nel dicembre 1946 le autorità militari americane inviano il governo italiano la documentazione relativa alla strage di Sant'Anna di Stazzema. La Procura generale militare di Roma decide di aprire due fascicoli (il n. 1976 e il n. 2163). Questi fascicoli, però, insieme a tanti altri, scompaiono e per molti anni non si saprà più niente.
797 I Partigiani saranno accusati, per questo e per altri episodi, di aver provocato, con le loro azioni, la reazione tedesca. D'altra parte, era già accaduto in occasione dell'attentato di Via Rasella e dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Su questi aspetti vedi, tra gli altri, Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Il Mulino, Bologna 2007. Vedi anche, per conoscere il punto di vista di uno dei protagonisti (fascista) di quegli anni e delle future vicende italiane, Giorgio Pisanò, Sangue chiama sangue. Storie della guerra civile, Lo Scarabeo Editrice, Bologna 2005 (1ª edizione: Sangue chiama sangue. Le terrificanti verità che nessuno ha avuto il coraggio di dire sulla guerra civile in Italia, Pidola, Milano 1962); Id., Storia della guerra civile in Italia 1943-1945, edizioni Val Padana, Milano 1974. 3 voll. (ed edizioni successive). Vedi, infine, per una ricostruzione che ha suscitato diverse polemiche: Paolo Paoletti, Sant'Anna di Stazzema 1944. La strage impunita, Mursia, Milano 1998. Più in generale, sulla memoria divisa degli italiani, vedi: John Foot, Fratture d'Italia. Da Caporetto al G8 di Genova la memoria divisa del Paese, Rizzoli, Milano 2009.
798 Nel giugno 1994 avviene il rinvenimento, a Roma, presso l'Archivio di Palazzo Cesi, sede degli Uffici della Magistratura militare, di un armadio contenente un numero di fascicoli, indicato inizialmente in 695, per i quali il Procuratore generale Militare, Enrico Santacroce, aveva disposto, il 14 gennaio 1960, una "archiviazione provvisoria”. Si tratta di materiale di estremo interesse poiché riguarda i crimini di guerra nazifascisti compiuti in territorio italiano nel periodo 1943-1945. Il 7 maggio 1996, la magistratura militare dispone un'inchiesta che si conclude con la Relazione del 23 marzo 1999 (Un'ulteriore indagine si concluderà nel 2005). Il 18 gennaio 2001, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, delibera una indagine conoscitiva "sulle archiviazioni di 695 fascicoli, contenenti denunzie di crimini nazi-fascisti commessi nel corso della seconda guerra mondiale, e riguardanti circa 15.000 vittime". Infine, il Parlamento, recependo l'auspicio formulato dalla Commissione Giustizia della Camera nel documento conclusivo del 6 marzo 2001, con la Legge 15 maggio 2003 n. 107 istituisce la Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (Gazzetta Ufficiale n.113 del 17 maggio 2003). Nella seduta dell'8 febbraio 2006, la Commissione approva la Relazione finale (Relatore on. Enzo Raisi) trasmessa, insieme a una Relazione di minoranza (Relatore on. Carlo Carli) alle Presidenze delle Camere. Oltre alle Relazioni citate, sull'"armadio della vergogna" vedi: Mimmo Franzinelli, Le stragi nascoste, cit.; Franco Giustolisi, L'Armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004; Maurizio Cosentino, La vergogna dell'armadio. Ricerche, verità e metafore sui crimini di guerra e sulla magistratura militare 1945-2006, Casa Editrice Nuova Cultura, Roma 2009. Più in generale, Daniele Bianchessi, Il paese della vergogna, Chiarelettere, Milano 2007; Aldo Giannuli, L'armadio della Repubblica, a cura di Vincenzo Vasile, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma 2005. "[…] un viaggio all'interno dello Stato. Tema che interessa - che può interessare, che deve interessare - una cerchia molto più ampia di quella degli addetti ai lavori. In quelle carte si parla dei misteri d'Italia, delle trame, dell'eversione e delle stragi. Ma anche degli errori, delle dimenticanze, delle sciatterie e dei depistaggi che hanno trasformato queste vicende in misteri, a volte impenetrabili. Si tratta, perciò, di una specie di involontaria autobiografia della Repubblica. Ma molte di queste carte sono sparite. Altre stanno scomparendo, perché abbandonate, disperse, occultate". (Dalla IV di copertina).
799 Tribunale Militare della Spezia, Sentenza n. 45 del 22 giugno 2005.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011