Powered By Blogger

sabato 24 maggio 2025

Al primo piano erano ospitati alcuni esponenti del CLN


Il ruolo del Vaticano fu un ruolo da intermediario. I tentativi erano volti a tenere Roma lontana dalla violenta guerra che imperversava ormai in tutta italia, e furono tentativi che si concentrarono su tre aspetti: iniziative diplomatiche per evitare i bombardamenti della capitale, sostegno alla popolazione e assistenzialismo, in una rete che si allargò capillarmente proprio durante gli anni dell’occupazione nazifascista.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la Santa Sede propose la completa smilitarizzazione della città in cambio dell’assicurazione che nessuna bomba sarebbe stata mai sganciata su Roma. Come ben si sa, questo accordo non venne mai rispettato: la capitale, a partire dal 19 luglio 1943, verrà colpita ben 51 volte dall’aviazione alleata. Settemila furono le vittime. Queste azioni costrinsero il Vaticano, ancora una volta, a mantenere una sorta di neutralità, per poter trattare sia con gli angloamericani che con i tedeschi: con i primi che avanzavano verso Roma divenne necessario trovare un modo per far sì che i tedeschi retrocedessero. Come si sa, nessuno dei due schieramenti accettò di trovare un compromesso, Roma fu occupata e, con l’approssimarsi dell’arrivo degli Alleati, nessuno ebbe riguardo per le preoccupazioni della Chiesa e di Papa Pacelli.
L’opera di sostegno alla popolazione si intensificò proprio a partire dal bombardamento del quartiere Tiburtino del 19 luglio, quando i cittadini rifiutarono qualsiasi accoglienza dei vari esponenti politici, ma si strinsero calorosamente attorno a Pio XII nel momento della sua visita. Fu un’opera che continuò intensamente nei mesi a venire: oltre al territorio di Città del Vaticano, vi erano anche delle aree extraterritoriali, come ad esempio quelle circostanti le basiliche di San Paolo fuori le mura e San Giovanni in Laterano, che, in quei lunghi nove mesi (e anche oltre), accolsero le migliaia di sfollati, civili e anche militari, che si rifiutarono di collaborare con l’invasore o di arruolarsi con l’esercito della Repubblica di Salò, e preferirono la clandestinità.
L’azione della Chiesa era talmente radicata che il numero delle Guardie Palatine crebbe da trecento a duemila uomini tra il 1942 e il 1943: l’aumento dei soldati impiegati si spiega con il reclutamento dei fuggiaschi che venivano così protetti dalle rappresaglie dei nazifascisti.
La necessità di essere accanto a malati, feriti, anziani e orfani, e assisterli, si concretizzò con la fondazione, il 14 marzo 1944, della Pontificia Commissione Assistenza Profughi (Pcap) che inizialmente ricoprì le zone prossime al Vaticano per poi allargarsi verso le periferie, fino alla zona dei Castelli Romani, interessando anche le postazioni e le caserme militari. Le azioni fondamentali di questa associazione furono due: vettovagliamento e censimento dei profughi. Sotto quest’ultimo punto di vista, la conta rilevò che c’erano circa 70mila profughi dei quali prendersi cura, nella speranza di poter in seguito assicurare a ciascuno il ritorno nelle zone d’origine. A proposito del vettovagliamento, invece, il coordinamento venne affidato a Monsignor Ferdinando Baldelli, che gestì il traffico da un luogo all’altro, occupandosi di non far intercettare le vetture vaticane agli occupanti. Soprattutto, agì in coordinazione con gli istituti religiosi che ospitavano i ricercati, e con servizi mensa che davano cibo agli sfollati. Non è stato possibile, negli anni, dare una cifra definitiva di quanti sono stati soccorsi e aiutati dalla Pontificia Commissione Assistenza Profughi: non vi erano registrazioni di soccorritori e soccorsi, il tutto avveniva sommessamente e di nascosto dai nazifascisti, la scomparsa dei protagonisti dell’epoca hanno reso ancora più arduo questo compito.
Seminari, conventi e parrocchie: il ruolo degli istituti religiosi
Seminario lombardo e Seminario Romano Maggiore sono tra quelli che diedero il loro contributo nell’accoglienza e nella difesa della popolazione della Roma occupata. "Un giorno mi chiamò monsignor Ronca che mi disse: «vai alla fermata del tram numero 16 in Piazza San Giovanni e stai lì senza dire niente, si avvicinerà a te una persona che tu non conosci, ti dirà una parola, tu devi rispondere soltanto: 'vieni via con me'». Io non sapevo di che si trattasse ma ebbi forti dubbi durante il tragitto verso il seminario. Questa persona tremava continuamente, era impallidito, bianco come un cencio. Lungo la strada stazionavano le SS tedesche con il fucile spianato, un soldato ogni 15-20 metri. Vedendo questo spiegamento di forze naziste la persona da me accompagnata si impressionò e mostrava segni di grande paura. Vedendolo così abbattuto e timoroso provai a scherzare un po’ con lui, cercando di scambiare qualche parola in allegria, ridevo anche con ostentazione per far capire ai tedeschi che non avevo nulla da nascondere, volevo evitare sospetti e mostrare sicurezza. Finalmente arrivai in Seminario. Il rettore lo accolse e fu salvo. Solo in seguito seppi che si trattava di un ebreo, perché a circa 40 anni di distanza l’Ambasciata di Israele presso il Vaticano mi inviò una lettera invitandomi a ricevere la medaglia dei Giusti tra le Nazioni" <69. È la testimonianza del cardinal Fagiolo, all’epoca uno dei seminaristi di monsignor Ronca, che aveva istituito un centro di accoglienza nel Seminario Romano Maggiore, nei pressi della Basilica di San Giovanni in Laterano.
Il Laterano, sotto la guida di monsignor Ronca, venne quindi trasformato in un centro di assistenza, suddiviso in tre livelli: al piano terra erano ospitati gli uomini del governo Badoglio, al primo piano alcuni esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale (tra cui: Ivanoe Bonomi, che ne era presidente, il democristiano Alcide De Gasperi, i socialisti Giuseppe Saragat, che sarebbe diventato il quinto Presidente della Repubblica, e Pietro Nenni) e, all’ultimo piano, perseguitati, ex ufficiali ed ebrei (tra cui il matematico Federigo Enriques, i fratelli Olivetti e la famiglia Sonnino).
La stessa funzione venne ricoperta dal Seminario Lombardo, della Basilica di Santa Maria Maggiore: vi trovarono rifugio famiglie di ebrei, ufficiali italiani, studenti e sindacalisti. Per poterli nascondere, venne loro concesso di indossare l’abito ecclesiastico e rispettare un apposito regolamento, che vietava loro di andare in cortile e di allontanarsi senza autorizzazione, così come l’obbligo di rispettare gli orari stabiliti, di tenere le stanze in ordine e di evitare la presenza di oggetti o di comportamenti che potessero tradirne la laicità. Inoltre, vennero istituiti un apparato di vigilanza, che aveva la funzione di fare la ronda e segnalare qualsiasi minaccia, e un sistema di regole locali che avrebbe dovuto favorire la fuga in caso di incursioni. Purtroppo tutto ciò fu abbastanza inutile la notte tra il 21 il 22 dicembre 1943, quando la banda Koch, insieme ai poliziotti italiani, entrò nel Seminario Lombardo e in altri istituti vicini, arrestando decine di rifugiati.
La stessa sorte toccò al Monastero di San Paolo nella notte tra il 3 e il 4 febbraio 1944: "Verso la mezzanotte e mezza venni svegliato da ripetuti colpi alla porta della camera e compresi subito che qualcosa di grave succedeva in Monastero. Mi vestii in fretta e uscito nel corridoio un converto mi avvertì che erano entrati vari poliziotti per arrestare il generale Monti. Dopo poco incontro nel corridoio del refettorio due persone alle quali domando chi sono, come erano entrati, perché erano qui. Mi rispondono che cercavano il generale Monti ed altri ufficiali. Replicai che qui eravamo in zona extraterritoriale e che non avevano nessun diritto di entrare e fare ricerche di persone. Insistei per sapere come erano entrati e mi risposero: 'perché ci avete aperto' " <70. Gli ospiti furono picchiati selvaggiamente, e molti furono anche i furti, principalmente di oggetti lasciati in deposito dalla popolazione della zona limitrofa.
Queste continue irruzioni costrinsero i Seminari a chiedere ai rifugiati di scegliere se restare oppure tentare la via della fuga, non potendo più garantire la sicurezza, nonostante vigesse l’extraterritorialità. Furono in molti a tentare di andar via, per cercare un modo per tornare a casa: alcuni vi riuscirono, altri no.
Anche gli istituti monastici femminili si adoperarono per aprire le proprie porte e offrire ospitalità ai fuggiaschi, anche se va sottolineato come le difficoltà, in questo caso, furono più numerose: indubbiamente vi fu una maggiore apertura delle suore che avevano già un contatto con il mondo esterno, a differenza delle suore di clausura che con estrema difficoltà riuscirono talvolta a portare sconosciuti tra le proprie mura. Dover infatti tradire il voto di obbedienza, senza il permesso esplicito del Vicariato, era un ostacolo altissimo da superare e, ovviamente, la Santa Sede non poteva esprimersi esplicitamente a favore dell’accoglienza: «Sarebbe stato pericoloso, infatti, per la Santa Sede e per gli istituti lasciare tracce compromettenti della loro attività in favore dei perseguitati. Si suppone perciò che l’invito ad aprire le porte giunse o tramite la Santa Sede stessa oppure una specie di passaparola fra le madri superiori delle diverse case; dopo che una di loro ricevette il beneplacito del papa lo trasmise alle altre» <71. Loro stesse compresero quanto potesse essere importante il loro compito, nella speranza che gli occupanti avrebbero portato rispetto e, anche per una forma di pudore, non si sarebbero presi la responsabilità di irrompere nei luoghi di preghiera abitati da donne religiose. Quest’ultimo, fra l’altro, fu anche il motivo per cui esse preferirono ospitare donne e bambini, raramente uomini e comunque solo nel caso in cui essi fossero gravemente malati o feriti.
Anche le parrocchie ebbero un ruolo fondamentale: furono infatti il luogo in cui i perseguitati cercavano un primo ricovero, sapendo di non potervi rimanere a lungo a causa dell’esiguità degli spazi. Molti furono i preti che si adoperavano per trovare centri di accoglienza di dimensioni maggiori, ovviamente grazie alla rete che era stata improntata nei mesi. Spesso, si occuparono anche di procurare ai malcapitati dei finti documenti di identità, nel tentativo di metterli al riparo da possibili torture o fucilazioni nel caso in cui fossero stati fermati e perquisiti dai tedeschi.
Ma quali furono i motivi che spinsero gli istituti religiosi a operare in questo modo? Le varie testimonianze hanno evidenziato come la causa principale fosse il semplice rispetto del Vangelo, che richiede un comportamento cristiano e l’accoglienza del proprio prossimo, in questo caso il rifugiato. Altre ancora hanno chiarito che anche la sensibilità personale ha influito su queste scelte: davanti alle crudeltà a cui stavano assistendo era per loro spontaneo e naturale tendere una mano verso i perseguitati.
Per evitare possibili incursioni tedesche, la maggior parte di questi istituti espose il cartello con il messaggio trasmesso loro dalla Segreteria di Stato, mentre altri ancora richiesero protezione a Stati che erano rimasti neutrali, nella speranza che i nazisti rispettassero la loro condizione di non belligeranti e mantenessero buoni rapporti diplomatici. Molte suore pensarono di far “infiltrare” i fuggiaschi tra le educande, le cuoche o collaboratrici varie, facendo loro indossare le rispettive divise. Un altro escamotage era quello di intrattenere i tedeschi nel momento in cui chiedevano di poter ispezionare gli istituti, per dare modo ai rifugiati di andare via.
Furono mesi di paura e di terrore, che comunque non impedirono loro di aprire le porte dell’accoglienza, di aiutare e fare rete contro l’invasore nazista.
[NOTE]
69 A. Gaspari, 1943, La lista del Laterano, «Avvenire», 11 febbraio 1998, p. 23.
70 A. Riccardi, La Chiesa a Roma durante la Resistenza, in «Quaderni della Resistenza laziale», a cura della Regione Lazio, Roma, 1977, p. 115.
71 Balzarro, Roma durante l’occupazione nazifascista: percorsi di ricerca, cit., p. 251.
Cristiana Di Cocco, L'occupazione tedesca di Roma. Il diario di Giulio Di Legge, Università degli Studi "Roma Tre", 2023

mercoledì 14 maggio 2025

Sulle pendici del Monte Bavarione cade il partigiano Arnaldo Ceccherini, Tenente Pascoli


Pubblicato sul n. 3/2024 di “Nuova Resistenza Unita”
Nell’attacco all’Ossolalibera che si sviluppa inizialmente da est lungo la Val Cannobina a partire dalla notte fra l’8 e il 9 ottobre ‘44 vengono giustamente ricordati quali primi difensori caduti al Sasso di Finero il 12 ottobre Attilio Moneta e Alfredo Di Dio, mentre perlopiù si ignorano Aldo Cingano e Arnaldo Ceccherini caduti due giorni prima sull’altro versante della Cannobina, a ridosso dello spartiacque con le vallate del Verbano.
Aldo Cingano riposa nel Cimitero di Intra nell’area riservata ai partigiani; di lui e del contesto in cui è caduto sotto il fuoco tedesco, su questa rivista, è stato scritto in due occasioni, sia pur all’interno del ricordo di altri partigiani della Cesare Battisti[i]. Di Arnaldo Ceccherini si trova traccia solo all’interno dell’elenco di oltre mille caduti del Novarese pubblicato nel 1970[ii].
[...] Gli archivi della resistenza ci dicono che Arnaldo era nato a Milano il 17 febbraio 1921. Il Padre Mario, originario della Toscana, si era infatti trasferito a Milano e successivamente a Como. Una importante ricerca di studenti e docenti del Liceo Parini di Milano[v] sulle conseguenze delle leggi razziali per docenti e studenti della scuola ci segnala la presenza di Ceccherini:
“Cesare Cases (Milano, 1920 - Firenze, 2005), germanista, saggista e critico letterario. È studente del Parini fino al 1937/38, anno in cui frequenta con esito positivo la II liceale A, ma viene espulso a causa delle leggi razziali. Già negli anni del Parini ha modo di mostrare le proprie capacità letterarie, spronato da un’accesa rivalità con un compagno di classe, Arnaldo Ceccherini, che lo scrittore ricorderà con ironia nel saggio del 1978 'Cosa fai in giro'.”
Il saggio di Cases, un piccolo gioiello letterario[vi],ripercorre il suo rapporto laico con la cultura ebraica prima e durante le leggi razziali e Ceccherini, a cui dedica tre pagine, vi rappresenta un antisemitismo letterariamente ingenuo, ma anche l’evoluzione di una generazione che prende consapevolezza degli inganni del regime. Ne riporto alcuni passi.
“No, si può dire tutto di Milano, non che fosse una città an­tisemita. L’unico antisemita che avevo trovato a scuola non era milanese, e poi non era nemmeno antisemita. Si chiamava Arnaldo Ceccherini ed era toscano. Era un ragazzo biondastro, un po’ flac­cido e esangue, molto educato e ben curato, che perseguiva un culto della toscanità nutrito di letture principalmente di Papini. Il suo antisemitismo, del tutto libresco, veniva di li, da quel nazio­nalismo regionalistico e terragnolo che prosperava solo tra i toscani maledetti e per cui gli ebrei erano i prototipi degli uomini sradi­cati, cosmopoliti […]. In realtà era­vamo profondamente affini, due intellettuali in erba maldestri e in­troversi che si trovavano male nel loro ambiente e che fuggivano in un mondo che per me era astrattamente culturale mentre per lui assumeva i contorni dell’anticapitalismo romantico e del ritorno alle origini. […]
Dopo la guerra seppi che era morto, partigiano. Addio, caro nemico, riposa in pace finché le tombe non si scoperchieranno e noi torneremo sul ponte di San Marco a picchiarci per l’eternità. Forse è solo per ritrovarti che sono sceso nel pozzo del passato.”
Ceccherini dopo il liceo frequenta la facoltà di Giurisprudenza e, prima di laurearsi in Legge, viene richiamato in qualità di ufficiale della Guardia alla Frontiera (GAF), il corpo militare istituito da Mussolini nel 1934 accorpando reparti del Genio, Artiglieria e Fanteria, denominato ironicamente dagli alpini “la vidoa” (la vedova) per il caratteristico cappello da Alpino, privo però della penna. Ceccherini è di stanza a Iselle quando, poco dopo l’8 settembre, il reparto si scioglie spontaneamente.
[...] “All’annuncio dell’armistizio e al dissolvimento del presidio […] ci si raccolse per la mesta cerimonia dell’ammainaban­diera. Erano circa le cinque del pomeriggio dell’11 settembre 1943. Ceccherini, il più giovane degli ufficiali, uno dei nuovi tenenti del caposaldo, raccolse fra le sue braccia il tricolore con al centro lo stemma sabaudo. Tutti erano profondamente abbattuti dopo tanti mesi di guerra[…] quella fine così ingloriosa riempiva tutti di umiliazione. […] Il Ceccherini, dopo un primo periodo di sbandamento nei dintorni di Domodossola, entrò in Svizzera uscendone alla liberazione del settembre 1944 e partecipando da allora in avanti alla lotta partigiana col nome di copertura di «Tenente Pascoli».”[vii]
Il “Tenente Pascoli” - da sottolineare il riferimento letterario non più all’oltranzista cattolico Papini, ma al socialisteggiante poeta romagnolo - si arruola nella “Cesare Battisti” come semplice partigiano e nei primi di ottobre è inquadrato nel “Plotone Esploratori” guidato da Nino Chiovini e dislocato da Piazza (sopra Trarego) al Bavarione in difesa dell’Ossola liberata.
L’attacco nazifascista alla “Repubblica ossolana” non inizia, come si prevedeva, sulla piana tra Mergozzo e Ornavasso, ma il 9 ottobre in Valle Cannobina coinvolgendo sia il fondovalle che entrambi i versanti ed è guidato (Operazione Avanti) dalle SS Polizei Rgt. 15 ritornate nel territorio dopo il rastrellamento di giugno[viii]. Per l’attacco, oltre le forze dislocate a sud nella bassa Ossola, in Cannobina sono impiegate quattro colonne: fondovalle, versante sinistro (nord) dove è schierata la “Perotti” di Frassati, versante destro e contemporaneo accerchiamento, con una colonna proveniente da Intra e Pian Cavallo, della postazioni della “Battisti” e della “Valgrande Martire” schierate da sopra Trarego al Vadàa. Di seguito il commento e i ricordi di Chiovini:
“Ai partigiani addestrati ai colpi di mano, alle azioni offensive, ai rapidi sganciamenti, si chiede questa volta un compito diametralmente opposto, difendere il terreno. Le piccole vecchie formazioni che in poche settimane sono diventate brigate e divisioni, si sono appesantite con l’adesione di giovani entusiasti ma ancora impreparati fisicamente, militarmente, moralmente. E le armi sono sempre quelle: buone per l’offesa e neppur tanto, ancor meno per la difesa.  Dobbiamo nel contempo ammettere che una proposta di abbandonare il territorio della Repubblica ossolana senza combattere, da qualsiasi parte fosse avanzata, è impensabile, acquisterebbe immediatamente il sapore della diserzione, forse del tradimento. Non è possibile altra scelta che la difesa dell’Ossola. È questo il prezzo politico e di sangue che la Resistenza è tenuta a pagare.”[ix]
Sul versante destro lo sfondamento avviene a Pian Puzzo tra il 9 e 10 ottobre.Questo il ricordo di Peppo nel suo diario partigiano:
“Il nemico attaccò la sera dell’otto ottobre in Valle cannobina, mentre il cielo cominciò a vomitare pioggia … Estenuanti turni di guardia venivano sostenuti sotto una pioggia incessante e gelida che ci faceva sentire liquefatti. Nel tardo pomeriggio del secondo giorno cominciarono ad affluire partigiani sbandati provenienti dall’alto, dall’asse Colle-Pian Puz. Dai loro racconti comprendemmo che una colonna tedesca aveva raggiunto inaspettatamente Pian Puz attraverso una marcia nel bosco e, insieme ad un reparto corazzato giunto in seguito lungo la rotabile, sotto una bufera di neve, aveva sorpreso alle spalle e sopraffatto il nostro schieramento, che aveva subito forti perdite. Contemporaneamente in valle Cannobina avevano ceduto le nostre difese del fianco sinistro; al nemico che aveva potuto raggiungere Cùrsolo, tutto diventava più facile. Era la rotta.”[x]
È durante questo attacco accerchiante che, il 10 di ottobre, sulle pendici del Monte Bavarione cade Arnaldo Ceccherini. Del suo rigoroso spirito partigiano e del suo sacrificio abbiamo il commosso ricordo di un suo commilitone.[xi]
Dalla lettera di un soldato del Tenente Pascoli:
"Lo conobbi che da poco era uscito dalla Svizzera, chiaro era dunque il suo scopo; da allora gli sono sempre rimasto vicino, dormivamo nella stessa stanza lassù a P. Cavallo, a causa della scarsità mangiavamo spesso con lo stesso cucchiaio, era tenente ma faceva tutto quanto gli veniva ordinato senza avan­zare alcun diritto, lo sentivo ritornare dalle lunghe ore di guardia notturna fra un clima impossibile, senza un lamento. Sempre pronto a descrivere con umorismo le cose più insopportabili come la fame, la pioggia, il freddo. Mentre ci avviavamo per dare il cambio alla pattuglia che stava presso una mitraglia sul monte di Archia (erano circa le due del pomeriggio e dalle due di notte eravamo in cammino) mi disse che se fossi andato a Milano lo avrei trovato sempre in pantofole, anche i suoi piedi erano pressoché laceri. Arrivati al punto stabilito trovammo soltanto i segni della postazione; fummo presi dal primo dubbio e ci avviammo verso la cima, certi che la pattuglia si fosse trasferita lassù. Io rimasi indietro qualche minuto e quando raggiunsi il gruppo egli era già presso l’arma con il moschetto puntato. Tutti erano calmi ma ciò che mi stupì fu il suo atteggiamento non solo calmo, ma come al solito pacifico. Sicuro di se stesso si accingeva a compiere l’estremo dovere.
Poi durante la sparatoria un compagno gridò: «Pascoli è ferito!». Pascoli non era ferito, era morto, questo potei constatare quando con un altro cercavo di trascinarlo in un luogo riparato. Non riuscimmo a smuoverlo, ebbi la sensazione che nel disperato tentativo si fosse aggrappato a quella terra pur di non abbandonarla. Tre colpi di mitraglia apparivano sulla sua gamba sinistra, certo era stato colpito anche al petto. Egli è rimasto là ad aspettarci. Come fu semplice nella vita, con semplicità seppe affrontare il sacrificio."
[NOTE]
[i] Resistenza Unita 11/1999 p. 6 e Nuova resistenza Unita 11/2007 p. 8.
[ii] Resistenza Unita 2/1970 p. 5-15. In alcuni testi il nome è erroneamente riportato come Ceccarini o Ceccarelli.
[v] Il dolore di avervi dovuto lasciare, Milano 2014, p. 21.
[vii] Paolo Bologna: “Cronaca di una fuga” in Sentieri della Ricerca, n. 6, 2° semestre 2007, p. 18.
[viii] Cfr. E. Massara, Antologia dell’Antifascismo e della Resistenza Novarese, Novara 1984 p. 377-379 e R. Rues, SS-Polizei. Ossola-Lago Maggiore 1943-1945, Insubria Historica, Minusio (CH) 2018.
[ix] I giorni della semina, Tararà 2005, p. 129-130.
[x] Fuori legge??? Dal diario partigiano alla ricerca storica, Tararà 2012 p. 131-132.
[xi] “Arnaldo Ceccherini. Dalla lettera di un soldato del «Tenente Pascoli»”, in Ossola insorta, Milano 23.09.1945.
Redazione, Arnaldo Ceccherini “Tenente Pascoli” caduto in difesa dell’Ossola Liberata, fractaliaspei. Frammenti silmilari di speranza, 21 ottobre 2024