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sabato 30 luglio 2022

Alla lunga, in certe zone del Bergamasco, tutti avevano un parente o un amico che aveva fatto una rapina


È appunto con la definizione di batteria che si descrive «la forma amicale-organizzativa tipica dei rapinatori degli anni Settanta» (Quadrelli 2003a, p. 9), impegnati prevalentemente nelle rapine ai danni di istituti bancari e nei sequestri di persona a scopo di estorsione. Anche nel caso bergamasco, appunto, la batteria - solidificata attorno a legami di compaesanità, amicali o parentali <39 - è l’unità fondante della struttura organizzativa della malavita: il racconto degli ex membri permette di configurare le batterie come formazioni snelle, composte da un numero ridotto ma stabile di elementi (4-5 persone in media), la cui rete però si espande attraverso un moltiplicatore organizzativo rappresentato dalle relazioni obbligate che si innescano nella fase di pianificazione e di espletamento delle attività criminali <40. Sotto il profilo organizzativo, va sottolineato come le rapine in banca presentino una “morfologia” propedeutica al successivo ingresso nei più redditizi sequestri di persona a scopo di estorsione: in entrambe le attività criminali, sono individuabili le fasi del sopralluogo, il contatto con i “basisti” e il procacciamento di informazioni, il procacciamento di armi, veicoli e luoghi per la fuga e la conseguente latitanza/custodia dell’ostaggio, il riciclaggio dei proventi illeciti; l’unica fase aggiuntiva, nei rapimenti, è quella della trattativa con i familiari dell’ostaggio.
Oltre alla rete amicale-parentale-territoriale, un bacino di reclutamento importante è il carcere, luogo di socializzazione criminale secondaria. All’interno dell’istituzione totale, i malavitosi di più alto lignaggio individuano nuovi possibili affiliati, soprattutto tra i più giovani detenuti; è in questo luogo che si assiste a un rito di affiliazione <41 esperito: potranno essere cooptati nelle batterie quei giovani carcerati che rifiutano ogni collaborazione con forze dell’ordine e magistratura, quei giovani che tra le mura carcerarie dimostrano una condotta conforme al codice culturale della malavita <42. Nel racconto dei protagonisti, il carcere appare così criminogeno (cfr. anche Ghelardini 2017, p. 29).
Caratterizzata da una orizzontalità sia intra-gruppo che inter-gruppo <43, la malavita bergamasca assume una fattezza unitaria attraverso il mutuo riconoscimento nella galassia di batterie <44. Il collante è rappresentato in particolare dal senso di appartenenza alla propria terra d’origine <45 e dall’adesione a uno stesso codice culturale, con norme e valori enucleati - come tipicamente accade nelle organizzazioni criminali <46 - attorno al concetto di solidarietà (cfr. anche Quadrelli 2003a), anche attraverso meccanismi di mutua assistenza, come una cassa comune <47 in cui confluisce una parte dei proventi delle rapine, i quali vengono redistribuiti anche tra i membri della batteria in carcere (cfr. Tribunale di Bergamo 1986, p. 157) al fine di saldare i legami di gruppo ed evitare la defezione. Rispetto al codice culturale, il racconto dei protagonisti criminali rimarca la centralità dell’omertà (cfr. Facchinetti 2015), la regola aurea di ogni organizzazione criminale. Introiettato profondamente come strumento di controllo degli stessi affiliati <48; il codice culturale dell’organizzazione è poi integrato da un apparato di sanzioni sociali informali finalizzate all’ostracizzazione e all’esclusione dei malavitosi “devianti” rispetto alle condotte stabilite <49.
L’insieme orizzontale delle batterie è integrato da un meccanismo informale di coordinamento tra di esse <50; a gestirlo, una serie di figure di “notabilato malavitoso”, capaci di assicurare il rispetto delle competenze territoriali, la salvaguardia dei codici di comportamento, la pacifica convivenza dei singoli gruppi.
Nella società
Nel quindicennio di attività, la malavita bergamasca risulta fortemente inserita nel tessuto sociale locale, in particolare in specifiche aree della val Seriana e della val Cavallina. Innanzitutto, è necessario rilevare come il fenomeno della malavita bergamasca abbia un impatto rilevante sulla società locale <51; pur impossibile da quantificare <52, il numero delle batterie attive e dei componenti delle batterie risulta significativo. Il già citato moltiplicatore organizzativo, espandendo le reti delle singole batterie, porta a costruire ampie reti di soggetti legati al mondo della malavita; la limitata dimensione dei comuni “roccaforte” delle batterie, dunque, crea in quelle comunità una apprezzabile densità criminale.
Il rapporto che si crea, ricostruito attraverso le interviste a testimoni privilegiati, assume i contorni di una diffusa connivenza, generata non da paura ma da tolleranza. Meritevole di citazione è la testimonianza di un magistrato in servizio presso il tribunale di Bergamo negli anni di maggiore attività della malavita locale:
"Non si sono mai registrati episodi di violenza gratuita, non ricordo di persone ad esempio travolte dalla fuga dei rapinatori o uccise senza motivo: erano “scèc de paìs” [ragazzi di paese] che avevano una loro professione, i rapinatori di banche, la rapina era un dato professionale. Credo fossero stati abbastanza coperti dal tessuto sociale loro circostante: questo non perché i banditi lo imponessero con la forza, con “metodo mafioso”, ma perché essi non smettevano di essere gente del paese: alla lunga, in certe zone del Bergamasco, tutti avevano un parente o un amico che aveva fatto una rapina" (intervista a magistrato “stagione malavita”, 28 gennaio 2016).
L’analisi del magistrato restituisce un quadro simile a quello fornito da chi in quegli anni si poneva sul piano illegale:
"Noi rapinatori di quegli anni non eravamo visti così male come può essere visto ad esempio un rapinatore oggi. Questo soprattutto perché si rubava nelle banche, e non certo nelle case, nelle ville; se si andava a fare gli uffici postali, non era certo per rubare la pensione alla vecchietta. Un colpo in banca faceva male solo alla banca o all’assicurazione; facevi un danno solo a quelli a cui rubavi la macchina per la fuga. Gli unici a essere visti male erano quelli che colpivano le gioiellerie, gli orefici, ma erano in pochi a farlo da noi. Non c’era violenza gratuita, si sparava magari in aria per intimidire" (intervista a ex malavitoso della val Seriana 1, 30 gennaio 2016).
Un fattore decisivo, dunque, è determinato dalla tipologia del business illegale prevalente e dalle vittime di questo reato. La rapina ai danni di istituti bancari, infatti, ribalta la tradizionale asimmetria del crimine organizzato (cfr. Ruggiero 2003, p. 42), o meglio ancora il tradizionale processo di costruzione dell’asimmetria del crimine: nelle estorsioni mafiose, per esempio, il criminale (soggetto agente) si pone come l’affiliato di un potente clan che taglieggia il piccolo commerciante; nelle rapine in banca, viceversa, il rapinatore appare come un singolo (o un gruppo di pochi singoli) che “attacca” la ramificazione di un potere economico, cioè la filiale di un gruppo bancario. Un’osservazione secondaria ma non per questo superflua è rappresentata dal fatto che i soldi rubati durante le rapine in banca sono appunto “di proprietà” della banca (che eventualmente stipula apposite polizze assicurative) e non più - una volta depositati - del privato cittadino; nell’estorsione, l’imprenditore è invece costretto a trasferire al malvivente delle proprie risorse, aziendali o personali.
Dunque, nel tessuto sociale di insediamento della malavita bergamasca sorge un rapporto tollerante, talvolta di condivisione, che si sostanza in omertà, silenzi, difficoltosa collaborazione con le forze dell’ordine, talvolta sostegno attivo per favorire le latitanze dei criminali.
Esaurimento
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta si assiste all’esaurimento di questo fenomeno criminale. La fine dell’esperienza si determina per fattori endogeni e fattori esogeni.
I fattori endogeni richiamano in particolare un contrasto culturale interno all’organizzazione. Dalla fine degli anni Settanta, il traffico di droga assume traiettorie globali gestite con ruoli crescenti dalle mafie italiane (Lupo 2004, pp. 285-90). L’ampiezza del mercato diventa tale da coinvolgere nella filiera, a livelli più bassi, anche organizzazioni criminali non mafiose capaci di operare su scala locale; anche la malavita bergamasca, con un gap temporale di alcuni anni (dovuto all’integrazione di altre organizzazioni nella filiera del narcotraffico e alla più lenta maturazione di una domanda bergamasca di consumo di droga <53), dall’inizio degli anni Ottanta si trova di conseguenza ad affrontare la possibilità di inserirsi nella filiera. Si apre così una frattura interna alla malavita bergamasca che vede posizioni contrapposte, argomentate da motivazioni culturali, circa l’ingresso nel nuovo business.
Spiega un ex rapinatore:
"La droga ha cambiato tutto. Tante persone si son buttate dietro alla droga, sia a usarla che a trafficarla. Sul farne uso, molti tendevano però a non farlo sapere, perché non era ben vista come cosa. Chi si è buttato sulla droga è perché vedeva tanto guadagno, ma da lì si sono persi tanti valori. In principio la droga era vista come il contrabbando, come il traffico di sigarette, un semplice commercio, qualcosa un gradino sotto rispetto alla concezione che si ha avuto in seguito. Poi, però, si son visti i veri guadagni…" (intervista a ex malavitoso della val Seriana, 30 gennaio 2016 <54
Non è infrequente che al proprio interno le organizzazioni criminale aprano dibattiti circa la “moralità” di un nuovo reato. Così era avvenuto per esempio nella ’ndrangheta con i sequestri di persona <55, mentre appare maggiormente una costruzione lo scontro interno a Cosa nostra circa l’ingresso nel traffico di droga <56: la contrarietà a un ruolo attivo nel narcotraffico, lungi dall’avere una motivazione morale, è una tesi che alcune cosche hanno avanzato più per prudenza criminale, cioè per sfuggire alla repressione crescente da parte delle forze dell’ordine su un fenomeno - il narcotraffico e il conseguente consumo di droga - dall’elevatissimo impatto sociale; le ingenti possibilità di guadagno rappresentate dal mercato della droga hanno prevalso su qualsiasi resistenza di carattere morale o prudenziale.
Sicuramente significativi sono due fattori endogeni. Il primo riguarda i risultati che forze di polizia e magistratura ottengono sul fronte della repressione a partire dalla metà degli anni Ottanta, anche grazie all’introduzione di un approccio sempre più scientifico nelle indagini: si susseguono dunque in maniera sempre più numerosa arresti <57, processi e condanne significative <58, che sgretolano quantitativamente (l’alto numero di arrestati e condannati) e soprattutto qualitativamente (in carcere entrano anche le figure più carismatiche e dotate di maggiore capitale sociale criminale) le batterie <59. Non si assiste a un turnover criminale: la mancanza di un ricambio generazionale evidenzia un fattore di debolezza strutturale nella malavita locale. Il codice culturale della malavita è perciò da considerarsi fragile o parziale, giacché non comprende una funzione latente (Parsons 1962) finalizzata alla trasmissione e alla riproduzione del modello criminale sul medio-lungo periodo. Preme poi sottolineare come la capacità imprenditorial-criminale della malavita bergamasca sia poco evoluta: pur di fronte a introiti considerevoli <60, il reinvestimento nell’economia legale appare di mera sussistenza, cioè indirizzato ad attività come ristoranti (Facchinetti 2015) o bar; senza progettualità di reimpiego, il denaro viene “bruciato” nell’adeguarsi a una visione iper-consumistica della vita (Quadrelli 2003a, p. 24).
Tra i fattori endogeni, un altro si enuclea attorno alle tecnologie sempre più raffinate di cui si dotano gli istituti bancari. Gli apparati di sicurezza delle filiali si sviluppano in maniera considerevole, tanto negli spazi pubblici dei locali (telecamere esterne oltre che nell’area in cui i clienti attendono il proprio turno; porte temporizzate all’ingresso; vetri divisori blindati a tutela del dipendente) che negli spazi inaccessibili al pubblico (casseforti con blindature più efficienti e dotate di meccanismi di temporizzazione automatizzata non controllabile dal bancario); oltre a ciò, la circolazione del denaro contante si riduce sempre più, abbattendo i ricavi che i rapinatori possono ottenere (Kaltwasser 2003).
Terzo fattore endogeno, infine, è rappresentato dalle implementazioni normative che riguardano il reato complementare alla rapina in banca, cioè il sequestro di persona a scopo di estorsione, in cui anche la malavita bergamasca è attiva: dal 1991, la norma fissa una prassi ormai consolidata a livello investigativo, cioè il “congelamento” dei beni dei familiari del sequestrato <61. “Congelando” le disponibilità economiche delle persone legate al sequestrato, per i sequestratori è molto più difficile incassare il riscatto, dunque il rapimento a scopo di estorsione, che presenta costi di organizzazione considerevoli (cfr. dalla Chiesa e Panzarasa 2012), diventa un reato antieconomico.
[NOTE]
40 Nel dettaglio. Ciascuna batteria instaura una interlocuzione prolungata con i “basisti” (cioè coloro che forniscono informazioni, spesso dall’interno, sugli obiettivi delle azioni delittuose), i criminali di piccolo cabotaggio specializzati nel furto e nel “riciclaggio” dei veicoli necessari per rapine e sequestri, i fornitori di armi, i falsari specializzati nella fabbricazione e vendita di documenti contraffatti, i soggetti che forniscono appartamenti sicuri per le latitanze (cfr. Tribunale di Bergamo 1986); dal nucleo di 4-5 elementi malavitosi operativi, dunque, si estende un network che può comprendere almeno il doppio delle persone. Dalla Chiesa e Panzarasa (2012, pp. 93-100), analizzando i sequestri di persona a scopo di estorsione praticati dalle organizzazioni mafiose nel Nord Italia, tratteggiano un «modello a stella» per descrivere come da una singola “cellula” di ’ndranghetisti si sviluppi poi un più ampio reticolo di interlocuzioni, collaborazioni e alleanze temporali.
41 Sulla centralità dei riti di iniziazione nelle organizzazioni mafiose, si vedano per esempio Ciconte (2015) e Catino (2019).
42 «Il carcere è una “palestra”: se ti comporti “bene”, secondo i criteri dei “bravi ragazzi”, poi sarai tenuto in considerazione» (intervista a ex malavitoso della val Cavallina 1, 24 ottobre 2015). «Il primo arresto era già una prova, un test d’ingresso a cui ti sottoponeva la polizia: passavi due o tre giorni di fuoco dove cercavano di farti cantare. Se cantavi, avevi dei benefici in fatto di pena e venivi escluso per sempre dal giro della malavita. Se non cantavi, venivi accettato dai vecchi “coattoni” della mala, che ti spigavano le regole. Si veniva selezionati da giovani: la prima prova era appunto la resistenza nei confronti di quelle vere e proprie torture che subivi in carcere» (intervista a ex malavitoso della Bassa bergamasca, 4 dicembre 2015).
43 Si prenda la testimonianza di Emiliano Facchinetti: «Più in generale, comunque, nelle batterie non c’era quello che comandava, c’era solo quello che proponeva. C’era quello più “adulto” e responsabile, più esperto, e gli altri membri gli si accodavano. Non c’era il classico capo come nella malavita mafiosa. Non c’era gerarchia nella mala bergamasca. Il leader si prendeva poi le responsabilità maggiori, ci metteva la faccia, era quello che entrava per primo e usciva per ultimo, e quindi subentrava il rispetto degli altri, se lo guadagnava sul campo. Ma non c’era la volontà di essere il capo, la figura nasceva da sola, dalle gesta che venivano raccontate ed esaltate nei ritrovi dei rapinatori» (intervista a Emiliano Facchinetti, fratello del rapinatore Pierluigi, 24 ottobre 2015).
44 Originale e stimolante è il parallelo tracciato da Quadrelli (2003b, p. 91): «Il modello organizzativo [delle batterie] ricorda quello dei Germani, possono avere un capo militare ma non politico. Le decisioni sono prese collettivamente e solo un rigido legame di fratellanza consente di decidere e impegnarsi anche per un altro».
45 Importante sottolineare, inoltre, che «le batterie considerano i loro quartieri come territorio amico» (Quadrelli 2003a, p. 32). Dimensione rilevante è anche l’utilizzo di uno specifico gergo comune, in cui alcune particolari espressioni rimangono sedimentate per decenni, se non per tutta la vita. Per gergo si «designano genericamente le lingue speciali parlate da specifici gruppi sociali, che non intendono farsi comprendere da altri. […] L’intento primario resta quello di sottrarsi al controllo altrui, stabilendo un tipo di comunicazione decifrabile soltanto da chi ne possegga il codice, e ponendosi così al di fuori della norma sociale» (Ferrero 1972, p. 11).
46 Il valore della solidarietà, specie nella criminalità organizzata mafiosa, appare tuttavia una costruzione: «Le configurazioni romantiche, imperniate sulle formule della mutua assistenza e della fraternità, su certi valori di civiltà, sui principi del rispetto umano, della solidarietà di fronte a un comune pericolo di sopraffazione o d’ingiustizia, dell’unione fraterna che di per se stessa crea condizioni particolarmente efficienti di tutela e di sicurezza; le configurazioni che sono state delineate con eloquenza e abilità argomentativa dai difensori, sono nettamente respinte e smentite dalla realtà» (cit. in Gratteri e Nicaso 2018, p. 245).
47 Tipica anche nelle organizzazioni mafiose, cfr. Gratteri e Nicaso (2010, p. 328), Varese (2011, p. XV).
48 Il riferimento è al campo della sociologia dell’organizzazione e in particolare a Kunda (1992).
49 «Erano regole dure, senza eccezioni. La precisione era fondamentale: per dirne una, non era ammesso presentarsi in ritardo agli appuntamenti. Avere relazioni con le donne di altri membri della malavita era assolutamente proibito, specie se gli altri erano in carcere: era una infamità grave. Rinnegavamo la prostituzione. Le rapine erano ammesse solo nei confronti di banche, uffici postali e grossi stabilimenti: non colpivamo i commercianti o i negozianti. […] Nelle batterie ci potevano essere discussioni interne alla luce dei risultati del lavoro: se non lo fai bene, vieni escluso» (intervista a ex mafioso della val Seriana 2, 4 dicembre 2015). «Le regole erano ferree. Si partiva dalle donne: non dovevi metterle al corrente delle tue azioni. Chi faceva intendere a estranei i propri “lavori”, veniva isolato dal gruppo. […] Quelli che per inaffidabilità venivano esclusi da una batteria, poi formavano altre batterie composte da esclusi dal giro. Se sbagli anche solo una volta, sei irrecuperabile.» (intervista a ex malavitoso della Bassa bergamasca, 4 dicembre 2015).
50 Nelle mafie tradizionali a strutturazione più verticale, sono presenti livelli metaorganizzativi e strutture di coordinamento, cfr. Catino (2019): ma su questo tema, così come sulla cultura come strumento di controllo, considerazioni più approfondite si proporranno nelle conclusioni, in sede di comparazione tra le tipizzazioni classiche degli studi sulle mafie e gli output della ricerca dei case studies.
51 L’analisi della stampa locale rivela un allarme sociale alto. Tra i tanti articoli: «Solo una quindicina di anni fa le rapine che in un anno venivano portate a termine su tutto il territorio della provincia non erano più di due o tre. Un dato incredibile, se lo si raffronta al bilancio dello scorso anno, quando le rapine sono state circa cento. La malavita è scatenata. I rapinatori non esitano a sparare e le loro fila sono di continuo alimentate da giovani leve, spesso da incensurati […] Di fronte al dilagare della delinquenza le forze dell’ordine hanno potenziato le misure di prevenzione e i controlli, mentre si è fatto più tempestivo l’intervento delle pattuglie non appena viene dato l’allarme» («L’Eco di Bergamo», 3 gennaio 1982).
52 Apprezzabile è la testimonianza in Facchinetti (2015, pp. 83-84): «Trescore e la Val Cavallina brulicavano all’epoca di giovani rapinatori. Si rapinava una posta la mattina per poi spendere il bottino la sera, in compagnia di belle ragazze che salivano orgogliose su macchine sportive. Le stesse che, qualche ora prima e con targhe diverse, erano magari servite per scappare da un posto di blocco. Si trattava di un fenomeno tipico degli anni Settanta, quasi una moda diffusa in tutta la valle, un pericolosissimo gioco che tanti non riuscivano a reggere fino in fondo. Erano tanti quei ragazzi, più di quanti si possa immaginare. E qualcuno ancora c’è, è vivo, non è finito in carcere e oggi lavora e ricopre anche cariche istituzionali».
53 Sulla diffusione della droga in Bergamasca, si veda Ferrari (1983).
54 Nel traffico di droga, dunque, non vi sarebbe quella componente culturale di sfida che invece è propria della rapina in banca e accomuna tutta la malavita settentrionale (Quadrelli 2003a, p. 273). Come afferma un altro ex rapinatore, infatti, «la rapina era il massimo, c’era il senso di sfida, il coraggio di metterci la faccia. Il resto è un gradino sotto» (intervista a ex malavitoso della Bassa bergamasca, 4 dicembre 2015).
55 «Il prolungamento dei sequestri e il clamore che v’era attorno ad essi provocarono una discussione e una divisione dentro le famiglie della ’ndrangheta. Alcuni capibastone non erano d’accordo e fecero conoscere il loro parere. Uomini di notevole prestigio come Antonio Macrì e Paolo De Stefano erano contrari. Il contrasto verteva attorno all’opportunità e all’utilità di sequestrare donne e bambini. Sono stati moti i bambini calabresi e non calabresi ad essere rapiti. Il timore era che ciò facesse venire meno il consenso, questione, come sappiamo, quanto mai cruciale per la sopravvivenza di una struttura mafiosa, di qualunque provenienza regionale essa fosse» (Ciconte 2011, p. 11).
56 In particolare per il caso della Cosa nostra americana, fondamentale è la ricostruzione di Lupo (2008, pp. 238-245).
57 L’analisi della stampa locale anche in questo caso è fondamentale. Il clamore delle “imprese” della malavita bergamasca assume tuttavia anche carattere nazionale: si veda per esempio «Corriere della Sera», 18 novembre 1984: Sgominata a Bergamo la cooperativa del crimine che aiutava i detenuti col bottino delle rapine. L’articolo dà conto di 34 persone in carcere per «assalti compiuti da banditi in Lombardia, nel Veneto e in Svizzera.
58 Sono diversi i malavitosi bergamaschi condannati all’ergastolo per omicidi commessi durante le rapine (tra gli ex malavitosi intervistati, due hanno riportato condanne all’ergastolo). Alcuni trascorrono periodi di carcerazione anche in penitenziari di massima sicurezza come Pianosa.
59 Va altresì segnalato l’importante numero di rapinatori morti in scontri a fuoco con la polizia. Tra questi, Pierluigi Facchinetti, di Trescore Balneario, capo di una delle batterie più importante della galassia malavitosa bergamasca. Si veda Facchinetti (2015).
60 Una ricostruzione emblematica è in Tribunale di Bergamo (1991). Tra 1985 e 1987, alla batteria di Pierluigi Facchinetti vengono contestate rapine in Svizzera per 5.179.872 franchi svizzeri, pari a 4.567.385 euro; rivalutando attraverso il portale Istat quella cifra dal 1987 al 2019, si arriva a un valore corrente di 10,4 milioni di euro; in Tribunale di Bergamo (1991) si segnala anche un sequestro di persona a scopo di estorsione messo in atto dalla batteria di Facchinetti in Olanda, dal valore di 1,4 milioni di fiorini olandesi dell’epoca, equivalenti a circa 735 mila euro.
61 Cfr. decreto legge del 15 gennaio 1991, n. 8, recante Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, in particolare all’art. 1.
Luca Bonzanni, Criminalità e comunità. Il caso delle valli bergamasche, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2018/2019

giovedì 28 luglio 2022

Una consistente schiera di storici britannici e statunitensi ha strutturato un impianto analitico tendenzialmente comparativo dei fenomeni fascisti


L’interpretazione sociologica del fascismo vanta una vasta letteratura, all’interno della quale particolare successo e credito ha ottenuto la formulazione della teoria proposta da Karl Mannheim <55.
Muovendo dall’assunto secondo cui il pensiero non può mai essere scisso dal contesto storico di riferimento, per cui gli uomini pensano e agiscono a seconda della situazione storico-sociale in cui sono inseriti, il sociologo tedesco ritiene che questo meccanismo di adattamento del pensiero sia dovuto non solo al processo storico ma anche ad altri fattori, primo fra tutti la mobilità sociale, che può essere analizzata nella sua dimensione orizzontale e verticale: la prima rappresenta un mutamento di posizione o di luogo, ma non di strato sociale; viceversa, la seconda indica uno spostamento tra diversi strati sociali, tale per cui si giunge a un’ascesa o a un declino sociale. Sulla base di questa tesi, Mannheim individua cinque tipi ideali di pensiero storico-politico, a cui corrispondono diversi movimenti politici, che hanno caratterizzato il XIX e il XX secolo: il conservatorismo burocratico, lo storicismo conservatore, il pensiero liberal-democratico, la concezione socialista-comunista e, infine, il fascismo.
Secondo il sociologo tedesco il fascismo rispecchia l’ideologia dei gruppi rivoluzionari che, guidati da intellettuali estranei al gruppo dei leaders liberali-borghesi e socialisti, sperano di conquistare il potere, sfruttando le continue crisi che insidiano le società moderne nel loro processo di trasformazione. Infatti, questo percorso verso la modernità presenta spesso delle opportunità per manifestare sentimenti violenti e rivoluzionari <56. Questi gruppi rivoluzionari sono contraddistinti da una situazione psicologica e sociale per cui il disordine e l’irrazionalità non possono che essere i principali elementi caratterizzanti lo sviluppo della società. Dunque, per utilizzare le parole di Mannheim, «si può così stabilire una certa correlazione sociologica tra il tipo di pensiero che si richiama ai gruppi organici e organizzati e un’interpretazione della storia coerentemente sistematica, come esiste, d’altra parte, una profonda affinità tra i gruppi socialmente disinseriti e poco integrati e un intuizionismo anti-storico. Più i gruppi organizzati si espongono a una crisi o a una rottura, più essi tendono ad abbandonare un concetto sistematico della storia e diventano sensibili all’imponderabile e al fortuito. Non altrimenti, appena i gruppi rivoluzionari, spontaneamente organizzati, diventano stabili, essi cominciano ad accogliere un’idea della storia e della società più ampia e coerente» <57. I gruppi organici considerano, dunque, la storia come una successione di eventi concatenati tra di loro; al contrario, i gruppi che si formano in particolari condizioni storiche ritengono che la storia sia un insieme di fatti svincolati l’uno dall’altro. Tali gruppi presentano anche un altro elemento di discordanza che riguarda il concetto di azione: mentre i gruppi stabili considerano l’azione come un mezzo per il perseguimento del proprio scopo, i gruppi rivoluzionari ritengono che essa sia pura tecnica politica, che non si inserisce nel più ampio contesto storico.
Per quanto riguarda la fase storica dell’avvento del fascismo, Mannheim ritiene che esso affondi le radici in un momento di debolezza della borghesia, i cui strumenti per porre rimedio ai conflitti di classe si sono rivelati inefficaci. Citando ancora lo studioso tedesco: «Sono i periodi in cui il progresso sembra venire meno per il presente e la crisi diventa acuta. Le relazioni e le differenze di classe si fanno aspre e anormali. La coscienza di classe delle parti in lotta si avvia a divenire confusa. In tali periodi è facile per certe formazioni prevalere, mentre si afferma la presenza della massa, avendo gli individui perduto o dimenticato le direttive che erano specifiche della loro classe. A questo punto, una dittatura diventa del tutto possibile. La visione fascista della storia e l’intuizionismo che è alla base dell’azione immediata finiscono col tramutare quella che era soltanto una situazione parziale in una concezione totale della società» <58.
Una volta conquistato il potere, il fascismo riduce il suo pensiero politico a una pura illusione, ritenendo che esso sia fondamentale fintantoché si dimostra capace di suscitare l’entusiasmo per l’azione, mentre perde tutta la sua utilità nel momento in cui si trasforma in uno strumento per la comprensione scientifica della politica. In quest’ottica, la storia viene concepita come un insieme di fatti sconnessi. L’idea di un processo storico fatto di avvenimenti tra loro concatenati finisce per diventare esclusiva dei gruppi sociali che sperano che il fascismo possa portare a un mutamento. È proprio da questa speranza che nascono utopie e idee di progresso. Tuttavia, una volta raggiunto il potere, l’utopia lascia il posto solo alla considerazione di scopi immediati. La conseguenza è che «l’idea di un processo e della assoluta comprensibilità della storia diventa pertanto un semplice mito» <59. Quest’idea viene rafforzata dal fatto che il fascismo, in realtà, non intende giungere ad un mutamento dell’ordine sociale, bensì il suo scopo è soltanto quello di sostituirsi alla vecchia classe dirigente, senza modificare l'assetto delle classi sociali.
[NOTE]
55 K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1957
56 E. Saccomani, Le interpretazioni sociologiche del fascismo, Loescher Editore, Torino, 1977, p. 45
57 Ivi, pp. 45-46
58 Ivi, p. 47
59 Ivi, p. 49
Annalisa Coccia, Fascismo: un'analisi interpretativa, Tesi di laurea, Università LUISS "Guido Carli", Anno Accademico 2014/2015

Da anni lo studio del fascismo italiano ha ampliato notevolmente i propri orizzonti di riferimento e i campi di ricerca delle sue indagini. Dopo un prima stagione storiografica sorta nell’immediato dopoguerra e segnata tanto dai “dogmatismi” di matrice marxista quanto da analisi comprensibilmente legate ad una lettura politicizzata ed etica del fenomeno quale parentesi o debellata malattia <25 sciolta da una progressiva e lineare narrazione storica italiana, il fascismo è gradualmente tornato al centro del dibattito intellettuale sull’orma di importanti opere apparse fin dai primi anni Sessanta e di riflessioni che hanno sensibilmente riformato l’intero impianto storiografico su di esso costruito. I pionieristici lavori di Renzo De Felice sulla biografia mussoliniana e quelli di George L. Mosse sulle origini culturali del movimento nazionalsocialista in Germania <26, gli approcci filosofici, seppur differenti, di autori quali Augusto Del Noce <27 ed Ernst Nolte <28 e l’emergere di una problematica spesso trascurata - la possibile esistenza e consistenza di una cultura fascista - hanno contribuito nel corso di un decennio ad aprire prospettive di analisi e ricerche che lungo tutti gli anni Settanta, e arrivando ai giorni nostri, hanno radicalmente ripensato, tra mai sopite contestazioni e polemiche, gli assunti centrali di quei primissimi paradigmi interpretativi.
Superate le iniziali decifrazioni socio-economiche del movimento e le letture prettamente impositive del suo momentaneo - ma evidentemente non breve e circoscritto - successo, la storiografia ha progressivamente affrontato i vari aspetti di quella cultura tanto a lungo trascurata, certamente non definita e omogenea eppure viva ed eclettica; paradossale e contraddittoria ma non per questo priva di espliciti contenuti propri. Miti, credenze e valori - per riprendere il titolo dello studio di Pier Giorgio Zunino sopra citato -, idee e ideologie <29, politiche culturali e contributi intellettuali <30, simboli e rappresentazioni di quella che George L. Mosse ha racchiuso nella fortunata espressione di «nuova politica» <31 sono divenuti nel tempo inesauribili cantieri di ricerca, portando gli storici ad arricchire tanto la pura analisi delle strutture istituzionali dei fascismi tra le due guerre quanto la comprensione e giustificazione del sempre discusso consenso da cui furono effettivamente circondati. Mentre continuavano, quindi, a prosperare gli studi di matrice politica, rinvigoriti dalla sempre maggiore fortuna concessa al concetto di totalitarismo <32, le tematiche di stampo culturale passarono lentamente ad occupare una posizione centrale nel panorama storiografico rinfocolando il dibattito sulla natura religiosa e sacrale dei vari movimenti <33, affrontando l’estetica <34, le retoriche e i linguaggi <35 di cui si fecero portatori e riconsiderando, infine, il reale spazio occupato da tali fenomeni all’interno della narrazione storica novecentesca.
Affrancate le formulazioni dell’immediato dopoguerra fondate su una lettura essenzialmente reazionaria, retrograda, regressiva della politica e della cultura fasciste, gli studiosi hanno cominciato ad indagare i fili intercorsi tra fascismo e “modernità” europea, provando a ricostruire le sue molteplici radici spaziali e temporali, le assonanze e dissonanze con il coevo pensiero politico, artistico, economico, sociale, le peculiarità del suo essere nel tempo. Tanto la storiografia italiana quanto quella internazionale hanno iniziato a focalizzare le loro opere sui rapporti delineatisi tra i diversi movimenti e l’incedere della contemporaneità, accettando l’esistenza di una particolare tensione fascista nei confronti del tempo storico e assumendo, infine, nuovi paradigmi interpretativi al fine di decostruirla e analizzarla nella sua innegabile complessità.
Scartata l’ipotesi di poter comprendere il fascismo quale semplice «negatività storica» <36 è stato allora necessario costruire modelli di lettura che fossero in grado di ragionare sul fenomeno quale declinazione stessa della Storia novecentesca, espressione interna e consustanziale ai processi di modernizzazione europea e alle sue manifestazioni. Per tali ragioni, a partire dalla fine degli anni Ottanta e giungendo ai dibattiti del tempo presente, lo studio dei fascismi, e nel caso specifico del ventennio mussoliniano, ha virato verso analisi che tenessero in considerazione gli aspetti moderni/modernisti della sua cultura e della sua politica nonché i richiami diretti alle più radicali esperienze avanguardiste di inizio Novecento <37. Un approccio che negli anni si è diramato seguendo due strade non sempre convergenti, talvolta parallele eppure, a ben vedere, non prive di importanti punti di contatto.
Da una parte, infatti, determinate scuole storiografiche - su tutte quella italiana - hanno continuato a privilegiare interpretazioni mirate e conchiuse dei singoli movimenti tra le due guerre dissodando la cultura e l’ideologia fasciste nei loro aspetti distintivi, confrontandole con il concetto di modernità e dirigendo gran parte delle proprie attenzioni sui processi di sacralizzazione della politica e politicizzazione dell’estetica. Dall’altra, invece, a cavallo tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, una consistente schiera di storici britannici e statunitensi ha strutturato un impianto analitico tendenzialmente comparativo dei fenomeni fascisti, fondato non tanto sul concetto di modernità quanto su quello - forse ancor più scivoloso e di ardua gestione <38 - di "modernism". Un impianto concettuale rimasto sostanzialmente ai margini del dibattito italiano <39 - spesso limitato a brevi e sporadici accenni critici - e che ha riscosso, invece, un enorme successo in Europa e oltreoceano in virtù delle tante ricerche condotte da storici dell’arte <40, della letteratura, dell’architettura <41 e del vasto consenso riservato, sin dalle prime opere, alle teorie proposte da Roger Griffin.
Fin dal 1991, quando venne pubblicato "The nature of Fascism" <42 - divenuto in breve tempo una delle pietre miliari della storiografia culturale anglofona sui movimenti fascisti - Griffin si è proposto di superare i confini nazionali dei vari fenomeni fascisti europei, analizzandoli in una prospettiva transazionale e aprendo un lungo percorso di ricerca recentemente culminato in un imponente volume dal titolo "Modernism and fascism: the sense of a beginning under Mussolini and  Hitler" <43. Pur avendo ampliato e rielaborato diverse interpretazioni fondanti nei suoi primissimi lavori, Griffin è rimasto nel tempo essenzialmente coerente con alcune osservazioni storiografiche di ampio respiro - due nello specifico - ininterrottamente presenti nella totalità della sua trentennale produzione. La prima è la teorizzazione di un "generic fascism" idealtipico, prodotto culturale di quella crisi fin de siècle che tanto avrebbe segnato il primo Novecento, risposta rivoluzionaria e modernista alla decadenza della ragione occidentale europea e all’avvento dei processi di modernizzazione e secolarizzazione nell’Europa del primo dopoguerra. La seconda è l’idea che il fascismo giochi una battaglia contro la cultura liberale, democratica e socialista sul terreno di una riconquista temporale, sulla creazione di un nuovo ordine del tempo all’interno della modernità in declino. Una visione rigenerativa della Storia che Griffin, e tanti altri sulla sua scia, hanno definito palingenetica, la quale accumunerebbe tutti i movimenti fascisti sorti in Europa tra le due guerre, figli della temporalizzazione dell’utopia e costruttori di una nuova speranza rivoluzionaria in grado di guidare la società verso nuovi e più ampi orizzonti capaci di riporre ancora una volta nelle mani dell’uomo il proprio destino. Per usare la definizione proposta dallo stesso Griffin:
"Fascism is a revolutionary species of political modernism originating in the early twentieth century whose mission is to combat the allegedly degenerative forces of contemporary history (decadence) by bringing about an alternative modernity and temporality (a ‘new order’ and a ‘new era’) based on the rebirth, or palingenesis, of the nation. […] Fascism can thus be interpreted on one level as an intensely politicized form of the modernist revolt against decadence. Its modernist dynamics in the inter-war period are manifested in the importance it attached to culture as a site of total social regeneration, its emphasis on artistic creativity as the source of vision and higher values, its adherence to the logic of ‘creative destruction’ (which in extreme instances could foster genocidal persecutions of alleged racial enemies), its conviction that a superseded historical epoch was dying and a new one was dawning, and the virulence of its attacks on materialism, individualism, and the loss of higher values allegedly brought about by modernity. They also condition the way it operates as a modern revitalization movement, the extreme syncretism of its ideology, and its draconian act designed to bring about the cleansing, regeneration, and sacralization of the national community, and create the new fascist man" <44.
Sia che si guardi agli sviluppi della storiografia nazionale sul ventennio mussoliniano, quindi, sia che si ripercorrano le evoluzioni dei modelli proposti dalla storiografia anglofona, è innegabile che negli ultimi anni sia sorto un vasto interesse per le modalità, le espressioni e le tensioni storiche presenti all’interno dei movimenti fascisti, per quell’insieme di elementi recentemente sintetizzato dal «Journal of Modern European History» nella formulazione di "Fascist Temporalities" <45. Elementi che le varie scuole hanno ripetutamente messo a confronto con categorie interpretative esterne o quantomeno inglobanti il fenomeno stesso - su tutte modernità e modernismo - riducendo, forse, la misura delle differenziazioni interne e preferendo strutturare canoni generali e interpretazioni tendenzialmente omogeneizzanti invece di sezionare l’oggetto nelle sue pluralità e specificità.
Da questo punto di vista, chi scrive crede che la nozione di regime di storicità - e più generalmente di storicità - possa permettere di agire su tali pluralità e specificità senza il bisogno di farle coincidere o rientrare in una determinata struttura concettuale, di muoversi non al di sopra della commistione di queste esperienze ma all’interno di essa, di analizzare le narrazioni e le rappresentazioni prodotte dal ventennio fascista come espressioni eterogenee, non di rado conflittuali e in continuo movimento di un più generale afflato temporale: quello dell’Era fascista.
Evitando, come ricorda François Hartog, di «rivendicare alcun punto di vista dominante» e affinando le riflessioni precedentemente proposte, l’idea è di riportare alla luce le categorie e i concetti attraverso cui sono andate articolandosi e diffondendosi lungo vent’anni di regime le speranze, le utopie e le illusioni di un presente radicalmente politico, conscio della necessità di doversi rapportare con le dimensioni del tempo storico e fiducioso tanto di poter redimere il passato della nazione quanto di doverne dirigere il fulgido avvenire.
Chiarito l’approccio e delimitati a grandi linee l’oggetto di studio e la diversa prospettiva da adottare nei suoi confronti, non rimane, allora, che introdurre il terreno di ricerca prescelto per lo svolgimento di tali indagini. Terreno che risulti parimenti circoscrivibile e strutturalmente definito, politico ma non palesemente propagandistico, portato intrinsecamente a interrogare la Storia ma anche capace di evolversi in caso di transizioni significative quali furono, inequivocabilmente, quelle che segnarono il contesto italiano tra le due guerre. Condizioni che, per non poche ragioni che andranno man mano dipanandosi, paiono particolarmente assimilabili al campo della cultura architettonica italiana.
[NOTE]
25 Su parentesi e malattia, il riferimento è naturalmente a B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), 2 voll., Laterza, Bari 1963, passim, che così si espresse in diverse occasioni tra il novembre 1943 e il marzo 1947. Per una lettura della formulazione crociana il rimando obbligatorio è a R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2012 [Bari 1969], pp. 29 e sgg. e ancora Id., Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Laterza, Roma-Bari 2008 [1970], pp. 391 e sgg. Ancora prima di Croce, aveva già parlato di «malattia morale» e «deviazione» anche Thomas Mann in un celebre racconto dal titolo Mario e il mago del 1929, incentrato su una «tragica esperienza di viaggio» dello scrittore nell’Italia fascista: «Gli adulti, quando intervenivano, badavano più a sentenziare e a rivendicare principi che a conciliare; si udivano frasi sulla grandezza e sul prestigio d’Italia, frasi non serene e perturbatrici. Noi vedendo i nostri due piccoli tirarsi indietro sorpresi e perplessi, faticammo a fare loro comprendere, in una certa misura, codesto stato di cose: quella gente, spiegammo, stava attraversando una malattia, per così dire: non molto fastidiosa ma necessaria». T. Mann, Mario e il mago, in Cane e padrone, Disordine e dolore precoce, Mario e il mago, Mondadori, Milano 2011, p. 150.
26 Tutti compresi all’interno degli anni ’60 sono: R. De Felice, Storia degli ebrei in Italia sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961; Id., Mussolini il rivoluzionario: 1883-1920, Einaudi, Torino 1965, e Id., Le interpretazioni del fascismo, cit. Per quanto riguarda Mosse mi riferisco a George L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2008 [ed. originale con il titolo The crisis of German Ideology, 1964]. Sempre racchiusi negli anni Sessanta sono, inoltre, E. Weber, Varieties of Fascism. Doctrines of Revolution in the Twentieth Century, Van Nostrand, New York 1964, e The nature of Fascism, edited by Joseph S. Woolf, Random House, New York 1968.
27 Per la posizione di Del Noce si vedano su tutti: A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970, e Id., Il suicidio della rivoluzione, Aragno, Torino 2004.
28 In particolare E. Nolte, Il fascismo nella sua epoca. I tre volti del fascismo, Sugarco, Milano 1993 [1963].
29 Su tutti E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), il Mulino, Bologna 2011 [Laterza, 1975]. Opere dello stesso periodo - evitando di entrare nelle rispettive e singole validità - sono: Edward R. Tannenbaum, L’esperienza fascista. Cultura e società in Italia dal 1922 al 1945, Mursia, Milano 1974; Anthony J. Gregor, L’ideologia del fascismo, Edizioni del Borghese, Milano 1974 [1969]; Arno J. Mayer, Dynamics of counterrevolution in Europe, 1870-1956. An analytic framework, Harper & Row, New York 1971; Fascism: a reader’s guide. Analyses, interpretations, bibliography, edited by W. Laqueur, University of California, Berkeley-Los Angeles 1976; ma anche il già citato: Z. Sternhell, Nascita dell’ideologia fascista, cit., e dello stesso autore, Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia, Baldini & Castoldi, Milano 1997 [1983].
30 Per limitarsi ad alcuni esempi comparsi tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta: L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Bari 1974, e Id., Il Fascismo, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, vol. I. Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 530-533; E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974; Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Bari 1975; M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo: saggio su Delio Cantimori, De Donato, Bari 1977; Matrici culturali del Fascismo. Seminari promossi dal Consiglio regionale pugliese e dall’Ateneo barese nel trentennale della liberazione, Università di Bari. Facoltà di Lettere e Filosofia, Bari 1977; M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979; G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, il Mulino, Bologna 1984; Fascism and Culture, edited by Jeffrey T. Schnapp and B. Spackman, numero monografico della «Stanford Italian Review», 8/1-2, 1990; Cultura e fascismo. Letteratura, arti e spettacolo di un Ventennio, a cura di M. Biondi e A. Borsotti, Ponte delle Grazie, Firenze 1990; R. Ben Ghiat, Fascism, Writing, and Memory: The Realist Aesthetic in Italy, 1930-1950, in «The Journal of Modern History», 67/3, settembre 1995, pp. 627-665; A. Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta. Editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo, il Mulino, Bologna 1996; S. Luzzatto, La cultura politica dell’Italia fascista, in «Storica», 12/1998, pp. 57-80.
31 Il riferimento è naturalmente a George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), il Mulino, Bologna 2012 [1975], passim.
32 Senza entrare nel merito di un dibattito ampio e complesso com’è quello sul concetto di totalitarismo, rimando direttamente all’efficace sintesi recentemente offerta da E. Traverso, Totalitarismo. Storia di un dibattito, Ombre Corte, Verona 2015.
33 M. Berezin, Making the fascist self: the political culture of interwar Italy, Cornell University Press, Ithaca-London 1997; ma, soprattutto, E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2009 [1993], e successivamente Id., Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2007. Aspetto, quest’ultimo, che ha riscosso negli anni un incredibile successo sancito, già nel 2000, dalla nascita di una rivista espressamente dedicata alla problematica delle religioni politiche: «Totalitarian Movements and Political Religion», dal 2011 pubblicata col titolo «Politics, Religion & Ideology».
34 Limitandosi ad alcune opere in grado di offrire una prospettiva di carattere generale e rimandando per testi più specifici alle pagine successive: F. Tempesti, Arte nell’Italia fascista, Feltrinelli, Milano 1976; Annitrenta. Arte e cultura in Italia, Mazzotta, Milano 1982; L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Italian Art in the Twentieth Century. Painting and Sculpture 1900-1988, edited by E. Braun, Prestel Verlag, Munich-London 1989; I. Golomstock, Arte totalitaria nell'URSS di Stalin, nella Germania di Hitler, nell'Italia di Mussolini e nella Cina di Mao, Leonardo, Milano 1990; Fascism, Aesthetics, and Culture, edited by Richard J. Golsan, University Press of New England, London-Hanover 1992; Fascism Aesthetics, numero monografico del «South Central Review», 5/1988; Art and Power: Europe under the Dictators, 1930-45, edited by D. Ades, Thames and Hudson, London 1995; Jeffrey T. Schnapp, 18BL. Mussolini e l’opera d’arte di massa, Garzanti, Milano 1996; The Aesthetics of Fascism, numero monografico del «Journal of Contemporary History», 31/2, aprile 1996; Fascist Visions. Art and Ideology in France and Italy, edited by M. Affron and M. Antliff, Princeton University Press, Princeton 1997; Marla S. Stone, The Patron State. Culture & Politics in Fascist Italy, Princeton University Press, Princeton 1998; A. Russo, Il fascismo in mostra, Editori Riuniti, Roma 1999; M. Cioli, Il fascismo e la ‘sua’ arte. Dottrina e istituzioni tra futurismo e Novecento, Olschki, Firenze 2011, e, infine, F. Benzi, Arte in Italia tra le due guerre, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
35 Cfr. La lingua italiana e il fascismo, a cura di E. Leso, Consorzio Provinciale pubblica lettura, Bologna 1977; G. Klein, La politica linguistica del fascismo, il Mulino, Bologna 1986; B. Spackman, Fascist virilities. Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 1996; G. Fedel, Il linguaggio politico nel Novecento: il caso di Benito Mussolini, in Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, Giuffrè, Milano 1999, pp. 111-157; S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003 [1997], e Id., Of Storytellers and Master Narratives: Modernity, Memory, and History in Fascist Italy, in States of Memory: Continuities, Conflicts, and Transformations in National Retrospection, edited by Jeffrey K. Olick, Duke University Press, Durham-London 2003, pp. 43-71; A. Simonini, Il linguaggio di Mussolini, Bompiani, Milano 2004 [1984]; E. Golino, Parola di Duce. Il linguaggio totalitario del fascismo e del nazismo: come si manipola una nazione, Rizzoli, Milano 2010, e Credere, obbedire, combattere. Il regime linguistico nel Ventennio, a cura di F. Foresti, Pendragon, Bologna 2003.
36 E. Gentile, La modernità totalitaria, Introduzione a Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), cit., p. 8. Com’è noto, la lunga Introduzione venne redatta da Gentile - non a caso - nel 1996 in occasione della ristampa del volume per la casa editrice bolognese il Mulino. Più recentemente, e in virtù del consenso ricevuto dalla formulazione gentiliana, quest’ultima è divenuta il titolo di un volume curato dallo stesso Gentile: Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 2008. Per un’analisi di lungo raggio del dibattito italiano sorto intorno a tali tematiche rimando invece ad A. De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Mondadori, Milano 2001.
37 Per una rapida ma coerente panoramica storiografica degli ultimi quindi anni rimando ad A. Tarquini, Storia della cultura fascista, il Mulino, Bologna 2011, pp. 40-47. Utile, infine, anche il riferimento alla vastissima bibliografia offerta da Richard J. B. Bosworth, The Italian Dictatorship. Problems and Perspectives in the Interpretation of Mussolini and Fascism, Arnold, London 1998.
38 È evidentemente impossibile approcciare in poche pagine un tema complesso e ancora oggi fortemente dibattuto com’è quello della natura e dei confini del concetto di modernism, tanto pregnante da aver suggerito, fin dal 1994, la nascita di una rivista interamente dedicata a tali tematiche ossia «Modernism/Modernity», oggi pubblicata dalla John Hopkins University Press. Pur non volendo, quindi, affrontare approfonditamente la questione, è necessario almeno rilevare quanto tale dibattito continui ad essere percorso, a giudizio di chi scrive, da non poche ambiguità di fondo dovute ad un utilizzo fortemente estensivo del concetto su diversi ambiti - letteratura, arte, architettura e, infine, politica - tale da snaturarne il suo originario, o meglio, i suoi originari significati. Per una riflessione su tali problematiche si veda Susan S. Friedman, Definitional Excursions: The Meanings of Modern/Modernity/Modernism, in «Modernism/Modernity», 8/3, 2001, pp. 493-513; ma anche, più generalmente, Modernism 1914-1939. Designing a New World, edited by C. Wilk, V&A Publications, London 2006; D. Ayers, Modernism. A Short Introduction, Blackwell, Oxford 2004; J. Goldman, Modernism. 1910-1945, Palgrave Macmillan, London 2004.
39 Una prima ragione di tale marginalizzazione è evidentemente la consolidata tendenza storiografica italiana ad identificare con il concetto di modernismo quel movimento riformista interno alla chiesa cattolica conscio di doversi confrontare con la “modernità” europea e operante a cavallo tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX. Facendo riferimento soltanto alla più recente produzione si vedano ad esempio: Il modernismo in Europa, a cura di M. Guasco, Morcelliana, Brescia 2007; Il modernismo in Italia e in Germania, a cura di M. Nicoletti e O. Weiss, «Annali dell’istituto storico italo germanico in Trento. Quaderni», 79, il Mulino, Bologna 2010; G. Vian, Il modernismo. La Chiesa cattolica in conflitto con la modernità, Carocci, Roma 2012. Secondariamente - e venendo al tema specifico - una seconda ragione è da ricercarsi nella innegabile preferenza italiana ad un approccio nazionale verso l’oggetto di studio fascismo, approccio chiaramente ridimensionato dalla prospettiva “modernista” più propensa a letture transazionali del fenomeno.
40 Citando solo alcuni dei saggi e delle opere apparsi negli ultimi trent’anni: Walter L. Adamson, Modernism and Fascism: the politics of culture in Italy, 1903-1922, in «The American Historical Review», 95/2, 1990, pp. 359-390; Id., The Language of Opposition in Early Twentieth-Century Italy: Rhetorical Continuities between Prewar Florentine Avant-Gardism and Mussolini’s Fascism, in «Journal of Modern History», 64/1992, pp. 22-51; Id., Avant-garde Florence. From modernism to fascism, Harvard University Press, Cambridge-London 1993; Id., The Culture of Italian Fascism and the Fascist Crisis of Modernity. The Case of «Il Selvaggio», in «Journal of Contemporary History», 30/4, 1995, pp. 555-575; Id., Avant-garde modernism and Italian Fascism: cultural politics in the era of Mussolini, in «Journal of Modern Italian Studies», 6/2, 2001, pp. 230-248; A. Hewitt, Fascist Modernism. Aesthetics, Politics, and the Avant-Garde. 1919-1945, Stanford University Press, Stanford 1993; M. Antliff, Fascism, Modernism, and Modernity, in «The Art Bulletin», 84/1, 2002, pp. 148-169; E. Braun, Mario Sironi: arte e politica in Italia sotto il fascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003 [Originariamente Mario Sironi and Italian Modernism. Art and politics under fascism]; Donatello among the Blackshirts. History and Modernity in the Visual Culture of Fascist Italy, edited by C. Lazzaro and Roger J. Crum, Cornell University Press, Ithaca-London 2005; J. Champagne, Aesthetic modernism and masculinity in fascist Italy, Routledge, London-New York 2013.
41 Su quest’ultimo ambito rimando per una ricognizione bibliografia e per un’analisi più approfondita al successivo capitolo.
42 R. Griffin, The Nature of Fascism, Routledge, London-New York 1993 [Originariamente Pinter, 1991]. Di recente definito da David D. Roberts - che pur non ne condivide i risultati conclusivi - come: «the most important work on the overall problem of fascism in any language over the past generation». Cfr. David D. Roberts, Myth, Style, Substance and the Totalitarian Dynamic in Fascist Italy, in «Contemporary European History», 16/2007, p. 2. A ribadire la fortuna di Griffin nel contesto storiografico anglofono - da cui si potrebbero ricavare centinaia di simili affermazioni - si veda la recente pubblicazione di un volume ad esso interamente dedicato e comprendente i maggiori scritti pubblicati dallo storico britannico. Cfr. A Fascist Century. Essays by Roger Griffin, edited by Matthew Feldman, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2008. Per quanto riguarda l’Italia, l’opera di Griffin ha trovato spazio soprattutto tra i politologi. Si veda ad esempio: R. Griffin, Il nucleo palingenetico dell’ideologia del “fascismo generico”, in Che cos’è il fascismo? Interpretazioni e prospettive di ricerca, a cura di A. Campi, Ideazione, Roma 2003, pp. 97-122; mentre è stata spesso ignorata o trascurata dagli storici. A puro titolo esemplificativo basti osservare che nel recente Fascismo: itinerari storiografici da un secolo all’altro, numero monografico di «Studi storici», LV, 1/2014, pubblicato con l’intento di tracciare un bilancio storiografico degli studi sul fascismo italiano vent’anni dopo Il regime fascista: storia e storiografia, a cura di A. Del Boca, M. Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1995, non esiste riferimento né a Griffin né ad alcuna sua opera.
43 R. Griffin, Modernism and fascism: the sense of a beginning under Mussolini and Hitler, Palgrave Macmillan, Basingstoke, New York 2007. Descritto da Stanley G. Payne nella Preface alla raccolta collettanea di scritti precedentemente citata come: «the most important book to appear on the history of fascism in a decade or more». Cfr. Stanley G. Payne, Roger Griffin, Fascistologist, in A Fascist Century. Essays by Roger Griffin, cit., p. IX. Per uno dei pochissimi confronti in lingua italiana con l’opus magnus dello storico britannico si veda C. Fogu, Fascismo e stilizzazione del tempo, in «Storiografia», 17/2013, pp. 123-138.
44 R. Griffin, Modernism and fascism: the sense of a beginning under Mussolini and Hitler, cit., pp. 181-182.
45 Faccio riferimento a Fascist Temporalities, edited by F. Esposito, numero monografico del «Journal of Modern European History. Revue d’histoire euroéenne contemporaine», 13/1, 2015, di recentissima pubblicazione e totalmente incentrato su tali tematiche. Ad aprire il numero, evidentemente non a caso, è proprio un saggio di R. Griffin, Fixing Solutions: Fascist Temporalities as Remedies for Liquid modernity, pp. 5-23, mentre i restanti interventi sono di Joshua Arthurs, Ruth Ben Ghiat, Claudio Fogu e Raul Carstocea.

Giorgio Lucaroni, Architetture e linguaggi di Storia. Fascismo, storicità e cultura architettonica italiana tra le due guerre: 1919-1936, Tesi di dottorato, Università Ca' Foscari Venezia, 2018

martedì 26 luglio 2022

Quando gli alleati discutevano sul come liberare Italia dalla fame, dalla malattia e dalla paura


A metà luglio 1944 cambiano i vertici della sezione Economica della Commissione di controllo, e nella prima riunione della sezione rinnovata l'americano Antolini, neo direttore esecutivo, comunica il progetto di una “nuova politica economica”[920], che al momento prevede "assistenza economica all'Italia da parte di Stati Uniti e Regno Unito per mettere l'economia italiana nelle condizioni di far uscire di nuovo fumo dalle sue ciminiere. La naturale enfasi all'inizio sarà posta sui beni di consumo e su di una eventuale reintroduzione della libera impresa per permettere al mercato di ripartire e per rafforzare l'Italia, accrescendo gli scambi con l'estero attraverso le esportazioni. Fondamentale riserva per le esportazioni all'estero, comunque, sarà che tali esportazioni devono essere in surplus per l'economia italiana.
Portare l'Italia da uno status assistenziale a un lavoro produttivo dovrà essere fatto al minimo costo possibile per le Nazioni Unite. Incidentalmente, l'UNRRA non può venire in Italia mentre l'Italia rimane nello status di ex-nemico, solo se l'Italia a un certo punto in un futuro non prevedibile dovesse essere accettata come un alleato allora diventerebbe eleggibile a tale tipo di aiuto"[921].
Intanto procede la smobilitazione degli ufficiali della Commissione dalle zone che progressivamente tornano al governo italiano. All'interno dell'Acc la posizione su questo punto non è univoca, secondo alcuni, soprattutto nelle città, la “ritirata”, the withdrawal, sarebbe prematura. In ogni caso, però, comincia ad essere percepita come passaggio ormai improcrastinabile “se la politica delle Nazioni Alleate deve essere implementata: e l'esperienza mostra che è giusto” [922]. L'unica regione per la quale è possibile cominciare a valutare gli effetti del primo anno di occupazione è la Sicilia, che però, secondo il commissario regionale Hancock, è tornata forse troppo rapidamente “allo stato di un'attività economica del normale tempo di pace, oltre che a una politica locale e ad un'amministrazione lenta”, sulla quale il giudizio di Hancock rimane sospeso. Sarà infatti "la campagna del grano - che si sta ancora svolgendo sotto l'Alto Commissario anche se enormemente aiutato dalla pressione dell'Acc - [...] pietra di paragone della capacità o meno della Sicilia di amministrarsi da sola. Per il futuro, la prosperità o povertà della Sicilia è un affare della Sicilia stessa - c'è ben poco ancora che l'Acc può fare per lei"[923]. La Sicilia, “prima parte dell'Italia e dell'Europa ad essere liberata”[924], per il commissario regionale, "sta probabilmente perdendo la più grande opportunità nella sua storia di diventare un' importante parte dell'Italia. Molte delle sue difficoltà se le procura da sé. Internamente disunita e ultrapolitica non è pronta a fare causa comune con il continente e dividere i propri fardelli, mentre la sua azione suscita profondo sospetto da parte degli Italiani. Moltissimo dipende dall'influenza dell'Alto Commissario nei prossimi sei mesi, grazie a una solida gestione può fare molto per condurre la Sicilia a un più luminoso futuro" [925].
Una netta presa di posizione contro il separatismo, che distingue le inizative economiche alleate anche in senso liberista da una qualsivoglia adesione ai temi del movimento indipendentista siciliano. Piuttosto, la ripresa dell'economia dell'isola è inserita in un quadro generale di sostegno alleato alla ripresa del Mezzogiorno, che limita però in questa fase l'intervento a un imprecisato supporto alla rinascita di un sistema economico autonomo, senza prendere ancora una posizione su di un intervento diretto, quello cioè che sarà il Piano Marshall. Comunque, pur attraversata da violenti conflitti interni, la Sicilia ha già ripreso “un vivace commercio di esportazione”, soprattutto verso la Gran Bretagna e Malta, verso le quali il valore delle esportazioni ha superato rispettivamente i 343 milioni e mezzo di lire, e i 242 milioni e mezzo. Più modeste le quote degli scambi con gli Usa, che ammontano a un valore di poco più di 21 milioni e mezzo di lire. I prodotti esportati sono soprattutto limoni, “olio di limoni”, nocciole, arance e “olio d'arance”[926]. Intanto, però, come in tutto il Mezzogiorno, i prezzi e il costo della vita continuano a salire: “considerando come indice di riferimento 100 per gennaio 1944, in giugno questo è salito a 129, 95”.
Intanto, nelle altre regioni meridionali, l'evoluzione verso l'autonomia dalla tutela alleata sta avvenendo più lentamente. Nella zona di Bari la Commissione registra una generale preoccupazione per la lentezza con cui si mette in atto la defascistizzazione, mentre l'occupazione delle terre in Calabria agita i grandi latifondisti[927]. In Campania, da un lato la Commissione parla di timore per la ritirata degli ufficiali alleati, dall'altro però registra la denuncia di numerosi incidenti causati dai soldati delle truppe coloniali francesi, canadesi e dalle truppe americane di colore[928]. I soldati, spesso ubriachi e violenti, hanno trasformato la “liberazione” in un incubo per i civili, tanto da legare indissolubilmente la memoria del dopoguerra nell'Italia centro meridionale alle violenze e agli stupri dell'esercito alleato, soprattutto da parte dei goumiers marocchini.
In un quadro generale difficile e ancora troppo doloroso per la popolazione civile, si muovono comunque i primi passi per elaborare un progetto di ripresa del sistema industriale, separando per esempio la sottocommissione Industria dalla sottocommissione Commercio[929], con l'obiettivo di concentrare l'azione della sottocommissione sulla riattivazione degli impianti industriali dell'Italia liberata. Ad aggravare un clima generale di sfiducia, concorrono però paure più vaghe, legate al futuro dell'Italia, come “la paura che la valuta italiana possa collassare e la paura che il ritiro degli Alleati dall’Italia possa risultare un caos”[930], mentre “comparando la politica Americana e Britannica nei confronti dell’Italia”, inizia a consolidarsi il mito della “generosità degli Americani a paragone della severità dei Britannici”[931]. Pare insomma che il problema centrale, per la Commissione, sia quello di valutare e comprendere in che modo l'operato alleato è percepito dagli Italiani, e se l'azione intrapresa per una graduale autonomia delle amministrazioni locali sta effettivamente dando i suoi frutti. Sulla valutazione dell'operato della Commissione, pesa ovviamente la capacità di soddisfare le necessità alimentari della popolazione e, come abbiamo già osservato, è proprio l'emergenza alimentare a spingere i governi alleati a proclamare a settembre il cosiddetto New Deal per l'Italia, ossia un piano di aiuti che impegna finalmente ufficialmente Stati Uniti e Gran Bretagna a sostenere la riabilitazione dell'Italia. A questo programma si accompagna la decisione di mettere in atto un concreto allentamento del controllo politico nei confronti dell'Italia. Per Churchill, però, ciò sarebbe potuto accadere solo ponendo al vertice della Commissione un uomo politico, e non un militare, ormai inadatto a gestire una situazione che nell'arco di pochi mesi ha cambiato fisionomia. Il Primo Ministro inglese, in Italia ad agosto, era però contrario alla proposta americana di un trattato preliminare di pace, propendendo piuttosto per “un continuo processo di allentamento dei controlli. Ma questo [...] è una cosa per un politico, non per un diplomatico”[932]. É nell'estate del '44 dunque che Churchill inizia a discutere con MacMillan della sua intenzione di porlo a capo della Commissione, mettendo nelle mani dell'esperto uomo politico britannico - nel teatro del Mediterraneo già dal '42 - l'attuazione degli accordi della seconda conferenza di Quebec.
Mentre alla fine dell'estate in Italia il clima generale si arroventa, e lo scontro politico interno inizia a farsi aspro[933], veicolando in parte il disagio e la stanchezza della popolazione civile, si moltiplicano i messaggi delle forze politiche italiane agli Alleati. Alla fine di settembre Croce[934], in un discorso al Teatro Eliseo, insiste sulla necessità di riconsiderare il ruolo dell'Italia all'interno del conflitto, che dovrebbe essere ridefinito come una “guerra civile internazionale”. È soprattutto sulla necessità di porre fine alla cobelligeranza, “una brutta parola”, che Croce pone l'accento. Ma non è per questa ragione che i governi alleati riconsiderano la situazione italiana. A premere sulle scelte di Roosevelt sono le imminenti elezioni, e dice bene MacMillan quando afferma, a proposito della Commissione, che “gli americani la maneggiano come uno strumento atto a far vincere le elezioni presidenziali”[935]. Come abbiamo infatti già osservato, il peso delle elezioni presidenziali del '44 incideva molto sulla nuova politica del presidente Roosevelt nei confronti dell'Italia, e la dichiarazione di Hyde Park è fatta guardando forse più all'opinone pubblica dei paesi alleati che non all'Italia. La missione della sezione Economica dell'Acc a Washington, sezione guidata da uomini del partito democratico[936], ebbe probabilmente un qualche peso nelle dichiarazioni del 26 settembre[937], secondo le quali al Governo italiano sarebbe stata concessa gradualmente maggiore autonomia, e l'Italia sarebbe stata inserita nel programma di assistenza dell'Unrra, assegnandole 50 milioni di dollari[938], per liberarla finalmente “dalla fame, dalla malattia e dalla paura”[939] Gli atti che concretizzavano la nuova politica erano l'invio di rappresentanti politici italiani a Londra e a Washington, cui corrispondeva la presenza di ambasciatori dei due governi alleati a Roma, la demilitarizzazione dell'apparato amministrativo dell'Acc, e la caduta della “C” nella Commissione, a simboleggiare appunto la fine del “controllo”.
Eppure l'Italia continuava a non essere un alleato, e l'impegno per la ricostruzione industriale rimaneva subordinato alla necessità militare. Gli stessi ufficiali della Commissione si dichiaravano scettici in relazione agli effetti delle dichiarazioni, tanto che il bollettino della Commissione annotava "è troppo presto per dire se l'omissione della parola “controllo” sia qualcosa di più che una formalità o se i promessi tecnici civili saranno più accettabili di quanto tu, gentile lettore, e noi siamo stati"[940].
Rimaneva fra l'altro ignorata la questione dei prigionieri di guerra italiani, che continuavano nonostante tutto a rimanere tali. Ma uno degli aspetti più interessanti di questo spostamento sul piano politico della situazione italiana, è costituito dall'atteggiamento di Usa e Gran Bretagna nei confronti della Commissione. La riunione dei commissari regionali che si tiene alla fine di settembre, inizia infatti con l'“ironico” annuncio del commissario esecutivo che la Commissione non ha ancora ricevuto alcuna comunicazione ufficiale circa la sua trasformazione in “Commissione Alleata”[941]. Mentre subito dopo Harold Caccia, della sezione Politica, sottolinea la necessità di supportare ancora con forza il Governo italiano, “di nuovo sopravvissuto ad una serie di crisi”. Pare insomma che tutto avvenga precipitosamente, cascando sulle spalle degli uomini della Commissione stretti tra i problemi dell'Italia liberata e la politica di Washington e Londra.
[NOTE]
[920] Bollettino settimanale Acc, n 15, 16 luglio 1944, p. 3, box 955 cit., Acc files 10000/132/9.
[921] Ibidem.
[922] Quartier generale Acc, rapporto mensile per il mese di luglio 1944, cit., p.1.
[923] Rapporto del commissario regionale Hancock, ivi, p. 2.
[924] Ivi, p. 3.
[925] Ibidem.
[926] Ibidem.
[927] Rapporto mensile Southern Regione, commissario Temperley, ottobre 1944, in
Acs, Acc, scatola 8, bobina 19 E, Acc files 10000/109/440, p. 3.
[928] Cfr. quartier generale Acc, rapporto mensile per il mese di luglio 1944, cit., p.10.Il tema delle violenze delle truppe alleate sulla popolazione civile, soprattutto delle truppe coloniali francesi, è stato negli ultimi anni oggetto di grande interesse storiografico. Si vedano tra gli altri T. Baris, Tra due fuochi, cit., F. Carloni, Il corpo di spedizione francese in Italia, 1943-1944, Mursia, 2006. Ma cfr. anche C. Malaparte, La pelle, cit..
[929] Rapporto mensile Acc, mese di luglio 1944, cit., p. 21.
[930] Rapporto mensile Southern Region, commissario Temperley, cit..
[931] Ibidem.
[932] H. MacMillan, Diari di guerra, cit., 22 agosto 1944, p. 693.
[933] A settembre hanno luogo per esempio i fatti di Villalba, che finiscono per proiettare su scala nazionale il dibattito locale fra Pci e Dc.
[934] Bollettino settimanale Acc n. 25, 24 settembre 1944, in box 955, cit..
[935] H. MacMillan, Diari di guerra, cit., 6 settembre 1944, p. 704.
[936] Vicepresidenti della sezione erano stati nell'ordine Grady e O'Dwyer, entrambi legati al partito democratico. O'Dwyer era affiancato da Antolini, la cui nomina,secondo MacMillan, era anch'essa più politica che altro. Cfr. il sarcastico commento di MacMillan sulla sezione Economica in MacMillan, Diari di guerra, cit., 14 settembre 1944, p. 711. Sulla missione cfr. infra pp....Per il testo della relazione di O'Dwyer a Roosevelt, cfr. Civil Affairs, p. 498.
[937] Per il testo del messaggio di Roosevelt e Churchill si veda Civil Affairs, p. 499.
[938] Cfr. bollettino settimanale Acc n. 26, 1 ottobre 1944, p. 2, in box 955, cit., p.
[939] Cfr. Civil Affairs p. 499.
[940] Bollettino settimanale Acc n. 26, 1 ottobre 1944, cit..
[941] Ivi, p. 3.
Manoela Patti, Gli Alleati nel lungo dopoguerra del Mezzogiorno (1943-1946), Tesi di dottorato, Università degli studi di Catania, 2010

domenica 24 luglio 2022

Circa il contributo di alcuni emigrati antifascisti italiani alla Resistenza in Francia


Questa mia ricerca vuole essere un tentativo di ricostruire il contributo di alcuni emigrati antifascisti italiani che, partiti all'indomani del biennio rosso e dell'avvento del fascismo, o in seguito, all'inizio degli anni trenta, si diressero in Francia, a Parigi, e al momento della seconda guerra mondiale presero parte attiva alla Resistenza nella capitale francese. Lo fecero nelle formazioni dei Francs Tireurs et Partisans della Main d'Oeuvre immigrée, denominati FTP-MOI e nelle Milices patriotiques, legate al Front National e inquadrate nelle FFI, entrambe emanazione del partito comunista francese.
Lo studio di questi emigrati trae origine da un elenco di italiani resistenti a Parigi nelle formazioni garibaldine inquadrate nelle FFI, circa 70 persone, che ho trovato in un Archivio privato denominato Fonds Darno Maffini e depositato presso la Bibliothèque de documentation internationale contemporaine di Nanterre, Université Paris-Ouest.
Darno Maffini, è stato un militante antifascista, partito giovanissimo, nel 1922 da Verona e che ha risieduto a Parigi fino al 2002. Oltre ad essere stato attivo nelle fila del sindacato della CGTU negli anni 30, ha partecipato agli scioperi e alle lotte dei lavoratori francesi negli anni del Fronte Popolare e ha organizzato aiuti per i volontari nella guerra di Spagna. Negli anni dell'occupazione tedesca di Parigi, fu resistente fin dal 1942, poi venne spedito in Italia, tramite un quadro del partito comunista italiano, Bruno Tosin, per fare propaganda antifascista e organizzare, dopo l'8 settembre, i primi Gruppi di Azione Patriottica nella zona di Verona. Nel 1944, quando tornò a Parigi, insieme ad altri italiani prese parte, nelle formazioni garibaldine dell'XI e XII arr., inquadrate nel Front National, alla lotta di liberazione della capitale. All'indomani della guerra rivestì un ruolo importante nell'associazionismo francese: fu per moltissimi anni il presidente dell'associazione "Les Garibaldiens".
Nel Fonds Maffini, conservato presso la BDIC, si trovano documenti inerenti l'attività dell'associazione che da una parte si è occupata di organizzare diverse commemorazioni in memoria della liberazione della Francia e dei martiri antifascisti italiani caduti per essa, e dall'altra ha rilasciato attestati di partecipazione alla Resistenza agli italiani che avevano preso parte alla lotta contro i tedeschi a Parigi.
Attraverso la lettura di queste attestazioni e di alcune liste di italiani inquadrati nelle 'Formazioni Garibaldine' già attive dal 1942, mi è stato possibile rintracciare alcune di queste persone e tracciarne dei profili biografici.
Sul contributo degli italiani nella capitale francese esistono a tutt'oggi tre pubblicazioni <1 che riguardano alcuni degli italiani del III gruppo armato FTP-MOI o in quello dell'Équipe spéciale (FTP-MOI), e un contributo più recente di Antonio Bechelloni <2, che tratta oltre che di queste persone anche di alcuni italiani che parteciparono alla lotta armata nelle formazioni dell'Organisation sècrete, OS, che è esistita prima della nascita dei Francs tireurs et partisans. Sia i gruppi dell'OS che i FTP furono un'iniziativa del partito comunista francese.
Le carte del Fonds Maffini rivelano che la partecipazione degli italiani alla lotta contro l'occupante tedesco, sia nei gruppi armati che in azioni di supporto alla Resistenza, coinvolse numerose persone. La consultazione di queste carte ha permesso di rispondere a tutta una serie di domande: Chi erano questi emigrati italiani? Cosa avevano fatto a Parigi prima della guerra? Che estrazione sociale avevano? Dove vivevano a Parigi? Come vivevano nella società francese degli anni '30? Da quali ideali erano animati? Gli italiani che parteciparono in massa alla Liberazione di Parigi cosa avevano fatto prima dell'agosto del 1944, nei quattro lunghi anni di occupazione?
Nel I capitolo della ricerca ho descritto gli anni precedenti alla seconda guerra mondiale e il milieu di appartenenza di questi emigrati e resistenti, per la maggior parte operai, artigiani, lavoratori dell'edilizia, vissuti nei quartieri operai francesi, nella Parigi est e nei comuni limitrofi della banlieue rouge, dove convivevano anche emigrati di altre nazionalità. Inoltre ho parlato dell'integrazione degli emigrati italiani alla società francese, avvenuta attraverso la partecipazione alle lotte sindacali, alle battaglie degli operai francesi negli anni del Fronte popolare, e all'associazionismo delle organizzazioni antifasciste come ad esempio l'Unione popolare italiana, i comitati pro-Spagna, le Fratellanze. Per questa parte si sono rivelate utili, come fonti, le lettere degli antifascisti contenute nei fascicoli del Casellario Politico Centrale scritte soprattutto negli anni trenta, dove gli emigrati mettono in risalto le loro esperienze, la loro partecipazione alle lotte dei francesi, i loro ideali, il loro coinvolgimento nella guerra di Spagna e contro l'Etiopia e la distanza che li separa dai loro cari rimasti a vivere sotto un regime autoritario. Oltre alle lettere ho letto varie testimonianze e memorie redatte da questi emigrati molti anni dopo la seconda guerra mondiale.
Non stupisce quindi vedere come questi stranieri in fuga da un regime, mobilitati dal potere politico francese negli anni del Fronte popolare quali testimoni contro il fascismo, in una Francia ormai accerchiata da regimi autoritari, siano stati tra i primi a prendere le armi contro l'occupante e lo fecero nelle formazioni comuniste che riunivano la mano d'opera straniera (MOI).
Il II capitolo della mia ricerca tratta di alcuni emigrati italiani, alcuni dei quali già noti, che presero parte alla lotta contro l'occupante a Parigi già dal 1941. Questi resistenti combatterono nelle fila dei partigiani della MOI, in gruppi dell'OS-MOI e poi dei FTP-MOI. Le loro motivazioni sono diverse, alcuni, molto giovani, erano persone già profondamente radicate nella società francese, come gli emigrati di seconda generazione, quali Spartaco Fontanot e Rino Della Negra, altri iniziarono ad organizzare dei sabotaggi all'occupante fin dal 1940/41 perché militanti del partito comunista o sindacalisti già quindi molto motivati ideologicamente, altri ancora, già combattenti nella guerra di
Spagna, lo fecero per continuare in questo modo la loro lotta contro l'occupante nazista.
Il III capitolo tratta degli italiani che presero parte alla Liberazione di Parigi nei quartieri popolari dell'XI e XII arr. Ho ricostruito alcune biografie di uomini e donne. Si tratta spesso non di 'militanti di professione' ma potremmo definirli genericamente 'antifascisti', usando la definizione che il Casellario politico centrale attribuiva loro, che si erano politicizzati negli anni del Fronte popolare.
Le forme di partecipazione alla lotta contro l'occupante di questi italiani descritti nel II e III capitolo sono molteplici: per alcuni organizzazione e realizzazione di sabotaggi e di attentati contro ufficiali e soldati nazisti, contro edifici tedeschi o linee ferroviarie; trasporto di stampa clandestina e armi, da parte di agenti di contatto o staffette, ruolo spesso rivestito da donne; realizzazione e stampa di giornali e volantini antitedeschi; ospitare partigiani che dovevano compiere azioni di sabotaggio, salvare ebrei dalla deportazione o aiutare soldati italiani della IV armata, sbandati dopo l’8 settembre 1943.
Per ricostruire queste biografie, descritte nel II e III capitolo, ho utilizzato oltre alle carte del Fonds Maffini, i fascicoli personali del Casellario Politico Centrale conservati presso l'Archivio centrale di Roma e altri fondi dell'Archivio. Tuttavia queste carte sono state utili soprattutto per parlare degli anni precedenti la seconda guerra mondiale, mentre per il periodo bellico forniscono scarsissime informazioni. Ho consultato presso l'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, il Fondo AICVAS sulle Brigate Internazionali che contiene notizie sui singoli brigatisti nella lotta in Spagna e anche brevi indicazioni sul loro successivo impegno nella Resistenza sia in Italia che in Francia.
Per fare luce sugli anni della guerra si sono rivelate utili le carte dei fascicoli personali redatte dalla polizia francese e che ho consultato presso l'Archivio della Prefettura di Parigi: purtroppo però la maggior parte delle persone da me considerate, che hanno un fascicolo al CPC di Roma, non hanno un fascicolo all'Archive de la Préfecture de Police di Parigi. Per questo capitolo si sarebbero rivelati utili anche altri Fondi dell'APP, quali le carte del Fonds Affaire des Italiens de la MOI e altri fondi sul periodo della II guerra mondiale: tuttavia non ho potuto accedere a questa documentazione perché tutti questi fondi sono in via di ricatalogazione. Ho avuto solo modo di consultare le carte del processo a Della Negra e a Fontanot, carte che fanno parte del Fonds Affaire des Italiens de la MOI per gentile concessione di Antonio Bechelloni.
Il III capitolo tratta in breve del Comitato italiano di Liberazione nazionale, CILN, creato inizialmente dal movimento Giustizia e Libertà, dal PCI e dal PSI, formato a partire dalla fine del 1941 e con una propria sede clandestina a Parigi dal 1943. Il CILN fu attivo nel sollecitare l'intervento degli emigrati italiani alla lotta di liberazione francese e anche nel dare sostegno materiale agli emigrati. Per approfondire questo aspetto ho consultato le carte dell'Archivio del Ministero degli Esteri, riguardo ai Comitati Italiani di Liberazione Nazionale in Francia: tuttavia questa documentazione è abbastanza scarsa e frammentaria.
Infine il IV capitolo della mia ricerca riguarda la memoria della Resistenza elaborata dall'Associazione dei garibaldini attraverso alcune commemorazioni quali: quella dedicata ai Fratelli Rosselli, quella dedicata ai fucilati del gruppo dell'Affiche Rouge, cerimonia realizzata insieme a tante altre associazioni di ex partigiani stranieri in Francia, e le commemorazioni per ricordare il contributo degli italiani alla liberazione dell'Italia (25 aprile) e della Francia (8 maggio/11novembre). Per fare quest'analisi mi sono avvalsa dei numerosi discorsi pronunciati da Maffini durante le commemorazioni e conservati nel Fonds Maffini, nonchè della corrispondenza tra il presidente Maffini e alcuni ex partigiani italiani in Francia, quali Gisella Fontanot. Oltre al punto di vista particolare di questa associazione ho trattato brevemente l'elaborazione ufficiale della memoria degli anni ’40-’44 nella Francia della IV e V Repubblica fino ad arrivare al riconoscimento di una giornata commemorativa della Resistenza nel 2013 da parte del Presidente della Repubblica francese, Hollande.
[NOTE]
1 P. Carena Leonetti, Gli italiani del maquis, Cino Del Duca Editore, Milano, 1966; G. Laroche, On les nommait des étrangeres : les immigrés dans la Résistance, Paris, Éditeurs Français réunis, 1965; B. Holban, Testament: Après Quarante-Cinq ans de silence, Le Chef Militaire des FTP-MOI de Paris parle. Editore Calmann-Lévy, 1989.
2 A. Bechelloni, Les italiens dans la Résistance, in Resistance dans l'Ile de France, DVD, Association pour des Études sur la Résistance Intérieure, AEREI, 2004.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

Nell’estate del 1940, il responsabile della Moi <54 per il gruppo italiano, il polacco Louis “Bruno” Gronowski, incontra Giorgio Amendola <55, che gli conferma che i comunisti italiani si stanno riorganizzando: «I primi nuclei di lotta all’invasore nazista furono creati dal Pcf organizzando i nuclei dell’organizzazione segreta, le Os, molto simili ai Gap della Resistenza italiana. I compiti iniziali assunti dalle Os furono di recuperare le armi abbandonate dall’esercito francese in rotta e organizzare sabotaggi. Dalla formazione delle Os il Pcf costituì una nuova organizzazione unitaria, i Franchi Tiratori Partigiani Francesi. Il termine tiratore fu assunto dal nome dei combattenti irregolari del 1870 che si erano opposti all’invasione tedesca e dai giovani rivoluzionari bolscevichi. La struttura del Ftpf era costituita da una maglia di cellule composte da tre partigiani, in modo che il membro della cellula conoscesse soltanto i due compagni a cui era direttamente collegato. I partigiani italiani assieme agli altri emigrati erano inseriti nei Ftpf con la sigla MOI, Mano d’Opera Immigrata» <56.
Giorgio Amendola, ricordando quegli anni, conferma che «i comunisti italiani partecipavano, con gruppi autonomi, alla lotta di resistenza dei comunisti francesi» <57. Dall’ottobre 1940 al giugno 1941, infatti, il gruppo di Rohregger, oltre a costruire bombe, compie azioni autonome contro gli occupanti e i collaborazionisti senza uno stretto coordinamento con i francesi: «Collegato con Richard in quel periodo vi fu pure un gruppo di “gappisti” italiani, uno dei tanti che operarono con azioni particolarmente nella Regione Parigina e al quale appartenne - in qualità di comandante - anche il leggendario Piero Pajetta (Nedo), caduto [...] nel febbraio del 1944. Del gruppo facevano parte i comunisti Ernesto Ferrari di Treviglio, ex garibaldino di Spagna con il grado di tenente di artiglieria; Barzari Vittorio “Charpier” di Bergamo; Martino Martini di Genova, che [...] gestiva una pasticceria al n. 11 della rue Laferrière, nel 9o Arrondissement [...]. Saltuariamente fecero parte dello stesso gruppo anche Ardito Pellizzari, friulano, che diventerà poi comandante della “Milizia Patriottica” (equivalente delle S.A.P. in Italia) ed il compagno Bruno Tosin di Vicenza [...]. Una delle “basi” del gruppo stesso era la pasticceria di Martino Martini e una seconda, solidissima, era l’abitazione della nota famiglia di militanti Diodati della Spezia, al n. 7 Passage du Génie, nel 12o Arrondissement. Il Ferrari lavorò specialmente assieme a Richard, prima dell’arresto di quest’ultimo, alla fabbricazione di esplosivi. Cadde poi anche lui nelle mani del nemico, venne torturato selvaggiamente al Forte di Romainville e internato in seguito nel campo di concentramento di Compiègne, da dove evaderà. Lo ritroveremo armato di mitra a Parigi nei giorni dell’insurrezione: agosto del 1944. Il resto del gruppo pur partecipando ad azioni “gappiste”, assicurò per un lungo periodo, particolarmente tramite la brava compagna Louise, il collegamento con una tipografia clandestina sita al n. 4 della rue du Midi - a Vincennes - presso la quale furono stampati migliaia di manifestini, opuscoli, giornaletti ecc. in lingua italiana, francese e tedesca. All’inizio del 1941, a causa di un banale incidente, il Martini e la sua compagna, Tosin e lo stesso “Nedo”, furono arrestati, ma rilasciati alcuni mesi dopo perché la polizia di Hitler non seppe mai con chi “aveva a che fare”.
[NOTE]
54 Mano d’opera immigrata.
55 STÉPHANE COURTOIS - DENIS PESCHANSKI - ADAM RAYSKI, Le sang de l’étranger. Les immigres de la MOI dans la Résistance, Paris, Fayard, 1989, p. 100.
56 A. TONUSSI, op. cit., p. 119.
57 G. AMENDOLA, Storia del Partito comunista italiano, 1921-1943, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 481.
Davide Spagnoli, Appunti sul ruolo degli emigrati italiani comunisti nella Resistenza francese, in "l’impegno", a. XXXII, n. 1, giugno 2012, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia 

Martino Martini al campo di Bonneuil in gita nel 1938, con Bianca Diodati e altri amici. Fonte: Emanuela Miniati, Op. cit. infra

Nell’autunno ’39, come accennato precedentemente <4, il Ministero dell’Interno del governo Daladier dichiarava illegale il partito comunista e tutte le organizzazioni ad esso afferenti, procedendo all’arresto dei deputati del Pcf. Il gruppo comunista di Martini, Pajetta e dei Diodati fu dichiarato illegale e disciolto dalle autorità francesi. La pasticceria di Martini divenne il punto di riferimento per il lavoro clandestino, luogo di incontro e riunioni segrete ove si stampava e organizzava la distribuzione della Voce degli italiani. Martini vi lavorava accanto alla compagna di vita e di lotta Louise Grandjean che assieme al marito, a Pietro Pajetta e Bruno Tosin costituì negli anni di guerra il settore militare del partito comunista: la pasticceria di Pigalle e l’appartamento dei Diodati nel XII arrondissement erano i centri operativi del gruppo. Parallelamente in Italia Francesco Martini, padre di Martino, assicurava rifugio nella sua casa di Genova ai “legali”, tra cui figurava la stessa madre dei Diodati, Livia, e i coniugi Pajetta che andavano a fare visita al figlio Giancarlo, fratello di Giuliano e cugino di Pietro, detenuto nelle carceri fasciste. Nel febbraio del ‘41 la polizia arrestò il gruppo della pasticceria ma non comprese il ruolo cardinale di questi elementi e li rilasciò dopo solo qualche mese di detenzione; da allora e fino alla liberazione di Parigi, il 25 agosto 1944, Martini e i suoi avrebbero militato nell’assoluta clandestinità al fianco dei Francs-tireurs, i partigiani francesi, nella Moi parigina in cui combatté l’eroe italiano della Resistenza francese Spartaco Fontanot, del quale ha ricostruito le vicende Antonio Bechelloni <5.
[NOTE]
4. Cfr. ultimo paragrafo del IV Capitolo.
5. Martini, Il sindaco cit.; Cpc: b. 3104, f. Martino Martini; intervista a Bianca Diodati cit.; interviste a Martine Martini e ad Anna Michelangeli cit. Bechelloni, I tre Fontanot cit.
Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista dalla Liguria alla Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, anno accademico 2014-2015
 
Riccardo Rohregger verrà dunque fucilato al Mont-Valérien (Suresnes attualmente nel dipartimento degli Hauts de Seine, dipartimento della Seine all’epoca) con Mario Buzzi il 17 aprile 1942.
Rino Della Negra e Spartaco Fontanot
Poco meno di due anni dopo, a questo stesso Mont-Valérien, verranno fucilati il 21 febbraio Rino Della Negra e Spartaco Fontanot, due dei cinque italiani del c.d. Gruppo Manouchian, dal nome del capo del gruppo, il poeta armeno Missak Manouchian. Con il racconto della loro singolare ma pur emblematica vicenda metterò la parola fine al mio articolo. La storia del Gruppo Manouchian è indissolubilmente legata a quella della c.d. "Affiche rouge" e si tratta dell’episodio forse più noto e più celebrato della partecipazione degli stranieri alla Resistenza francese. In ogni caso dell’episodio che, in forza della denigrazione spettacolare che la propaganda tedesca ha cercato di imporre all’opinione pubblica; alla celebrazione, dieci anni dopo, da parte del più grande poeta comunista francese, Louis Aragon, e venti anni dopo da parte di uno dei cantanti più popolari degli anni Sessanta e Settanta, Léo Ferré (canzone dall’omonimo titolo. Versi di L. Aragon, musica di L. Ferré); della polemica, infine, scoppiata intorno a un telefilm, ad alcuni film di successo, e a svariati libri, può essere considerato come l’episodio emblematico per eccellenza della partecipazione straniera alla Resistenza francese. Di questi due friulani solo la foto di Spartaco Fontanot, indicato come «comunista italiano», figura su quell’Affiche rouge con il quale i tedeschi avevano tappezzato i muri di Parigi, e segnatamente le pareti della metropolitana, nell’intento di suggerire ai parigini che la Resistenza non era altro che un’impresa di distruzione e sovversione condotta da volgari assassini stranieri e, come se non bastasse, agli ordini di ebrei.
Antonio Bechelloni, Friulani e giuliani attivi nella Resistenza francese (1940-1944). Dal socialismo all’antifascismo, dall’antifascismo alla Resistenza: la coerenza di un percorso collettivo, in «Qualestoria» n. 2, dicembre 2015, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia