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sabato 2 luglio 2022

Wolff apparentemente riuscì a sfruttare la collaborazione e la subordinazione della polizia italiana


A causa della distruzione o della dispersione di buona parte dell'archivio degli uffici di Wolff, non si hanno sufficienti documenti circa la reale presenza numerica delle forze di polizia ed SS in Italia, né, in definitiva, sulle peculiarità della loro strategia. Si posso però trarre alcune conclusioni dagli studi di Collotti <189 e di Carlo Gentile <190, riguardanti un numero abbastanza ridotto di agenti dell’SD nel nord-Italia alla fine dell’occupazione tedesca, nella primavera del ’45.
Collotti in particolar modo parla di circa 1200 o 1500 agenti dell’SD, cosa che portò a servirsi di un esteso numero di agenti italiani, spesso improvvisati, ma che attrassero comunque l’attenzione dei comandi alleati <191; nella fase finale della guerra il controspionaggio alleato si sarebbe infatti concentrato nella neutralizzazione delle attività degli agenti nazifascisti, interpretati come estrema forma di lotta della Wehrmacht, un “esercito quasi cieco (…) a causa dei duri colpi inferti dalla aviazione (alleata e che) non riesce neanche a tenere sotto controllo gli spostamenti delle truppe (anglo-americane)” <192. Il dato numerico a cui abbiamo fatto riferimento riportava la cifra di agenti presenti nelle sole regioni poste a nord della “Gotica” e che quindi presuppone una cifra sicuramente più elevata per le fasi centrali dei 600 giorni <193. A costoro si affiancavano altri 13.000 uomini della polizia dell’ordine (Ordnungspolizei), presenti in Italia sin dall’autunno del ’43 <194. La cifra, assolutamente insufficiente per gestire l’ordine pubblico nella penisola, portò Wolff a considerare come basilare la collaborazione fascista in quell’ambito <195. Riuscì a ritagliarsi uno spazio di autonomia simile a quello del legato Rahn ed ancor più esteso successivamente al 20 luglio ’44, successivamente alla sua nomina a plenipotenziario generale e quindi comandante territoriale in Italia, dopo il fallito attentato a Hitler <196. La struttura dipendente da Wolff, disponeva di un proprio stato maggiore, con il compito di curare le grandi operazioni di polizia e rastrellamento contro renitenti, ex-prigionieri di guerra e ribelli, sin dal novembre del ’43. Accanto ad essa, venne impostata una rete di comandi dell’organizzazione di SS-SD in tutta Italia, con una struttura che si andò a rafforzare nella primavera del ’44. Le SS di Himmler organizzarono in Italia una rete di comandi territoriali variamente chiamati, a seconda dell’estensione territoriale delle proprie competenze, Aussenkommando o Aussenpost (comandi avanzati e avamposti) <197.
Si andava così a delineare una terza rete di autorità territoriali, parallela alle già citate MK ed ai funzionari civili italiani e tedeschi dipendenti da Rahn <198. Su di un piano superiore, ma sottoposto formalmente a Wolff venne nominato da Kaltenbrunner, a capo della SiPo e del SD in Italia Wilhelm Harster, con il quale lo stesso Wolff entrò spesso in contrasto. La Ordnungspolizei (OrPo), formata dagli agenti che avrebbero dovuto mantenere la sicurezza e l’ordine pubblico nelle città italiane fu invece sottoposta al comando dell’SS-Gruppenführer Jürgen von Kamptz <199.
Wolff apparentemente riuscì a sfruttare la collaborazione e la subordinazione della polizia italiana, attraverso le relazioni intessute da Himmler con il ministro repubblicano dell’Interno Buffarini Guidi <200. Quest’ultimo adottò una condotta di estesa accondiscendenza rispetto alle istanze naziste, sia nei servizi di indagine e cattura dei resistenti, attraverso collegamenti diretti con le “speciali” formazioni di polizia italiane, sia in materia di persecuzione antisemita, autonomamente avviata sin dal novembre del ’43 <201. In ciò, si può in qualche modo tracciare una similitudine con la condotta di Rahn, pragmaticamente vicino alle autorità italiane, in funzione di contrasto con le altre agenzie e personalità dell’occupante. Da Harster dipendevano i “famigerati” carnefici Herbert Kappler, responsabile del SD a Roma ed ufficiale di collegamento con la polizia italiana, tra i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine, e l’Obersturmbannfürher Walter Rauff, comandante della Sipo-Sd nell’Italia nord-occidentale, e con sede a Milano. Sotto il comando di Rauff e di fatto fautori di una linea fortemente autonoma rispetto all Obergruppenführer Wolff, vennero chiamati sin dal settembre del ’43, Alois Schmid, a capo del “comando avanzato” della polizia germanica nella provincia torinese e Theodor Sävecke, Hauptsturbannführer responsabile della Gestapo e del SD di Milano.
Alcuni autori hanno evidenziato come, accanto ad un piano di occupazione militare già predisposto dall’agosto, si possano notare delle dinamiche simili per rapidità nell’insediamento dei comandi di polizia e delle SS in Italia <202. L’invio, in particolar modo di Rauff, comandante della Sipo-SD in Piemonte, Val d’Aosta, Liguria e Lombardia, portò alla ricomposizione dello stesso “stato maggiore” delle SS impiegato in Tunisia, accanto al medesimo plenipotenziario, ovvero Rahn. Dopo la sconfitta in nord Africa, Rauff ed il suo sottoposto Sävecke vennero temporaneamente spostati in Corsica per poi essere impiegati in Italia, dove agiva già dal ’42 il gruppo di Kappler, sia in funzione di collegamento con la polizia politica italiana ed i suoi servizi, sia in servizio di spionaggio dell’alleato <203. Rauff poteva vantare una carriera di alto livello all’interno del Commissariato di Heydrich: in particolar modo in collaborazione diretta con l’ufficio di Eichmann, si deve a Rauff la terribile innovazione dei Gaswagen, precursori delle camere a gas presenti nei campi di sterminio europei <204. Rauff sarebbe stato poi impiegato in Tunisia con mansioni simili di persecuzione delle comunità di ebrei nordafricani, avallata dall’ambasciatore Rahn. La sua “esperienza” fu importata in Italia e posta, di fatto, al di fuori della rete di controllo di Wolff <205.
Accanto al comando dell’SD, arrivò nei primi di ottobre in Italia anche il responsabile degli “affari ebraici” Theodor Dannecker, tra i fautori, insieme a Kappler della Judenaktion al ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 e rappresentate del Referat IV B4, di Adolf Eichmann <206. L’invio di Dannecker era finalizzato all’obiettivo di internare e deportare i membri delle comunità ebraiche in Italia, già obiettivo della discriminazione legale dal 1938 ed in realtà colpite, nel periodo bellico, da peculiari dispositivi persecutori, quali, ad esempio la coscrizione in battaglioni di lavoro coatto <207. Dannecker e dal gennaio il suo sostituto Friedrich Bosshammer, imposero alle autorità amministrative italiane una collaborazione diretta nell’internamento dei concittadini ebrei; fu questo un compito che il corpo prefettizio della Repubblica svolse come “ordinaria amministrazione”, e che si concretizzò nell’internamento in campi sotto la gestione amministrativa italiana, di migliaia di membri delle comunità ebraiche provinciali <208.
Torneremo a parlare dell’internamento ebraico nei paragrafi successivi.
Per quanto riguarda le prerogative sulla lotta antipartigiana, Wolff, si trovò in realtà ad esser contrastato dallo stesso feldmaresciallo Kesselring, convinto sostenitore della creazione di un comando unico - e militare - per la lotta alle bande, già generalmente guidata nelle settimane successive all’armistizio per le aree poste nel retroterra del fronte.
Inizialmente, ovvero nei primi mesi d’occupazione, la gestione della presenza di sbandati del Regio Esercito fu curata dai comandi superiori di Kesselring a sud e di Rommel a nord, nel contesto dell’operazione Achse. La repressione delle prime bande nelle regioni settentrionali, sorte anche per la volontà di singoli militanti politici, come nel Cuneese, si connotò inizialmente per una rigorosità effettiva delle azioni di rastrellamento, alle quali si aggiungeva un carattere punitivo verso le comunità giudicate conniventi con i “banditi”. Fu questo il caso della prima strage del nord Italia, quella di Boves (Cn), dove il 17 settembre, in risposta all’uccisione ed alla cattura di due militari della “Leibstandarte Adolf Hitler”, il terzo reggimento dello stesso reparto uccise 23 persone, tra cui il parroco, alcuni anziani ed una donna <209. La presenza di bande armate, pur non ancora capaci di azioni complesse a danno dell’occupante, portò alla ripetizione di condotte e pratiche già adottate dalla Wehrmacht e dalle formazioni militari o di polizia delle SS in contesti orientali.
Nella zona del fronte, la sollevazione spontanea di alcuni comuni della zona vesuviana e del Casertano portarono i comandi di Kesselring ad emanare disposizioni uguali alle “Norme operative per la lotta alle bande sul fronte orientale” <210. Le sollevazioni dell’area campana, e non solo, devono essere interpretate in questa fase come reazioni alla condotta “selvaggia” delle forze armate del Reich. Quest’ultime avevano adottato una serie di atteggiamenti che agli occhi degli stessi ufficiali tedeschi apparivano simili a quelli della “soldataglia della guerra dei trent’anni” <211. Una differenza sostanziale con altre aree del nord, nelle quali, le truppe tedesche, terminata la fase di disarmo dei soldati del Regio, adottarono una maggior “regolarità” nelle norme di ingaggio e di trattamento delle popolazioni <212. È questo un dato generale che non limita le considerazioni sulla brutalità delle forze armate tedesche nelle varie fasi dell’occupazione. È tuttavia evidente una reale differenza tra aree vicine alle linee di combattimento, dove si deve notare una radicale esagerazione della minaccia partigiana e ribellistica da parte dei comandi della Wehrmacht <213 e le aree del Territorio Occupato. Nel corso della primavera successiva, anche nel nord Italia vennero adottate le norme “orientali” per la lotta alle bande irregolari, con conseguenze tragiche relative ai cicli operativi ad esse connesse <214. Nel sud, al contrario, venne concessa da subito una certa autonomia agli ufficiali comandanti i singoli reparti, così da incentivare una condotta feroce ed irregolare, spesso portatrice di violenze “in eccesso” a danno della popolazione civile. Nelle province toccate direttamente dalla furia dei combattimenti, nelle settimane di stabilizzazione del fronte, la zona di operazione direttamente sottoposta a Kesselring fu teatro di violenze “anomiche” sciolte cioè da qualsiasi norma di limitazione della violenza verso i civili.
[NOTE]
189 E. Collotti, Documenti sull’attività del Sichereidenst nell’Italia occupata, in ‹‹Il Movimento di Liberazione Nazionale››, n° 83, 1966, pp. 40-42.
190 Gentile, I crimini di guerra, op. cit. p. 62.
191 La stessa cooperazione veniva richiesta da Goebbels, come visto tra i fautori di una soluzione punitiva per l’Italia, “perché (…) non disponiamo di una polizia sufficiente a stabilire un regime basato sulla pura forza”; in Klinkhammer, L’occupazione, op. cit. p. 52.
192 Relazione del CIC della V armata a firma di J. P. Spingarn, del 14 dicembre 1944, NARA, Rg. 226, e. 174, b. 6, f. 56.
193 Collotti, Dati sulle forze di polizia fasciste e naziste nell’Italia settentrionale nell’aprile del’45, in ‹‹Il Movimento di Liberazione Nazionale›› n° 71, 1983, pp. 51-72.
194 C. Gentile, I tedesci e la guerra ai civili in Italia, in Pezzino, Fulvetti, op. cit. p. 131.
195 Klinkhammer, L’occupazione, op. cit. p. 87.
196 Collotti, L’amministrazione tedesca, op. cit. p. 121.
197 C. Gentile, La repressione antipartigiana tedesca in Veneto e Friuli, in Ventura, Brunetta, op. cit. pp. 190, 191.
198 Osti Guerrazzi, Storia della RSI, op. cit. pp. 58, 59.
199 Gentile, I crimini, op. cit. p. 63.
200 De Felice, La guerra civile, op. cit. pp. 131 e seg.
201 Klinkhammer, L’occupazione, op. cit. pp. 90, 91.
202 Borgomaneri, Hitler a Milano, op. cit. pp. 40 e seg.
203 Relazione s.d. ma del’44 sul Referat IV di Roma, descritto come comando di collegamento diretto con il RSHA di Heydrich e di Kaltenbrunner, in NARA, Rg. 226, e. 174, b. 103. f. 793.
204 Borgomaneri, Hitler a Milano, op. cit. pp. 38-40
205 Ivi,. pp. 38-47.
206 Collotti, L’occupazione, op. cit. pp. 258 e seg.
207 Osti Guerrazzi, Caino a Roma, op. cit. pp. 25 e seg.
208 M. Stefanori, Ordinaria amministrazione. Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana, Laterza, Roma-Bari, 2017; i campi di internamento per ebrei, disfattisti, roma e sinti, ed in generale per tutti gli elementi dannosi per lo sforzo bellico furono presenti in Italia sin dal 1940, come descritto nello studio sul corpo di Pubblica Sicurezza italiano, di A. Osti Guerrazzi, Poliziotti, i direttori dei campi di concentramento italiani, 1940-1943, Cooper, Roma, 2004.
209 Schreiber, La vendetta, op. cit. p. 56. In totale autonomia, sebbene i comandi di polizia ne fossero ben a conoscenza, la stessa “Leibstandarte” si macchiò della prima strage di ebrei alla fine del settembre del’43, presso il Lago Maggiore. Qui, probabilmente imbeccati da una delazione delle autorità locali, le Waffen SS vennero a conoscenza della presenza dell’Hotel Meina, gestito da “ebrei levantini” e con alcuni di ospiti correligionari. Derubati di tutto, le 16 vittime vennero fucilate ed i loro corpi gettati nel lago antistante l’hotel. Cfr. E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino, 2001, pp. 134-136.
210 Le Kampfanweisung für die Bandenbekämpfung im Osten, emanate nel 1942 per rispondere alla minaccia partigiana in Unione sovietica, cfr. Gentile, I crimini, op. cit. pp. 68, 69.
211 Schreiber, La vendetta, op. cit. p.
212 Gentile, I crimini di guerra, op. cit. pp. 62 e seg.
213 Ivi, pp. 69 e seg.
214 Ivi, p. 69.
Jacopo Calussi, Fascismo Repubblicano e Violenza. Le federazioni provinciali del PFR e la strategia di repressione dell’antifascismo (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2018