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domenica 29 maggio 2022

La prospettiva della Resistenza alessandrina era quella di un altro duro inverno di guerra

Il torrente Orba all'altezza di Molare (AL) - Fonte: Wikipedia

Intanto, tra luglio e agosto si intensificarono i contatti dei gruppi del Monferrato con i partiti: le trattative per accettare di sottoporsi all’autorità dei comandi vertevano più sulle possibilità di finanziamento, sull’armamento e sui contatti con gli Alleati più che sull’orientamento ideologico espresso dalle singole formazioni. Il quadro complessivo quindi delle formazioni costituite nel Monferrato a settembre del 1944 comprendeva la 79.a brigata Garibaldi Alessandria, il raggruppamento di brigate Matteotti Italo Rossi e la brigata Patria costituita dal gruppo di Gherardo Guaschino  attestato in val Cerrina e di Giovanni Sisto (Tristano), sottoposti al comando di Edoardo Martino (Malerba). Intanto nel Monferrato astigiano si gettavano le basi per la costituzione della divisione autonoma Monferrato. Nei dintorni di Alessandria si erano invece organizzate le due brigate Matteotti Val Tanaro e Val Bormida e le due brigate GL Boidi e Mirabelli.
L’altro scenario fondamentale per il partigianato alessandrino era quello appenninico, dove qualche mese dopo la disfatta della Benedicta si trovavano raccolti nelle valli circa mille partigiani distribuiti principalmente in tre formazioni: la VIII divisione GL Paolo Braccini fra la val d’Erro e la valle Orba; la II divisione Ligure-Alessandrina nell’alta valle Orba e il battaglione Garibaldi Casalini, aggregato alla III divisione Garibaldi Pinan Cichero. Nonostante i duri rastrellamenti di agosto durante l’autunno del 1944 si realizzò la tappa significativa dell’autogoverno: l’occupazione di alcune valli appenniniche aveva infatti imposto ai comandanti partigiani di provvedere all’amministrazione delle popolazioni locali, consistenti in circa ventimila persone, affrontando celermente una serie di problemi economici che rischiavano di avere serie ripercussioni anche sulle attività militari. Così spettava ai partigiani dimostrare che gli uomini della Resistenza erano in grado di organizzare la vita civile nelle zone liberate con criteri completamente diversi da quelli dei fascisti: nelle vallate del Tortonese vennero elette, dopo un adeguato lavoro di educazione alla democrazia, le Giunte popolari comunali che avrebbero dovuto occuparsi del riassestamento delle finanze comunali, delle prestazioni veterinarie, dell’adeguamento dei salari e di tutti quei servizi essenziali che prima erano competenza dei funzionari fascisti.
L’entusiasmo che caratterizzava la vita partigiana sull’Appennino non rifletteva invece sull’attività del CLN, in cui non si riuscì mai a completare la fusione tra le diverse anime politiche per sottoporle a un indirizzo comune: se da una parte i partiti moderati, non avendo la forza di proporsi come guida del movimento di resistenza alessandrino, tendevano a procrastinare l’azione più decisa del Comitato ai giorni della Liberazione, momento in cui si sarebbe dovuta garantire la «legalità» del potere del CLN, i partiti di sinistra, nonostante la maggiore consistenza numerica, tendevano ad occuparsi dell’esclusivo potenziamento delle proprie organizzazioni. A ciò si deve poi aggiungere che l’azione era esposta alla obiettiva difficoltà che in un piccolo centro come Alessandria questi uomini erano conosciuti e controllati da anni per la loro avversione al fascismo. Anche i tentativi intrapresi nei piccoli centri della provincia incontrarono notevoli difficoltà: dove si tentò di organizzare dei Comitati Militari (nei centri più vicini ai gruppi armati come Casale, Novi e Tortona) furono  spesso ostacolati dall’atteggiamento stesso dei comandi partigiani, restii ad accettare direttive, suggerimenti e controlli da parte di organismi civili. Le formazioni si erano infatti ormai affermate prepotentemente come un secondo centro di potere rispetto ai CLN, e anzi, sotto un certo profilo la loro libertà di azione era anche superiore: si era giunti così alla costituzione di un Comitato Militare provinciale (di cui faceva parte anche Edoardo Martino, inizialmente in rappresentanza degli Autonomi, poi della DC) che avrebbe avuto il compito di coordinare l’azione militare delle diverse formazioni. Tuttavia la mancanza di accordo e di indirizzi comuni tra i partiti ostacolò anche l’azione di coordinamento militare tra le varie formazioni.
Nonostante le speranze seguite ai successi alleati di giugno e all’estate appena trascorsa, la prospettiva della Resistenza alessandrina era quella di un altro duro inverno di guerra, annunciato da una dura campagna di rastrellamenti e di eccidi: le forze della val Cerrina vennero sottoposte a una serie di attacchi, si moltiplicarono le rappresaglie che coinvolsero la popolazione e le razzie, prima con tre morti a Villadeati, cui se ne aggiunsero altri nove, tra cui il parroco don Ernesto Camurati.
Le brigate partigiane della zona furono impegnate in quei giorni tanto a sfuggire ai rastrellamenti quanto nella difesa della popolazione, in modo particolare dalle razzie che minacciavano la sopravvivenza durante l’inverno seguente. Il primo di novembre ebbe luogo il duro scontro noto come «battaglia di Cantavenna», cui seguì un combattimento con quattordici morti repubblichini e la cattura di un gruppo di tedeschi per la cui liberazione fu mediatore anche il vescovo di Casale mons. Angrisani.
Intanto l’inverno e la necessità dei tedeschi di rendere sicure le vie necessarie alla ritirata delle truppe che risalivano dal centro Italia rendeva tutto molto più problematico
Lodovico Como, Dall’Italia all’Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009/2010

Nell'area intorno ad Alessandria, gruppi di varie tendenze stabiliscono, intorno alla metà di febbraio, di costituire un comando unico per il triangolo compreso tra Asti, Casale Monferrato e Alessandria. Quest'area, molto piccola, vive in una certa autonomia, considerata la sua distanza dai comandi delle Langhe e le difficoltà di raggiungere Torino. Tra queste, la 9ª brigata Matteotti è rimasta all'oscuro persino del piano E. 27 per l'insurrezione generale. <850
Oltre alle comunicazioni con il centro, diventano difficoltosi i rifornimenti di armi, soprattutto in seguito alla decisione del CG di destinare ai soli comandi di zona il compito di distribuire il materiale aviolanciato.
Anche in conseguenza di questa sfavorevole condizione sul piano materiale, a partire dall'inverno i vari gruppi della zona, garibaldini, GL, Matteotti e Autonomi avevano lasciato da parte eventuali rancori e avevano raggiunto accordi per procurarsi armi e munizioni. <851
[...] La situazione della VII zona è molto complessa. Legata alle formazioni liguri, in particolare alla Divisione Garibaldi “Mingo”, per i contatti che questa stringe con le brigate “Patria” e “Martiri della Benedicta”, la provincia di Alessandria è zona vasta e contesa. A inizio febbraio si costituisce un primo Comando unico, con Pietro Minetti “Mancini” (Garibaldi) comandante e Ernesto Pasquarelli “Barbero” (com.te VIII divisione GL, in sostituzione di Ferdinando Cioffi “Ivan”, arrestato nel gennaio) come vice (accordi di Carpeneto). Questo primo accordo però presenta dei limiti: la mancanza nel comando di un rappresentante delle Matteotti e la difficoltà di esercitare un vero e proprio comando su tutto il territorio. A ciò si aggiungono i contrasti con i liguri, che a fine '44 avevano unilateralmente ufficializzato l'appartenenza della zona tra lo Scrivia e il Sassello, tra il mare e Tortona-Novi-Predosa e sud di Acqui alla VI zona ligure. Alcune brigate entrano operativamente a far parte della VI zona, <860 sollevando le proteste di “Barbero”, il quale tenta in ogni modo di far annullare gli accordi tra garibaldini e Merlo, comandante della brigata GL “Martiri della Benedicta”. Solo verso la fine di marzo si giunge a un accordo tra liguri e alessandrini, ma che non scioglie il nodo dei confini.
[NOTE]
850 “Relazione dalla zona della 45/a Brigt.”, Comando VIII Divisione Garibaldi - Asti, Il commissario politico alla Delegazione, 18.2.45 in AISRP, MAT/ac 14 b
851 “Relazione dalla zona della 45/a Brigt.”, Comando VIII Divisione Garibaldi - Asti, Il commissario politico alla Delegazione, 18.2.45 in AISRP, MAT/ac 14 b; si vedano disposizioni in “Ordinamento e funzionamento del Comando delle formazioni dei Patrioti nella regione piemontese”, CLN - CMRP ai Comandanti delle formazioni e al CG Italia occupata, [a matita 6.7.1944] 21.8.44 in AISRP, B AUT/mb 4 e
860 Giorgio Agosti, all'incirca nello stesso periodo, esprimeva «l'intendimento [...] [di] addivenire ad una più stretta collaborazione fra le formazioni alessandrine e quelle liguri; e questo non solo per ragioni militari (controllo dei valichi appenninici), ma anche per gravitare politicamente su Genova e rafforzare col peso delle GL la nostra situazione in quella città», “Relazione del commissario politico del Comando piemontese delle formazioni Giustizia e Libertà”, 31.12.44, in G. De Luna et alii (a cura di), Le formazioni GL, cit., doc. 104, p. 270
Giampaolo De Luca, Partigiani delle Langhe. Culture di banda e rapporti tra formazioni nella VI zona operativa piemontese, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013

sabato 28 maggio 2022

La rete del Vaticano con gli Ustascia


I principali criminali di guerra che usufruirono delle Ratline vaticane non furono soltanto nazisti; anzi, si può dire che la maggior parte di essi furono persone appartenenti ad altri Paesi e regimi. Molti furono aiutati da una figura particolarmente importante nel quadro della struttura di Odessa, padre Krunoslav Draganović, Segretario dell’Istituto di San Girolamo dei Croati in via Tomacelli 132 a Roma.
Un documento della FBI cita: “[Draganović] è stato attivo a Roma, Italia, durante il periodo 1943- 1953, assistendo migliaia di emigrati Croati ad abbandonare la Yugoslavia Comunista e ricollocarli in altri Paesi liberi <163”.
“È stato professore della Facoltà del Divino a Zagabria, prima della guerra. Durante la guerra è stato in carica dell’ufficio per il ricollocamento del Governo di Pavelić. Dal 1943, Draganović è stato un delegato del cosiddetto Stato indipendente di Croazia presso la Santa Sede <164”.
Ci sono moltissime testimonianze che attestano quanto tale personaggio sia stato utile alla Rete di Odessa; per esempio un documento della CIA dice parlando del Colonnello Otto Skorzeny:
"Il soggetto ha viaggiato con documenti Croati forniti da Padre Stjepan Draganović, un prete croato attivo nell’immigrazione Slava. […] La documentazione necessaria è stata ottenuta a Roma ed è stato riportato che alti ufficiali del Vaticano hanno usato la loro influenza per acquisirli per lui" <165.
Ancora un documento della CIA sottolinea:
"Il delegato Sud Americano è molto probabilmente [Padre] Krunoslav Draganović, un prete Ustascia che si trova nel santuario di San Girolamo degli Illirici a Roma e che, a conoscenza del Dipartimento, è stato il più attivo e strumentale collegamento tra il Vaticano e gli Ustascia, e nell’assistenza degli affiliati di Pavelić per emigrare in Argentina, dove è presente già un gran numero di essi. Lui si è recato in Argentina con Pavelić" <166.
Infatti, il suo ultimo lavoro fu quello di amministrare, soprattutto, le vie di fuga degli Ustascia con lo scopo di creare organizzazioni tali da sconfiggere il regime di Tito che si era impadronito della Croazia.
In una nota si legge: “È il capo rappresentante della Società dei Croati presso gli Affari della Caritas a Roma, Italia. Draganović è un grande supporter e collaboratore di Pavelić, Ante, il leader Ustascia. Sebbene la sua residenza sia a Roma, Draganović, usa un passaporto diplomatico emesso dal Vaticano, per viaggiare fuori dall’Europa ed in Sud America <167”.
Sicuramente il Papa era a conoscenza dei collegamenti del prete croato tant’è che, per esempio:
"In collegamento con l’Anno Santo, il Papa tenne un’udienza con i delegati degli emigrati in fuga dai Paesi Comunisti. Ha salutato i delegati di quasi ogni Paese nella loro lingua, e quando vennero i Croati, si è consultato con il prete Ustascia, Krunoslav Draganović, per sapere se parlare in Tedesco o Italiano" <168.
Lo stesso storico della Chiesa, padre Graham, ammise i collegamenti di Draganović con il brutale regime fascista croato: “Non ho dubbi sul fatto che Draganović si desse moltissimo da fare per aiutare i suoi amici croati ustascia a fuggire <169”.
Era molto importante, così come per tutta la struttura di Odessa nel suo insieme, il collegamento del prete croato con il sottosegretario di Stato, il cardinal Montini. Costui, così come avvenne con Hudal, diede la possibilità a Draganović di visitare i campi profughi e di prigionia in cui erano presenti persone bisognose di aiuto: infatti, il suo Comitato Centrale della Confraternita di San Girolamo venne riconosciuto dalla PCA come organismo di aiuto ed assistenza dei profughi. Il tutto, fu, però coadiuvato dagli importanti contatti che il prete croato aveva tessuto fino a quel momento in Germania, Austria ed Italia. In quest’ultimo Paese, il prete croato strinse un importante accordo con il funzionario del Ministero degli Interni e Capo del Servizio Segreto Italiano, Migliore, che fu funzionale per l’accesso a certi campi rifugiati e di prigionieri. I componenti del suo Comitato di assistenza erano dei veri e propri agenti ed i principali erano: il presidente e rettore dell’Istituto, Juraj Magjerec, il vicepresidente e tesoriere, padre Dominik Mandić, oltre ad altri monsignori che risiedevano a San Girolamo <170.
Oltre ad essi c’erano anche altri importanti collaboratori. Uno di essi era padre Vilim Cecelja che fungeva da ponte di collegamento tra Austria e Roma. Fu viceparroco militare degli Ustascia dove ricoprì il ruolo di tenente colonnello e celebrò la cerimonia del giuramento di Pavelić impartendo la benedizione della Chiesa. Solo nel 1944 abbandonò la sua carica per raggiungere Vienna, dove in via ufficiale, avrebbe dovuto occuparsi dei soldati croati feriti. Realmente, il suo ruolo fu quello di preparare una via di fuga sicura in modo da poter, nell’eventualità di una quasi certa sconfitta, garantire un rifugio sicuro ai suoi commilitoni. Fu così che fondò il Comitato locale della Croce Rossa Croata come copertura ideale alle sue attività: “Avevo il compito di fornire documenti alle persone che avevano perduto i propri. Disponevo di moduli di domanda della Croce Rossa a pacchi <171”, attraverso i quali forniva una nuova identità, un nuovo nome e storia da presentare in modo da essere più credibile per ottenere i documenti falsi.
Il 19 ottobre del 1945, padre Cecelja fu arrestato dal CIC ed il Vice Capo di Stato Maggiore del Servizio Segreto dell’Esercito USA disse di lui: “Ha messo a repentaglio la sicurezza delle forze di occupazione, come pure gli obbiettivi del governo militare. È il capo ustascia nella regione e protegge i membri del movimento ustascia a Salisburgo [dove nel frattempo si era trasferito e catturato]” <172.
Il Governo Jugoslavo ne chiedeva l’estradizione ma, alla fine, grazie anche all’arcivescovo Stepinac fu addirittura rilasciato. Gli Alleati capirono, anche a partire da questo momento, che figure come Cecelja potevano servire al loro scopo: fronteggiare il sempre più forte comunismo.
Anche gli inglesi sapevano della rete di Draganović come si può leggere in una lettera ufficiale: “Il nucleo di tutta l’attività ustascia è la Confraternità di S.Girolamo a Roma <173”. Infatti, Cecelja ammise come il suo ruolo nella Ratline di Draganović fosse funzionale a tutta l’organizzazione che partiva da San Girolamo, quando affermò che operava “registrandoli ed offrendo loro cibo, alloggio e documenti di immigrazione, nonché l’opportunità di spostarsi per il mondo fino in Argentina, in Australia e in Sudamerica. Ricevevo i documenti dalla Croce Rossa <174”.
È importante sottolineare, così come vedremo più approfonditamente in seguito, che Draganović amministrava i fondi di Odessa. Il servizio segreto degli USA stabilì che era un “fidato seguace di Pavelić. […] Gli venivano affidati […] tutti i valori […] introdotti di contrabbando dagli Ustascia <175”.
Il Servizio Segreto Inglese appurò che:
"Nell’estate del 1945, Draganović fece personalmente un giro dei campi in cui erano stati degli ex-componenti delle forze armate e delle organizzazioni politiche ustascia. Avviò ben presto un’intensa attività politica e prese contatto con i principali rappresentanti ustascia. In questo era assistito da altri sacerdoti croati, con l’aiuto dei quali si mantennero stretti rapporti tra la Confraternita di San Girolamo e i gruppi ustascia in tutta Italia e anche Austria. Ciò condusse alla formazione di un servizio di spionaggio politico che permise alla Confraternita di raccogliere resoconti e dati sulle tendenze politiche tra gli emigrati. È altresì probabile che le informazioni apprese da questi rapporti venissero poi trasmesse al Vaticano" <176.
Un altro personaggio importante nella squadra croata fu padre Dragutin Kamber, brutale responsabile di alcuni dei peggiori omicidi di massa attuati dalla Croazia Ustascia. È estremamente significativo il documento del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che elencando gli appartenenti al Comitato per la Salvezza del Professore Draganović (creatosi dopo la sua cattura da parte del Governo jugoslavo nel 1967), nomini proprio padre Kamber: il legame nato durante e, soprattutto, dopo la Seconda Guerra Mondiale fu talmente forte che a distanza di venti anni, Kamber voleva ancora aiutare il suo strettissimo collaboratore <177.
La carriera violenta di Kamber iniziò dopo l’invasione dell’Asse, quando fu posto a capo dell’amministrazione ustascia nella città di Doboj ed uno dei primi provvedimenti che mise in atto fu la creazione di un campo di concentramento. Inoltre, istituì delle leggi simili a quelle razziali dei governi filo nazisti come quella che obbligava gli ebrei di portare una fascia gialle e i serbi una bianca.
Successivamente “proclamò che i serbi e gli ebrei dovessero essere sterminati, in quanto dannosi per lo Stato Ustascia <178”. A Doboj compì arresti in massa e mandò i serbi nei vari campi di concentramento creati sotto Pavelić. Molti altri, soprattutto sacerdoti e maestri serbi, vennero brutalmente uccisi.
Il Console inglese a Zagabria concluse che Kamber aveva “stretti contatti con la Confraternita di San Girolamo” e che forniva informazioni direttamente dalla Croazia al centro operativo di San Girolamo <179.
Dominik Mandić, rappresentante ufficiale del Vaticano presso San Girolamo, era il membro della Confraternita e di Odessa e si occupava del rilascio delle carte d’identità false che venivano stampate in una tipografia francescana grazie anche alla stretta collaborazione di alcuni membri del servizio segreto italiano <180. Rispetto a ciò il servizio segreto inglese che stava indagando sulle attività illecite disse: “Esistono prove incontrovertibili che, in questo modo, sono state rilasciate, sotto nomi completamente falsi, carte d’identità della Confraternita di San Girolamo ad alcuni dei più famigerati criminali di guerra, permettendo loro di ottenere permessi di residenza italiani, visti e altri documenti allo scopo, quindi, di fuggire all’estero <181”.
Molto rocambolesca fu la missione dell’agente del CIC, Robert Mudd, che riuscì a far penetrare all’interno della Confraternita un suo agente in incognito nel 1947.
"Per poter entrare in questo monastero, bisogna sottoporsi ad una perquisizione personale per verificare se si è in possesso di armi o di documenti, si deve rispondere a domande sulla propria provenienza, sulla propria identità, su chi si conosce, su quale sia lo scopo della propria visita e come si sia venuti a sapere della presenza di croati all’interno del monastero. Tutte le porte che mettono in comunicazione stanze diverse sono chiuse e quelle che non lo sono hanno di fronte una guardia armata e c’è bisogno di una parola d’ordine per andare da una stanza all’altra. Tutta la zona è sorvegliata da giovani ustascia armati in abiti civili e ci si scambia continuamente il saluto ustascia" <182.
All’interno del monastero-rifugio, l’agente del CIC riuscì ad identificare molteplici criminali di guerra croati latitanti come il tenente colonnello Ivan Devčić, il vice ministro degli Affari Esteri Vjekoslav Vrančic, il ministro del Tesoro dello Stato Croato Dragutin Toth, il ministro delle Corporazioni Lovro Sušić, il ministro dell’Educazione Mile Starčevic, il generale dell’aviazione Dragutin Rupčić, il generale ustascia Vilko Pečnikar, il ministro dei Trasporti Josip Marković ed il comandante capo dell’aviazione Vladimir Kren <183.
Fu scoperto proprio, attraverso questa missione, che Pavelić si stesse nascondendo a Roma in via Giacomo Venezian 17c e che Draganović avesse assegnato dei nomi falsi con relativi documenti a tutti coloro che cercavano una via di fuga con la complicità del Vaticano; infatti si legge in una descrizione di Mudd:
"Questi croati vanno avanti e indietro dal Vaticano varie volte la settimana, a bordo di un’automobile con autista la cui targa reca le iniziali CD, Corpo Diplomatico. Questa automobile esce dal Vaticano e scarica i suoi passeggeri all’interno del monastero di San Girolamo. A causa dell’immunità diplomatica, è impossibile fermare l’automobile e scoprirne i passeggeri. La protezione offerta da Draganović a questi croati collaborazionisti fa sì che lo si ricolleghi decisamente all’intento, da parte del Vaticano, di tutelare i nazionalisti ustascia finché non siano in grado di procurarsi i documenti necessari per andarsene in Sudamerica" <184.
Nel quadro della rete del Vaticano è stata fondamentale la città di Genova (anche se lo sarà, allo stesso modo, per l’Odessa di Perón e lo fu anche per i Nazisti riuniti alla Maison Rouge).
Nel capoluogo ligure, un altro prete croato era alla base dei contatti: monsignor Karlo Petranović.
Durante un’intervista nel 1989 con gli autori del libro Ratlines, Aarons e Loftus, il prete ha ripercorso momenti della sua vita quando per esempio si trovava a Topusko (a sud di Zagabria), durante tutta la durata del Conflitto, come cappellano dell’esercito e disse di “non ricordare le atrocità avvenute in quel distretto. [Avevo] udito voci relative al fatto che stavano morendo delle persone; c’erano un paio di ebrei a Ogulin, ma non so cosa sia accaduto loro, semplicemente scomparvero <185”.
Tuttavia, il programma di sterminio di ebrei e serbi da parte del regime Ustascia era, comunque, pubblico e le vicende legate ai luoghi dove lavorava il prete erano ben conosciute, tant’è che la Jugoslavia, nel 1947, chiese la sua estradizione agli inglesi.
Egli divenne un fattore molto importante nella politica locale del regime ustascia, in quanto era incaricato di decidere della vita e della morte dei serbi di Ogulin e del distretto circostante. Come dimostrano le prove, tale politica consisteva nel seminare terrore tra la popolazione serba completamente innocente e si risolse nello sterminio di circa duemila serbi locali. In aggiunta a questi crimini, il comitato ustascia di Ogulin, di cui Petranović era funzionario, fu responsabile dell’invio di centinaia di serbi e croati ai campi di concentramento degli ustascia, cosa che si concluse con lo sterminio della maggior parte di queste persone <186.
Inoltre, è lo stesso giornale ufficiale ustascia, Novi List, a comunicare la nomina del prete croato “alla carica di pobočnik [aiutante militare] del campo di distretto di Ogulin <187”.
Sempre durante l’intervista, Petranović ammise e spiegò il suo ruolo all’interno dell’Organizzazione Odessa.
Difatti, chiarì che Draganović lo chiamava regolarmente per comunicargli di quanti posti avesse bisogno per la fuga dei criminali di guerra. Petranović andava così a verificare la disponibilità per tali richieste e richiamava a Roma; dopodiché veniva inviato un numero pari di persone a quanti posti fossero disponibili sulla nave.
Infine, a Genova si dovevano cercare gli alloggi prima dell’espatrio. I servizi segreti inglesi scoprirono tale rete di contatti e notarono che il prete della città ligure stava “aiutando emigrati politici croati ed in particolare ustascia a fuggire in Argentina. Erano principalmente criminali di guerra schedati e che lo stesso Petranović era un collaborazionista croato <188”.
Sicuramente il ruolo di Petranović fu fondamentale ma senza l’aiuto di alcuni rappresentanti dell’alto clero sarebbe stato impossibile portare a compimento certe azioni. Rispetto a ciò, sarebbe da evidenziare la parte che ha avuto l’Arcivescovo di Genova, monsignor Giuseppe Siri, il cui ruolo di copertura è schematicamente inquadrato dalla CIA rispetto ad una delle tante organizzazioni caritatevoli da lui effettivamente dirette come ONARMO, di cui abbiamo parlato precedentemente, ed al suo collegamento non a caso con Hudal.
Nella maggior parte dei casi le organizzazioni ecclesiastiche aiutavano realmente le persone bisognose, ma venivano usate anche per altri scopi:
"L’Opera Nazionale di Assistenza Religiosa Morale Operai (ONARMO), esercita a Genova, Via Ettore Marchini 8, sotto l’invisibile guida dell’Arcivescovo Siri. Gli scopi dell’organizzazione sono religiosi, principalmente, ma sono anche politici e, specialmente, anti-comunisti. Sfruttando la benedizione del Vaticano, ONARMO ha organizzato un vasto piano di emigrazione per i lavoratori da tutta l’Europa al Sud America. […] Oltre al circolo ecclesiastico, molte alte personalità del mondo della finanza e dell’industria che hanno visto la distruzione delle loro posizioni dovute al trionfo del comunismo, hanno sfruttato il loro potere ed influenza per ONARMO. Tra i molti candidati per l’emigrazione supportata dal progetto di ONARMO ci sono molteplici Francesi sospettati di aver collaborato con i Tedeschi e che hanno avuto un rifugio a Il Boschetto, Via Boschetto 29, Piazza del Santuario, Genova" <189.
Petranović aveva uno stretto rapporto con Siri e lo raccontò durante l’intervista in Canada: non riuscendo ad ottenere delle cuccette per un’operazione di emigrazione urgente in Argentina, inviò un telegramma al nome di Siri all’ufficio imbarco di Buenos Aires in modo da ottenerle. Quando il prete croato informò Siri di tale falsificazione di nome, quest’ultimo, invece di mostrare adiramento ne rimase molto soddisfatto <190.
Uno degli ufficiali della British Special Screening Mission, Stephen Clissold ricordava nelle sue memorie che gli uomini ricercati “venivano accuditi a Genova da padre Petranović, un collaboratore fidato di Draganović <191”.
Padre Simčić, un alto funzionario del Vaticano nel dopo Guerra fino agli anni novanta - tanto da essere stato uno dei protagonisti dell’Internazionale Democristiana nel dicembre 1991 <192 - ammise l’importanza strategica ed operativa della Confraternita di San Girolamo dei Croati e dei legami di Draganović con l’alto clero: “Il dottor Draganović e Montini s’incontrarono molte volte. Montini si mise in contatto molte volte con Draganović, chiedendogli di aiutare delle persone per suo conto. Vi erano eccellenti rapporti tra noi e la gerarchia vaticana <193”.
Il futuro Paolo VI era uno dei principali collaboratori di Pio XII e fu messo dallo stesso alla guida della PCA. Inoltre secondo le parole di padre Cecelja, padre Draganović era, notoriamente, il rappresentante ufficiale della Santa Sede per l’emigrazione dei gruppi nazisti e fascisti, non solo della Croazia ustascia <194. Anche il Dr. Ivo Omrčanin, accreditato professore a Washington dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu un importante funzionario del Ministero degli Esteri ustascia e la sua può essere considerata una testimonianza più che valida che dimostra il lavoro e l’interconnessione tra la PCA e la Confraternita di San Girolamo:
Era molto vicino a Draganovic e, in quel periodo, i due collaboravano. [...] Lavorò direttamente sotto la guida di Draganovic nel Pontificio Comitato di Assistenza tra il 1948 e il 1953, girando per i campi di profughi e inviando migliaia di fuggiaschi attraverso la Ratline. [...] Si vanta anche di aver inviato attraverso la Ratline 30 mila persone, tra cui molti scienziati e tecnici tedeschi <195.
Un altro aspetto importante da non sottovalutare rispetto alle tante ramificazioni di Odessa è di come le sue Ratline fossero state utilizzate anche per altri scopi oltre a quelli riguardanti l’aiuto per la fuga dei križari, ovvero quei crociati-guerrieri cattolici che si battevano contro il comunismo. Infatti, la rete di Draganović utilizzò Odessa per dar rifugio, prima, agli esuli e criminali croati e, dopo, per farli scappare od utilizzarli in chiave anticomunista. Infatti, a differenza di come accadde per l’Odessa di Perón, quella del Vaticano (la prima erede di quella stabilita dai nazisti), si trasformò poco a poco in una vera e propria arma per combattere il comunismo.
Quindi, in quest’ottica fu fondamentale l’apporto dei croati e di tutti coloro che, avendo perso la Guerra, scappavano dai nuovi regimi comunisti dell’Est Europa.
Esplicativo di tutto ciò, fu il processo nel 1948 di alcuni criminali arrestati durante l’ascesa al potere di Tito e, soprattutto, di coloro che furono catturati o estradati. Alcuni di essi ammisero di essersi rifugiati nella Confraternita di padre Draganović il quale, in combutta con un altro personaggio chiave, l’arcivescovo Viktor Stepinac (beatificato il 3 ottobre 1998), li assoldava come nuovi crociati, ossia križari: costoro erano “appoggiati sia dal Vaticano che dalle potenze straniere <196”.
Questo punto è fondamentale per capire perché gli Alleati scesero a patti con i peggiori assassini e criminali della Seconda Guerra Mondiale. Il conflitto si era concluso ed uno nuovo si stava prospettando - reputato da alcuni studiosi, anche più pericoloso ed insidioso: quello contro il Comunismo. In tal modo preferirono sfruttare le capacità, le conoscenze ed i collegamenti di coloro che furono arrestati o che potenzialmente potevano esserlo.
Il forte legame che c’era fra i seguaci di Pavelić e la Confraternita di San Girolamo fu studiato, anche, da William Gowen, agente speciale del CIC.
L’agente del CIC scoprì che i soldi per finanziare i križari e, quindi, la Ratline croata di Odessa provenivano dal famoso tesoro di Pavelić salvato poco prima dell’ascesa al potere di Tito.
Dopo che Pavelić fu arrestato in Austria nel maggio del 1945, gli agenti del SIS (Secret Intelligence Service) inglese requisirono anche parte del bottino e secondo le scoperte di Gowen: “Al tenente colonnello inglese Jonson fu affidata la responsabilità di due (2) autocarri carichi di ciò che si supponeva fosse proprietà della Chiesa cattolica nella zona inglese dell’Austria. Questi due autocarri, accompagnati da un certo numero di preti e dall’ufficiale inglese, entrarono allora in Italia e si diressero verso una destinazione sconosciuta <197”. Secondo le fonti accreditate, tale tesoro sparì, forse verso un monastero e pare fosse stato utilizzato per finanziare tutti quei movimenti composti da esuli politici e criminali di guerra per fronteggiare i regimi comunisti.
Ma questa era soltanto una piccola parte del tesoro ustascia, in quanto sul finire della Guerra, secondo quanto rivelò lo stesso Draganović alle autorità jugoslave durante il suo processo del 1967 dopo essere stato rapito dai servizi segreti di Tito <198 - secondo la stampa, Draganović, si era offerto volontariamente alle autorità della Jugoslavia <199 - che a Wolfsber erano stati nascosti 400 chili di oro oltre ad un’ingente quantità di valuta straniera, tutto sotto il controllo del Ministro dell’Economia Nazionale, Lovro Sušić. Il Ministro, quindi, contattò il prete croato e trasferì a Roma il tanto ricercato tesoro. L’importante monsignor croato era coadiuvato anche da due membri ustascia: Sjepan Hefer ed il genero di Pavelić, Vilko Pečnikar. Quest’ultimo fu di vitale importanza in quanto “manteneva i contatti con diverse organizzazioni clandestine naziste ed un sofisticato servizio segreto che si ricollegava a quelli austriaco ed italiano <200”.
L’Odessa costituitosi servì non solo a far fuggire i criminali dalla giustizia internazionale ma anche per altri scopi. Uno di essi fu quello che, tra l’altro, implicò l’entrata in scena degli Alleati e per il quale essi iniziarono ad avere un ruolo da protagonisti: la nascita di un baluardo in chiave anti-URSS nei Balcani e nella zona danubiana.
[NOTE]
164 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116ef, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 10 novembre 1967
165 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519bdecd993294098d514428, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 8 luglio 1949
166 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116d5, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 4 febbraio 1949
167 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116f2, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 14 luglio 1950
168 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d51171a, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 13 giugno 1950
163 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116e4, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 25 ottobre 1967
169 Intervista a padre Graham, 15 aprile 1985, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratline, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 98
170 Father Krunoslav Draganović. Past Background and Present Activity, 12 febbraio 1947, NARA, RG 319, 631/31/52-54/1-4, schedario 107, Goñi, U. op. cit
171 Intervista a Vilim Cecelja, Maria Pline, 23 maggio 1989, Goñi, U. op. cit
172 Nota del 26 febbraio 1947, NARA, RG 319, Deposito di documenti investigativi, dossier su Cecelja, XE 006538, Goñi, U. op. cit
173 Memorandum on the Ustasa Organisation in Italy, accluso in una lettera di Maclean a Wallinger, 17 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
174 Intervista a Vilim Cecelja, Maria Pline, 23 maggio 1989, Goñi, U. op. cit
175 Memorandum on the Ustasa Organisation in Italy, accluso in una lettera di Maclean a Wallinger, 17 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
176 Nota jugoslavia del 23 aprile 1947, PRO FO 371 67376, Goñi, U. op. cit
177 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116fd, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 21 maggio 1968
178 Nota jugoslavia del 23 aprile 1947, PRO FO 371 67376, Goñi, U. op. cit
179 Allegato alla lettera della Commissione Speciale per i Profughi al Foreign Office del 23 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
180 Nota del Ministero degli Affari Esteri del 2 novembre 1945, Archivio del Ministero per gli Affari Esteri, Affari politici (Iugoslavia), 1946, Busta 1, fascicolo 3, Esponenti del cessato regime ustascia in Italia; rapporto del Ministero dell’Interno (polizia di Roma) del 9 luglio 1946, accluso alla nota del Ministero per gli Affari Esteri del 30 luglio 1946, Archivio del Ministero per gli Affari Esteri, Affari politici (Iugoslavia), 1948, Busta 33, fascicolo 3, Attività di iugoslavi contrari al regime di Tito in Italia
181 Memorandum on the Ustasa Organisation in Italy, accluso in una lettera di Maclean a Wallinger, 17 ottobre 1947, PRO FO 371 67398, Goñi, U. op. cit
182 Nota del 12 febbraio 1947, tratta dal dossier su Draganović e Pečnikar in possesso del CIC ed ottenuta a seguito dello US FOIA, pp. 38-40, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 110
183 Nota del 12 febbraio 1947, tratta dal dossier su Draganović e Pečnikar in possesso del CIC ed ottenuta a seguito dello US FOIA, pp. 38-40, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 111
184 Nota del 12 febbraio 1947, tratta dal dossier su Draganović e Pečnikar in possesso del CIC ed ottenuta a seguito dello US FOIA, pp. 38-40, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 111
185 Intervista a Karlo Dragutin Petranović, Niagara Falls, Canada, 17 giugno 1989, cit. in
Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pp. 114-115; si veda anche Casazza, A., Nazisti in fuga, il silenzio della Curia, Il Secolo XIX Online, 15 settembre 2013http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2013/09/15/AQOZ6vO-nazisti_silenzio_della.shtml, web. 7 dicembre 2017
186 Nota jugoslava del 21 luglio 1947, PRO FO 371 67386, Goñi, U. op. cit
187 Ambasciata della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia a Washington, The Case of Archbishop Stepinac, Washington, 1947, pag. 27
188 Memorandum on the Ustasa Organisation in Italy, accluso in una lettera di Maclean a Wallinger, 17 ottobre 1947, PRO FO 371 67398; lettera del Foreign Office alla Screening Mission, Klagenfurt, 14 agosto 1947, PRO FO 371 67386, Goñi, U. op. cit
189 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519697ec993294098d50cc32, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act
190 Intervista a Karlo Dragutin Petranović, Niagara Falls, Canada, 17 giugno 1989, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 117
191 Telegramma da Roma al Foreign Office del 22 febbraio 1947, PRO FO 371 67372, Goñi, U. op. cit
192 Zola, M., Con l’aiuto di Dio. La guerra d’indipendenza croata tra il Vaticano e Međugorje, East Journal, Online, 16 maggio 2011, http://www.scenariglobali.it/temperie/807-il-papa-contro-medugorje-la-fine-di-una-bugia-che-viene-da-lontano.html, web. 7 dicembre 2017
193 Intervista a Milan Simčić, Roma, 12 maggio 1989 e 16 febbraio 1990, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 125
194 Intervista a Vilim Cecelja, Maria Pline, 23 maggio 1989, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 126
195 Intervista a Ivo Omrčanin realizzata da Religious News Service nel maggio 1986, Aarons M. M., Loftus J., op. cit.
196 Testimonianze di Adam Miličević, Mimo Rosandić e Božidar Petračić nella nota al dispaccio del 4 agosto 1948, da Zagabria a Washington, NARA, RG 59, 860H.00/8-48, Goñi, U. op. cit; Despot, Z., Plan Deseti travanj i(li) Operacija Gvardijan, Vecernji, online, 17 febbraio 2012, https://blog.vecernji.hr/zvonimir-despot/plan-deseti-travanj-ili-operacija-gvardijan-992, web. 7 dicembre 2017
197 Nota di William Gowen del 29 agosto 1947, dossier del CIC, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratline, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 133
198 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116e4, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 25 ottobre 1967
199 CIA Digital Archives, Document Number (FOIA) /ESDN (CREST): 519a6b2a993294098d5116e4, FOIA ERR, Special Collection, Nazi War Crimes Disclosure Act, 27 novembre 1967
200 Dichiarazione di Krunoslav Draganović del 26 settembre 1967, cit. in Aarons M. M., Loftus J., Ratlines, Newton & Compton, Roma, 1993, pag. 133
Luca Mershed, L'Operazione Odessa e la diffusione del nazismo in Argentina e nelle Americhe, Tesi di dottorato, Università degli Studi Sapienza - Roma, Anno accademico 2018-2019

mercoledì 25 maggio 2022

Lo scontro cominciò verso le ore 6.30 e dopo pochi minuti il Capitano Mingo si espose allo scoperto

Olbicella, Frazione di Molare (AL) - Fonte: Wikipedia

Tra tutti coloro che hanno combattuto nelle fila partigiane Domenico Lanza occupa senza dubbio una posizione di primo piano, non soltanto per l’eroico e altruistico modo in cui accettò la morte durante un durissimo combattimento col nemico ma anche per il carisma e l’enorme personalità che sempre lo contraddistinse.
Nacque a Savona il 16 aprile 1909 (da G.B. e Pasqualetto Emma) e dopo aver conseguito il diploma di ragioniere si dedicò all’attività giornalistica. Chiamato al servizio militare nel gennaio 1929 e ammesso alla Scuola Allievi Ufficiali di Campobasso, terminato il Corso fu nominato Sottotenente e assegnato al 38° Reggimento Alpini. Quando venne congedato, nel gennaio 1930, riprese la sua attività professionale.
Venne richiamato alle armi alla vigilia della seconda Guerra Mondiale e con il grado di Tenente fu assegnato al settore di copertura di Taggia (Imperia).
Nel giugno 1940 partecipò alle operazioni belliche sul fronte occidentale e il 19 gennaio 1942 fu trasferito al 41° Reggimento Alpini che operava in Dalmazia e Montenegro per reprimere la locale guerriglia partigiana.
In seguito a malattia venne rimpatriato e, dopo una breve convalescenza, riprese servizio a Genova nel mese di novembre 1942, assegnato prima al deposito reggimentale e poi al proiettilificio. Nel giugno 1943 divenne Capitano e fu assegnato al deposito del 21° Reggimento Fanteria del 34° Battaglione Autieri.
L’8 Settembre abbandonò l’esercito e convinse i militari della sua Compagnia a fare altrettanto e a tornare a casa raccomandando loro di non obbedire mai ai successivi bandi di richiamo.
Nei giorni seguenti l’armistizio, appostato da solo sulle alture del Passo del Turchino, sparò sulle truppe tedesche in movimento. <53 Alla fine del mese di novembre fu arrestato dai tedeschi a Fabbriche e in seguito rilasciato. Venne poi di nuovo arrestato a Palo (Savona), ma ai primi di maggio riuscì a evadere e a rifugiarsi in una cascina situata tra Montichiaro e Denice.
Da lì entrò in contatto con elementi del CLN ligure e andò a far parte di un piccolo gruppo di ragazzi disertori attestati sulle alture tra San Luca e Pian Castagna.
Assunse il nome di battaglia di “Mingo” (come diminutivo di Domenico) e insieme a quei ragazzi diede vita al “Gruppo Celere Autonomo Mingo”.
Moltissime furono le azioni che la sezione “Volante” intraprese ai danni delle forze nazifasciste.
Il Capitano godeva della stima e del rispetto non solo degli uomini cui era a capo ma di tutti quelli che lo conoscevano: basti pensare che dava del “tu” a tutti (Commissari Politici compresi) mentre da tutti riceveva del “lei” <54.
Nella sua formazione, sia quando contava meno di una decina di elementi sia quando, nel settembre 1944, era arrivata a circa 70 uomini, vigeva una disciplina di stampo prettamente militare.
Il rispetto verso la sua persona non derivava certamente soltanto dall’età (era di circa una quindicina d’anni più anziano degli uomini che comandava) o dal suo ruolo di Comandante, ma dall’evidenza di essere un uomo coraggioso con idee molto chiare. Non affrontò mai discussioni politiche anche se, dovendo probabilmente accettare la situazione, permetteva che tra i suoi uomini si parlasse delle idee di Mazzini. Riteneva infatti che non la politica ma la preparazione militare dovesse essere il pane quotidiano di uomini impegnati nella guerriglia antifascista e antitedesca.
Anche grazie all’esperienza che il Capitano aveva accumulato nel periodo in cui prestò servizio nell’esercito a repressione dei partigiani Jugoslavi, egli riteneva che la guerriglia partigiana dovesse basarsi esclusivamente su attacchi improvvisi e veloci ripiegamenti.
Soprattutto dall’estate ’44 la zona compresa tra la statale Ovada-Passo del Turchino e quella Acqui-Sassello-Colle del Giovo era sotto il controllo delle formazioni partigiane che quasi ogni giorno compivano azioni di guerriglia contro i mezzi nemici in transito sulle linee ferroviarie e su quelle stradali.
I tedeschi si spinsero più volte nella zona in questione devastando e distruggendo le cascine dei contadini che aiutavano i partigiani, ma ciò non garantì mai la sicurezza per i mezzi in transito che continuarono sempre a subire perdite di uomini e materiali. <55
Fu allora che i tedeschi prepararono un piano volto alla completa distruzione delle formazioni partigiane dislocate sulle alture e cominciarono il 7 ottobre a Bandita.
In occasione della riunione (avvenuta l’8 ottobre in località Garrone) tra i comandanti dei vari distaccamenti Mingo ribadì ancora una volta il suo pensiero. Secondo la sua opinione troppo grande era la differenza tra le forze tedesche e quelle partigiane per quanto concerneva l’armamento, l’organizzazione e il numero degli uomini, per poter pensare di affrontare apertamente i tedeschi con qualche possibilità di vittoria. Certo dell’imminente azione tedesca, nella serata del 9 ottobre Mingo lasciò il Comando di Olbicella (nella neonata Divisione Unificata Ligure-Alessandrina aveva assunto il grado di Capo di Stato Maggiore, da alcune documentazioni Vice Comandante) per raggiungere i “suoi” uomini dislocati a Pian Castagna e, pur non essendo assolutamente d’accordo con la linea adottata dal Comandante Doria (deciso a respingere il nemico) riuscì a bloccare i tedeschi.
Lo scontro cominciò verso le ore 6.30 e dopo pochi minuti il Capitano Mingo si espose allo scoperto; mentre lanciava bombe a mano contro l’autoblindo in testa alla colonna nemica, pur bloccando il mezzo, venne colpito al torace dai colpi sparati da una delle mitragliere di bordo.
Domenico Lanza morì verso mezzogiorno, ma lo scontro terminò solo verso le ore 16 per il sopraggiungere dell’oscurità, che costrinse i nazifascisti a rientrare alle proprie basi.
A battaglia ancora in corso, qualche tedesco si avvicinò a Mingo con l’intenzione di finirlo, ma il Comandante tedesco lo impedì e, nel rendergli gli onori delle armi mentre spirava, sembra che abbia detto: “È un ribelle, ma è un ragazzo coraggioso”.
Il suo corpo fu trasportato dai tedeschi nella chiesetta di Pian Castagna.
Questa la motivazione della Medaglia d’oro al valor militare che gli venne conferita:
“Ufficiale fiero e deciso, si distingueva nel corso della lotta di liberazione per alte doti organizzative, valore di combattente, capacità di animatore e di capo. Uso ad agire con estremo ardimento, attaccava la testa di una colonna motocarrata tedesca, incendiando il primo autocarro con lancio di bombe a mano. Ferito a morte dalla violenta reazione di fuoco, trovava ancora la forza per impugnare la sua pistola ed uccidere due nemici prima di esalare l’ultimo respiro. Questa estrema, coraggiosa decisione si imponeva all’ammirazione degli stessi tedeschi che rispettavano ed anzi trasportavano e componevano il corpo del caduto.
Olbicella (Alessandria), 10 Ottobre 1944”. <56
[NOTE]
53 G. FRANZOSI - L. IVALDI, Sulle strade dal nemico assediate - Le medaglie d'oro della Resistenza Alessandrina, Il Quadrante, Alessandria, 1983, p. 73
54 Testimonianza di ALDO IVALDI "DICk", raccolta dall'autore in VHS.
55 G. FRANZOSI - L. IVALDI, Sulle strade dal nemico assediate - Le medaglie d'oro della Resistenza Alessandrina, Il Quadrante, Alessandria, 1983, pp. 73-76
56 G. FRANZOSI-L.IVALDI, Sulle strade dal nemico assediate - Le medaglie d'oro della Resistenza Alessandrina, Il Quadrante, Alessandria, 1983, pp. 73-76
Andrea Barba, Il Capitano Mingo e la Resistenza nella Valle dell’Orba, ANPI Molare (AL) - Memorie dell'Accademia Urbense (nuova serie) n. 47, Ovada, 2001


“L'operazione di rastrellamento venne condotta dalle milizie tedesche attraverso due direttrici: la prima dalla strada Molare - Olbicella e l'altra dalle strada Acqui Terme - Piancastagna - Sassello. Il 10 ottobre 1944 alle cinque del mattino le vedette appostate sulle alture di Madonna delle Rocche diedero l'allarme: una ventina di automezzi, all'interno di ognuno dei quali circa una trentina di soldati armati sino ai denti, stava attraversando la frazione”. Dopo i combattimenti del 10 ottobre la Divisione unificata “Ligure-Alessandrina”, dispersa dalla ferocia nazifascista, era ridotta a poco più di un centinaio di uomini, un terzo degli effettivi del settembre 1944, mentre delle quattro brigate attive, solo la “Buranello” si mostrava minimamente efficiente [...]
Redazione, Olbicella e Piancastagna: si ricorda la battaglia simbolo della Resistenza, ovadaonline, 5 ottobre 2016 
 
[...] Il 10 ottobre 1944 alle cinque del mattino le vedette appostate sulle alture di Madonna delle Rocche diedero l'allarme: una ventina di automezzi, all'interno di ognuno dei quali c'era circa una trentina di soldati armati sino ai denti, stava attraversando la frazione.
La figlia di Abele de Guz (il custode della Diga di Molare) prese la bicicletta e si precipitò in Loc. Binelle ad avvertire la squadra di partigiani appostata con la mitragliatrice Breda 37. Vennero accese le micce delle mine posizionate sul selciato stradale poco a monte di Loc. Marciazza. Non esplosero perché “Gabriele”, capitano del Genio ed incaricato di predisporre l'esplosivo, era in realtà un S.S. tedesco, infiltrato tra i Partigiani. Le truppe tedesche arrivarono indisturbate al passo delle Binelle. Qui la mitragliatrice Breda 37 aprì il fuoco sulla colonna in avvicinamento che ebbe numerose perdite. Dopo pochi minuti di fuoco serrato la mitragliatrice fu danneggiata e i tre Partigiani appostati fuggirono guadando il fiume. La colonna tedesca proseguì lentamente verso Olbicella dove risiedeva il comando operativo dei partigiani. Poco dopo l'agguato delle Binelle i tedeschi si scontrarono frontalmente con una corriera proveniente da Olbicella piena di partigiani (una quarantina). La sorpresa fu reciproca: i partigiani si aspettavano infatti una colonna tedesca decimata dalle mine e dalla mitragliatrice mentre i tedeschi erano ancora provati dalla precedente imboscata ma non certo decimati. Purtroppo i numeri giocarono un ruolo fondamentale nello scontro ove perirono sei partigiani. Giovanni Villa detto “Pancho” medaglia d'argento, riuscì correndo per i boschi a precedere l'arrivo dei tedeschi ad Olbicella e ad avvertire i compagni che si appostarono concitatamente per la battaglia. “Pino” fu il primo ad Olbicella ad aprire il fuoco contro le truppe. Una seconda colonna di tedeschi era in arrivo da Tiglieto e fu attaccata all'altezza del Rio Olbicella (Pian del Fo') da due partigiani: “D'Artagnan” e “Piccolo”. Quest'ultimi furono colpiti mortalmente dopo alcuni minuti di furiosa lotta.
Frattanto “Pancho”, “Oscar”, “Ruggero”, “Febo”, “Pulce”, “Piccio”, “Aria” ed un soldato disertore della San Marco unitosi da poco ai partigiani, ripiegarono sulle alture di Olbicella. Dopo un'ora di appostamento i tedeschi iniziarono a battere con il fuoco tutta l'area. “Oscar”, “Ruggero” e “Febo” riuscirono miracolosamente a fuggire, ma per altri sette non ci fu nulla da fare: furono presi e condotti alla chiesa di Olbicella. Qui la località molarese visse le ore più cupe della storia conosciuta. Molte case furono bruciate come ritorsione verso i contadini colpevoli di aver aiutato i partigiani. Alle 17 i sette prigionieri furono messi al muro nella piccola piazzetta tra la chiesa e l'Albergo Talin. Il plotone ormai pronto al fuoco fu fermato dall'arrivo di una vettura di un alto ufficiale tedesco. I compagni di riebbero quasi sperando nella deportazione nei campi di prigionia. Ma quando da un camion un soldato tedesco uscì con in mano una serie di corde il pensiero più atroce affiorò prepotente nelle menti dei poveretti. “Aria”, il più giovane (soli 16 anni), fu preso da parte, condotto dietro la chiesa, e barbaramente pestato a sangue. Poi, sanguinante, e non in grado di reggersi in piedi, fu condotto di peso alla piazzetta e fu costretto ad assistere all'esecuzione. I tedeschi obbligarono i sei partigiani a mettersi il cappio al collo. “Pancho” si rifiutò e sputò in faccia al suo boia mentre questi gli metteva la corda al collo. Il tedesco furente diede un calcio allo sgabello, poi col calcio del fucile vibrò un tremendo colpo sul volto del giustiziato staccandogli la mascella. L'indomani il padre di “Pancho” riconobbe il figlio dalla divisa. Si racconta che una donna, colpevole di aver soccorso un partigiano, fu costretta a dare un calcio ad uno degli sgabelli che sorreggeva la vita del partigiano.
Alla sera l'autocolonna tedesca lasciò il paese in fiamme con i sei corpi ancora appesi agli alberi. Sulla strada del ritorno i tedeschi registrarono ancora vittime a causa di una mitragliatrice appostata sulle alture. “Aria” (alias Mario Ghiglione) fu condotto più morto che vivo nella prigione di Silvano d'Orba.
La notte calò finalmente su quella terribile giornata. Ma la battaglia di Olbicella fu solo la metà di ciò che quel medesimo giorno accadde nell'alta Valle Orba. Pochi chilometri ad Ovest infatti, a Piancastagna, si consumò il tragico ed eroico epilogo del “Capitano Mingo”. [...]
Redazione, La Valle Orba. Parte 7. Il rastrellamento di Olbicella ed il Capitano Mingo, www.molare.net
 
Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre 1944, un migliaio di tedeschi e repubblichini mosse da Ovada sulla direttrice Molare - Cassinelle, con obiettivo Bandita. L’avanguardia (otto camion carichi di truppe, due autoblindo con lancia fiamma, mitragliere e mortai), arrivata al crocevia, uccise il partigiano di guardia. Superò il posto di blocco, la postazione della formazione GL e catturò sei partigiani, i quali resistettero per consentire ai compagni di allontanarsi e ripiegare verso Bric dei Gorrei. Intorno alle sette, divisi in due colonne, i tedeschi entrarono in Bandita; incendiarono più di quaranta case abitate, stalle, fienili e concentrarono gli abitanti sulla piazza. I partigiani catturati e due civili, tra cui una donna, furono uccisi uno per volta con un colpo di pistola alla nuca. Il Comando della Divisione Ligure - Alessandrina, assestato nella zona compresa tra San Luca di Molare - le Garonne - Olbicella, venne a trovarsi direttamente esposto all’azione nemica. Fu stabilita una linea di difesa sistemando, in contrasto con i principi di dinamicità e mobilità della lotta partigiana, i distaccamenti a difesa dei vari settori. Lungo il tratto nord della rotabile di Olbicella fu predisposto il minamento della strada e dislocato un distaccamento con il compito di precludere l’accesso al paese. Nel settore ovest, un contingente di un centinaio di effettivi, comandati da Domenico Lanza “Mingo”, venne posto nella zona del bricco di Pian Castagna con l’obiettivo di fermare gli attaccanti al bivio delle rotabili provenienti da Sassello e da Acqui. A levante dell’Orba, nella zona delle Garonne, fu piazzato un distaccamento per impedire il transito delle truppe sulla rotabile che dalla strada Rossiglione - Tiglieto portava alle Garonne e, sul versante opposto, a Olbicella. La zona sud fu posta sotto il controllo di un distaccamento di circa cinquanta uomini con il compito di pattugliare la zona di Tiglieto e segnalare eventuali movimenti nemici. Le truppe tedesche e repubblichine si mossero da quattro direzioni per convergere su Olbicella. Una colonna partì da Ovada diretta a Molare - San Luca. Due colonne partirono da Acqui: una in direzione Visone - Grognardo - Morbello con lo scopo di rimuovere dalla zona le bande della divisione GL “Braccini”, reduci dal rastrellamento di Bandita; l’altra verso Ponzone, Cimaferle, Toleto, Abbassi con lo scopo di eliminare le formazioni partigiane poste sulla rotabile Acqui - Sassello. Da Sassello partì una colonna con lo stesso obiettivo.
L’attacco nazifascista scattò intorno alle cinque del 10 ottobre, sviluppandosi su due principali direzioni: da nord sulla strada che da Molare portava a Olbicella; da ovest sulla rotabile che da Acqui raggiungeva Pian Castagna e sulla strada che da Sassello, attraverso la Croce del Grino, portava alla stessa località.
Nel settore nord, il funzionamento del dispositivo per far saltare le mine poste sulla strada per San Luca non funzionò per il tradimento di un capitano del Genio (infiltratosi nelle file partigiane) che avrebbe dovuto predisporlo; di conseguenza la colonna partita da Ovada proseguì la marcia senza incontrare ostacoli di sorta.
Un giovane partigiano ovadese, Giovanni Villa “Pancio”, correndo attraverso i boschi, raggiunse Olbicella e informò il commissario dell’incombente pericolo, salvando, in tal modo, gli uomini del Comando divisionale e quelli preposti al servizio di Intendenza.
All’arrivo delle truppe, la sede del Comando fu devastata e “Pancio” catturato assieme a sei compagni. Dal paese i nazifascisti asportarono tutto ciò che ritennero utile, razziarono il bestiame, incendiarono buona parte delle case e cascinali e prelevarono decine di civili come ostaggi.
Intorno alle cinque del pomeriggio, i prigionieri, rinchiusi in Chiesa (dopo che i tedeschi fecero uscire i civili lì rifugiatisi), furono tradotti in piazza e impiccati.
Mentre a Olbicella il rastrellamento era in atto, una squadra della colonna proveniente da Acqui si staccò alla volta di Toleto, dove saccheggiò e incendiò abitazioni civili. Tornata al bivio, si affiancò ai reparti provenienti da Sassello e congiuntamente marciarono verso Pian Castagna.
I partigiani di “Mingo” disposti a piccoli nuclei sulle alture, bloccarono la colonna e resistettero sino all’esaurimento delle munizioni; quindi, coperti dal comandante Lanza, si disimpegnarono, mettendosi in salvo.
Nello scontro caddero otto partigiani, tra cui il savonese Domenico Lanza. I caduti del rastrellamento di ottobre furono in totale trentacinque
[...] A “Mingo” il 16 novembre 1944 fu intitolata la Divisione Ligure-Alessandrina.
Redazione, 7-10 Ottobre 1944..., ANPI Savona

lunedì 16 maggio 2022

La Genova di un poeta inglese contemporaneo

Genova: Sottoripa

Decine di poeti del Novecento hanno scritto versi su Genova; e poeti assai importanti e tra loro assai diversi: da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi a Dino Campana, da Camillo Sbarbaro a Giorgio Caproni, da Nicola Ghiglione a Giuseppe Conte, in un elenco assai lungo nel quale figura poco presente proprio Eugenio Montale, che ha preferito raffigurare le Cinque Terre piuttosto che la sua poco amata città. A questo ricco campionario, dal quale non mancano neppure nomi stranieri, soprattutto francesi, come Valéry, Rimbaud e Frénaud, ma anche lo svizzero Heinrich Leuthold, ora si aggiunge l’inglese Julian Stannard, che ben si distingue da chi lo ha preceduto. Intanto la sua Genova è vista con gli occhi di un ventiduenne che vi capita (nel 1984) per farvi il lettore d’inglese, ovviamente con pochi quattrini in tasca e perciò accasato nel centro storico (“cercavo la zona più miserabile / della città, sicché affittai una stanza / a Sottoripa”), dove, vedi le coincidenze, andò a vivere circa un secolo prima un altro giovane venuto a Genova per frequentare l’Università: Filippo Tomaso Marinetti. Ma nulla di futurista in Stannard, semmai qualcosa di scapigliato e di irriverente, tanto da parodiare il poeta di Genova per eccellenza, Caproni, sia scrivendo con 'Città di angeli malefici' una sua versione della celebre 'Litania', sia ironizzando sul caproniano Ascensore (“Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso, / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto”): “Quando andrò all’inferno / prenderò la funicolare di Sant’Anna. / Starà ferma ad aspettarmi nel semibuio di una sera” (La funicolare di Sant’Anna).
La città raccontata da Stannard nelle sue cinque sillogi inglesi (2001-2016), e nell’elegante (e finemente illustrato) volumetto bilingue 'Sottoripa. Poesie genovesi' a cura di Massimo Bacigalupo, è prevalentemente circoscritta ai “carruggi” (“I cani dormivano nei carruggi / e nessuno li avrebbe svegliati / con un bacio”), nei suoi ambienti emblematici come quel Caffè degli Specchi già ritratto da Campana o in vico Casana o in via Mascherona o in vico Angeli, ma anche con il piacere di una passeggiata in via Balbi “tra palazzi di gloria e virtù eterna”, con un salto “all’ultimo piano di una casa altissima”, verso villa Gruber, dove “a volte i pappagalli più improbabili si posavano sui davanzali”, per ridiscendere al mare, a San Giuliano (che pure all’inizio del Novecento aveva ispirato Guido Gozzano), dove “c’è un vecchio bar e una baracca / e qualche tavolo e poco altro / di elegante sulla spiaggia”.
Genova presentata in piccoli episodi autobiografici, in un intreccio costante di vicende pubbliche e private, con il tono minimalista (“Un piattino di fritto misto. / Me ne dai un po’?) e scanzonato, di chi dichiara sin troppo esplicitamente che i suoi versi non hanno pretese: “Ero il tuo anglosassone sbronzo / nel tuo bel labirinto italiano / e quando stavo seduto sulla tua soglia di marmo / mi hai dato un ceffone e un bacio” (Stucco).
Epperò “scanzonato” ha la sua origine da “canto” e allora se mettiamo insieme questi testi ci accorgiamo di avere sotto gli occhi un vivace e articolato canzoniere, ravvivato da ironia e paradossi con un abilissimo tocco nel trasformare luoghi senza storia in luoghi fondamentali della propria storia, che è la storia di un giovane che alterna un divertito tono quasi goliardico (“Tu eri scesa al mercato del pesce / a prendere un polpo, / poi lo raschiavi e cucinavi. / Dovevo mangiare, / il polpo mi gocciolava dal mento”) con le grandi gioie (“E più tardi dopo il trasloco in un altro quartiere / ci trovammo a camminare tra mucchi di arance, / che erano qua, erano là, chissà, / e mi hai detto: Sai, avrò un baby”) e con la disperazione delle delusioni più nere, come quella per un matrimonio naufragato: “Dopo anni di silenzio / la mia ex moglie mi manda / un salame per posta”.
Un canzoniere, appunto, godibile e del tutto unico, nelle cui pieghe, tra surreale e normale, tra vicoli e spazi aperti verso il mare (nelle felici escursioni verso levante, dalla Rapallo montaliana, dove “prenderò un caffè con Eusebio”, a Bogliasco sulla cui spiaggia il poeta trova “tappi, tappi, tappi, / sassi grigi e anche rossi più piccoli / alghe secche, pattume soprattutto e / qualcosa che una volta stava appeso a un albero / Ah sì, anche un paio di labbra”), Stannard ritrae tutto il mondo interiore di una giovane generazione senza confini che vuole vivere con passione il suo tempo, viaggiare e amare, vuole conoscere e riflettere, vuole sbagliare e rinascere, e di tutta questa vitalità Genova è lo scenario perfetto: “Amore, hanno sparso luci d’oro sulla nostra piazza… Noi li spiavamo, nudi e infoiati. / Torna a letto, hai detto. / Allora mi accorsi che non avevamo un letto” (Piazza della Posta Vecchia).
Francesco De Nicola, La Genova scanzonata di Julian Stannard. Con una poesia inedita in Viaggio in Liguria. Studi e testimonianze - Atti del Convegno di Studi Accademia Ligure di Scienze e Lettere - Palazzo Ducale Genova, 19 novembre 2019 - a cura di Massimo Bacigalupo e Stefano Verdino, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova, 2020

Sottoripa è un luogo da poeti. O meglio, lo è tutta Genova, visto che il poeta e docente inglese Julian Stannard, che all'ateneo genovese ha lavorato ed ora insegna scrittura creativa a Winchester, ha scelto la città come fonte di ispirazione. E il risultato è la raccolta "Sottoripa. Poesie genovesi" edita da Il Canneto (112 pagine, 13 euro, testo inglese a fronte) a cura di Massimo Bacigalupo. Un dialogo con la città e con quel mondo particolare che è il centro storico in forma di poesia, che si articola anche negli incontri con le persone che quel mondo vivono. Non a caso Stannard, rientrato in Inghilterra, pubblica nel 2001 Rina's war, in cui si trovano questi versi: "Cercavo la zona più miserabile / della città, sicché affittai una stanza/a Sottoripa e vissi con/un iraniano per sei mesi pazzi". Scrive Bacigalupo: "Julian Stannard aveva scoperto la sua voce disincantata e umorale, blandamente retrospettiva, e il suo argomento, Genova, un luogo in bianco e nero, cadente, sfatto, con accensioni e rivelazioni, la vita della piccola criminalità, la solidarietà fra sopravvissuti in un mondo senza pietà, forse senza niente, salvo l'insopprimibile stranezza del reale. Che è vita".
Ma ci sono anche ritratti veloci come Vico Casana: "Che bello/ vedere la tripperia,/un'eredità della gastronomia medievale/.
Soziglia era infatti una volta/ il macello della città/. Che nausea mi veniva/ quelle fredde mattine prima dell'alba/. Ci passo davanti in fretta,/ rallento un po',/ uno strano piacere, improvviso e inodore" [...]
d.al., Un inno d'amore a Sottoripa e ai vicoli nelle rime di Stannard, la Repubblica, 5 settembre 2018

venerdì 13 maggio 2022

Con l’innalzarsi della febbre razzista gli ebrei diventano giudei...


Che cosa ci raccontano, dei loro autori, questi libri sulla Palestina dei tempi del Mandato? Per rispondere possiamo dividere il “gruzzolo” editoriale fin qui messo insieme in tre filoni: quelli dei pochi autori ebrei (italiani e stranieri), forse troppo benevoli, con l’eccezione di Faragó; quelli dei due autori cattolici filoebrei e filosionisti, entrambi giornalisti: il francese Albert Londres e il triestino Mario Nordio, che scrive per un giornale fondato e posseduto da un ebreo (Nordio è certamente un più convinto simpatizzante sionista di Londres e la sua critica a una certa prosopopea degli ebrei dell’yishuv è blanda, soprattutto rispetto a quella di altri suoi colleghi); e infine gli altri, cioè quasi tutti: gli antiebrei e/o antisionisti, diventati, dopo il 1938, antisemiti, sui quali è bene soffermarsi più a lungo.
A questo proposito M. Sarfatti <163 scrive, citando R. Bonavita, che “fin dalla prima metà degli anni Trenta la narrativa di consumo più attenta alle necessità della propaganda attesta la presenza di una mentalità razzista”: <164 lo stesso appunto lo si può fare per i testi più dichiaratamente politici. Va detto onestamente che invece, nel campo della saggistica, veri e propri attacchi di stile razzista non ce ne sono almeno fino alla fine del 1937, <165 anche se un accenno al tema della razza - nonché l’uso di questa parola - affiora in moltissime pagine, a volte con una notevole acrimonia, senza peraltro che sottintenda un’inferiorità genetica. Un esempio su tutti: che cosa avrà voluto dire Troni quando scriveva: “[…] mercanti ebrei vi offrono, guardandovi con gli occhi cetacei, delle magnifiche perle orientali… di fabbricazione americana”? <166
Diverso il discorso sul versante dei religiosi perché, come scrive la Matard-Bonucci, “all’interno del clero negli anni Venti e Trenta non mancavano gli avversari dichiarati degli ebrei” <167 (lo vedremo analizzando i singoli titoli). Ci sono dunque frasi decisamente ingiuriose uscite non solo, e “comprensibilmente”, dalla penna di frati dei vari ordini presenti o no in Terra Santa, <168 ma anche da quella di alcuni cosiddetti laici, come Paribeni, il quale si lascia andare a frasi di questo genere: “E invano i vittoriosi Cristiani fecero per secoli pesare tutta la loro abominazione sui maledetti uccisori di Cristo […]”. <169
Da sottolineare, tuttavia, la non celata simpatia venata di compassione di alcuni autori, soprattutto quelli dichiaratamente osservanti, per gli arabi palestinesi. In tal modo i pellegrinaggi “religiosi” finiscono col diventare, in un certo senso e involontariamente, anche “politici”.
Molti scrittori fanno poi cenno, parlando della visita alla città di Gerusalemme, alla questione del Cenacolo, edificio conteso da tutte e tre le popolazioni residenti: gli ebrei e i musulmani perché affermavano essere stato costruito sulla tomba di David, i cristiani perché è il luogo dove si svolse l’ultima cena di Gesù; i musulmani, alla fine, l’avevano trasformata in moschea, modificandola anche dal punto di vista architettonico. A questi si aggiungono “i diritti dei re d’Italia sul Cenacolo”, come suona appunto il titolo dell’articolo dell’ambasciatore W. Maccotta. <170 Solo Vercesi, Monasterolo e Besozzi si soffermano, con una malcelata punta di polemica, sulla visita “da pellegrino” (ma non solo!) di Umberto di Savoia nel 1928. <171
Altro motivo di meraviglia, quando non di sdegno o sgomento o esplicito ribrezzo, sono gli ebrei dell’Europa orientale che, fuggendo a migliaia dalle persecuzioni polacche, russe e tedesche, si accalcano nei locali di infima classe di navi - in genere quelle del Lloyd Triestino, le più economiche <172 - che man mano che si avvicinano alla fine degli anni Trenta hanno la prima classe sempre più deserta <173 e l’ultima sempre più affollata.
Chi, come accennato, non arriva a Haifa o a Giaffa direttamente in nave vi arriva dall’Egitto grazie alla ferrovia che i tedeschi hanno iniziato a costruire tra la fine dell’Ottocento e il 1917 partendo da Alessandria e che l’Inghilterra completa nei primi anni Venti. <174 Su questi convogli, invece, di immigrati ebrei ce ne sono pochissimi. Un unicum è il viaggio in idrovolante da Brindisi a Haifa di p. Bacci.
Vi è poi una caratteristica comune a quasi tutti gli autori: senza distinzione alcuna, ebreo è sempre sinonimo di sionista, <175 e i due termini sono appunto intercambiabili anche quando si parla degli ebrei che sono rimasti in Europa o in America. E nemmeno nell’ambito degli ebrei sionisti si fa una pur vaga distinzione tra le varie realtà: in primis quelli che emigravano spinti dalle persecuzioni (prima dall’Europa orientale e poi, dai primi anni ‘30, anche dalla Germania), poi quelli che, a parole o con denaro, aiutavano a far conoscere e praticare il sionismo restando nel proprio Paese. <176 Né si fa cenno agli ebrei dichiaratamente antisionisti, tali per sano realismo o, soprattutto, per fedeltà alla nazione di cui sono cittadini da secoli (come, per esempio, gli ultraortodossi palestinesi, leali sudditi ottomani <177), o a quelli semplicemente indifferenti, i non-sionisti.
Con l’innalzarsi della febbre razzista gli ebrei diventano, con un termine dal sapore decisamente spregiativo, “giudei”.
È comunque opinione di tutti che gli ebrei non riusciranno mai nell’intento di costruire un proprio Stato, sia per l’opposizione violenta degli arabi, di cui si era visto l’effetto nel corso delle rivolte del 1920-22, 1929-30 e 1936, <178 sia per quella, meno violenta ma ormai visibile, degli inglesi. <179 Come scrive Vercesi, “la potenza mandataria infatti ha mille mezzi a sua disposizione per frustare [sic: voleva dire frustrare, il lapsus è più che freudiano…] il successo sionista nonostante tutti gli appoggi dei correligionari esteri”. <180
Da rimarcare infine che la maggior parte degli autori scrive un solo libro sulla Palestina. Fanno eccezione Tritonj, Giannini, Ambrosini e p. Baldi. È pur vero che Almagià era tornato più volte sul tema della Palestina, e solo da un punto di vista scientifico, anche se di monografia vera e propria c’è solo quella del 1930 edita da Morpurgo, essendo, gli altri scritti, volumi tratti da corposi articoli scritti per riviste geografiche. I motivi sono sostanzialmente due: il fatto di essere ebreo, anche se, a quanto sembra, poco o punto sionista, <181 e quello di essere un valente geografo, per di più specialista proprio del Levante mediterraneo.
Quanto agli altri autori, Giannini e Ambrosini trattano più volte, spesso autocitandosi, il tema palestinese, soprattutto in quanto giuristi e docenti universitari interessati ad aumentare, per motivi di prestigio e concorsuali, la loro lista di pubblicazioni; il terzo, p. Baldi, decisamente antiebreo, con le sue martellanti opere rivela di avere finalità politiche oltre che religiose, e si sa: gutta cavat lapidem… <182
Degli autori presenti in questo elenco, ben 8 figurano tra i firmatari del “Manifestodella razza”, pubblicato su “Il popolo d’Italia” il 14 luglio 1938: Acito, Barduzzi, Cecchelli, Cipolla, Misciattelli, Paribeni, Sottochiesa, Tritonj. C’è forse da stupirsene?
Naturalmente non è questo il luogo per discutere sui meriti letterari di tali pubblicazioni, ma mi si permetta di segnalare almeno la sciatta e roboante retorica di quasi tutti, <183 condita da un sovrano disprezzo per la grammatica e la sintassi. Senza parlare poi delle infinite storpiature dei nomi di luogo e di persona: per esempio, il povero generale Allenby, il conquistatore di Gerusalemme, si trova spesso immortalato come Allemby, per analogia con la regola tutta italiana che davanti a /m/, /b/ e /p/ non va mai la /n/… E da generale si trasforma spesso in maresciallo, quando non addirittura in colonnello. Pochi, in proporzione, i veri e propri refusi.
Ricordo poi che in questa sede non ho preso in considerazione numerosi libri, alcuni anche per le scuole, che trattano da vari punti di vista (storico, scientifico ecc.) il mondo degli ebrei, italiani e non, così come quelli puramente narrativi. <184
[NOTE]
163 M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista - Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000, p. 149. La tesi di Bonavita è parzialmente in contrasto con quanto afferma lo stesso Sarfatti poche pagine prima.
164 Per esempio, nel 1932 le altrimenti ignote Edizioni «Sbaraglio» editano il romanzo di un non meglio identificato M.M. Sala intitolato Russia & Israel - Tra le spire della Sacerdotessa, di ben 552 pagine fitte fitte, onestamente illeggibile. Il libro è ampiamente commentato da V. Pinto in La terra ritrovata. Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento, La Giuntina, Firenze 2012, pp. 56-58.
165 Come scrive M. Sarfatti, cit., p. 129, “L’equazione ebrei = razza aveva iniziato a diffondersi nella dirigenza del partito e del paese” appena nel 1937. Le descrizioni degli arabi, seppur guardati un po’ dall’alto a causa della loro arretratezza culturale, economica e morale, non sono venate di razzismo, quanto piuttosto di compatimento.
166 A. Troni, Palestina, Palermo 1937, p. 27. Il corsivo è mio. Potrebbe ipotizzarsi un macroerrore di stampa, anche se non si riesce a risalire all’aggettivo originale.
167 M.A. Matard-Bonucci, cit., p. 47.
168 Quasi tutti i libri sulla Palestina firmati da frati e sacerdoti portano ben visibile l’imprimatur del rispettivo Superiore, segno che le gerarchie religiose ed ecclesiastiche non trovavano nulla di strano in frasi come queste di Ciuti: “Intelligenti, calcolatori, attivi, animati dal sentimento naturalmente egoistico, di non usare scrupoli nelle relazioni con tutte le genti […] gli ebrei sono arrivati dall’epoca della Rivoluzione ad oggi a possedere magnifiche Sinagoghe in tutte le Metropoli del mondo, a dominare la finanza internazionale, a conquistare nelle società odierne, una posizione materiale tanto invidiabile quanto miseranda era prima.” “[…] L’oro di cui scarseggiano [i musulmani] è somministrato a quelli dai ricchi ebrei della plutocrazia internazionale, per l’amore ai loro correligionari, per solidarietà di nazione o, se meglio vi piaccia, di stirpe […]” (pp. 154-155). Manca solo l’accusa di essere tutti massoni… Il libro è del 1925, dieci anni prima che Mussolini introducesse la triplice censura - prefettura, polizia, ufficio stampa del duce - anche se siamo certi che questa non avrebbe avuto niente da eccepire su simili affermazioni, anzi. Cfr. M. Sarfatti, cit., p. 95. Scrive Molinari, cit.: “[…] i sentimenti antiebraici in Italia erano perlopiù fatti propri dalle pagine di Civiltà Cattolica [la rivista ufficiale dei Gesuiti, nda], la cui presa sull’opinione pubblica non era all’epoca delle maggiori” (p. 103). Quest’ultima osservazione è forse un po’ troppo ottimistica, a mio parere.
169 A p. 71. Curiosa coincidenza che i più famosi cultori dell’archeologia cristiana e della storia del Cristianesimo di quel tempo, Carlo Cecchelli e, appunto, Paribeni, fossero entrambi antiebrei e poi antisemiti. Sull’attività politica di Paribeni “dal 1923 consulente del ministero degli Esteri per le missioni scientifiche in Levante e convinto sostenitore dell’espansionismo italiano nel Mediterraneo orientale”, si veda L. Rostagno, cit., passim. È curioso che a Roma il Nostro avesse scavato e poi pubblicato la catacomba ebraica di via Nomentana e le iscrizioni del cimitero ebraico di Monteverde.
170 La storia e i motivi della controversia sono ben riassunti da Vercesi nel suo libro, ma si veda soprattutto il saggio di G.W. Maccotta, “I diritti dei re d’Italia sul Cenacolo”, pubblicato nel 1938 nella rivista “FERT”.
171 Il primo intervento sulla questione del Cenacolo, apparso subito dopo la fine della guerra, è stato quello di C. A. Nallino, Sull’infondata leggenda della “Tomba di Davide” sottostante al San tuario del Cenacolo in Gerusalemme, Bocca, Torino 1919, citato da S.I. Minerbi in L’Italie, cit., pp. 194, 195 e 275; Vercesi, cit., pp. 154-55. Anche Besozzi ne parla, per gli stessi motivi e gli stessi fini: cfr. A. Besozzi, Italia e Palestina, Milano 1930, p. 94, e L. Rostagno, cit., p. 83. Si veda inoltre il commento a questa visita, che si era cercato di “trasformare in una manifestazione di propaganda nazionale” in A. Giovannelli, cit., pp. 133-134 e in L. Rostagno, cit., pp. 130 e 132. Sulla “questione dei Luoghi Santi” si veda D. Fabrizio, cit. Nella bibliografia del De Mori si cita un libro a firma J. De Blasi, I Savoia dalle origini al 1900, Sansoni, Firenze 1940, un capitolo del quale, “I Savoia e la Terra Santa”, è di O. Pedrazzi (v. più avanti). Scrive la Rostagno (cit., p. 82) che “Proprio dalla sensibilità al problema dei Luoghi Santi da parte di alcuni giornalisti del «Corriere d’Italia» nacque la rivista «Palestina»”. G. De Mori, cit., pp. 131 ss.
172 Era per i francesi motivo di stupore, quando non di rabbia, scoprire che se il fiume di profughi non partiva dal porto di Marsiglia ma da quello più disagevole di Trieste era perché sia il Lloyd Triestino sia le ferrovie italiane praticavano prezzi scontati dal 20 al 50% ai profughi che volevano recarsi in Palestina. Tali agevolazioni avvenivano per volontà espressa di Mussolini che nel 1933 era ancora “dichiaratamente ostile ai concetti e ai metodi del nuovo credo nazista, tanto che egli aprì le porte a circa duemila fuggiaschi ebrei della Germania e facilitò il transito per l’Italia, e particolarmente attraverso il porto di Trieste [sede appunto del Lloyd Triestino, nda], alle decine di migliaia di Ebrei dell’Europa centrale che si avviavano verso la Palestina” (A. Milano, cit., p. 395). Lo evidenziava, già nel 1920, l’inviato militare A. Levi Bianchini in un rapporto al Ministero degli esteri: “Si ritiene che ci siano grandi possibilità di monopolizzare per i nostri vapori il trasporto di emigranti per la Palestina e di aprire traffici con essa e con l’Oriente” (in S.I. Minerbi, Angelo Levi-Bianchini, cit., p.79). Cfr. anche L. Rostagno, cit., p. 240, n. 133. Si veda per esempio, sul versante francese, Cette année à Jérusalem - A travers la Palestine juive di Emile Schreiber, Parigi 1933, p. 12. Ebreo, giornalista e fondatore del giornale “Les Echos”, E. Schreiber è il padre del noto politico socialista dell’epoca di De Gaulle Jean-Jacques Servan Schreiber.
173 Relativamente pochi sono ormai i tedeschi benestanti che riescono a dimostrare di avere le 1000 sterline necessarie per poter entrare in Palestina, dal momento che i nazisti permettono loro di emigrare soltanto dopo aver fatto depositare o vendere qualsiasi ricchezza mobile o immobile ancora possiedano. Ricordiamo però che questi benestanti possono ottenere il visto di emigrazione se convertono il loro denaro in attrezzature agricole o industriali fabbricate nel Terzo Reich; in tal modo i nazisti ci guadagnano tre volte: accumulando beni di valore, aumentando l’export industriale e liberandosi degli ebrei.
174 Cfr. n. 16.
175 Con la sola eccezione di Cipolla, per il quale solo gli ebrei ortodossi che si recano a pregare al Muro del Pianto non sono sionisti, come dichiara la didascalia della foto inserita nel suo Al sepolcro di Cristo a p. 160. Sionisti sono perfino gli ebrei che vanno a fare il bagno nelle acque del Mar Morto (“Da qualche tempo a questa parte il Mar Morto è diventato, durante l’estate, la meta di comitive di bagnanti sionisti…”, p. 185). Sull’equazione ebrei-sionisti, venuta in auge a partire dalla metà degli anni Trenta, si veda anche quanto scrive R. De Felice in Storia, cit., pp. 204-220.
176 Accusati comunque di essere persone dalla doppia (e quindi dubbia) fedeltà alla patria.
177 I ḥassidim erano e sono antisionisti soprattutto per motivazioni teologiche. In quegli anni lo erano ancora di più perché vedevano messo in pericolo l’equilibrio esistente tra le loro comunità, gli arabi e i cristiani.
178 Poiché la pubblicistica legata al nostro tema si esaurisce in pratica in conseguenza della promulgazione delle leggi razziali, nessuno poteva prevedere che questa rivolta sarebbe durata, tra alti e bassi, ancora un anno, fino allo scoppio della guerra mondiale.
179 Alcuni intellettuali si spingono oltre, fino a caldeggiare il progetto di “una Palestina governata dai musulmani” come afferma L. Rostagno, cit., p. 80, ricordando il libro di E. Insabato, medico ed ex agente segreto, L’Islam et la politique des alliés, Nancy-Paris-Strasbourg 1920, pp. 194-195. Insabato (1878-1963) era soprattutto un orientalista e fu deputato nel 1924 nelle file giolittiane. Numerose notizie sulla sua poliedrica attività culturale e politica si trovano on line, ad vocem.
180 E. Vercesi e G. Penco, cit., p. 114.
181 O quanto meno un sionista scettico… In tutto il libro non si trova la parola kibbutz, e rari sono i termini kevutzah e kevutzoth. Quasi un libro è poi la voce “Palestina” da lui curata e in parte redatta e pubblicata sull’Enciclopedia Treccani, vol. XXVI, pp. 73-93, arricchita da moltissime fotografie e cartine geografiche.
182 E. Insabato, cit. Di questo personaggio, “studioso del mondo arabo, agente di Giolitti in Egitto e in Libia nel primo decennio del secolo”, scrive la Rostagno che “aveva preso in considerazione l’unità dell’unione arabo-turca, e proprio in relazione alla Palestina” (cit., p. 80).
183 Scrive R. Ben-Ghiat: “Negli anni della dittatura, infatti, gli appelli «storici» alla creazione di una letteratura italiana moderna si legarono indissolubilmente alla campagna a favore della creazione di un corpus di opere riconoscibilmente fasciste”, cioè di stile dannunziano… (cit., p. 67).
184 Di questi ultimi scrive in particolare V. Pinto, La terra ritrovata, cit.
Marilì Cammarata, La Palestina del Mandato nell’editoria italiana 1918-1940, EUT Edizioni Università di Trieste, 2019

mercoledì 11 maggio 2022

Piazza Fontana: ricordare di non dimenticare


III.6.2. I silenzi degli innocenti, a cura di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo
Nel sottotitolo scrivono gli autori: «Sono le vittime di trent'anni di violenza, da Piazza Fontana a oggi. Dopo anni di silenzio, la parola finalmente a loro: a chi non ha mai avuto modo di raccontare la verità». <75
Perché di silenzio? Perché è il silenzio è il comune denominatore di venti storie, tutte dedicate alle vittime del terrorismo degli “anni di piombo”, che fece quasi 600 morti e 5.000 feriti. Un silenzio che deve essere spiegato.
Il libro inizia con una di queste testimonianze, che lascia di ghiaccio il lettore:
«Signore, vorremmo raccontare la sua storia».
«La mia storia! Quale storia?»
«La sua... Lei ha perso una persona cara in piazza Fontana...»
«Piazza Fontana? E cos' è successo in Piazza Fontana?»
«Non starà mica scherzando? La bomba nella Banca dell’Agricoltura... il 12 dicembre 1969, 17 morti, decine di feriti...»
«Sto scherzando, io? Lo Stato ha detto che non esiste un colpevole, dunque nessuno ha messo la bomba, dunque non c'è stata nessuna strage, dunque io non ho una storia da raccontarvi. Per favore, lasciatemi in pace! Non è successo niente, proprio niente, il 12 dicembre 1969». <76
I due autori ammettono che non è stato per niente facile raccogliere le parole di familiari e amici di vittime delle stragi nere e del terrorismo rosso, storie di sofferenza, storie di rabbia. Nel caso di Piazza Fontana è stato addirittura impossibile.
Storie spesso raccontate a bassa voce, tenute rinchiuse nell’ambito familiare, storie che faceva male raccontare o che si vergognavano a narrare, storie che nessuno aveva voluto mai conoscere. <77 Come quella della madre di una vittima della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 che si è fatta suora di clausura; quella di un nonno di due ragazze anche loro morte a Bologna che si è suicidato per protestare contro l’inoperanza dello Stato; quella di un dirigente della Democrazia Cristiana milanese, ferito dalle BR, che vorrebbe spiegare il suo punto di vista sul perdonismo facile, ma non trova spazio sui giornali. Tutti esempi di silenzio, tutti diversi, come anche le reticenze dei colpevoli, l’omertà degli ex-terroristi che non denunciano i loro complici o il silenzio colpevole dello Stato, che continuava a custodire nei suoi archivi i documenti che avrebbero potuto far luce sui tanti punti oscuri di quegli anni.
Gli autori di questo libro si propongono di dar voce a queste storie e a questi testimoni, tutti differenti, per età, ideologia, scelte di vita ecc., ma tutti accomunati dalla protesta verso lo Stato e verso il mondo dell'informazione. Il primo raramente ha fatto giustizia e si è spesso dimostrato più preoccupato della reinserzione degli ex-terroristi nella società che della tutela delle vittime e dei loro familiari. <78 Il secondo ha spesso trasformato gli ex-terroristi in personaggi mediatici. <79 Ciò ha fatto sì che questa volta la storia la scrivessero i vinti e non i vincitori. Fasanella e Grippo vogliono far sentire coloro che hanno chiesto, senza essere stato ascoltati, «il riconoscimento dello status di vittima, una pensione, un nome in più su una targa ricordo». <80 Gli autori hanno quindi deciso di raccogliere i loro ricordi, i ricordi di quei testimoni privilegiati, presenti al momento dell’esplosione della bomba, dell’uccisione dei loro cari, o che sono stati in prima persona colpiti, feriti, gambizzati; li hanno poi rielaborati e trasformati in racconti, ma senza sacrificare il valore della loro testimonianza.
Come si è detto, tutte queste storie sono accomunate dalla protesta contro lo Stato che non è riuscito a fare giustizia, se non una giustizia parziale, perché non è stato capace di trovare la verità. <81 E allo Stato le vittime chiedono unanimemente di ridurre i termini del segreto di Stato e di declassificare i documenti per renderli accessibili agli studiosi. Ma chiedono anche al mondo dell’informazione di continuare a cercare la verità, di mostrare quella che fu secondo gli autori una vera guerra fredda in cui si misero in campo armi al limite della legalità. Non avere fatto i conti con il passato e rimuovere la verità di quegli anni ha prodotto secondo gli autori conseguenze molto gravi nella vita democratica del nostro paese: Tangentopoli, Calciopoli, Intercettopoli, Ricattopoli sarebbero infatti eredità di questo periodo e testimonierebbero l’esistenza di un pericoloso sottofondo della nostra democrazia.
[NOTE]
75 Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Milano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2006.
76 Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi..., cit. p. 5.
77 Ecco lo sfogo di uno dei testimoni, Antonio Iosa, gambizzato nel 1980 (da quel giorno dopo venti ricoveri e cinquantuno interventi, non può più vivere senza dolore):
Sono stanco di parlare al vento, di confrontarmi con dei muri di gomma. Sono giunto al punto da provare quasi imbarazzo a definirmi una vittima del terrorismo. Sì per paura di essere accusato di avere la vocazione al vittimismo o, peggio, di trasformare il mio dramma in una professione. La mia sofferenza è reale... ma il dolore fisico è niente in confronto al dolore provocato dalle ferite dell'anima. È lì, nell'anima, che continuano a spararci e a colpirci.
(Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi... , cit. p. 169 e s.)
78 Così dice Iosa in proposito:
Mi è capitato di incontrare anche qualche ex brigatista rosso. […] È successo casualmente a casa di amici comuni, appartenenti a Comunione e Liberazione. Cl ha fatto una grande opera di proselitismo verso i brigatisti nelle carceri, aiutandoli anche a reinserirsi dal punto di vista lavorativo. Per carità, non voglio dire niente, ma santo cielo! Sapete, per esempio, che fine ha fatto Mario Moretti, il capo militare delle BR, nonché organizzatore del sequestro Moro e di una serie infinita di altri attentati? Vi stupirete, forse: ha avuto dalla Regione Lombardia l’incarico di ingegnere tecnico per l’informatizzazione del carcere San Vittore. Avete capito? Attraverso una cooperativa legata a Comunione e Liberazione, l’"ingegner Borghi" del caso Moro è responsabile dei servizi informatici del carcere di san Vittore! E quando si è trattato di trovare un lavoro a mio figlio Davide, ingegnere anche lui, il posto è saltato fuori solo dalle inserzioni sul “Corriere della Sera”.
(Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi..., cit. p. 167)
Il silenzio delle vittime si oppone all’immagine mediatica degli ex terroristi. Dice ancora Iosa:
Avverto un senso profondo di solitudine. Ci hanno isolati per paura del nostro punto di vista. E hanno stretto intorno a noi un cordone sanitario di silenzio. Tutto questo, mentre le televisioni e i giornali sono piene delle versioni dei fatti fornite dai brigatisti. Versioni di comodo, edulcorate e reticenti.
(Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi..., cit. p. 169 e s.)
80 Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi..., cit. p. 6.
81 Così si presenta uno degli intervistati: «Io sono Manlio Milani, il marito di Livia, morta nella strage di Brescia la mattina del 28 maggio 1974. Da quel giorno, ogni istante della mia vita lo dedico alla ricerca della verità. Non è facile, credetemi. Ma io non desisto». Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi..., cit. p. 12.
Lilia Zanelli, Gli anni di piombo nella letteratura e nell’arte degli anni Duemila, Tesi di dottorato, Università di Salamanca, 2018

La vicenda di Pinelli e di Valpreda, capri espiatori designati su cui far ricadere le colpe degli attentati del 12 dicembre, fu una molla molto importante per la mobilitazione giornalistica: ancora una volta i Giornalisti democratici non si fidarono dei racconti della Questura e cercarono di porre un argine alle calunnie scritte sul conto dei due anarchici.
Camilla Cederna, la giornalista de L’Espresso che nei giorni di Piazza Fontana visse una sorta di trasformazione interiore e di iniziazione politica, ricordò quel cambiamento che ebbe inizio proprio con la morte di Pinelli: “il giorno dopo comincia puntualmente la campagna di intossicazione della stampa, e allora mi si rinnova dentro quella forma di giovinezza (interna) che è l’indignazione”. <28
La giornalista, diventata invisa a gran parte borghesia milanese (la sua classe sociale di provenienza) a causa di quel cambiamento, disse di aver conosciuto durante quel periodo “gente che come me faceva obiezioni morali all’uso del potere e all’ingiustizia di quanto accadeva”: <29 una comunione d’intenti che fece da sfondo alla mobilitazione che prendeva piede sui giornali e nell’opinione pubblica.
Nella ricostruzione di Piazza Fontana che abbiamo proposto emergono in tutta la loro gravità sia le contraddizioni sia le opacità che accompagnarono la vicenda, aspetti che si caricano di ulteriore inquietudine nel momento in cui vengono accostati ad articoli giornalistici che pongono domande e riflessioni elementari su quanto le versioni ufficiali affermavano.
Licia Pinelli disse: “c’è ancora da chiedersi come ha fatto a ribaltarsi tutta quella versione. Uno che non l’ha vissuto non può capire”; <30 chi non c’era non può certo avere la pretesa di sostituirsi a chi visse quella tragedia in prima persona, sarebbe ingeneroso e disonesto. Chi non c’era scorge però l’altezza di determinati valori propri dell’uomo quali l’onestà intellettuale e gli ideali antifascisti e democratici. Chi non c’era vede lo svolgersi di una sfida: da una parte una strage fatta da uomini che avevano in mente “di gettare vittime, indifferenziate e inconsapevoli, tra le ruote del carro della storia per deviarne il cammino”, <31 dall’altra donne e uomini che con la forza delle proprie idee e delle proprie parole cambiarono in medias res l’interpretazione storica del 12 dicembre non accettando versioni codine e misteri più o meno artefatti con il solo scopo di contrastare la ricerca della verità. Cercarono così di riconsegnare una dignità ai morti innocenti e offrirono ai posteri una pagina di Storia meno inquinata, fornendo un alto esempio di impegno civile: è un modo anche questo per fare memoria, per ricordare di non dimenticare.
[NOTE]
28 C. Cederna, Il mondo di Camilla, op. cit., p.220.
29 Ivi, p.221.
30 L. Pinelli - P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, op. cit., p.103.
31 G. Boatti, Piazza Fontana, op. cit., p.407.
Matteo Pedrazzini, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2012-2013 qui ripresa da Redazione, La lezione giornalistica di Piazza Fontana, 20 Novembre 2014, Lsdi