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giovedì 31 marzo 2022

Ma il ’56 si configura anche come momento di riflessione nel rapporto tra partito comunista e classe operaia


Ma in quegli anni - e cioè dalla metà alla fine dei Cinquanta, Rossanda si occupa principalmente - almeno in sede di politica culturale - di arte e teatro <206. E anche in questi ambiti segnalerà il “disgelo” che attraversa tutti i momenti culturali, come il dibattito sulla XXVIII Biennale d’arte <207, ospitato alla Casa della cultura di Milano, e in cui ad essere messo in accorta discussione è il caposaldo teorico-artistico del realismo (una posizione che attraverserà tutta la riflessione critica di Rossanda nel decennio successivo). Da Testori a De Micheli fino a Guttuso, con diverse intonazioni e accorgimenti, tutti hanno «preferito mettere l’accento sul processo positivo di “disgelo” che sta smuovendo tutte le posizioni irrigidite del dopoguerra. La cristallizzazione di ogni schema si va spezzando» <208.
Riguardo alle politiche dello spettacolo, Rossanda insiste, da un lato, verso il maggiore finanziamento statale, in particolare verso gli enti lirici; dall’altro, verso un loro più sostanziale decentramento, slegando la direzione di questi dalla centralizzazione statuale in funzione di una loro più effettiva autonomia. Si segnalano in tal senso gli articoli "Sottogoverno", e "Teatro lirico". Occorre restituire agli Enti autonomia di gestione e vincolare i sovvenzionamenti, pubblicati sui numeri 5 e 7 del «Contemporaneo» 1957. Di fronte a progetti di legge che rafforzano l’accentramento della direzione degli Enti, nonché l’affido senza vincoli dei sovvenzionamenti agli uffici direttivi dello Stato, per Rossanda «l’impostazione va rovesciata: occorre restituire agli Enti autonomia di gestione, ma vincolare rigidamente per legge entità e criteri di sovvenzionamento» <209. Entità e criteri delegati al «controllo democratico che è proprio soltanto di quelle istanze decentrate del potere statale che sono i Comuni. La soluzione “autonomistica” significa non “diminuzione”, ma aumento e pubblicità del controllo» <210.
Una posizione che stimolerà uno scambio di vedute con Roberto Scultetus, che in una serie di botta e risposta scriverà: «Chiuda i trattati, la Rossanda, e vada in giro per l’Italia […] e si renderà conto delle reali condizioni delle autonomie e capirà le preoccupazioni per l’autonomia degli Enti lirici» <211. La posta in gioco in riferimento alla più vasta tematica di politica culturale riguardava l’autonomia degli istituti di cultura. Per la Rossanda bisognava spingere verso una progressiva autonomizzazione degli enti culturali, mentre Scultetus metteva in guardia rispetto al ridimensionamento del finanziamento pubblico che - se avrebbe lasciato maggiore margine di scelta verso gli enti culturali, ne avrebbe però imposto una logica di autofinanziamento, minando le possibilità di produzione a basso costo o lontane dai principali centri urbani:
"Quanto agli italiani e alla musica, vogliamo lasciarli ancorati a quel gusto popolare del melodramma, di cui parlava Gramsci […] o vogliamo avviarli verso maggiori esigenze culturali […]? Nel primo caso basteranno le opere del più comune repertorio eseguite alla buona; nel secondo sorge invece quel grosso problema di educazione musicale nazionale, […] problema per cui un’opera di cultura ha oggi, da noi, in Italia, un pubblico recalcitrante; e a risolvere il quale non possono provvedere soltanto e troppo semplicemente gli Enti lirici. [...] È evidente come, per questa e per altre ragioni, il rapporto obbligato fra sovvenzioni e entrate dirette degli Enti appaia, da un punto di vista nazionale, quanto mai astratto e improprio" <212.
La risposta di Rossanda non si farà attendere, chiarendo l’obiettivo di fondo del progetto di legge pensato in Commissione culturale Pci: «occorre sottrarre il sovvenzionamento per il teatro al giudizio d’una commissione centralizzata, comunque formata essa sia, perché in questo caso esso diventa mezzo di direzione, di manovra o di ricatto governativo» <213. Il progetto comunista esposto da Rossanda puntava dunque a stabilire un vincolo percentuale tra sovvenzionamento e entrate dirette degli Enti, di modo che il primo fosse in proporzione alla capacità dei singoli Enti di autofinanziarsi in quota parte, attraverso l’approvazione del pubblico che, per mezzo del pagamento del biglietto d’ingresso, indicasse apprezzamento o meno della attività culturale del singolo teatro. Il vincolo sovvenzione-entrate dirette «è perciò uno dei pilastri del sistema che libera i Teatri dall’ingerenza dell’esecutivo» <214. Se, dunque, da parte di Scultetus si ricorda il contingente arretramento culturale della popolazione italiana, che favorirebbe un teatro “di massa” dai gusti necessariamente grossolani, per Rossanda il Teatro dovrebbe avere già direttamente una funzione pedagogica, di innalzamento complessivo delle capacità culturali della popolazione, che premierebbe quei teatri in grado di stabilire con il proprio pubblico un rapporto virtuoso, e quindi sostenibile anche finanziariamente.
Ritorna anche in questa polemica uno dei nodi di fondo dell’azione culturale del partito, tendente ad utilizzare l’apparto intellettuale gravitante attorno al partito in funzione, per l’appunto, pedagogica. Azione dai risultati ambivalenti: una funzione prevalentemente educativa - pure fondamentale - se non ben organizzata rischiava di limitare gli spazi della ricerca e dell’espressività artistica, come infatti lamentava una parte almeno degli intellettuali legati al Pci. Nondimeno, la posizione di Rossanda, e più in generale del Pci, trova comprensione nella battaglia comunista contro la censura democristiana, ancora invadente alla fine degli anni Cinquanta.
L’obiettivo era dunque sottrarre la produzione culturale - teatrale in questo caso - ad un centro ministeriale, che insieme alle possibilità di sovvenzionamento portava con sé un potere di controllo sovente sfociato nella repressione dei contenuti equivoci per la morale democristiana.
La questione del rapporto tra arte e politica ritorna nelle valutazioni date da Rossanda all’undicesima mostra d’arte Triennale di Milano <215. La critica verte sul cosmopolitismo artistico e sul suo uso maldestro:
"Della sua importanza negativa fanno fede oggi le esposizioni spagnole, rumene, jugoslave: tutte puntualmente basate sulla monotona trascrizione in termini di “internazionalismo” d’un paio di elementi di folclore, e per il resto su una produzione che riecheggia con maggiore o minore verosimiglianza certi generici canoni funzionali" <216.
La conclusione a cui giunge è il ritorno ad uno «studio permanente», che coincida con «il ritorno, o l’inizio?, d’una critica storicista, come non può non essere una estetica o una Kulturgeschichte marxista». Si ritorna dunque a battere il tasto dello storicismo, o del mancato storicismo, quale carenza centrale nelle difficoltà di un’estetica veramente conseguente alle necessità della politica e dell’acculturazione di massa. Ma c’è anche l’avvio, o per meglio dire la ripresa, di una critica alla cultura dei paesi socialisti che si riflette sull’idea di cultura propria del Pci. Anche in questi passaggi, per forza di cose ancora parziali e legati a occasioni particolari (la mostra d’arte, la recensione teatrale eccetera), si legge in controluce la sofferenza di una cultura eccessivamente piegata alle ragioni della politica, inevitabilmente resa prona alle contingenze tattiche, riducendosi a giustificarle.
L’elaborazione di un’alternativa praticabile avrà modo di svilupparsi in seguito, e sempre in forme parziali e forse contorte, ma il cuore della critica di Rossanda è già esplicito: la cultura socialista raramente presenta un valore culturale, limitandosi all’artificioso innesto di elementi ideologici su canoni artistici tradizionali. Questa mera sovrapposizione insterilisce il canone e impedisce la ricerca di linguaggi alternativi, ma per comprenderlo occorre, per Rossanda, “storicizzare se stessi” e i fenomeni culturali.
2.2 Cultura e classe operaia
Ma il ’56 si configura anche come momento di riflessione nel rapporto tra partito e classe operaia. Non solo la grave sconfitta della Fiom alle elezioni delle Commissioni interne della Fiat nel marzo 1955, ma anche le vicissitudini legate alle proteste popolari in Ungheria e Polonia contribuirono ad intaccare il rapporto di fiducia tra operai e Pci (un “distacco” comunque esagerato dal senno del poi, numericamente irrilevante <217).
Non ultimo, la questione intellettuale investiva frontalmente anche il rapporto tra cultura e classe operaia, problematica che Rossanda contribuì a decifrare in una sua analisi del dicembre ’57 <218. Le vicende ungheresi aprirono effettivamente una contraddizione nel rapporto di fabbrica:
"Andò in fabbrica per sospendere il lavoro in segno di lutto, secondo la decisione dei sindacati. Ma gli accadde qualcosa di mai visto. Al momento giusto, fu il padrone a far suonare la sirena: a mandare i direttori, le guardie nei reparti per invitare gli operai a uscire; il padrone che gli diceva “vieni fuori”, e gridava “viva l’Ungheria”. L’operaio si guardò in giro, e restò alla macchina. Non sappiamo pensare ad un’immagine storicamente più drammatica, del militante socialista che allora si rimise al lavoro - restituito dalla gazzarra padronale al suo posto di classe - il solo che, in un mondo uscito dai cardini, riportasse lo equilibrio di una coscienza storica reale, ed in questa una solidarietà più aspra e più profonda verso chi si batteva per il socialismo e la libertà" <219.
Di fronte alle delusioni provocate dagli avvenimenti in questione, troppo facilmente si giunse a concludere - secondo Rossanda - che il rapporto tra classe e partito si fosse interrotto, o quantomeno rovinato. Eppure, pochi mesi più tardi riprendevano le lotte, gli scioperi, una conflittualità inaspettata che rimetteva in movimento l’azione sindacale e politica del partito. Il “risveglio operaio” lasciava interdetti non solo “i padroni”: anche l’intellettualità comunista dimostrò di non cogliere in pieno una disponibilità alla lotta e alla militanza che non erano state offuscate dalla pur dura crisi successiva agli eventi di Budapest. E d’altronde, per Rossanda, «l’opacità della realtà operaia è […] una condizione pressoché permanente della nostra cultura» <220. Una opacità che per un verso è responsabilità del ceto intellettuale del paese; per un altro verso, da una «certa impermeabilità» della classe operaia stessa, dovuta a una fabbrica isolata dal resto della città e della società, e dove l’operaio in fabbrica «vive inserito in una società obiettivamente diversa dal resto della società civile, dalla quale è separato» <221. L’operaio fuori la fabbrica non si fonde, ma si “confonde” in un generico tessuto misto della società urbana, o rifluisce in quella campagna dalla quale proviene, rafforzando quella separatezza che si traduce in impermeabilità:
"Forse in questo è una ragione obiettiva della povertà della nostra letteratura di soggetto proletario. In realtà l’operaio vi entra solo quando è, dalla fabbrica, proiettato in una più ampia rete di rapporti sociali: come è avvenuto, ad esempio, nella Resistenza, che a suo modo ci dette Vittorini [o anche] Metello di Pratolini" <222.
In tempi più recenti, venuta meno la mitologia resistenziale, calato nelle dure condizioni di lavoro e di vita quotidiane, non rimane - per Rossanda - che una «descrittiva» della condizione operaia, nella quale o si smarrisce la classe, o si smarrisce la persona. Una difficoltà intellettuale che si traduce in crisi culturale complessiva, che relega la questione operaia ad altro da sé rispetto alle più riuscite prove artistiche, e che denota un limite della cultura nazionale, marxista e non. A mancare per Rossanda è la politica, l’operaio che si presenta immediatamente come militante, ed è per questo che «la sola letteratura operaia è quella della rivoluzione; il solo cinema operaio, quello sovietico dal ’20 al ’30. Il solo nostro documento di cultura operaia, o certo il più grande, l’Ordine Nuovo» <223.
Il discorso si fa dunque generale, e investe tutta la produzione scientifica nazionale d’ambito sociologico: cosa manca dunque a questa produzione saggistica per «cogliere le caratteristiche storiche del proletariato»? Manca, ad avviso di Rossanda, «uno schema interpretativo, generale, coerentemente rivoluzionario» <224. Al posto di una cultura “rivoluzionaria” si è imposta una cultura “integratrice”, che mira cioè ad integrare la classe operaia in “questo” Stato e in “questa” società. Per Rossanda è dunque la subalternità di tale cultura a rappresentare un deficit di comprensione, e che impedisce la saldatura tra fabbrica, società e cultura nazionale, lasciando di fatto separati i tre ambiti. C’è bisogno dunque, per la dirigente comunista, di una cultura organica, e la sua disorganicità segna viceversa il suo limite, la sua arretratezza.
[NOTE]
206 Riferiamo, per il solo periodo in esame, gli articoli pubblicati sul «Contemporaneo» aventi per oggetto rappresentazioni teatrali e rassegne d’arte: Baseggio e il Piccolo, n. 2, 1956; Il teatro epico. Per la regia de l’Opera da tre soldi al Piccolo, Strehler ha studiato la tecnica interpretativa del Berliner Ensemble, n. 5, 1956; La vita musicale, n. 8, 1956; Due atti unici di Ionesco, n. 32, 1956; Marivaux e Molière, n. 41, 1956; Disgelo e disordine, n. 42, 1956; Sottogoverno, n. 5, 1957; Teatro lirico. Occorre restituire agli enti autonomia di gestione e vincolare i sovvenzionamenti, n. 7, 1957; Teatro. L’ultima stanza, n. 9, 1957; I giacobini al “Piccolo Teatro”, Serie 2 n. 1 (maggio 1957); Maggiore età del Piccolo Teatro, n. 2, 1957; Il figlio cambiato, n. 4, 1957; Strehler alla Scala, n. 7, 1957; L’undicesima triennale di Milano. I nodi che vengono al pettine, n. 13, 1957; Un “nucleo” per la Triennale del ’60, n. 24, 1957; Una luna per i bastardi, n. 26, 1957; Goldoni senza lumi, n. 1, 1958.
207 R. Rossanda, Disgelo e disordine, «Contemporaneo», n. 42, 27 ottobre 1956, p. 11.
208 Ibid.
209 R. Rossanda, Teatro lirico. Occorre restituire agli Enti autonomia di gestione e vincolare i sovvenzionamenti, «Contemporaneo» n. 7, 16 febbraio 1957, p. 10.
210 Ibid.
211 “Lettera al direttore” di Roberto Scultetus in risposta a Rossana Rossanda, «Contemporaneo», n. 13, 31 marzo 1957, p. 4.
212 Ibid.
213 “Lettera al direttore” di Rossana Rossanda in risposta a Roberto Scultetus, «Contemporaneo», n. 15, 13 aprile 1957, p. 4.
214 Ibid.
215 R. Rossanda, L’undicesima Triennale di Milano. I nodi che vengono al pettine, «Contemporaneo», n. 13, 10 agosto 1957, p. 3.
216 Ibid.
217 Cfr. sul punto Ceses - R. Mieli (a cura di), Il Pci allo specchio. Venticinque anni di storia del comunismo italiano, Rizzoli, Milano 1983, pp. 7-173, soprattutto le tabelle in appendice pp. 152 ss.
218 R. Rossanda, Cultura e classe operaia, «Contemporaneo», n. 29, 7 dicembre 1957, pp. 1-2.
219 Ivi, p. 1.
220 Ibid.
221 Ibid.
222 Ibid.
223 Ivi, p. 2.
224 Ibid.
Alessandro Barile, Apogeo e crisi della politica culturale comunista. Rossana Rossanda e la Sezione culturale del Pci (1962-1965), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, 2022

mercoledì 30 marzo 2022

In Sicilia furono aperte, sin da subito, sottoscrizioni per realizzare lapidi, cippi, parchi

Palermo: Piazza Vittorio Veneto, Monumento ai Caduti in Guerra - Fonte: Palermoviva

Dopo la guerra, la costruzione di monumenti e la posa di targhe, accompagnate dalle liturgie commemorative messe in atto dalle classi dirigenti locali, divennero, anche nell’isola, la via privilegiata di ricordare i soldati che avevano perso la vita nei campi di battagli e dare testimonianza della “terribile tragedia” in una perfetta combinazione di trasmissione di pietas e senso patriottico <223.
Senza dubbio, ancora oggi nelle nostre città e nei nostri paesi, l’eredità della Grande guerra si condensa soprattutto attorno ai monumenti ai caduti, che costellano il territorio, disegnando una sorta di drammatica “geografia della memoria”. Sebbene il rischio sia di passar loro accanto con aria indifferente (specialmente perché i parenti più vicini ai combattenti sono, nel frattempo, anch’essi scomparsi e perché, dal secondo dopoguerra in poi sono mutati i parametri del gusto artistico), non possiamo non constatare che ciascuno di questi monumenti racconti una storia che è tanto significativa quanto tragica.
In Sicilia furono aperte, sin da subito, sottoscrizioni per realizzare lapidi, cippi, parchi, “Libri d’oro” e, soprattutto monumenti commemorativi dei concittadini morti o dispersi in guerra, e vennero stampati centinaia di opuscoli di necrologio “In Memoriam”, spesso curati dai famigliari dei caduti, dalle amministrazioni locali o talvolta anche dalle scuole o università che i giovani avevano frequentato, pubblicando anche i discorsi poi tenuti in occasione dello scoprimento di lapidi ad essi dedicati, secondo un modello celebrativo che accomunò anche il resto d’Italia <224.
Si trattò di una tappa fondamentale del processo di nazionalizzazione, di quel percorso che era stato avviato già dopo l’annessione dell’isola con l’intitolazione di piazze e vie e la costruzione di monumenti agli “eroi” del Risorgimento <225.
Il discorso pubblico, anche in quest’occasione, più che alle masse parlava «più facilmente ai ceti medi, intercettava i bisogni, esprimeva le emozioni e custodiva le memorie di quei figli della borghesia colta che avevano avuto un’educazione patriottica <226», anche se, dal punto di vista iconografico e concettuale, il potenziale comunicativo aveva lo scopo di coinvolgere nel rito collettivo del ricordo tutto il popolo dei combattenti e i loro cari <227.
In base al censimento operato da Giancarlo Poidomani, circa un terzo dei monumenti di cui si conosce l’anno di realizzazione (99 su 115 censiti), furono inaugurati tra il 1919 e il 1924, quasi altrettanti negli anni dell’affermazione fascista, tra il 1925 e il 1929, meno di un terzo negli anni Trenta e sino alla fine del regime.
Quasi tutti i monumenti nacquero in seguito a concorsi banditi dalle amministrazioni comunali o grazie a commissioni create appositamente per ricordare i caduti. In generale, i monumenti siciliani sembrano distinguersi per una certa sobrietà sia nell’esecuzione figurativa che nella collocazione.
A caratterizzare la maggior parte delle opere è un dolente patriottismo con una prevalenza di figure femminili che portano in mano simboli di vittoria o di martirio, presi in prestito dal linguaggio cristiano e di guerrieri classici nudi o seminudi in pose sofferenti <228.
Ma a placare gli animi agitati e a rimediare non bastarono i monumenti né le celebrazioni pubbliche. Come sostenuto dalla recente ricerca storica, il passaggio dalla guerra alla pace fu per gli italiani un processo tormentato e contraddittorio. La convinzione che la pace avesse tradito le aspettative era diffusa in molti livelli della società. Per i veterani, la patria del 1918 assomigliava a una “matrigna ingrata”, molto lontana dall’immagine affascinante della nazione adorante che riceveva i suoi eroici figli a braccia aperte <229.
Nel caso dell’isola, nonostante i buoni propositi, la guerra non aveva di certo risolto quel «problema siciliano» di cui aveva parlato Ettore Lombardo Pellegrino nella prefazione al volume del più volte citato Giuseppe Bortone, "Sicilia in Armi", e ne aveva, anzi, fatto emergere ancora più chiaramente i limiti. Non solo non c’era stata la tanto attesa “modernizzazione” ma il conflitto aveva invece aggravato le tensioni di ordine sociale, oltreché falcidiato un’intera generazione di giovani.
Terminando il suo volume, Bortone dedicava un ultimo capitolo a “Le speranze e l’avvenire” della Sicilia. Lo studioso si domandava come fosse possibile che le popolazioni della Sicilia «per lo più, agricole, frugali, laboriosissime» e che «dovrebbero perciò viver bene» si trovassero «in condizioni miserabili e pietose come in nessun’altra Regione d’Italia <230». A suo avviso, la Sicilia non era «morta e non vuol morire», ma anzi rappresentava «una forza troppo viva, una troppo valida energia nella somma delle energie nazionali perché si rassegni ancora a vedersi scavare la fossa <231».
La guerra, pertanto, aveva avuto primariamente un merito: quello di aver «rischiarato molte menti e gettato fasci di luci in molte coscienze» e ora si vedeva «chiaramente ciò che prima, per molti era avvolto nelle tenebre <232». "Ciò che adesso c’era da augurarsi - questa la spensierata quanto illusoria conclusione di Bortone" - "era che non restassero ulteriormente deluse le speranze della parte più giovane, più evoluta, più eletta del popolo siciliano. Il giorno in cui questo popolo avrà acquistato anche un barlume di coscienza civile, la situazione si trasformerà come per incanto: le lotte elettorali non turberanno più le iniziative economiche, i capitali di privati e di istituiti, deplorevolmente ammortizzati, saranno impiegati in opere di utilità pubblica; i contadini che ora vanno illustrando pel mondo la miseria del Paese e che convertono in plaghe ubertosissime le coste squallide dell’Africa e vergini dell’America, troveranno in casa il giusto compenso all’opera loro; e, dalle contrade ridenti ove Eschilo venne a far rappresentare i suoi "Persiani"; per la luminosa atmosfera da sogno che udì i canti di Simonide, di Bacchilide e di Pindaro, torneranno ad innalzarsi e a vibrare i cori di questa generosa stirpe, finalmente rigenerata, riportata a’ periodi più felici della sua storia, ornata degna delle sue ammirabili gloriose tradizioni" <233.
[NOTE]
223 Sul tema si vedano: D. LUPI, Parchi e viali della Rimembranza, Bemporad, Firenze 1923; R. MONTELEONE, P. SARASINI, I monumenti italiani ai caduti della Grande Guerra, in D. LEONI, C. ZADRA (a cura di), La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 631-662; J. WINTER, Il lutto e la memoria. La Grande guerra nella storia culturale europea, trad. it. di N. RAINÒ, Il Mulino, Bologna 2014 [ed. or. 1985]; ID., War Beyond Words. Languages of Remembrance from the Great War to the present, Cambridge University Press, Cambridge 2017; M. ISNENGHI (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996; C. BRICE, La monumentalité des rois d’Italie. Il plebiscito di marmo in A. BECKER, E. COHEN (a cura di), La Rèpublique en représentation. Autour de l’oeuvre de Maurice Agulhon, Publications de la Sorbonne, Paris 2006; A. BECKER, Il culto dei morti tra memoria e oblio, in AUDOIN-ROUZEAU, BECKER (a cura di), La prima guerra mondiale, vol. II, cit., pp. 483-497; N. LABANCA (a cura di), Pietre di guerra. Ricerche su monumenti e lapidi in memoria del primo conflitto mondiale, Unicopli, Milano 2010; M. MONDINI, Quelli che non ritornano, in ID., La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-18, cit., pp. 315-356; L. BREGANTIN, B. BRIENZA, La guerra dopo la guerra. Sistemazione e tutela delle salme dei caduti dai cimiteri al fronte ai sacrari monumentali, Il Poligrafo, Padova 2015; L. BREGANTIN, D. VIDALE, Sentinelle di pietra. I grandi sacrari del primo conflitto mondiale, Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto (Tv) 2016; P. SACCHINI, Memorie di guerra. I monumenti ai caduti della Prima guerra mondiale, in «Novecento.org», n. 7, febbraio 2017; D. PISANI, From Italian Monuments to the Fallen of World War I to Fascist War Memorials, RIHA Journal 0165, giugno 2017; Q. ANTONELLI, Cento anni di Grande guerra. Cerimonie, monumenti, memorie e contromemorie, Donzelli, Roma 2018, pp. 51-61 e pp. 239-257.
224 Cfr. F. DOLCI, O. JANZ (a cura di), Non omnis moriar: gli opuscoli di necrologio per i caduti italiani nella Grande Guerra, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2003. Tra gli opuscoli stampati in Sicilia, si vedano, a titolo d’esempio: G. B. DAMIANI, In memoria di Salvatore Randazzo: primo eroe della guerra italo-austriaca, Tip. Nocera, Palermo 1915; Nelle funebri onoranze al Sottotenente Riccardo Fragapane. Caduto per la Patria. Orazione funebre letta nella Chiesa dell’Immacolata in Caltagirone dal Can.co Dott. Filippo Interlandi addì 8 Novemhre 1915, Tip. Napoli, Caltagirone (Ct) 1915; B. GIOFFRÈ, Per un prode. In onore di Luigi Cutrì, maggiore nel 12. reggimento fanteria, caduto sul campo il 30 novembre 1915, D’Amico, Messina 1916; Cartoline di guerra di Vito Favara Emanuele: in memoria, G. Buglino, Palermo 1916; In memoria di Luigi Cortina: discorso commemorativo pronunziato dal dott. Giovanni Cucco, Off. tipo-litografiche Anonima affissioni, Palermo 1916; In memoria del T. Colonnello Paolo Arcodaci, Tip. f.lli Vena, Palermo 1916; In memoria di Peppino Donato, Tip. De Francesco, Messina 1916; In memoria di p. Francesco d’Agira, Minore cappuccino, Tip. Vincenzo Giannotta, Catania 1916; F. A. PERI, In memoria di Nicola Mogavero, Tip f.lli Marsala, Palermo 1917; Alla memoria sacra di Giuseppe Grillo, laureando in giurisprudenza, sottotenente aiutante Maggiore nel 3 battaglione del 72 fanteria, caduto a 21 anno il 3 Luglio 1916 in difesa della patria, Tip. L. Celesia, Palermo 1917; G. BERNAUDO, Per Antonino Pitanza, tenente del 3. fanteria, morto il 6 Maggio 1917 nell’Ospedale della Croce rossa di Messina, Tip. del Lavoro, Nicosia (En) 1917; V. COGLIANI, Eroi messinesi. Avv. Vincenzo Geraci, Tip. L. Alicò, Messina 1917; SEZIONE GIOVANILE REPUBBLICANA DI CATANIA, Giuseppe Di Stefano. Morto repubblicanamente per l’Italia, Tip. Nazionale, Roma 1917; In memoria di p. Daniele Zimbone, tenente cappellano, morto in Treppo il 24 gennaio 1917, C. Galatola, Catania 1917; In memoria del cap. not. Francesco Cultrera, 9 ottobre 1916, Tip. Zammit, Noto (Sr) 1917; In memoria del tenente Giovanni Foti Rocca del 10° bersaglieri (battaglione ciclisti) eroicamente immolato alla Patria, Tip. la siciliana Ciurca e Strano, Catania 1918; F. CHIARAMONTE, Nel trigesimo della morte del sottotenente Nicola Garofalo gloriosamente caduto in Guerra. Elogio funebre letto dall’arciprete Francesco Chiaramonte [...] nella Chiesa di S. Alfonso in Girgenti il giorno 14 agosto 1918, Tip. C. Formica, Girgenti 1918; G. VERDIRAME, Pro-valorosi. In onore dei membri effettivi dell’Istituto di Storia di Diritto Romano dell’Università di Catania caduti per la Patria, Tip. V. Giannotta, Catania 1918; V. LO DUCA, L’eroe dei bombardieri, capitano Filippo Zuccarello, vincitore del tremendo Podgora, caduto sul campo dell’onore il 23 maggio 1917: memoria nell’anniversario della morte, Tip. Eco di Messina, Messina 1918, 19192 (con brani di lettere e del diario di Zuccarello); G. DI NISCIA, Il R. Liceo Maurolico agli studenti caduti per la patria. Discorso letto il 24 maggio 1919 nello scoprimento della lapide in onore degli studenti del R. Liceo Maurolico caduti per la patria, Tip. Eco di Messina, Messina 1919; V. RUFFO, Per l’inaugurazione d’una lapide a Filippo Zuccarello il leggendario capitano dei bombardieri in Marina di Patti, Tip. Eco di Messina, Messina 1919; A. MONROY PRINCIPE DI MALETTO, In memoria d’Ignazio e di Manfredi Lanza-Branciforte, Scuola Tip. Boccone del povero, Palermo 1919; L. PONA, Commemorando i caduti per la patria, Tip. V. Giannotta, Catania 1919; B. BONTEMPO, Inaugurandosi una lapide monumentale in memoria degli Alcaresi caduti e dispersi nell'ultima guerra di redenzione, 23 maggio 1920, Casa editrice moderna, Palermo 1920; Lacrime e fiori in memoria del tenente Salvatore Florena, Scuola Tip. Boccone del povero, Palermo 1920; REGIO ISTITUTO TECNICO E NAUTICO MESSINA, Albo d’onore del R. Istituto tecnico e nautico di Messina. 1915-18, Prem. Off. Graf. La Sicilia, Messina 1920; F. SFERRA, Discorso recitato nella Chiesa di A.G.P. di Itri, nei funerali per i caduti in Guerra, il Giorno 4 novembre 1920, Tip. D’Amico, Messina 1920; Ai suoi eroi morti e vivi nella grande guerra nazionale 1915-1918: il popolo pattese, Prem. off. graf. La Sicilia, Messina 1922; In memoria degli ex allievi della r. Scuola mineraria di Caltanissetta immolatisi per la patria nella grande Guerra, Tip. S. Petrantoni, Caltanissetta 1924; In memoria del sottotenente Russo Nunzio (associazione Nazionale fra mutilati e invalidi di Guerra, sezione di Catania), Tip. Fratelli Viaggio-Campo, Catania 1924; F. ERCOLE, Discorso per la inaugurazione dell'anno accademico e per lo scoprimento delle targhe in memoria degli studenti caduti in guerra, R. Università di Palermo, 4 novembre 1925, Arti grafiche G. Castiglia, Palermo 1926; P. FEDELE, Discorso pronunziato dopo lo scoprimento della targa in memoria degli studenti caduti in guerra, R. Università di Palermo 4 novembre 1925, Arti grafiche G. Castiglia, Palermo 1926; G. A. CESAREO, La poesia dell’azione: discorso letto il giorno 4 novembre 1925 per la inaugurazione dell'anno accademico e per lo scoprimento delle targhe in memoria degli studenti caduti in guerra, R. Università di Palermo, Arti grafiche G. Castiglia, Palermo 1926; D. PIZZARELLO, Per gli studenti del R. Liceo-Ginnasio Maurolico caduti nella grande guerra 1915-1918, Industrie grafiche meridionali, Messina [1926?]; In memoria degli allievi della r. Scuola enologica caduti nella grande Guerra (R. Scuola agraria Media specializzata per la viticoltura e l’enologia, Catania), Off. Tip. La Stampa, Catania 1930.
225 Sul tema si vedano: G. POIDOMANI, I monumenti della provincia di Ragusa, in ID., Lutti e memorie dei siciliani nella Grande Guerra, cit., pp. 100-110; ID., «Chi diede la vita ebbe in cambio una croce». I caduti, i monumenti, la memoria, in BARONE (a cura di), Catania e la Grande Guerra, cit., pp. 247-282; ID., Elaborare il lutto, in BONOMO, POIDOMANI, «L’Italia chiamò». La Sicilia e la grande guerra, cit., pp. 171-199; P. CILONA, I monumenti ai caduti della provincia di Agrigento: luoghi della memoria e della storia. Riflessioni e ricordi a cento anni dall’inizio della Grande Guerra, 1915-1918, CEPASA, Agrigento 2015; L. GIACOBBE (a cura di), Memorie della Grande Guerra. Monumenti ai caduti nella provincia di Messina, Di Niccolò Edizioni, Messina 2016; G. BARONE, Memoria, in ID., Gli Iblei nella Grande Guerra, cit., pp. 179-191; A. BAGLIO, «Pro Patria mori». Culto e memoria della “generazione perduta” nei Monumenti ai caduti della Grande Guerra, in «Il Maurolico», Gabinetto di Lettura di Messina, 2016, pp. 31-37.
226 POIDOMANI, Elaborare il lutto, cit., p. 178.
227 Sul modo in cui venne raccontata e descritta ai famigliari la morte al fronte cfr. O. JANZ, Lutto, famiglia e nazione nel culto dei caduti della prima guerra mondiale in Italia, in O. JANZ, L. KLINKHAMMER (a cura di), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma 2008, pp. 68‐69.
228 A parere di Poidomani, la Sicilia si divise in due aree di committenza artistica: da un lato, la parte occidentale fece riferimento, in particolar modo, agli scultori della scuola palermitana, amici o collaboratori di Ernesto Basile (1857-1932), Mario Rutelli (1859-1941) e Antonio Ugo (1870-1950); dall’altro, la parte orientale si rivolse a scultori catenesi e messinesi come Luciano Condorelli (1887-1968), Turillo Sindoni (1868-1941), Francesco Messina (1900-1995), Pietro Pappalardo (1895-1985), Pasquale Platania (1892-1965), Vincenzo Torre (1889-1970) e Salvatore Zagarella (1894-1965). Cfr. POIDOMANI, Elaborare il lutto, cit., pp. 180 e ss.
229 Cfr. MONDINI, La guerra italiana..., p. 359.
230 BORTONE, Sicilia in Armi, cit., p. 370.
231 Ivi, p. 375.
232 Ivi, pp. 375-376.
233 Ivi, pp. 379-380.
Claudio Staiti, Lettere, diari e memorie dei soldati come fonti per lo studio della Grande guerra: il caso siciliano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Messina, 2019

martedì 29 marzo 2022

La lucertola della fortuna


Come si è detto, Mario La Cava intesse in questi anni una fitta rete di rapporti con diverse case editrici nel tentativo di trovare un canale di pubblicazione ai suoi romanzi. È lecito ipotizzare, però, che Italo Calvino, in qualità di editor dell’Einaudi, sia stato il suo referente principale anche per quanto riguarda la produzione romanzesca. Come ci ricorda Ernesto Ferrero, lo scrittore di Bovalino fa parte (con Amoruso, Seminara, De Jaco, Montella, Sciascia, Bonaviri e altri) di quella «nutrita rappresentanza» di autori meridionali che Calvino «accudisce con cure addirittura affettuose, che hanno del parentale» <463. A partire dai primi anni Cinquanta e fino al 1982, La Cava invia a Calvino i suoi testi, perché sa di trovare in quest’ultimo, prima che un consulente editoriale, un estimatore della sua arte. L’autore delle "Fiabe italiane" legge i suoi dattiloscritti e comunica a La Cava le decisioni della casa editrice in merito ai suoi libri. Non è possibile, però, ricostruire interamente il dialogo epistolare intercorso tra i due. A oggi sono soltanto tre le lettere di Calvino indirizzate a La Cava a nostra disposizione, di cui due risalgono ai tempi della pubblicazione delle "Memorie del vecchio maresciallo", e un’altra riguarda una raccolta di caratteri e di favole che lo scrittore calabrese vorrebbe proporre per una ristampa. Altre lettere inedite sono conservate nel fondo privato di La Cava, ma alcune informazioni sui giudizi di Calvino alle opere che lo scrittore andava proponendo alla casa editrice torinese si ricavano per via indiretta dal carteggio intercorso fra La Cava e Sciascia. Alcuni esempi: dalla lettera <464 di La Cava, datata 3 agosto 1955, si apprende che Calvino ha restituito il "Diario" di Marianna Procopio (madre dello scrittore) perché inadatto alla pubblicazione, pur giudicandolo con «grandi parole di lode», e consigliando come destinazione più appropriata la rivista «Nuovi Argomenti». Allo stesso modo, andranno incontro a un giudizio editoriale negativo, qualche anno dopo, il romanzo inedito "L’amica", la cui stesura definitiva risale al 1977, il romanzo "La ragazza del vicolo scuro" e la raccolta di racconti campestri dal titolo "La lucertola della fortuna". A proposito di questo ennesimo rifiuto La Cava scrive: «[...] il primo volume dei racconti brevi [...] è stato rifiutato recentemente da Calvino con belle parole. Le credo sincere. Fece delle critiche alla "Ragazza del vicolo oscuro", che ho subito accettate» <465. Nel caso di questo romanzo, quindi, e verosimilmente anche per tutti gli altri che Calvino ebbe in lettura, è ipotizzabile che i suggerimenti e i giudizi esplicitati dall’autore di "Ti con zero" abbiano condizionato La Cava nelle successive riscritture dei suoi testi. Dalle pur scarne informazioni sulla loro comunicazione epistolare desumibili indirettamente, si percepisce qualcosa della cordialità che, nonostante tutto, ha contraddistinto il dialogo dello scrittore calabrese con Calvino, il quale, in qualità di consulente editoriale, è costretto, nella maggior parte dei casi, a rifiutare i testi di La Cava, cui però andava sempre il suo apprezzamento di lettore.
Usciranno invece presso Einaudi, per interessamento dello stesso Calvino e di Giulio Bollati, sia "I fatti di Casignana" del 1974, sia il romanzo "Una storia d’amore" dell’anno precedente. Ma anche quando la pubblicazione di un testo diventa finalmente possibile, nuove complicazioni assillano lo scrittore di Bovalino. Non solo l’uscita di ogni libro è continuamente rinviata, ma la casa editrice trascura la sua promozione attraverso un adeguato supporto pubblicitario, e anche la distribuzione dei testi alle librerie e ai critici procede a rilento, mentre lo scrittore, costretto da uno stato di salute sempre più precario e dalle difficoltà economiche a rinunciare ai viaggi e a interrompere il lavoro creativo, ignora il destino dei suoi libri, e si definisce, in una missiva in cui esorta Sciascia a fornirgli informazioni anche negative al riguardo «corazzato contro ogni dispiacere». <466
A ciò si aggiunge un crescente disinteresse da parte della critica. In un’altra missiva a Sciascia datata 20 settembre 1973, La Cava esprime insoddisfazione per la ricezione critica di "Una storia d’amore":
"Non so il successo di vendita che abbia avuto 'Una storia d’amore'. Ho avuto alcune critiche soddisfacenti. Ma non mi pare che sia stata difesa esplicitamente la mia poetica, secondo la quale è possibile scrivere romanzi con personaggi e intreccio di tipo tradizionale. Ora appunto di questo si tratta, se si vuole rendere giustizia alla mia arte". <467
Egli riconosce, insomma, con grande rammarico, che le recensioni, benché positive, facciano riferimento solo alla sua ultima prova narrativa, senza risolversi in un riconoscimento complessivo della sua poetica. È proprio questa la situazione che puntualmente si verifica anche per tutti gli altri romanzi e per i racconti di La Cava pubblicati in questo giro d’anni: l’apprezzamento per le qualità estetiche e per l’impegno etico professato in ogni nuova prova narrativa da parte di La Cava non può non accompagnarsi, nel giudizio dei suoi critici, alla constatazione del fatto che la sua arte sia, per stile e per contenuto, troppo lontana dagli orientamenti letterari più aggiornati, e al sospetto che l’aderenza ostinata ad alcune tematiche tipiche del proprio repertorio fosse dovuta all’incapacità di confrontarsi con temi e motivi culturali più attuali. Crediamo che le riflessioni di Calvino contenute nell’ultima delle sue lettere (15 marzo 1982) a La Cava a nostra disposizione, pur nella loro assoluta concisione, riescano a spiegare meglio di qualsiasi discorso ermeneutico questo dato di fatto:
Caro La Cava,
ho letto 'Favole e caratteri' e ho ancora una volta apprezzato la tua finezza nelle notazioni psicologiche più lievi, il tuo garbo, la tua fedeltà a una civiltà letteraria fatta di classicità e misura.
Ma come far sentire una voce discreta come la tua in mezzo ai fragori assordanti dell’epoca in cui viviamo? Ho paura che questo libro non rientri in nessuna delle categorie che oggi gli editori (e i lettori) s’aspettano. [...] <468
[NOTE]
463 E. Ferrero, Edizioni Calvino, in Calvino & l’editoria cit., p. 186.
464 M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo cit., p. 230.
465 Ivi, p. 418.
466 Ibidem, p. 469. La lettera è del 23 ottobre 1973.
467 Ibidem, p. 467.
468 I. Calvino, Lettere cit., pp. 1474-1475. Come si è detto in precedenza, con questa lettera Calvino comunica a La Cava l’impossibilità di ristampare una raccolta di prose brevi.
Eleonora Sposato, Oltre le cose, la sostanza che non muta. Mario La Cava. La figura e l'opera, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, 2013

giovedì 24 marzo 2022

Tutti i militari sono membri del Vai?

Milano: Colonne di San Lorenzo

Non ci sono segnali di una presenza attiva d’iniziative organizzate nell’Italia occupata da parte del Regno del Sud sino alla fine di novembre, primi giorni di dicembre, 1943. Infatti, risale ai primi giorni di dicembre la definizione dei comandi regionali nella Z.O. (Zona Operativa) <85 e anche il distintivo che i patrioti dovevano apporre al bavero della giubba (sic!). L’idea che dei combattenti clandestini si aggiustassero un distintivo (doppio nastro trasversale tricolore) in modo che la loro posizione fosse internazionalmente chiara e che le bande fossero gestite da un «comandante militare eventualmente appoggiato, per la parte relativa (sic!) agli elementi civili immessi […] dai comitati locali dei partiti» <86 rende evidente come sia lontano non solo il concetto della guerra per bande, ma anche la conoscenza della situazione. A questa incoscienza situazionale, si affiancano una confusione organizzativa e una mancanza di prospettive. L’iniziativa del Regno del Sud è minata all’origine non solo dalla non esaltante messa in scena della fuga da Roma, ma è il comportamento complessivo della casta militare sul campo di battaglia che ha lasciato un segno indelebile negli uomini che sono rientrati dai vari fronti: si arena in un serie di vorrei ma non posso che rendono ancor più diffidenti i comandi alleati <87. Sono i singoli uomini che prendono in mano la situazione, a un Umberto Utili nel Sud che riesce a farsi accettare dagli Alleati, corrisponde un Jerzy Sas Kulczycki che nel Nord tenta di tirare le fila di una rete dei militari.
I militari di professione però, non riescono a comprendere che si è innescato un movimento che li relega nelle retrovie. Non si tratta solo di riprendere in mano la situazione ante - 1923, l’Esercito e il suo ceto ha indissolubilmente legato i propri destini a quelli del fascismo, difficile ora separarli, anche perché i comandanti raramente comprendono il cambio di passo. Questo non vuole assolutamente dire che i militari, che hanno condiviso anni di vita, fatiche, anche sogni e sconfitte con i soldati che ora sono sui monti, non costruiscano e organizzino delle bande, è il passo successivo che non riescono a compiere, è il coinvolgimento diretto del Regno del Sud che viene a mancare.
Anche perché per arrivare in Z.O., per far pervenire materiali e risorse occorre appoggiarsi agli alleati i quali a loro volta si trovano in concorrenza tra loro: da una parte l’Oss americano e dall’altra il Soe inglese. Alla normale differenza di vedute, ora si debbono aggiungere le simpatie repubblicane e quelle monarchiche che ci sono in entrambi i campi ma soprattutto la diffidenza nei confronti di un Governo che oltretutto ha gestito in modo misero l’armistizio. Insomma ha dell’ingenuo pensare di riuscire ad accreditarsi come combattenti antifascisti quando fino il giorno prima si era alleati con i tedeschi, gli inglesi non dimenticano certo i loro morti in Africa del Nord, la disastrosa gestione poi dell’armistizio non ha certo contribuito a far aumentare l’attendibilità dei realisti di casa Savoia. Scarsa, se non nulla, è l’affidabilità che hanno i generali che supinamente hanno trascinato nel disastro gli italiani, il ceto militare è legato a casa Savoia e conseguentemente il Governo del Sud fatica a essere preso in considerazione dagli Alleati. Ne è un espressivo esempio la sconfitta del progetto del gen. Giuseppe Pavone <88 relativo ai Gruppi Combattenti Italia e le difficoltà che incontra il gen. Utili nel costruire forze combattenti che si affianchino all’esercito degli alleati che sale verso il nord.
Ha molto più buon gioco Sogno che, dopo aver attraversato il fronte verso il sud, progetta il suo ritorno al nord come collaboratore del Soe. È lui che diventa il raccordo con le bande badogliane, è presente nel Cln di Torino come rappresentante del Pli, in altre parole è la sua organizzazione, La Franchi, che è portatrice di un progetto politico ben più radicato nel quotidiano che quello propugnato dallo Stato Maggiore dell’Esercito del Sud.
La ripresa dell’organizzazione in alta Valtellina nella primavera del 1944 non trova più sul terreno una struttura che aveva se non stimolato speranze suscitato interessamento da parte dei militari valtellinesi: la struttura dei Volontari armati d’ Italia. Quest’organizzazione non è più presente dall’aprile del 1944 in concomitanza con la cattura di parecchi suoi uomini compreso il comandante, Kulczycki che è catturato a Genova il 15 aprile.
La scomparsa del Vai (Volontari Armati Italiani) rende evidente la difficoltà del Regno del Sud nel costituire le strutture armate di resistenza nella Z.O. I militari dell’ex regio esercito non si sono trovati a lavorare in un ambiente adatto, lo sfacelo dell’8 settembre, la vigliaccheria o, nel migliore dei casi, la pusillanimità dei comandanti ha fatto il paio con i morti provocati dal governo Badoglio durante i 45 giorni. La mancanza d’idee, il banale adesso cosa facciamo, la ritrosia ad armare i civili ha messo tutto il peso dell’organizzazione sulle spalle di pochi militari animati da spirito di sacrificio e disposti al combattimento; la cattura di questi militari taglia le gambe ad una organizzazione che aveva i piedi di argilla e lascia aperta la strada a forme di combattimento che troveranno la loro dimensione sia nelle bande autonome, i fazzoletti azzurri e verdi, che nelle bande garibaldine o di Giustizia e Libertà.
Dell’incapacità dei militari nel muoversi, in Lombardia, sul terreno delle organizzazioni armate di montagna è sintomo il fatto che sia nel bresciano, sia nella bergamasca, è il clero che fornisce o direttamente, il comandante, don Antonio Milesi, o la direzione politica, don Carlo Comensoli; è illuminante invece l’indecisione, per non dire di peggio, del Comandante dei Carabinieri di Sondrio Edoardo Alessi.
Eppure la rete dei militari che nella regione a nord di Milano fa riferimento al Regio Governo del Sud <89 non è poca cosa: a Lecco troviamo i colonnelli Umberto Morandi e Alberto Prampolini affiancati dal capitano Guido Brugger; a Mandello del Lario c’è il colonnello Galdino Pini mentre a Bellano il referente è Umberto Osio, salendo nella Valsassina Mario Cerati e il dott. Pietro Magni; nella zona della valle Taleggio Piero Pallini cerca di tessere una rete di collegamenti in contatto con il gruppo di Carlo Basile mentre un altro militare, Davide Paganoni di Lenna assume una posizione più distaccata. Nella stessa zona si muove uno strano prete-combattente che abbiamo già incontrato, don Antonio Milesi che a fine guerra esibirà il suo legame con il Soe, nella zona della Valcamonica i vari militari che daranno poi vita alle Fiamme Verdi e che avranno nel generale Luigi Masini il loro referente <90.
I militari trovano il loro terreno, quello delle armi, conteso da forme organizzative che, o disprezzano come le bande infestate dal comunismo o che fanno fatica a comprendere: i civili armati. Forse frastornati dall’apparire di questi nuovi soggetti, le ombre che raccolgono le armi che i militari abbandonano, coscienti di un loro ruolo e legati a un giuramento che sembra restare l’unica cosa certa, questi uomini che fanno parte della rete dei militari in Spe che non aderiscono alla Rsi spesso vanno incontro a un tragico destino. Ne è un esempio, il generale di brigata Giuseppe Robolotti nato a Cremona il 27 dicembre 1885. Comandante della Zona militare di Trieste nell'aprile del 1943, dopo l'armistizio ha tentato di opporre resistenza alle truppe tedesche. Sfuggito alla cattura e riparato a Milano, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia gli affidò il comando militare della Piazza nel capoluogo lombardo. Assolse l’incarico fino al 25 maggio 1944, quando fu arrestato a Milano col generale Bortolo Zambon e altri resistenti, nell’ambito di una operazione tesa alla cattura dei militari che collaboratori del Cln. Robolotti fu incarcerato a San Vittore sino al mese di giugno, quando è deportato nel campo di transito di Fossoli. All'alba del 12 luglio i nazisti lo fucilarono nel Poligono di tiro nella frazione Cibeno con altri 66 resistenti <91.
La condizione di debolezza nella costruzione di una Resistenza monarchica non vuole però significare che i militari, e comunque casa Savoia e il Regno del Sud, non siano poi in grado di recuperare il terreno e presentarsi,
all’appuntamento del 25 aprile 1945 con molte cartucce nelle giberne <92.
Diversa è la storia delle migliaia di militari che salgono sui monti dal Piemonte al Friuli attraversando gli Appennini e, stante una dura revisione del proprio ruolo, combatteranno nelle bande partigiane. Di questa evanescente
organizzazione, il Vai, si conosce poco: a Milano è Maria Bottoni che catturata dallo Sd e incarcerata a San Vittore il 15.03.1944 (mat. 1678) viene ricondotta al Vai. Era la segretaria di Parri nella ditta Edison e, secondo quanto afferma Antonio Colognese, aveva documenti che si riferiscono alla rete dell’organizzazione <93.
Tra la fine dell’aprile e il maggio 1944 si può con certezza affermare che un buon numero degli uomini del Vai si ritrova nel campo di Fossoli, compreso il comandante Kulczycki, il responsabile politico della Liguria Filippo Gramatica, il suo sostituto Renato Piccinino e Giuseppe Palmero un membro della Giovane Italia <94. Un’operazione di polizia ha portato all’arresto di diciannove persone a Milano, tra le quali gli uomini ai vertici dell’organizzazione resistenziali. Sono incarcerati a San Vittore il 25 maggio 19454: Enrica Caserini Bassi mat. 2175, Alessandro Beltracchini mat. 2176, Giuseppe Robolotti mat. 2177, Gino Marini mat. 2178, Bortolo Zambon mat. 2179, Mario Benedetto mat. 2180, Ida Bevali mat. 2181, Agata Carletti mat. 2182, Primo Maggiori mat. 2183, Ettore Nulli mat. 2184, Decio Nulli mat. 2185, Carlo Granelli mat. 2186, Margherita Della Negri Baggini mat. 2187, Elvira Robolotti Dal Col mat. 2188, Giovanni Robolotti mat. 2189, Vittorio Castelli mat. 2190, Agnese Borgonovo Scurati mat. 2191, Leonida Bellini mat. 2192, Vittorio Gasparini mat. 2193.
Di altri militari e civili non siamo in grado di definirne con certezza un’appartenenza organizzativa: sono il tenente Antonio Manzi che è incarcerato il 20.04.1944 a San Vittore mat. 1954, era stato preceduto dalla ligure Annamaria Martini il 16.04.1944 mat. 1937. Manzi è catturato a Lenna in val Brembana, Martini in Liguria, altri lo sono a Torino. Lo sguardo sugli effetti della repressione che abbraccia l’intero nord dell’Italia occupata c’è utile per comprendere
l’estensione della reta e la caparbietà con cui i fascisti e i tedeschi perseguono la repressione.
Tutti i militari sono membri del Vai? Crediamo proprio di no: essere militare in un paese in guerra diventa un elemento normale per gli uomini dai 18 ai 40 anni, è anche ovvio che conseguentemente all’armistizio dell’otto settembre ci sia stato il tentativo di organizzare i militari fuori da una rete informativa. Sono altrettanto naturali le sovrapposizioni tra le organizzazioni: membri del Vai e nello stesso tempo legami con i Cln o con reti d’informazioni
come il gruppo Otto, l’Ori <95 e anche il Sim. Chiarisce quanto si vuole qui affermare il percorso di Aminta Migliari, Giorgio, promotore e comandante del Servizio informazioni patrioti (Sip), costituito nella primavera del 1944. Inizialmente la rete informativa è costruita localmente per il gruppo partigiano (autonomo) di Alfredo Di Dio dopo il 13 febbraio 1944. Nel marzo 1945 diventa Servizio informazioni militari Nord Italia (Simni), che vede ampliata la rete di agenti e informatori dalla zona novarese, originaria, a quasi tutte le regioni dell'Italia settentrionale. Migliari è stato altresì commissario di guerra del raggruppamento divisioni Alfredo Di Dio, in stretti rapporti con la missione dell'Oss Chrysler, paracadutata nella zona del Mottarone nel settembre 1944, e in stretti rapporti con la Democrazia Cristiana.
Si stabilizzano una serie di rapporti tra i militari che non sempre trovano la loro naturale conclusione in una struttura organizzativa che fa riferimento a brigate combattenti anche se la memorialistica tenderà a definire comandi e formazioni dopo il 25 aprile. Nell’inverno 1943-1944 la ricerca di una via d’uscita alle semplici rete informative trova nei militari gli uomini che hanno avuto esperienze contigue e hanno certamente sviluppato anche quello che si chiama Spirito di Corpo.
Umberto Osio e Galdino Pini provengono dalla Grande Guerra ed hanno maturato una avversione ai tedeschi che si riattiva vedendoli invadere l’Italia, altri hanno combattuto assieme in Jugoslavia, magari passando prima dalla esperienza della guerra di Russia. L’esperienza del generale Masini è indicativa: è stato con la 8a Divisione nella campagna di Russia poi con la III Brigata è inviato a Bergamo. Nell'aprile 1943 la brigata è posta a disposizione del XXIII Corpo d'Armata e, nell’ambito della Difesa Territoriale delle provincie di Gorizia e Trieste, è impiegata in azioni di controguerriglia nella zona di confine con la Jugoslavia (Tolmino - Circhina). Il Comando di brigata e tre reggimenti
sono sciolti il 31 agosto 1943; il personale dei reparti è utilizzato per la ricostituzione delle Divisioni Alpine «Julia», «Tridentina» e «Cuneense» rientrate dal fronte russo. Masini è stato il comandante della III Brigata dal 20 dicembre 1942, ai suoi ordini Alberto Prampolini è stato uno dei comandanti del 6° reggimento alpini. Sono uomini che si conoscono e che professano le stesse idee, militari che hanno fatto il giuramento al re e che si sentono a esso legati. Naturale quindi che questo gruppo si senta spinto ad attuare una sorta di rete di collegamento e a ridefinire le proprie funzioni. Quelli che sono stati impegnati in Jugoslavia o in Russia in operazioni contro i partigiani sanno come questi si muovevano, hanno acquisito un’esperienza di cosa sono la guerriglia e la controguerriglia. Sono uomini importanti e per questo saranno anche cercati e ambiti dalle nascenti formazioni militari sia in montagna ma anche in città.
[NOTE]
85 MINISTERO DELLA DIFESA, STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO, UFFICIO STORICO, L'azione dello Stato Maggiore Generale per lo sviluppo del movimento di liberazione, cit., p. 15.
86 «Le direttive per l’organizzazione e la condotta della guerriglia Stato Maggiore Generale per lo sviluppo del movimento di liberazione, cit., p. 15. (Riservate alla persona dei Comandanti militari regionali e dei loro più immediati collaboratori).» sono in data 10 dicembre 1943: Ivi, p. 149-154.
87 Sull’evoluzione dei contatti con gli alleati si rimanda a: T. PIFFER, Gli alleati e la Resistenza italiana, cit.
88 Cfr. A. ALOSCO, Il Partito d'Azione nel 'Regno del Sud', Alfredo Guida, Napoli, 2002, pp. 61-63.
89 Una sintesi della presenza delle formazioni militari che fanno riferimento al Regno del Sud la si trova in C. CERNIGOI, ALLA RICERCA DI NEMO una spy-story non solo italiana, dossier n. 46, Supplemento al n. 303 - 1/5/13 de La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”, Trieste 2013. Per una analisi più articolata, Cfr. G. PERONA (a cura di), Formazioni autonome nella Resistenza, documenti, cit., p. 19-31.
90 Fondo: Morelli Dario, Serie: Forze partigiane e di liberazione, Sottoserie: Cvl - Fiamme verdi, Fascicolo: Cvl - Quartier generale del raggruppamento Fiamme verdi, Busta 31, Fasc. 276.
91 Il 12 luglio del 1944 al poligono del Cibeno presso Carpi vengono fucilati 67 prigionieri del vicino campo di Fossili, tra di essi il col. del Savoia Cavalleria Luigi Ferrighi. Cfr. A. L. CARLOTTI (a cura di) L. MELA, P. CRESPI, Dosvidania, Savoia cavalleria dal fronte russo alla Resistenza : due diari inediti, Vita e pensiero, Milano, 1995; vedi anche: Insmli, fondo Ostéria Luca, Busta 1, Fasc. 8, fasc. "Zambon e C[company]. Gnr di Brescia. 25 - 5 - 1954 [recte 1945]".
92 Nella vicina Como, è il Ten. Col. Giovanni Sardagna ad essere ritenuto legato al Vai. Uomo di fiducia del gen. Cadorna che ricopre la carica di ispetttore generale nel Comitato militare del CLN comasco e che diventa il referente militare nei giorni insurrezionali.
93 A. COLOGNESE, Venti mesi di lotta partigiana, Stab. grafico P. Castaldi, Feltre, 1947, p. 52. Cfr. P. PAOLETTI, Volontari armati italiani (V.A.I) in Liguria (1943-1945), cit., p. 62.
94 Ivi.
95 La Otto prende il nome da Ottorino Balduzzi primario di neuropsichiatria dell’ospedale S. Martino di Genova, comunista. Cfr. Relazione sull’attività dell’Organizzazione Otto, Insmli, fondo CVL, b. 42, fasc. 4, sottofasc. 5; R. CRAVERI, La campagna d’Italia e i servizi segreti: la storia dell’ORI (1943-1945), Genova, 2009.

 


Massimo Fumagalli e Gabriele Fontana, Formazioni Patriottiche e Milizie di fabbrica in Alta Valtellina. 1943-1945, Associazione Culturale Banlieu

Fonte: Giorni di Storia cit. infra

Fonte: Giorni di Storia cit. infra

Mastino Bachisio fiancheggia i partigiani, compie atti di sabotaggio, fornisce importanti informazioni come si legge dal certificato a firma dal maresciallo inglese Harold Alexander, capo delle truppe alleate nel Mediterraneo centrale.
Tra febbraio e marzo del ’44, infatti, il partigiano con le Fiamme Gialle viene notato da “Giorgio”, nome di battaglia di Aminta Migliari (nella foto ritratto un uno dei suoi numerosi travestimenti. In questo caso da sacerdote). Un giovane di Gozzano che organizza il SIP, il Servizio Informazioni Patrioti. Il SIP, nato con la finalità di segnalare i movimenti dei reparti nazi-fascisti, in maniera tale da proteggere le Brigate partigiane operanti sul confine tra Lombardia e Piemonte, ha un’evoluzione che Bachisio Mastinu vive in pieno. Infatti nel SIP il finanziere sardo entra come semplice “agente”, mantenendo il servizio presso le Fiamme Gialle di Borgomanero, ma sarà costretto ad abbandonare il proprio reparto il 1° di settembre del 1944 per via dell’insicurezza che poteva provocare il suo “doppio gioco”. Il SIP, una volta superata una prima fase evolutiva, dopo la tragica fine del Tenente Di Dio, trucidato nel corso di un’imboscata dei tedeschi il 12 ottobre 1944 a Gola di Finero, “ampliò sensibilmente i propri compiti, estendendo la propria attività ai sabotaggi ed alla segnalazione degli obiettivi per i bombardamenti alleati, fornendo informazioni utili sia ad altre formazioni partigiane, come nel caso della Organizzazione “Franchi” capeggiata da Edgardo Sogno, sia ad alcuni patrioti e capi della Resistenza che si erano rifugiati in Svizzera, come ha modo di spiegare il maggiore Gerardo Severino, Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza di Roma e autore del libro “Una vita per l’Italia” (Delfino Editore).
Il SIMNI era coinvolto in quella che fu denominata “Missione Chrysler” dall’OSS, cioè l’Office of Strategic Service, il servizio segreto americano precursore della CIA, che aiuterà l’Italia e la Resistenza ad arrivare fino all’aprile 1945, cioè alla liberazione. Il SIMNI compì molteplici operazioni di guerra fornendo informazioni, anche attraverso quattro stazioni radio alleate, gestite dai militari Usa, attraverso migliaia di messaggi in codice, in media circa 350 al mese, di cui alcuni davvero delicati e sensibili.
La sua attività presso il SIMNI e a favore degli Alleati è riscontrabile in un documento ufficiale d’archivio datato 15 maggio 1945 (nella foto a destra d’archivio fornita dalla Guardia di Finanza) dal quale si evince, appunto, la promozione al grado di Appuntato di Finanza e, soprattutto, a quella di “Agente Capo” del medesimo Servizio. “Ebbene, l’agente Mastinu verrà trattenuto presso il Comando Centrale del SIMNI anche dopo la Liberazione, come emerge in una lettera che il Comandante “Giorgio” indirizzò al Comando del Circolo della Regia Guardia di Finanza di Novara il 14 di maggio - spiega il maggiore Severino -. In tale documento viene, infatti, indicato che il nostro Bachisio è da considerarsi in servizio attivo con grado di Agente Capo presso la Missione Americana. Erano quelli, infatti, i giorni ed i mesi in cui sia gli agenti segreti italiani che quelli americani davano la caccia alle ultime spie fasciste, ovvero a chi si era fortemente compromesso a favore degli occupanti tedeschi”. Bachisio Mastinu rimarrà in servizio presso il SIM, il Servizio Informazioni Militari, sino al 15 aprile del 1946, data in cui ne fu decretata dal Ministero della Guerra la cosiddetta “smobilitazione” con il conseguente rientro dei vari agenti al proprio reparto.
 

Fonte: Giorni di Storia cit. infra

GDS, 10 settembre 1943. La storia di Bachisio Mastinu, il finanziere 007 al servizio della Resistenza, Giorni di Storia, 10 Settembre 2018

Colti e ricettivi, i Pasinetti scrissero di letteratura, cinema e attualità per diverse testate


Il presente lavoro di ricerca consiste nella trascrizione e nel commento di 200 lettere tratte dal carteggio tra lo scrittore Pier Maria Pasinetti (1913-2006) e il fratello Francesco (1911-1949), regista e critico cinematografico. L’epistolario completo, composto di 397 missive, è il nucleo centrale del «Fondo P.M. Pasinetti», conservato presso l’Archivio «Carte del Contemporaneo» del Centro Interuniversitario di Studi Veneti (CISVe). La corrispondenza selezionata risale agli anni 1940-1942, periodo significativo soprattutto se si considera che le lettere viaggiano lungo l’asse Italia-Germania. In questo arco di tempo Francesco è insegnante presso il Centro sperimentale di cinematografia a Roma e Pier Maria è lettore all’Università di Gottinga in qualità di funzionario dell’Istituto italiano di cultura. È, per entrambi, un momento di rapida ascesa professionale e di consacrazione artistica: nel 1941 esce per i tipi Mondadori "L’ira di Dio", raccolta d’esordio dei racconti di Pier Maria e Francesco realizza il primo documentario commissionatogli dall’Istituto Luce.
La traiettoria di due giovani appartenenti alla colta borghesia veneziana impegnati nella letteratura, nel cinema, nel giornalismo e operanti nelle istituzioni dello Stato totalitario è paradigmatica del percorso di una generazione di artisti e pensatori le cui biografie intersecarono il fascismo e può chiarire il funzionamento del campo artistico nel ventennio. Ecco perché habitus, topologia sociale e campo di produzione sono al centro di questo studio. Utilizzando il carteggio come documento - oggetto d’interpretazione prima che strumento interpretativo - si è guardato agli interessi, alle relazioni, al ruolo e alla prassi artistica dei Pasinetti con l’intenzione di dare un contributo alle ricerche sul nesso tra cultura e fascismo. Indagare i riferimenti culturali, il lavoro nell’apparato statale, le relazioni con intellettuali ed esponenti politici coevi è un tentativo di esplicitare nelle biografie dei singoli poste in gioco e rapporti di forza alla radice di orientamenti complessivi.
[...] Sebbene funestata da dolorosi lutti familiari, la giovinezza di Francesco e di Pier Maria Pasinetti non fu priva di una agiata spensieratezza. Nati rispettivamente nel 1911 e nel 1913, persero la madre Maria Ciardi nel 1928 e il padre Carlo nel 1939, dovendo far fronte alla precoce scomparsa dei genitori sostenendosi vicendevolmente. Un destino amaro, che dovette però contribuire a consolidare il rapporto fraterno in un’intima amicizia. D’altro canto, nei ricordi dei due fratelli l’infanzia nella Venezia d’inizio Novecento è un’immagine fulgida: a metà strada tra tableau vivant e “bottega d’artista” <1, casa Pasinetti-Ciardi, con gli spettacoli di marionette di Francesco e Pier Maria, i dipinti del nonno Guglielmo e della zia Emma, i fairy tales della madre e gli umoristici aneddoti paterni non era solo un luogo di gioie e di svaghi, ma una culla del gusto e dell’intelletto <2. Emma Ciardi, in particolare, ebbe un notevole influsso sulla formazione dei nipoti, abituandoli giovanissimi a muoversi tra i colori del suo studio a San Polo, in cui facevano bella mostra specchiere antiche, stoffe pregiate, manichini con abiti settecenteschi e, naturalmente, i quadri per cui era corteggiata da gallerie internazionali <3. Sullo sfondo, la Prima Guerra Mondiale impensieriva più Carlo - primario all’Ospedale Civile - che i figli ancora piccoli, i quali ne serbarono un ricordo avventuroso piuttosto che traumatico <4.
La tranquilla estrazione borghese consentì ai due ragazzi di coltivare le proprie inclinazioni. Indirizzati a una cultura umanistica, frequentarono il liceo classico Foscarini e, in seguito, l’elitaria via universitaria fu scontata. Entrambi scelsero la facoltà di Lettere a Padova, assecondando con piani di studio diversi le relative vocazioni: nel 1933 Francesco discusse una tesi di storia del cinema, summa di un’indagine critica da tempo condotta su quotidiani locali; nel 1935 Pier Maria presentò una dissertazione su James Joyce, esito di una ricerca svolta tra Oxford e Dublino <5. Scelte poco ortodosse, in fondo, tra i curricula letterari dell’accademia italiana, certo incoraggiate da una educazione eclettica e liberale.
Colti e ricettivi, i Pasinetti inventavano, mettevano su pagina e inscenavano storie dalla più tenera età e già prima di laurearsi quello che era un divertissement domestico diventò una professione. Scrissero di letteratura, cinema e attualità per diverse testate fino a ideare una «Gazzetta di poesia». Dal 1932 al 1940 «Il Ventuno» <6 - titolo della pubblicazione gravitante nell’orbita del GUF veneziano - trattò disparate questioni culturali, non senza la vivacità polemica che contraddistingueva molti periodici gufini e che pure non impensieriva più di tanto i quadri del regime. Tutto, in quei vitalissimi anni Trenta, faceva guardare al futuro con la gaia sfrontatezza di certi corsivi della rivista: poco più che ventenni entrambi guadagnavano cifre invidiabili con critiche e reportage; Francesco fondava il Cineclub veneziano e animava il Cineguf a livello nazionale, promuoveva il cinema a passo ridotto alla Mostra di Venezia e girava cortometraggi sperimentali, otteneva riconoscimenti ai primi Littoriali, sceneggiava film e commedie, dirigeva opere liriche e compilava una storia del cinema mondiale; Pier Maria scriveva corrispondenze dall’Inghilterra, attraversava l’Atlantico per studiare Hawthorne in Louisiana, frequentava gli scrittori Allan Seager e Robert Penn Warren, pubblicava racconti in inglese nella «Southern Review» e otteneva una borsa di studio per Berkeley. Acuti e disinvolti, fecero un ingresso sfavillante in società, distinguendosi per l’intelligenza, l’inventiva e il savoir faire. Da buoni veneziani, erano conversatori ironici e raffinati, per di più piacevano follemente alle donne.
La morte del padre e lo scoppio della guerra non ostacolarono il loro destino. Prossimi ai trent’anni godevano di lauti introiti, disponevano di proprietà tra Roma, Venezia e la campagna trevigiana, nonché di svariati dipinti di valore, avevano girovagato in lungo e in largo attraversando «diversissimi meridiani» <7 e le carriere professionali erano ben avviate.
Francesco si era stabilito da tempo nella Capitale per inseguire il sogno del cinema. Aveva lavorato presso l’Istituto per la cinematografia educativa e dal 1936 insegnava illuminazione e fotografia al Centro Sperimentale diretto da Luigi Chiarini, una meta cruciale: accanto alla consueta scrittura di testi per pellicole e palcoscenici, diresse una serie di documentari dalla diffusione nazionale per l’Istituto Luce e l’attività critica raggiunse piena maturità approdando su «Bianco & Nero», «Cinema», «Primato», riviste che orientavano il dibattito culturale italiano. Nonostante la prolificità, il giovane cineasta mantenne una certa irrequietezza. L’attività teorica lo oberava a scapito della pratica e i lungometraggi incoraggiati dalla politica non sempre combaciavano con le sue aspirazioni, al punto che non arrivò mai a realizzare un film a soggetto. A nulla valsero le relazioni con grandi produttori e con personalità in vista come Alessandro Pavolini, Giuseppe Bottai, Vittorio Mussolini.
Purtuttavia, proprio al Centro Sperimentale, in un clima fervente, euforico, spesso scanzonato, consolidò rapporti importanti. Con Alida Valli, per esempio, e con Carla Del Poggio, Luisella Beghi, Michelangelo Antonioni, Enrico Fulchignoni, o ancora con i fratelli Puccini e con Peppe De Santis, membri di quel “gruppo romano” che dovette avere qualche influenza nel suo avvicinamento al CLN. Perché se non è semplice ricostruire come e quando maturò nell’animo una ferma condanna del fascismo, da lui stesso sappiamo che fu in contatto con il Partito d’Azione dall’agosto 1943, che si occupò di stampa clandestina e che si preoccupò di preservare opere e attrezzature del Luce. Appoggiato dal Comitato di liberazione, nel 1945 istituì un ufficio tecnico per rimettere in piedi l’attività cinematografica e per creare a Venezia un polo di produzione alternativo a Roma, desiderio infranto che cullava da quando mosse i primi passi tra carrelli e bobine.
Anche Pier Maria si faceva largo nel mondo "à bâtons rompus". Tornato dagli Stati Uniti, aveva audacemente rinunciato a un lettorato alla Sapienza propostogli da Mario Praz <8, si era trasferito a Berlino come insegnante d’italiano, tra il 1938 e il 1939, per poi tornare a Roma, dove aveva prestato servizio all’Istituto per le relazioni culturali con l’estero. Poi fu la volta di Gottinga e anche qui, accanto all’insegnamento della lingua, mantenne vivo il culto delle lettere, del teatro, della settima arte e delle belle donne. Perfettamente a suo agio nei salotti della borghesia tedesca, si fece ben volere da allieve, professori e diplomatici con cui trascorreva amene serate. Continuò a scrivere di cultura per le stesse riviste siglate da Francesco, in particolare «Primato», e fu attentissimo al dibattito intellettuale che ribolliva nelle pagine dei giornali italiani. Ma, proprio come per il fratello maggiore, l’attività pubblicistica e l’insegnamento non erano che occupazioni secondarie - talvolta distrazioni - rispetto a un suo febbrile desiderio: ritirarsi, magari da uomo sposato, nella placida campagna veneta e lì «fare dei libri» <9. Non si sposò mai Pier Maria, né realizzò il sogno agreste, troppo distante, in verità, dai suoi vezzi mondani. Però scrisse, questo sì, racconti e romanzi, ottenendo positivi riscontri dai suoi pari e cercando, né più né meno di tanti suoi colleghi, l’attenzione dei notabili. Ma la fortuna letteraria non fu eguale ai successi di carriera: nel 1942 ottenne un lettorato a Stoccolma, dove diresse l’Istituto di cultura italiana; il romanzo messo in cantiere nel 1941 - quando la sua prima raccolta di racconti stava per essere pubblicata - uscì nel 1959; nel frattempo, a guerra finita, era tornato in America, aveva conseguito un Ph.D. con René Wellek ed era diventato docente di letterature comparate alla UCLA. E, sempre in quegli anni, precisamente il 2 aprile 1949, aveva perso il fratello, colpito da un aneurisma aortico. Dopo "Rosso veneziano" - l’opera a lungo progettata - la produzione narrativa si intensificò, ma Pier Maria, che si poneva idealmente accanto a Vittorini e a Moravia <10, non giunse mai al successo immaginato, ricalcando in questo le sorti del fratello, che pur arrivato alla direzione del Centro Sperimentale non eguagliò gli ammirati modelli Clair, Pabst, De Sica.
Un’intima amicizia, si diceva all’inizio. Di essa rimane traccia in un fitto carteggio che si dipana lungo gli anni Trenta e Quaranta, scaturito dalla prolungata distanza dei due fratelli. Vi è la registrazione dello scorrere della giovinezza, tra ambizioni, difficoltà, successi e frustrazioni; c’è, soprattutto, un’affinità alimentata da un confronto continuo sui lavori personali e altrui. Un dialogo che riecheggia nelle pagine vistate dalla censura (impressionante, a immaginarlo, l’apparato di controllo) tra le cronache minute del quotidiano, talvolta amare, talvolta ricche di humour. Sfogliarle - e commentarle - richiede rispetto e cautela. Il rischio è appunto di mettere sullo stesso piano dettagli magari curiosi ma irrilevanti e questioni che possono dire qualcosa su posture e poetiche. C’è il rischio, insomma, di farsi sedurre dagli scartafacci e di leggere l’avantesto come un testo, giudicando corrivamente riflessioni parziali e private. Con le dovute precauzioni, considerare il punto di vista dei soggetti riflette l’idea di una antropologia che restituisca all’oggetto di studio la sua prospettiva. Questa sì pare rilevante per lo studioso interessato ai rapporti di forza sottesi alla produzione culturale.
[NOTE]
1 Vd. N. STRINGA, Guglielmo Ciardi & figli: una bottega d’arte a Venezia e nel Veneto tra ‘800 e ‘900, in «Le parentele inventate». Letteratura, cinema e arte per Francesco e Pier Maria Pasinetti, a c. di A. RINALDIN, S. SIMION, Roma-Padova, Antenore, 2011, pp. 335-342.
2 Cfr. Petite conversation vénitienne. Entretien de Pier Maria Pasinetti avec Jean-Marie Planes, Bordeaux, Éditions Confluences, 1996, pp. 32-34.
3 Cfr. M. ZERBI, Zi’ Emma. Emma Ciardi pittrice nei ricordi dei nipoti Francesco e Piemme Pasinetti, in «Le parentele inventate», cit., pp. 346-353.
4 Cfr. P.M. PASINETTI, Fate partire le immagini, a c. di S. TAMIOZZO GOLDMANN, Roma-Padova, Antenore, 2010, pp. 3-4.
5 Sulla formazione universitaria dei fratelli Pasinetti vd. M. REBERSCHAK, I fratelli Pasinetti alla ricerca della cultura, in «Le parentele inventate», pp. 89-99 e ID., Una cultura aperta, in La scoperta del cinema. Francesco Pasinetti e la prima tesi di laurea sulla storia del cinema, a c. di ID., Roma, Luce, 2002.
6 Vd. L. PIETRAGNOLI, «Il Ventuno», in La scoperta del cinema, cit., pp. 67-87.
7 P.M. PASINETTI, Il cielo in terra, in «Primato», I, n. 8, 1940, p. 4.
8 «Per l’anno 1938 autunno, se Lei non trova di meglio, Le proporrei di essere mio lettore qui a Roma. Pagan poco (456 lire al mese), ma c’è anche poco da fare, e sarebbe un principio. Che ne dice?», lettera di Mario Praz a Pier Maria, Roma, 4 ottobre 1937 (CISVe, Archivio «Carte del Contemporaneo», Fondo Pier Maria Pasinetti, Serie “Corrispondenza” [d’ora in avanti ACC/FPMP], coll. 60.10).
9 Lettera n. 177, del 19 febbraio 1942.
10 Cfr. lettera n. 167, del 21 gennaio 1942.
Nicola Scarpelli, Pier Maria - Francesco Pasinetti. Lettere scelte. 1940-1942, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2016

lunedì 21 marzo 2022

Noi preferivamo l’antica versione delle storie del Dottor Oss


Sono state ripubblicate le storie del Dottor Oss. In un libro cartonato, tutto a colori, l’ideale volume-strenna che l’appassionato di fumetti si può regalare così, in qualsiasi momento, per farsi felice, leggendo poi questa o quell’avventura, o anche semplicemente lasciandosi andare alla suggestione evocativa di una vignetta, al divertimento per l’ironico marchingegno che appare in un’altra, e così via.
Ma chi è mai il Dottor Oss? - si domanderanno forse i più sprovveduti dei nostri lettori. Allora riferiamone brevemente la storia editoriale. Il Dottor Oss è un personaggio di Jules Verne, e precisamente il protagonista di un suo romanzo breve, Un capriccio del dottor Ox. Nel 1964 Carlo Triberti, allora direttore del “Corriere dei Piccoli”, mise questo romanzo nelle mani di Mino Milani, proponendogli di adattarlo per farne delle tavole illustrate da Grazia Nidasio. Racconta Milani come la storia e il personaggio non gli piacessero granché e probabilmente decise di rivederli un po’. Fatto sta che il Dottor Oss - nella versione milaniano-nidasiana è longilineo, raffinato, silenzioso, di nero vestito - acquisì subito un suo fascino, e da quel primo episodio se ne generarono altri, questa volta con trame scaturite direttamente dalla testa di Milani (che comunque, per non inflazionare troppo con la sua firma le pagine del “Corrierino”, su cui all’epoca era attivissimo, usò lo pseudonimo di Piero Selva). La serie andò avanti sino al 1969.
Oggi il tutto viene dunque nuovamente edito in questo libro della ComicOut, con due testi introduttivi di Pier Luigi Gaspa e Alfredo Castelli, una testimonianza di Mino Milani, una nota (e un disegno inedito, datato 2012) di Grazia Nidasio. O, per meglio dire, il tutto, più che riedito, viene restaurato (per quanto riguarda le illustrazioni) e riscritto (per quanto riguarda i testi). Giacché le tavole sono riprodotte dagli originali di Nidasio, che disegnava col tratto nero e poi dava il colore a gouache, in trasparenza, sul lato opposto del foglio, usando il tavolo luminoso. E per quanto riguarda il testo che, a modo di una lunga didascalia, sottostava a ogni vignetta, Milani gli ha dato una nuova veste, più sciolta e moderna. Noi, lo confessiamo subito, preferivamo l’antica versione. Giusto per fare un paio di esempi, possiamo citare da Il dottor Oss e la città sommersa, del 1966. Sul “Corriere dei Piccoli” n. 17, del 24 aprile: “E cos’è quell’ombra che, rapida, quasi sospinta dal vento, s’avvicina al castello? E perché vaga come in cerca d’un varco, attorno alle mura?”. Mentre il testo 2013 dice: “E perché un’ombra vaga come in cerca d’un varco attorno al castello?”. Poco oltre, scovando un intruso nel sotterraneo, Oss esclama: “Fermo là, chiunque voi siate! Debbo avvertirvi - soggiunge - che, per quanto personalmente contrario all’uso delle armi da fuoco, ho con me due pistole a trombone: e che sono membro ordinario dell’Associazione irlandese dei Virtuosi del tiro a segno. Voi non avreste alcuno scampo. Uscite dunque di costì!”. Mentre nel libro la frase suona: “Fermo, chiunque voi siate! V’avverto che, per quanto personalmente contrario all’uso delle armi da fuoco, sono socio del Club irlandese dei Virtuosi del Tiro a Segno, e ho con me due pistole a trombone. Non avreste scampo. Uscite!”. Minuzie, si dirà, ma il tono è decisamente cambiato, ha perso la sua patina arcaica, ha un altro sapore, così come in un’immagine basta un grado in più o in meno di luminosità per modificare un’atmosfera o una sensazione. Il buon Dio sta nel particolare, come diceva quel collezionista di figurine,  appunto.
Ma, passando oltre queste acribie da filologo, diciamo due o tre cose su queste deliziose, gustosissime storie disegnate. Ci sono delle trame misteriose e ingenue al tempo stesso, divertite e divertenti, intessute di suspense e colpi di scena. C’è un’ambientazione vittoriana resa per accenni, ombre, dettagli. Ci sono dei collages: verbali (il nome dei macchinari di cui si serve Oss) e visivi. C’è un rapporto immagine-scrittura che fa sì che non si sa più se sono le parole a creare l’illustrazione o è l’immagine a suggerire le parole. Ci sono sequenze che hanno un ritmo lento, pacato, e altre giocose, indiavolate.
Milani procede non con toni descrittivi ma narrativi ed elencativi. Nel senso che sembra il cronista di eventi che in qualche modo deve riportare, da fedele scrivano che compila gli annali di vicende straordinarie. Nidasio procede creando scene, atmosfere, visioni. L’enigma di ciò che si vede, e che pur visto rimane un enigma. E ogni vignetta è un quadretto a sé, e ogni testo sottostante è come un episodio a sé. Eppure ogni tassello si combina con gli altri, come in un album, come in un film.
Jules Verne, Mino Milani e Grazia Nidasio, Il Dottor Oss illustrato, a cura di Laura Scarpa, ComicOut, Roma 2013
Marco Innocenti, Le avventure del Dottor Oss in IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM) - ANNO VI N° 2 (22) SANREMO, APRILE/GIUGNO 2015

[n.d.r.: tra gli scritti di Marco Innocenti si segnalano: articoli in Mellophonium; Scritti danteschi. Due o tre parole su Dante Alighieri, Lo Studiolo, 2021; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sandro Bajini, Del modo di trascorrere le ore. Intervista a cura di Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2012; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006]

giovedì 17 marzo 2022

Ad abbassare il livello erano i “maestri di guerra”


Nel 1922 venne fondata l’Opera nazionale contro l’analfabetismo <1298. Voluta dal presidente del Consiglio Boselli e dal ministro dell’istruzione Orso Mario Corbino per «combattere l’analfabetismo degli adulti e della popolazione sparsa e fluttuante» (pastori, pescatori, minatori, braccianti, ecc.) <1299, l’Opera si configurava come un ente misto pubblico privato, finanziato dall’amministrazione centrale e gestito sul territorio dagli enti che per tradizione storica avevano fatto dell’emigrazione uno dei loro centri di interesse. Il Commissariato, che era uno degli «enti sovventori», interruppe il progetto autonomo delle scuole serali ed elementari per gli emigranti avviato nell’anno precedente. La capacità di azione dell’Opera era infatti molto più vasta. Dal punto di vista finanziario disponeva di un fondo di 5.700.000 lire, a cui si aggiungevano «la somma che verrà annualmente stanziata dal Commissariato dell’emigrazione» e «le somme destinate allo scopo da altri Enti sovventori» <1300: una cifra più che doppia rispetto a quella di cui il Commissariato aveva disposto l’anno prima. Dal punto di vista operativo poi l’Opera agiva attraverso l’intermediazione di strutture già radicate sul territorio, vale a dire la Società Umanitaria (in Puglia), l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno (in Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna), il Consorzio nazionale emigrazione e lavoro (in Campania e Molise) e infine l’Istituto fondato da Giovanni Cena per i contadini dell’agro romano e delle paludi pontine (in Abruzzo, Lazio, Marche, Toscana meridionale, Umbria).
L’azione di contrasto all’analfabetismo avveniva per mezzo scuole diurne, serali e festive. Le scuole diurne erano destinate ai figli dei lavoratori itineranti, avevano sede nelle campagne o vicino agli opifici dove fosse possibile accogliere almeno 20 alunni dai 6 ai 14 anni e constavano di 180 lezioni continuative di cinque ore al giorno «nell’epoca più indicata dell’anno in relazione alle locali esigenze di lavoro e vita». Le scuole serali (per operai, contadini, pastori, ecc.) erano destinate agli analfabeti o semianalfabeti che avessero superato il 12° anno di età. Potevano essere istituite nelle città, vicino agli opifici, laboratori, cantieri ecc., per un minimo di 15 allievi. Due ore di lezione al giorno coprivano il programma di 1a elementare e conducevano l’alunno analfabeta a leggere e scrivere. Al pubblico femminile e al complemento delle scuole diurne e serali erano destinati i corsi festivi, con un programma basato sull’acquisizione di cognizioni utili alla vita pratica e professionale: tra gli strumenti didattici erano compresi anche il cinematografo, gli esperimenti pratici, le letture, le conferenze.
L’Opera non parlava più di scuole speciali per gli emigranti, brevi e “specialistiche”, ma di un’azione generalizzata per consentire agli adulti, emigranti e non, di apprendere le basi culturali minime utili in ogni occasione della loro vita.
Grazie alla consistente disponibilità di fondi, il numero degli interventi realizzati nel primo anno fu davvero notevole (nella sola Sicilia le scuole aperte furono circa 370 <1301) e l’azione didattica impartita «ebbe un peso significativo nella stesura della riforma dei programmi della scuola primaria che in quegli anni si andava delineando» <1302: a Lombardo Radice infatti era stata assegnata la direzione didattica e culturale delle scuole delegate all’ANIMI, dove ebbe modo di sperimentare sul campo alcune linee didattiche che sarebbero poi entrate nei programmi ufficiali nazionali.
15. I corsi magistrali per i maestri degli emigranti
Intanto, liberato dall’impegno delle scuole serali per analfabeti, nel 1922 il Commissariato preferì destinare i fondi disponibili all’istituzione di corsi magistrali per gli insegnanti.
"Il Commissariato, essendosi liberato [...] del compito dell’istruzione alfabetica delle masse emigranti, volse le sue cure ad un’altra utilissima iniziativa: quella dell’istruzione dei maestri diplomandi o diplomati intorno alle necessità e alle caratteristiche del nostro movimento emigratorio" <1303.
Disporre di istituzioni scolastiche senza insegnanti adeguatamente preparati spinse il Commissariato a intervenire a supporto dei maestri.
Non si trattava di una novità: basti pensare ai primi tentativi dell’Umanitaria e del Ministero dell’istruzione tra il 1912 e l’inizio della guerra. Un’organizzazione, quella degli anni pionieristici che avevano preceduto il conflitto, rudimentale e utile tuttalpiù, lo ammetteva «La Coltura popolare», per «saggiare l’ambiente e per sapere […] fino a qual punto si poteva contare nella volenterosa collaborazione dei maestri vecchi e giovani» <1304. Le prove di età giolittiana avevano dato segnali incoraggianti e - è sempre «La Coltura popolare» a parlare - «fecero sorgere l’evidente desiderio di qualche cosa di più saldo e di più continuativo». Ora, a guerra finita, quel «qualcosa di più saldo e continuativo» veniva attualizzato dal Commissariato, che tornava all’opera anche in questa direzione.
Per la verità, negli anni del dopoguerra la necessità di una riforma complessiva della formazione magistrale era sotto gli occhi di tutti ed era stata messa in luce senza troppi giri di parole anche da Giuseppe Lombardo Radice. Un suo intervento uscito su «La Coltura popolare» nel 1922 con il titolo "Che cosa vuole il Mezzogiorno per la sua scuola e la sua cultura popolare" <1305 denunciava l’abbassamento del livello culturale dei docenti che la guerra aveva portato con sé. Una causa, forse la principale, andava rintracciata nella liberalità con cui le abilitazioni all’insegnamento elementare erano state concesse durante il conflitto.
Quando presentava le condizioni dell’istruzione nel Mezzogiorno, lo studioso siciliano annotava infatti:
Non che manchino nuovi maestri […]; tutt’altro. I licenziati delle Scuole Normali e dai Corsi Magistrali si contano a migliaia. Le facilitazioni concesse per i combattenti, veramente eccessive, delle quali hanno approfittato moltissimi falliti dalle più diverse carriere, i quali in generale non avevano nulla da vedere colla guerra, o non erano stati combattenti, hanno portato la cifra dei diplomati ad altezze spaventose <1306.
Ad abbassare il livello erano i “maestri di guerra”: "gente che pur non essendo priva di intelligenza, è di una meravigliosa rozzezza di cultura; che dopo una lunga interruzione di studi, in due o tre mesi ha fatto una preparazione d’esame - ognuno immagini quale -; che spesso ha appena la cultura d’un antico licenziato di scuola tecnica; gente che entrando a scuola nella qualità di supplente, per solito non sa da che parte rifarsi e forma la disperazione di chi dirige le scuole" <1307.
Il dopoguerra soffriva dunque lo scarso livello qualitativo della professionalità docente, con ricadute sulla gestione delle attività didattiche ordinarie. Ciò che valeva per le scuole elementari “istituzionali” non poteva che risultare amplificato nel settore dell’istruzione per gli emigranti, che si configurava come un ambito altamente specialistico, perché rivolta a un pubblico adulto e circoscritta a periodo molto limitato.
Per questa ragione, dovendo accingersi all’organizzazione dei nuovi corsi magistrali, negli anni Venti il Commissariato scartò l’idea di una formazione “a posteriori” attraverso l’aggiornamento professionale di chi era già inserito in organico, idea di formazione che era stata realizzata fino al 1915, mentre preferì collocare i corsi di specializzazione all’interno delle scuole normali governative, rivolgendoli di preferenza agli studenti e alle studentesse del terzo anno, oltre che agli insegnanti disoccupati o «già esercenti» <1308. L’obiettivo fu quello di aprire un corso di specializzazione in emigrazione, facoltativo in ogni Scuola Normale italiana.
Per questa ragione (è sempre «La Coltura popolare» a informarcene), il Commissariato interpellò i direttori delle 150 Scuole Normali, lasciando a essi la scelta «dell’epoca più adatta per l’inizio eventuale delle lezioni» <1309. La maggioranza preferì «senz’altro di aprire il Corso in modo di terminalo per il 15 giugno, 42 preferirono rinviarlo in autunno prossimo, e uno soltanto mancò di dare alcuna risposta» <1310.
«La Coltura popolare» riporta i dati dei corsi attivati dal Commissariato nel 1922 ripartiti su base regionale (dati che, occorre segnalarlo, non collimano con quelli del «Bollettino dell’emigrazione» <1311):


L’elevata affluenza di studenti comportò in alcuni casi lo sdoppiamento delle sezioni e l’ipotesi di estendere gli interventi anche alle scuole normali pareggiate e ai ginnasi magistrali («per avere presto circa cento nuovi Corsi con parecchie migliaia di nuovi maestri, addestrati ai nuovi doveri della loro missione» <1312).
A differenza che nel passato, i conferenzieri furono scelti tra i professori di pedagogia, italiano e geografia. Veniva così superata l’approssimazione pedagogica che aveva condizionato come un limite gli interventi degli “esperti”, scelti un tempo tra i tecnici e i giuristi che si occupavano dal punto di vista professionale della tutela sociale degli emigranti. Con un onorario di 800 lire per corso (25 lire all’ora) i relatori erano maggiormente valorizzati e invogliati a preparare le lezioni. Affinché fosse assicurata l’omogeneità dei programmi, i funzionari del Commissariato compilarono 12 Quaderni in accompagnamento dell’azione didattica. Gli argomenti trattati erano i seguenti <1313:


Non dissimili dai programmi del periodo giolittiano, quelli del 1922 incrementavano le conoscenze di geografia economica a discapito della legislazione sul lavoro.
Rivisti con l’aggiunta di alcuni estratti monografici e sfrondati delle parti accessorie, i Quaderni assunsero la loro forma definitiva nel volume Manuale per l’istruzione degli emigranti edito nel 1925, che il commissario generale dell’emigrazione dedicò a Benito Mussolini, in quel momento presidente del Consiglio e ministro degli esteri ad interim. Le poche righe della premessa che trascriviamo rendono conto del clima di quel tempo:
"Nella forma definitiva del volume, che ho l’onore di presentare alla E.V., vengono licenziati i quaderni che, in bozze di stampa, hanno servito a preparare, nel 1922, i maestri degli emigranti, diplomati dai Corsi espressamente istituiti dal Commissariato generale dell’emigrazione. Questi Corsi formarono parte del programma che, all’indomani della Vittoria, il Commissariato si propose di svolgere per la valorizzazione dell’emigrante. Per molto tempo, nel fenomeno dell’emigrazione, non si era visto che uno straripamento demografico da lasciar libero per meglio respirare in Patria, o da incoraggiare specialmente ai fini delle rimesse di denaro; noi volemmo, invece, considerare l’emigrazione per quello che essa è: cioè un grande interesse nazionale, rappresentato da una vera e propria forza economica che allarga all’estero i confini morali e materiali della Patria. Questa forza - come tale - era sempre stata trascurata; noi volemmo conferirle tutto il suo valore, accrescerlo, vivificarlo, mirando, in altre parole, a questa concreta finalità: che la nostra emigrazione non deve più disperdersi per il mondo, amorfa e sparpagliata, ma bensì - abilmente coordinata nei rapporti tra l’offerta e la domanda - divenire un complesso solidamente organico di energia tanto più fruttifera quanto maggiormente valorizzata nel campo morale, intellettuale e tecnico" <1314.
Mussolini sembrò gradire il volume. Scritta a mano sul risguardo, la sua dedica annota: "Questo è il Viatico di Amore e Protezione che la Patria consegna ai suoi figli, perché la ricordino e la onorino sempre e dovunque".
Due anni più tardi però, nel 1927, il Commissariato venne soppresso. Era incominciata una storia diversa.
 
[NOTE]
1298 D.L. 28 agosto 1921 n. 1371 che costituisce l’«Opera contro l’analfabetismo», cit.
1299 Orso Mario Corbino (Augusta 1876 - Roma 1936) fu professore di fisica sperimentale all’Università di Catania dal 1905 e all’Università di Roma dal 1908, divenendo direttore dell’istituto di fisica in questa sede dieci anni più tardi. Assunse impegni di carattere pubblico fin dagli anni Dieci; nel 1920 fu nominato senatore e nel 1921 chiamato da Bonomi a dirigere il Ministero dell’istruzione, dopo il veto incrociato dei popolari, dei socialisti e dei democratici contro il progetto crociano di esame di stato. Diresse il Consiglio superiore pubblici nel 1923 su chiamata di Mussolini, e negli anni successivi ricoprì incarichi di amministratore in importanti società elettriche (Edison, S.M.E., ecc.), nell’I.M.I., nel Credito italiano, nella società Pirelli. Per conto del governo esercitò la sua attività anche nel campo delle trasmissioni radiofoniche dal 1931. Si veda la voce Corbino, Orso Mario, in DBI, 28, 1983 a cura di Edoardo Amaldi e Luciano Segreto.
1300 D.L. 28 agosto 1921 n. 1371 che costituisce l’«Opera contro l’analfabetismo», cit., art. 19.
1301 Il dato è desunto da ANIMI, Fondo corrispondenza soci, consiglieri e presidenti, serie A05, cartella UA7, 1921.
1302 F. Mattei, ANIMI. Il contributo dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia alla storia dell’educazione (1910-45), Anicia, Roma 2012, p. 98. Sul contributo dell’ANIMI alle vicende dell’Opera si veda anche M. Fusco, L’associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno nella lotta contro l’analfabetismo: 1910-1928 in «Archivio storico per le province napoletane», III, 20, 1981.
1303 La valorizzazione degli emigranti. La preparazione culturale e professionale dell’emigrante in patria, in «Bollettino dell’emigrazione», cit., p. 4.
1304 Per la preparazione degli emigranti, in «La Coltura popolare», XII, 9, 1922, p. 351.
1305 G. Lombardo Radice, Che cosa vuole il Mezzogiorno per la sua scuola e la sua cultura popolare, estratto dalla rivista «La Coltura popolare», anno XII - 1992 - n. 9, Unione italiana sull’educazione popolare, Milano [1922]
1306 Ivi, p. 7.
1307 Ibidem.
1308 I corsi magistrali sull’emigrazione, in «Bollettino dell’emigrazione», 6, 1922, p. 443.
1309 Per la preparazione degli emigranti, in «La Coltura popolare», cit., p. 351.
1310 Ibidem.
1311 Ibidem. In realtà i dati subiscono variazioni anche significative a seconda delle fonti utilizzate. In Corsi agricoli per colonizzatori italiani (1921), in «Bollettino dell’emigrazione», cit., il numero dei corsi è quantificato in 107, con 7404 iscritti e 4672 abilitati. In un altro articolo, sempre pubblicato sul «Bollettino dell’emigrazione» ma nel 1923, il numero delle scuole sale a 124 con 8289 iscritti. Infine, De Michelis nel 1925 parla di 141 scuole con 144 sezioni, 9700 iscritti e 6000 abilitati (in Commissariato generale dell’emigrazione, Manuale per l’istruzione degli emigranti, Sandron, Roma 1925, p. VIII).
1312 Per la preparazione degli emigranti, in «La Coltura popolare», cit., p. 353.
1313 Ibidem.
1314 Commissariato generale dell’emigrazione, Manuale per l’istruzione degli emigranti, cit., p. VII.
 
Alberta Bergomi, "Prima che partano!" Progetti di alfabetizzazione e scuole per emigranti nell'Italia dell'età liberale (1860-1920), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bergamo, Anno accademico 2015/16