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domenica 6 marzo 2022

Il teatro di narrazione ha palesato al suo interno l’esistenza di caratteri affini ai movimenti dell’anti-politica


A complicare ulteriormente il quadro della lettura del reale offerto dal teatro di narrazione vi è la perenne ambiguità che tali spettacoli palesano nel momento in cui, a fianco della proposta di un racconto a tema storico quale opinione personale dell’autore, concorrono elementi tali da mettere in ombra il dato del soggettivismo dichiarato il quale, pertanto, rischia di divenire una mera scusante per poter affermare verità non accertate. Tra questi elementi, riscontrati a seconda delle narrazioni analizzate in questa tesi, vi sono i riferimenti in merito all’opera di controllo, di revisione e soprattutto di ‘aggiornamento’ continuo del testo - alimentati non solo dal narratore e da una parte della critica teatrale ma anche dalla stampa <3 -, un dato, questo - specie l’aggiornamento -, che non trova corrispondenza tra intenti e prassi come visto nel caso dei prodotti di Paolini in merito al caso di Ustica; ma anche il ripudio dello scetticismo postmoderno, l’utilizzo di fonti documentali parziali usate come prove definitive, il paragone di Baliani con l’operato di Carlo Ginzburg - fortemente ambiguo sul versante del rapporto tra vero e verosimile in quanto mira alla sovrapposizione dell’utilizzo del verosimile come risorsa per le lacune documentali in sede di ricerca storica con la verità del racconto immaginifico -, l’utilizzo del paradigma indiziario, il rifiuto (è il caso di Paolini) o la messa in ombra (è il caso di Celestini nel testo di "Radio Clandestina") dell’ideologia e, infine, le critiche a quelle narrazioni che utilizzano meccanismi combinatori affascinanti (è ancora il caso di Paolini) per riscrivere faziosamente la storia, salvo poi non percepire che le proprie narrazioni teatrali utilizzano quei medesimi meccanismi per rendere più efficace la verità proposta nel proprio racconto di fronte ai problemi della mancanza di prove.
[...] Ponendo al presente la celebre domanda «che cos’è Illuminismo (oggi)?» e affidando la risposta all’analisi dell’operato dei narratori teatrali, il dato più evidente che si riscontra è quello che, in rapporto all’uso pubblico della ragione invocato da Kant per realizzare l’Illuminismo tra gli uomini, vede nel presente il manifestarsi di un uso prevalentemente privato dell’intelletto in quanto il grado di universalità che separa i due usi appare orientato decisamente verso il basso. Ciò è dovuto principalmente a due fattori: da un lato, alla necessità di rispondere ad esigenze di committenza (la televisione di Stato nel caso del "Corpo di Stato" di Baliani, Daria Bonfietti nel caso di "I-Tigi Canto per Ustica" di Paolini, la proposta di Mario Martone, allora direttore dell’Associazione Teatro di Roma, nel caso di "Radio Clandestina") che hanno reso la ‘carica civile’ del narratore simile a quella di un funzionario pubblico o di un ecclesiastico che, per mezzo di «orazioni civili», parla ai cittadini di uno Stato o ai fedeli di una Chiesa, ad un pubblico dunque limitato e che non può essere rintracciato nell’universalità del mondo intero; dall’altro lato, a fattori economici che si esplicitano in due principali modalità particolarmente riconducibili all’operato di Marco Paolini: la prima è quella del prolungamento della durata di vendita di un prodotto a scapito dell’aggiornamento delle informazioni contenute al suo interno, la seconda è quella legata al fatto di celare allo spettatore informazioni preziose che gli permetterebbero di avere fondamentali strumenti d’interpretazione in merito a ciò a cui sta assistendo e che, nemmeno complete, egli può ricevere solo ricercandole nei sotto-link dei siti internet o trasformandosi in acquirente dei libri che accompagnano i video degli spettacoli venduti nel circuito del mercato editoriale. Ciò genera naturalmente una sproporzione tra le informazioni che riceve la stragrande maggioranza del pubblico, quella che assiste ad uno spettacolo teatrale trasmesso in televisione, e coloro i quali (fortemente in minoranza) acquistano invece anche i prodotti riproducibili, come risulta dai dati riportati nella nostra tesi.
Avviene così che nel celebrare l’ideale caro a Norberto Bobbio della democrazia come «casa di vetro», tale sproporzione nella ricezione delle informazioni fornite dal narratore conduca piuttosto ad una scarsa trasparenza dei metodi utilizzati dal narratore stesso e, dunque, al perseguimento di un “comune accordo” con la civitas quale giudizio collettivo ma sommario anziché ad un processo “universale” capace di dotare il pubblico di strumenti interpretativi.
Un tentativo di influenza sull’opinione pubblica che, non senza un forte paradosso logico, mentre dichiara la necessità di un risveglio della società civile italiana, di una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato e mentre ricerca anche negli eventi del passato esemplarità che mostrino quel coraggio civile e politico di cui l’essere umano è capace e che oggi si fatica a rintracciare nel presente, rilancia altresì quella corrosione dello Stato e della dimensione politica che, come risulta dai dati Censis, il ‘primato dell’opinione’ contribuisce a realizzare. Alimentando un diffuso antagonismo tra Stato e società civile, operando una divisione manichea tra le due parti e costruendo la sua critica alla realtà non in termini esplicitamente politici bensì opponendo ad essa costruzioni utopiche o ricostruzioni parziali che sovente fanno leva su dinamiche qualunquiste, il teatro di narrazione ha palesato al suo interno l’esistenza di caratteri affini ai movimenti dell’anti-politica.
L’individuata capacità del narratore di costituire un proprio popolo <4 risulta rafforzata dall’identificazione operata tra la figura della società civile e quella della vittima; a fronte di uno Stato carnefice e sempre colpevole, la società civile gode infatti dell’immunità della vittima, innocente in quanto parte lesa. In questa maniera si assiste, nelle narrazioni che abbiamo assunto come casi di studio, a delle opposizioni emblematiche se rapportate alla funzione terapeutica sovente associata a tali spettacoli: la colpevolezza dello Stato si manifesta nell’aver voluto accoppare Aldo Moro nella stessa maniera in cui l’innocenza della vittima-società civile si palesa nell’essere finiti in prigione per una sciocchezza, come quella di aver celato la pistola di un compagno entrato in clandestinità durante il clima da guerriglia urbana degli anni Settanta. La colpevolezza dello Stato è poi quella dei suoi apparati militari, rei di aver nascosto non gli iniziali sospetti in merito alla caduta del Dc9 Itavia bensì una verità provata e taciuta sostituendola con un’altra; di contro, la società civile è la vittima tenuta all’ombra di oscure trame e il tentativo di influenza mediatica operato dal narratore specchio del cittadino sull’opinione pubblica e sui processi in corso che erano volti ad accertare la colpevolezza o l’innocenza degli imputati non costituisce un processo sommario e un giudizio preventivo di colpevolezza dato al di fuori dalle aule del tribunale - come prospettato dall’interpellanza parlamentare sorta conseguentemente agli spettacoli di Paolini - bensì, secondo quanto riportato nel libro "I Tigi da Bologna a Gibellina" venduto insieme al DVD dello spettacolo, un tentativo simile alla "Truth and Reconciliation Commission" istituita in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid con il compito di superare le divisioni e le lotte del passato. Infine, la colpevolezza dello Stato è quella del Fascismo e della guerra a fianco del Nazismo di contro alle vittime di una società civile costretta alla miseria, allo sfruttamento e alla morte.
È evidente che una simile tendenza nella rappresentazione storica di un evento, quella cioè che sposta totalmente la colpa da un lato e l’innocenza dall’altro, non solo finisca con il cadere in un ingenuo meccanismo manicheo ma sia anche difficilmente inquadrabile come tentativo di riappacificazione e riconciliazione collettiva. Accanto alla visione consolatoria, infatti, che promuove l’innocenza degli individui nella partecipazione degli eventi di cui è responsabile lo Stato-carnefice, la forte componente polemica, di rabbia e di scontro così come la scelta di eliminare il «punto di vista del lupo» <5, le voci ritenute antagoniste nelle fonti analizzate e, dunque, di proporre ricostruzioni faziose incentrate sul proprio Io quale guida delle idee e delle rappresentazioni pubbliche, non sembrano elementi in linea con un tentativo di riconciliazione tra cittadini e Istituzioni quanto, piuttosto, delle prese di posizione volte a professare una verità poco propensa ad essere messa in dubbio - la propria o quella di altri fatta propria e testimoniata -, ambiguamente accompagnata da fonti, testimonianze, ricordi e documenti a volte mal interpretati o modificati nella portata del contenuto per rendere più efficace la narrazione stessa.
D’altronde, la stessa esplosione del fenomeno del teatro di narrazione è avvenuta a pochi anni di distanza dal biennio 1992-1994, quando nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica i cittadini italiani si sono trovati a dover ridefinire molti degli elementi di quel patto fiduciario su cui era basata la memoria della Nazione; scandali legati a problemi di corruzione e di contiguità tra poteri criminali e poteri ufficiali hanno decretato una crisi della fiducia nello Stato che sembra essere ben rappresentata dal riemergere della critica politica nel teatro di narrazione dopo il disimpegno degli anni Ottanta. Inoltre, a fronte di una storia del secondo Novecento ancora costellata di eventi non del tutto risolti sul piano della verità giuridica e/o storica, e comunque al centro di forti divisioni sociali in seno alla memoria o al significato assegnato all’evento stesso, il teatro di narrazione si è inserito, attraverso alcuni suoi spettacoli, nel solco di quella tendenza diffusa e atta a sostituire il lento procedere della ricerca storica, in virtù delle pressanti necessità del presente, con figure professionali molto diverse tra loro e che vanno dal mondo del giornalismo a quello dello spettacolo, dal mondo della politica a quello letterario, tutti intenti a tirare le fila di un discorso storico innanzi all’opinione pubblica che trova nella commistione con la fiction uno dei suoi caratteri principali.
Tale commistione, se da un lato produce una risposta a quel rinnovato «bisogno» di storia che, in modo particolare dagli anni novanta del Novecento, sembra essere testimoniato dal fiorire di trasmissioni televisive ed eventi spettacolari in genere riferiti ad eventi storici, dall’altro ha fortemente contribuito a quella spettacolarizzazione dell’informazione pubblica che cerca di rispondere a tale «fame di storia» non attraverso analisi, studi e ricerche bensì attraverso il coinvolgimento del pubblico all’interno di un dibattito collettivo, coinvolgendo i cittadini in percorsi da detective senza per questo essere dotati della formazione necessaria o degli strumenti adeguati a tale scopo. Proprio da  questo «filo diretto con lo spettatore», sorto con l’avvento in Italia della cosiddetta «Tv-Verità» a partire dal 1987, il teatro di narrazione ha mutuato una delle sue caratteristiche peculiari, quella di un rapporto diretto con il proprio ‘popolo’ di spettatori: non solo tentando la creazione di drammaturgie collettive, riviste e modificate a seconda dei consigli, delle aggiunte o dei tagli che venivano proposti in seno alle numerose prove aperte che, ad esempio, avevano caratterizzato l’esperienza dello spettacolo di Marco Paolini relativo alla tragedia del Vajont, ma anche adottando strategie e tecniche volte a posizionare il narratore «allo stesso livello degli spettatori» affinché la comunione tra le due parti possa realizzarsi attraverso quel gioco di specchi che connota il dispositivo scenico del ‘cittadino qualunque’.
Si vede bene, allora, la contraddizione che vive alla base di tali operazioni: da un lato, infatti, la critica alle provocazioni filosofiche pone il narratore come baluardo contro la deriva del senso causata dal relativismo e dalla frammentazione del reale nella postmodernità mentre, dall’altro, al fine di contrastare l’isolamento che inevitabilmente coinvolge quanti, tra il pubblico, non concordano con le opinioni fornite dai narratori, e di assolvere alla necessità squisitamente politica di coinvolgere il più ampio numero di persone possibile, si finisce con il pubblicizzare un atteggiamento che va in direzione opposta, ovverosia proponendo la ricostruzione di un evento frammentandolo attraverso una miriade di opinioni particolari, molte delle quali non specialistiche come d’altronde non specializzato - cittadino qualunque per l’appunto - si presenta il narratore.
Anche questa tendenza alla creazione collettiva con il pubblico è risultata però essere piuttosto illusoria o quantomeno assai limitata nel tempo; a partire dal nuovo millennio, infatti, già con la nascita di "Canto per Ustica" nel 2000, la posizione di Marco Paolini assume molto più nettamente i contorni di un “portatore di verità” piuttosto che quelli di chi tenta un dialogo con il pubblico; non solo perché l’attraversamento del medium televisivo avviene dopo soli quattro mesi di prove, a differenza dei quattro anni di gestazione della precedente esperienza del "Vajont", ma anche perché, come visto in merito all’iniziativa editoriale seguita agli spettacoli di Paolini trasmessi nel 2003 all’interno della trasmissione televisiva "Report", le critiche giunte al narratore in merito alle informazioni fornite nei suoi spettacoli non vengono più prese in seria considerazione. In quell’occasione, infatti, l’attore-narratore veneto aveva creato cinque monologhi che spaziavano su temi così vasti da mettere in difficoltà il più prudente degli studiosi: dall’Uranio impoverito alla dura vita di un operaio, dalla strage di Bhopal al crollo della lira in borsa nel 1985, ecc. Inevitabilmente, si aprirono spazi di critica volti a correggere e a migliorare i contenuti delle narrazioni proposte ma nel cofanetto (libro più DVD) messo in vendita l’anno successivo veniva precisato come fosse stato corretto «molto poco» dopo essere stati «sommersi di e-mail» <6 perché i racconti orali non hanno l’ambizione di esaurire un argomento ma solo quello di incuriosire.
Veniva, insomma, messa da parte la responsabilità di chi diviene fonte di sapere per milioni di persone attraverso le sue operazioni sempre al confine tra storia e fiction e veniva rivendicato il carattere orale della narrazione proprio nel momento in cui tali racconti assumevano la forma di libro cartaceo senza nemmeno essere delle pedisseque trascrizioni degli spettacoli originali.
D’altro canto, è pur vero che una delle più importanti ragioni del successo, in termini di pubblico, delle narrazioni teatrali a tema storico nel secondo Novecento può essere individuata proprio nella messa da parte di quello scetticismo conoscitivo di cui abbiamo già detto. A fronte di un paese fortemente diviso e sovente attraversato da un canto e da un contro-canto che rendono difficile raggiungere una posizione condivisa su alcuni fondamentali aspetti della vita e della storia socio-politica italiana, la possibilità di assistere ad una narrazione la cui verità artistica normalmente non necessiterebbe di essere messa in discussione sul piano della realtà fattuale consente di dare una risposta all’indeterminatezza del reale grazie ad una ritualità che fa da viatico per un’elaborazione del lutto a fronte di quelle vittime insepolte del secondo Novecento italiano o che ancora oggi non hanno ancora ricevuto legalmente giustizia.
Il binomio conoscenza-felicità che il teatro di narrazione ha mutuato dal pensiero di Kleist si sposa infatti con la necessità, altrettanto kleistiana, di «sentirsi nel giusto, nel diritto».
[...] Il retroterra politico dei narratori in oggetto di studio è risultato essere quello prossimo agli ambienti della Sinistra o del Centro-Sinistra italiani, come dimostrato dal debito di gratitudine espresso da Marco Paolini nei confronti di Gianfranco Bettin e dalla sinergia attuata con Daria Bonfietti per il progetto Ustica, dall’iscrizione giovanile di Ascanio Celestini alla Federazione Giovani Comunisti o dalle tematiche trattate nei suoi spettacoli - si veda, in particolare, "Appunti per un film sulla lotta di classe" - e, infine, dalla militanza nelle file di Lotta Continua di Marco Baliani in quegli anni Settanta che egli narra nel suo spettacolo sull’omicidio Moro. Pur non essendo possibile, né corretto, operare dei legami diretti tra l’orientamento politico del narratore e i partiti alla guida del Governo durante la richiesta, la selezione e la scelta delle narrazioni per la loro messa in onda attraverso la televisione di Stato, è comunque possibile, a solo fine statistico, rilevare due dati: il primo è che tutte le narrazioni di cui ci siamo occupati nel nostro lavoro (Il racconto del Vajont, Michele Kohlhaas, Il delitto Moro: una generazione divisa, I.Tigi Canto per Ustica) ad eccezione di una (Radio Clandestina) hanno avuto spazio televisivo durante legislature guidate da coalizioni di Centro-Sinistra (Governo Prodi, XIII Legislatura e II Governo Amato, XIII Legislatura); il secondo è che tutte le narrazioni andate in onda durante la XIII Legislatura hanno avuto uno spazio televisivo in primetime comprendente una fascia oraria tra le 21.00 e le 24.00 mentre lo spettacolo di Celestini, trasmesso durante il Governo Berlusconi II nella XIV Legislatura è stato diffuso a notte fonda, tra le 24.30 e le 2.00 del mattino.
[NOTE]
3 Si aggiungano agli articoli già proposti in questa tesi quello di S. Matuella, L’ultimo “Gioco” è quello di Paolini. Aggiornatissima denuncia su Ustica, in «Alto Adige - Bolzano spettacoli» del 19-04-2002.
4 AA.VV., Teatro popolare di ricerca. Una nozione in progress, in «Prove di Drammaturgia», Anno V, n. 2, dicembre 1999, p. 8.
5 Se Marco Paolini sceglie di narrare quasi esclusivamente il punto di vista di una delle parti civili in causa escludendo le ragioni degli imputati, Marco Baliani dà per scontato la malafede delle forze dell’ordine durante il sequestro Moro, accusate - sulla scorta di Sciascia - di mettere in scena ricerche simboliche e non accenna mai alle motivazioni relative ai problemi di coordinamento nelle ricerche pur emersi in sede giudiziaria che dovette affrontare la polizia in quel 1978 né il fatto che mancassero strumenti e organizzazioni d’intelligence pari a quelle cui siamo abituati oggi. Nella stessa maniera, Ascanio Celestini, dopo aver correttamente dichiarato le Fosse Ardeatine come strage nazista, si abbandona totalmente a commenti d’elogio circa l’appropriatezza dell’azione messa in atto dai GAP in via Rasella senza dare voce a quelle riflessioni di segno contrario pur correttamente ospitate nel testo di Alessandro Portelli che costituisce la fonte principale della narrazione di Celestini e che avrebbe ad essa conferito un intento meno militante e maggiormente volto all’amore per la verità.
6 F. Niccolini, M. Paolini, A. Purgatori, Nota introduttiva, in Teatro Civico. 5 monologhi per Report, Torino, Einaudi, 2004, p. VI.
Francesco Farinelli, La drammatizzazione della storia. Uno studio del secondo Novecento attraverso i racconti del teatro di narrazione, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2013


In tale magmatico contesto la figura del «narrattore» monologante fonde in una ulteriore ibridazione la funzione autoriale e la funzione attoriale poiché egli agisce non solo in quanto esecutore del proprio monologo, ma assimila anche il livello dell'autorialità ed è per tal ragione che Gerardo Guccini definisce il «narrattore» come «auctōre in fabula», ovvero come “[...] costruttore di transitorie collettività creative che si compongono e si sciolgono lungo lo svolgimento della sua ricerca [...]” <382, entità distillatrice all'interno di un processo di selezione dell'essenziale ove il testo appare sempre più fotografato nel suo carattere consuntivo di pura partitura, amplificando il carattere performativo dell'atto stesso della narrazione.
Il «narrattore» monologante, quindi, racconta i fatti narrati, li mette in sequenza secondo una logica autoriale estremamente legata al momento dell'esecuzione attraverso commenti personali, ferme prese di posizione e operazioni di scambio relazionale con gli spettatori che rappresentano, sostanzialmente, uno dei momenti in cui l'organizzazione della «sua» materia narrativa e, quindi, del «suo» racconto trova il proprio apice. Scrive, a tal proposito, Nosari: “Il narratore è sempre anche coautore del suo racconto e regista della sua narrazione” <383 evidenziando il fatto che ogni racconto che viene incanalato, da parte del «narrattore», nel meccanismo di ricezione dello spettatore corrisponde ad un preciso processo di condensazione di funzioni creative, tipiche dell'atto stesso della narrazione rispetto all'organizzazione ed alla trasmissione del discorso e, quindi, del racconto: “[...] narrativa, ideologica, testimoniale, comunicativa, di regia [...]” <384.
Nel «teatro di narrazione», quindi, non si parla di testo tout court, di drammaturgia allo stato puro, ma si tende a parlare di una drammaturgia scissa al grado zero, tesa ad una esplicitazione orale del discorso che, nella perizia scenica del «narrattore» trova una propria dimensione: la voce monologante del «narrattore» è, pertanto, un esempio di scrittura drammatico-performativa in cui il testo viene vivificato in stretta e totale simbiosi con l'evento scenico e il narratore acquista il carattere di «organismo trasparente» <385 attraverso cui si può scorgere sia la storia narrata in sé, sia il modo attraverso cui la storia viene raccontata. Il «narrattore» appare, quindi, come un tipo di artista «solista» che produce drammaturgia parallelamente all'evento scenico, facendo sì che le varie componenti del momento creativo (prodotto artistico, processo ed esecuzione) si trovino in stretta simbiosi attraverso una esplicitazione orale del racconto poiché, come spiega Guccini, con l'espressione «teatro di narrazione» si vuol far riferimento ad una spiccata capacità di codificare “[...] il nastro mnemonico del vissuto in una sorta di «scrittura mentale» che utilizza sempre le stesse espressioni [...]” <386 tese, attraverso la meccanica dell'estemporaneità, ad includere sempre di più il pubblico nell'evento spettacolare.
Il «narrattore» fa appello alla Storia, alla memoria ed alle memorie in-volontarie di ogni singolo spettatore poiché la sua componente autoriale fa sì che il processo drammatico si manifesti, attraverso l'oralità, come una sorta di scrittura mentale, «oralizzante», sviluppata nella memoria stessa.
[...] Nella rassegna di tali aggettivi non è possibile non pensare direttamente alla figura di Fo, primo esempio di un tipo di teatro che, a partire dal monologo, trascende la propria forma drammatica facendo del corpo dell'attore la componente testuale mancante, la traccia di una lingua antica e smarrita che, legata saldamente alle dinamiche del testo in sé e sviando da esso attraverso la già menzionata tecnica dell'estemporaneità e dell'improvvisazione, fa della figura del «narrattore» la sintesi scenica di una processualità, la rappresentazione concreta di un percorso in cui il piano della drammaturgia ed il piano dello spettacolo si toccano costantemente, mescolando reciprocamente le proprie componenti strutturali.
[...] Per quale motivo, quindi, in questa nuova temperie tipica del «teatro di narrazione» artisti come Marco Baliani, Marco Paolini, Ascanio Celestini ed Alessandro Bergonzoni affidano spesso i loro monologhi alla pubblicazione? Probabilmente per tentare di registrare la sintesi e il momento risultante di un percorso estremamente intricato e complesso in cui la veste libresca è solo l'approdo e l'ultimo (?) stadio di una processualità all'interno della quale il testo edito - quasi sempre in sezioni non direttamente dedicate al teatro ed alla drammaturgia, ma proprie del racconto e del romanzo - appare semplicemente come la componente residuale di una processualità, l'orma invisibile dello spettacolo ed il motore attraverso il quale si inanella l'esistenza di un discorso scenico monologante che però, nella traduzione editoriale, smarrisce completamente quelle particolarità e quelle imprevedibilità <393 estemporanee ed improvvisative del momento stesso dello spettacolo.
Tra gli artisti del «teatro di narrazione» le edizioni dei vari monologhi conservano un patrimonio di parole attraverso le quali, in una sorta di assicurazione di posterità e di ricordo, vengono fissate la memoria dello spettacolo, la storia narrata e la declinazione degli elementi drammatici, costantemente vivificati sulla scena e che nella pagina edita divengono testimonianze.
Per «teatro di narrazione», quindi, si vuole intendere una particolare e nuova tendenza monologica ed editoriale del teatro italiano contemporaneo ove, a partire dal modello ormai classico risalente del "Mistero Buffo" <394 - opera inaugurale del cosiddetto «teatro di narrazione» e più volte consegnata alla mediazione editoriale - si tende a fare dell'attore solista sul palcoscenico il depositario di una nuova e al tempo stesso antica tradizione affabulatoria attraverso la quale le dinamiche memoriali e di puro ricordo divengono materia drammaturgico/spettacolare.
[...] Per comprendere al meglio la natura memoriale delle narrazioni di Marco Paolini è opportuno riportare una citazione da Cesare Musatti il quale sostiene che la testimonianza, giudiziaria o giornalistica, così come la narrazione teatrale è “[...] il risultato di un concreto rapporto che si stabilisce tra il testimonio stesso e chi lo ascolta [...]” <400 ed ancora, sempre citando Musatti: “[...] È infatti una legge psicologica generale quella per cui di fronte a un determinato complesso di elementi percepiti, la forma costituita da quel complesso e il significato da esso risultante, possono essere ricordati indipendentemente dai singoli elementi del complesso stesso, il cui ricordo si distrugge assai prima [...]” <401.
[NOTE]
382 Gerardo Guccini (a cura di), La bottega dei narratori, Dino Audino, Roma, 2005, p. 14.
383 Pier Giorgio Nosari, I sentieri cit., p. 14.
384 Idem, p. 14.
385 Gerardo Guccini, Il teatro narrazione: fra “scrittura oralizzante” e oralità-che-si-fa-testo in Gerardo Guccini (a cura di), Prove di drammaturgia, rivista di inchieste teatrali. Per una nuova performance epica, Anno X - numero 1 - luglio 2004, Università degli Studi di Bologna (Dipartimento di Musica e Spettacolo), CIMES Centro di Musica e Spettacolo, Bologna, 2004, p. 15.
386 Idem, p. 15.
393 Non è un caso che, spesso, le edizioni delle opere del «teatro di narrazione» siano corredate da un supporto DVD all'interno del quale è possibile prendere visione dello spettacolo di cui un determinato racconto è motore e lo spettatore/lettore può completarne il complesso sistema di ricezione e, quindi, di «scrittura».
394 Solitamente, si tende a far coincidere la genesi del cosiddetto «teatro epico di narrazione» con lo spettacolo di Fo poiché, come scrive Simone Soriani - parafrasando le parole di Ascanio Celestini - si può attribuire a Dario Fo il merito “[...] di aver sdoganato […] una certa modalità di stare in scena, e di rapportarsi direttamente col pubblico […] [e il merito] di aver contribuito a conferire alla narrazione scenica una «patente», cioè di aver «fatto in modo che fosse riconosciuto anche questo come teatro» [...]” (in Simone Soriani, Sulla scena del racconto, Zona, Civitella in Val di Chiana (Arezzo), 2009, p. 10).
400 Cesare Musatti, Elementi di psicologia della testimonianza, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1991, p. 41.
401 Idem, p. 55.
Ivano Capocciama, Il monologo contemporaneo: scritture solistico-performative tra poesia, romanzo e teatro, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2018