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venerdì 26 novembre 2021

Scrive Weber...


Nell’ottica delle attività collettive weberiane, i singoli rivestono un’importanza fondamentale poiché da essi è pretesa la massima partecipazione alla vita comunitaria, anche in forma di prestazioni fisiche che possono portare alla morte, sia degli estranei che dei membri stessi, in modo da difendere gli interessi dell’intera comunità.
Nello specifico della comunità politica «l’agire comunitario si svolge nel riservare “un territorio” (non necessariamente un territorio costante e rigidamente delimitato, ma anche uno delimitabile di volta in volta in qualche maniera) e l’agire in questo ambito degli uomini che vi si trovano in modo stabile o anche temporaneo, mediante la disponibilità alla violenza fisica, e cioè normalmente anche alla violenza delle armi, alla dominazione (Beherrschung) ordinata da parte dei membri (ed eventualmente ad acquistare per loro territori ulteriori). <37»
I vincoli derivanti dalla dominazione, osserva Weber, non sono certo esclusivi delle comunità politiche, considerando che «anche l’obbligo di vendetta di sangue del clan, il dovere del martirio nelle comunità religiose, la comunità di ceto con un “codice d’onore”, molte comunità sportive, e soprattutto ogni comunità creata allo scopo dell’appropriazione violenta di beni economici estranei, in genere includono le stesse estreme conseguenze. <38»
Si deduce dunque che la politica non può prescindere dalla violenza, anzi trae forza da essa, agendo non in base ad uno scopo, come altre forme di agire sociale, ma in base al suo mezzo che è costituito, appunto, dalla forza fisica. La dicotomia tra potere e violenza è sottolineata anche dalla «forte pregnanza del termine nella lingua tedesca, che si presta perfettamente a sottenderne il carattere ambivalente: Gewalt è, nello stesso tempo, violence e power, violenza e potere. Tale parola non si limita, quindi, a connotare la violenza stricto sensu, investendo un campo d’azione più vasto: essa non concerne solo la violenza vera e propria, seppur esercitata nella dimensione pubblica, statale, ma la violenza-potere nel suo complesso, nell’intreccio problematico di tali elementi.» <39
Il legame tra politica e violenza, infatti, è associato da Weber, oltre che alla politica internazionale e alle guerre, soprattutto ai membri della comunità politica e, quindi, allo Stato, la forma più moderna del gruppo politico. Scrive Weber: «per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico in cui e nella misura in cui l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti» <40, ovvero una comunità politica che, grazie all’uso della forza, riesce a tramutarsi in autorità istituzionale. Il carattere monopolistico infatti è l’elemento che più definisce lo Stato: è escluso qualunque altro fulcro di potere sociale concorrente, l’unico potere autorizzato è quello statale, il cui compito è fornire regole e protezione alla società disarmata. Il concetto di potenza (Macht) indica precisamente «la possibilità, che un uomo o una pluralità di uomini possiede, di imporre il proprio volere in un agire di comunità anche contro la resistenza di altri soggetti partecipi di questo agire» <41, ovvero il principio di prevaricazione e di comando sugli altri, ciò che impone il potere di un gruppo o di un leader e il successivo mantenimento delle gerarchie. La violenza dunque non è ristretta alla politica internazionale o ad eventi di guerra, ma è il mezzo principale dell’esercizio del potere sui membri dell’intera comunità politica. A questo punto Weber spiega in che modo il potere venga riconosciuto come legittimo: all’origine del consenso è necessaria “la potenza di fatto dell’imposizione”, ovvero quel «minimo di volontà di obbedire, cioè un interesse (interno o esterno) all’obbedienza» <42 da parte dei dominati, che, a sua volta, trae la sua forza in una «intesa di legittimità» <43, basata sul riconoscimento soggettivo della validità della norma a cui si obbedisce. Asserito che la politica è il dominio della forza, Weber introduce la distinzione tra “etica dei principi” (Gesinnungsethik) e tra “etica della responsabilità” (Verantwortungsethik): «la prima è un’etica assoluta, di chi opera solo seguendo principi ritenuti giusti in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze. La seconda è l’etica veramente pertinente alla politica.» <44
Questa differenziazione comporta che «nessuna etica può determinare in quale occasione e in quale misura lo scopo moralmente buono “giustifica” mezzi ambigui e connessioni moralmente pericolose.» <45
L’uomo politico weberiano deve pertanto saper abbracciare entrambe le etiche poiché esse sono antitetiche ma si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la "vocazione per la politica". <46
Per comprendere il lungo processo di istituzionalizzazione del potere e la dinamica che ha portato alla formazione degli Stati moderni, Weber inizia ad analizzare le relazioni di potere tra i singoli individui, cioè i “gruppi di potere” e i “gruppi politici”. I primi sono definiti semplicemente come «collettività i cui membri sono sottoposti, in virtù di un ordinamento, a relazioni di potere» <47, mentre i secondi acquistano maggiore importanza attraverso «la sussistenza e la validità degli ordinamenti che, entro un dato territorio, vengono garantiti continuativamente mediante l’impiego e la minaccia di una coercizione fisica da parte dell’apparato amministrativo» <48; da questi gruppi e dal loro agire comunitario violento è iniziato il processo di “statalizzazione” degli Stati oggi esistenti e da noi conosciuti.
[NOTE]
37 M. Weber, Economia e società, Edizioni di comunità, Milano, 1961, Vol. I, p. 189.
38 Ibid., p. 192.
39 L. Basso, L’ambivalenza della Gewalt in Marx ed Engels. A partire dall’interpretazione di Balibar, Università degli studi di Padova.
40 M. Weber, Economia e società, Edizioni di comunità, Milano, 1961, Vol. I, p. 53.
41 M. Weber, Economia e società, Edizioni di comunità, Milano, 1961, Vol. IV, p.28.
42 M. Weber, Economia e società, Edizioni di comunità, 1961, Vol. I, p. 207.
43 F. Ferraresi, Genealogie della legittimità. Città e Stato in Max Weber, Rivista “Società Mutamento Politica”, 2014, n.9, p. 147.
44 M. Toscano, Introduzione alla sociologia, Franco Angeli, Milano, 2006, p.156. 45 V. Lanternari, Ecoantropologia: dall'ingerenza ecologica alla svolta etico-culturale, Edizioni Dedalo, Bari, 2003, p.157.
46 V. Lanternari, Ecoantropologia: dall'ingerenza ecologica alla svolta etico-culturale, Edizioni Dedalo, Bari, 2003, p.157.
47 M. Weber, Economia e società, Edizioni di comunità, Milano, 1961, Vol. I, p. 59.
48 Ibid., p. 60.
Bruna Carnevale, Max Weber: le origini della società moderna occidentale, Tesi di Laurea, LUISS Guido Carli, Anno accademico 2017/2018
 
[...] a dispetto della retorica sul “conservatore Max Weber”, si potrebbe dire con una battuta che egli si schiera contro il proletariato perché quest'ultimo è ancora troppo borghese. A ben guardare esso condivide, in fondo, gli stessi obiettivi filistei di arricchimento e di redenzione privata e ringhiosa della piccola borghesia; non tutti, certamente: la volontà di lotta di molti lavoratori è indubitabile, come pure la radicale estraneità al mondo della pura teoria marxista e delle avanguardie che la incarnano. Però i leaders etico-intenzionali della lotta di classe non possono illudersi e devono essere sempre lucidamente consapevoli che nella massa ci saranno sempre opportunisti: gente a cui non interessa abolire il dominio dell'uomo sull'uomo, ma diventare dominatore; non cambiare il mondo, ma cambiare la propria singolare collocazione in esso, diventando un vincente. In questo contesto i sogni di accesso a un mondo finalmente umano rischiano di essere solamente uno schermo etico dei nostri peggiori istinti
[...] Quella di Weber è una petizione pragmatica: non solo è sicuramente possibile “cambiare l'uomo”, ma proprio questo obiettivo, con il suo correlato conseguente del cambiamento del mondo, costituisce una politica degna di questo nome. Ciò però non giustifica l'illusione di poter cambiare uomo e mondo nel magma della rivoluzione e delle barricate. Questa ingenuità è, per Weber, una colpa politica, denota immaturità. Per questo, nella complexio oppositorum che ogni politico di professione dovrebbe incarnare - tra etica dell'intenzione e etica della responsabilità, tra passione e razionalità - ci deve essere anche la voglia, il desiderio, la sacrosanta fede di cambiare l'uomo e costruire un mondo nuovo, unita alla consapevolezza lucida e “senza riguardi” del materiale umano con cui, al momento, ha a che fare.
Mirko Domenico Alagna, Immagini del mondo e forme della politica in Max Weber, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno accademico 2010/2011 

Maximilian Carl Emil Weber, più comunemente noto come Max Weber, è sicuramente uno dei fondatori della sociologia così come oggi noi la conosciamo e la studiamo <165: l’intera sua opera, infatti, è caratterizzata dal tentativo di razionalizzazione e sistematizzazione dei concetti chiave della disciplina nelle sue varie declinazioni (politica, religiosa, economica, amministrativa etc.).
Il testo fondamentale (e postumo) a cui fare riferimento parlando di Weber è senza ombra di dubbio Economia e società (1922): Aron lo definisce “un trattato di sociologia generale [il cui] oggetto è la storia universale. Ma non è storico, il suo scopo è di rendere le diverse forme di economia, diritto, potere e religiosità inserendole in un unico sistema concettuale” <166.
È in questa sede che il sociologo tedesco tratta in modo più approfondito le categorie di comunità e società, la quale viene definita, nel lessico weberiano, associazione.
Secondo Tramma, “è a Max Weber che si deve la sistemazione delle identità e delle differenze tra comunità e società che, per molti aspetti, può considerarsi definitiva, cioè entrata stabilmente e concordemente nel vocabolario delle scienze sociali” <167.
Anche se nell’opera citata il legame con il precedente lavoro di Tönnies è esplicito, non vanno sottovalutate le differenze: per Weber, una relazione sociale “deve essere definita comunità se, e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia - nel caso singolo o in media o nel tipo puro - su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) dagli individui che ad essa partecipano” <168. Al contrario, “deve essere definita associazione se, e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto al valore o rispetto allo scopo)” <169. Le divergenze fra gli ideali <170 di comunità e di associazione sono, come già anticipato, sostanziali: se è vero che entrambi si riferiscono alla relazione umana, che entrambi vengono analizzati a partire dall’agire sociale <171 e dalle motivazioni su cui quest’agire si basa, è vero anche che entrando proprio nel merito di quest’ultimo aspetto è possibile cogliere il criterio distintivo fondamentale. Da un lato, infatti, vi è una comune appartenenza soggettivamente sentita; dall’altro, invece, un legame di interessi motivato razionalmente: per Weber, quindi, come già in parte per Tönnies, sarebbe la classica contrapposizione fra sentimento e ragione il cuore del tema. È chiaro, comunque, che nelle relazionalità concrete, materiali, le caratteristiche di associazione e di comunità tendono a mescolarsi, a contaminarsi: “la grande maggioranza delle relazioni sociali” scrive Weber, “ha […] in parte il carattere di una comunità, e in parte il carattere dell’associazione” <172.
Solo in questo modo si riesce a spiegare il Beruf <173, un’altra delle categorie chiave del sociologo tedesco. Cosa esiste di più razionalmente orientato di una impresa moderna, tutta protesa al profitto? Eppure, fa notare Weber, alla sua base sta il Beruf, il concetto di occupazione, di professione, che nella cultura protestante è fortemente legato al sentirsi assegnato da Dio un incarico ben preciso e personale da compiere, una missione da realizzare nella propria vita: il sentimento e la ragione, pertanto, traendo le somme, non sono poi così distinti nella concretezza della quotidianità.
Un successivo aspetto da rimarcare è il carattere disincantato, volutamente oggettivo, della riflessione di Weber, che fa decadere definitivamente ogni presunzione aprioristica di bontà assoluta del raggruppamento comunitario: “anche nelle comunità di carattere intimo è del tutto normale ogni effettiva oppressione nei confronti degli individui psicologicamente più deboli” <174; anzi, viene da dire, la rende, se voluta, anche più agevole.
Ma c’è una successiva e sostanziale novità nel pensiero di Weber: razza, sangue, etnia, genetica, tradizioni etc. non fanno una comunità, non necessariamente almeno, neanche nel caso in cui siano sorretti da un generico sentire condiviso: “solamente quando essi [gli individui] orientano in direzione reciproca il proprio atteggiamento sulla base di questo sentimento” scrive l’Autore, “sorge una relazione sociale tra loro, e non solo di ognuno con l’ambiente circostante; e solamente in quanto tale relazione viene a documentare una comune appartenenza da essi sentita, sorge una comunità” <175.
Nell’ottica weberiana, se tale relazione, se tale comunità, si orienterà al capitalismo più sfrenato o alla rivoluzione sociale, all’espressione religiosa o al genocidio etnico, è solo un dato secondario, quantunque sicuramente non superfluo.
[NOTE]
167 Sergio Tramma, Pedagogia della comunità. Criticità e prospettive educative, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 38.
168 Max Weber, Economia e società. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, p. 38.
169 Max Weber, Economia e società. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di Comunità, Torino,
1999, p. 38.
170 Rimarcare con forza questo punto è fondamentale: l’intento di Weber è quello di costruire dei modelli ideali che aiutino nella lettura dei fenomeni sociali e non quello di dividere la socialità umana in due parti.
171 Secondo Ferraresi l’analisi della relazionalità umana a partire dall’agire sociale è alla base del pensiero weberiano. Cfr. Furio Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 362.
172 Max Weber, Economia e società. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, p. 39.
173 Cfr. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, RCS, Milano, 1997, p. 101-114.
174 Max Weber, Economia e società. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, p. 39.
175 Max Weber, Economia e società. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, p. 40.
Manlio Chiarot, Cum-munus… Contributi per una comunità orientata pedagogicamente, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2011

 

martedì 23 novembre 2021

Interessamento e preoccupazione per i fumetti da parte del partito comunista italiano nel decennio 1945-1955 (1)

La copertina di un fumetto del 1951 - Fonte: Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM)

Perché tanto interessamento e tanta preoccupazione per i fumetti da parte di Berlinguer e del gruppo dirigente della FGCI e del Partito, verrebbe quasi da chiedersi, pensando in modo superficiale alla situazione economica dell'Italia del primo decennio di vita repubblicana. La ragione è semplice. In primo luogo perché quando in quegli anni si parla dei fumetti non si pensa soltanto alle pubblicazioni a fumetti così come le conosciamo noi oggi, ma alla molteplicità dei giornali e delle riviste (con o senza illustrazioni) destinati ai ragazzi ed alle ragazze: dai fumetti veri e propri, ai fotoromanzi, ai fotofilm, alla letteratura destinata all’infanzia ed alle ragazze, ai giornali umoristici o pornografici e ad altro ancora. In secondo luogo perché nel decennio 1945-1955, anche in ragione del costo accessibile a strati sociali a basso reddito, della agevole fruibilità e della carica di evasione di cui è portatrice (una funzione lenitiva rispetto alla difficile quotidianità), questa gamma di pubblicazioni destinate ai ragazzi ed alle ragazze - lette molto spesso, come nel caso dei fotoromanzi e dei fotofilm, anche dalle sorelle maggiori, dalle mamme e dalle zie - gode di larga diffusione. «Bisogna pensare - spiega lo studioso di letteratura popolare Ermanno Detti parlando in particolare dei fotoromanzi - che nei primi anni Cinquanta, soprattutto in provincia, i cinema non c’erano. E poi il prezzo del biglietto era troppo alto: 150, 200 lire, quando la giornata lavorativa di un operaio era di 1200 lire. Un fotoromanzo, invece, costava appena 25 lire e poteva essere letto a più riprese da tutta la famiglia».[126]
L'interessamento del gruppo dirigente giovanile del PCI, sempre attento ai dati delle vendite, trova dunque alimento anche nelle dimensioni di massa che il fenomeno va costantemente assumendo. Un aspetto del problema spesso richiamato negli articoli e negli interventi che si occupano della questione dei fumetti. Su «Gioventù Nuova» dell’aprile 1950, dopo aver affermato che quello dei fumetti è un argomento che interessa indubbiamente «grandi masse della gioventù e rispecchia una realtà che sarebbe sciocco e nocivo ignorare», Marisa Musu sottolinea con preoccupazione che in Italia vengono pubblicati (esclusi i settimanali per ragazzi) ben 24 giornali a rotocalco e a fumetti, per un totale di quasi tre milioni di copie vendute alla settimana e più di sei milioni di lettori, almeno il 60% dei quali giovani.[127] Lo stesso Enrico Berlinguer, evidenziando l’imponenza e la gravità del fenomeno in un rapporto al Comitato Centrale della FGCI del 30 ottobre 1952, avverte che sommando le vendite delle pubblicazioni che «direttamente e indirettamente avvelenano l’infanzia e l’adolescenza con ideologie irrazionali miranti a deprimere la coscienza dei giovani» e di quelle destinate alle donne ed alle ragazze (ugualmente ispirate «alle più deteriori concezioni del mondo») si raggiungono ormai quasi sette milioni di copie vendute.[128]
Tre anni dopo, nel novembre 1955, all’interno di una lunga analisi della situazione dei circoli giovanili comunisti, Alessandro Curzi e Piero Pieralli riportano invece alcune cifre sulla situazione di Lucento, popoloso quartiere operaio della periferia torinese. «L’orientamento delle letture della gioventù di Lucento - scrivono i due dirigenti della FGCI - risulta chiaramente dalla graduatoria della diffusione della stampa periodica: al primo posto, con 200 copie, si trova il settimanale Intrepido, seguito da Grand Hotel, Annabella, Calcio illustrato; 66 giovani acquistano Avanguardia e 20 ragazze Noi Donne».[129]
Nel partito, uno dei primi a lanciare l’allarme per la diffusione di questo tipo di letteratura deteriore fra gli operai è Lucio Lombardo Radice, sul numero di «Vie Nuove» del 6 ottobre 1946. Tra i lavoratori, egli scrive, è purtroppo «molto diffusa la produzione letteraria scadente, insignificante, inintelligente: i giornaletti per bambini all’americana con i “fumetti” e le più pacchiane ed idiote e mostruose avventure; la stampa sportiva di ogni qualità; i canovacci di films da poche lire. Le donne lavoratrici, in un certo senso, leggono più degli uomini […] ma quali disastrose letture! I romanzetti d’amore più falsi e melensi; e poi una vastissima letteratura novellistica pseudoborghese, rappresentata da decine e decine di pubblicazioni come Grand Hotel, Intimità, Liala che sono diffusissime».[130] Alla fine del 1953 l'allarme ricompare in un articolo di Jucci Lorini sul «Quaderno dell’attivista»: tra giornali a fumetti e a rotocalco si stampano in Italia circa cinque milioni di copie settimanali, con una diffusione continuamente in crescita, soprattutto nelle zone industriali. «Tutti dobbiamo riconoscere - ella scrive - che mentre solo una parte di operaie, di lavoratrici legge la stampa democratica, una parte notevole di esse, invece, legge costantemente la stampa a fumetti».[131]
Trovare una soluzione al problema dei fumetti (o, quanto meno, una efficace azione di contrasto) rappresenta, fin dai primi momenti di vita della FGCI, una delle preoccupazioni di Berlinguer e dei dirigenti giovanili comunisti. Le condanne e le invettive - di questo sono persuasi tutti - non servono, e spesso si dimostrano persino controproducenti; tantomeno si può sperare che sia sufficiente il solo formulare delle richieste al Governo.[132] Un po’ per scelta, un po’ per necessità, la strada imboccata - anche considerando che non sono pochi i giovani e le ragazze iscritti all'organizzazione giovanile comunista che leggono abitualmente le pubblicazioni a fumetti - è quella di intraprendere tutte quelle iniziative che possano servire a sensibilizzare le giovani generazioni (e l’intera opinione pubblica) sulla gravità e sulla vastità del fenomeno.
Il momento culminante di questo impegno e di questa mobilitazione è rappresentato dall’attuazione di una vera e propria campagna contro la stampa a fumetti, che prende avvio con il “Mese della stampa giovanile democratica” per l’anno 1950 e che si concretizza nel fatto che parecchie Federazioni aprono sui loro giornali un dibattito sui fumetti, organizzano conferenze, referendum e processi.[133] I toni, i contenuti ed, evidentemente, anche i risultati delle iniziative prese alla periferia non soddisfano però a pieno il centro dirigente della FGCI: non sempre e dovunque - scrive la Redazione di «Gioventù Nuova» nell’aprile 1950 - si è affrontato l’argomento nei giusti termini.[134] Viene quindi deciso di aprire il dibattito direttamente sulle colonne dell'organo centrale di stampa, con la non recondita speranza che ciò serva a chiarirsi le idee e, contemporaneamente, a dare il giusto orientamento alle federazioni ed ai militanti. Per tutto il 1950 si susseguono quindi su «Gioventù Nuova» gli interventi di semplici iscritti e di responsabili locali e nazionali dell’organizzazione giovanile, in un dibattito reale,[135] che mette in luce (senza condanne e ramanzine) una importante diversità di posizioni sull'argomento. Vale dunque senz'altro la pena di compiere una ampia disamina degli articoli più significativi.
La prima ad intervenire è la dirigente delle ragazze comuniste, Marisa Musu, la quale, prendendo spunto da alcune delle iniziative attuate durante il “Mese” sostiene che uno dei più gravi errori commessi è stato quello di impostare la polemica contro i fumetti essenzialmente sul loro essere una forma d’espressione che addormenta la fantasia e lo spirito di iniziativa del lettore, impigrendolo ed imprigionandolo in schemi fissi.[136] A suo parere, invece, la campagna della FGCI contro la stampa a fumetti avrebbe dovuto essere centrata contro la morale diffusa da queste pubblicazioni, contro i temi e gli argomenti da esse trattati e non contro la forma fumetto in quanto tale;[137] anche in considerazione del fatto che, altrimenti, non sarebbe stato spiegabile né accettabile il largo utilizzo dei fumetti in pubblicazioni quali «Pattuglia» o «Noi donne». I fumetti - sostiene Marisa Musu - non possono essere considerati una nuova forma letteraria (tant’è che in URSS neppure esistono!), ma come la forma di espressione adottata dalla borghesia per rivolgersi alla grande maggioranza dei giovani, ai quali essa nega anche la minima possibilità di cultura.[138] Il problema, dunque, non è tanto quello di elogiare o condannare i fumetti, ma quello politico di agire concretamente per modificare alle radici la situazione che li ha fatti sorgere, lottando affinché i giovani abbiano una nuova cultura, cercando nel concreto di avvicinarli alla lettura (attraverso corsi popolari, biblioteche, conferenze culturali, ecc.) e, non ultimo, «adottando noi stessi i fumetti nei casi in cui riteniamo che posano validamente aiutarci a farci intendere da masse popolari a cui difficilmente arriveremmo con forme più elevate di propaganda».[139]
Un ulteriore difetto nella campagna contro i fumetti - continua Marisa Musu - è stato quello di ritenere sufficiente, per convincere i giovani, la sola denuncia del fatto che questo tipo di stampa è uno strumento in mano ai nemici guerrafondai della gioventù e della democrazia. Con la conseguenza, agendo in questo modo, di non essere riusciti a mostrare - come si sarebbe dovuto e potuto fare - le “ragioni sufficienti” per provare agli occhi di molti altri ragazzi che tali pubblicazioni sono uno strumento di lotta contro la gioventù. Eppure, sarebbe bastato mostrare (dimostrare) come l’obiettivo principale dei capitalisti sia quello di «portare i giovani fuori dalla realtà, in un mondo fantasioso, falso e irreale»,[140] per distoglierli dalla realtà nella quale vivono (con le fabbriche che chiudono, la carenza di alloggi, la disoccupazione che cresce) e per allontanarli dalla lotta per un mondo migliore, per il lavoro, la libertà e la pace. Non a caso - spiega la dirigente della ragazze comuniste - la quasi totalità dei personaggi dei giornali alla «Grand Hotel» sono prìncipi, duchi, marchesi, ammiragli, gioiellieri; in ogni caso: tutti ricchi, belli e con una vita avventurosa. Americana o cattolica, a fumetti o a rotocalco, questo tipo di stampa - conclude Musu - vuole portare i giovani ad evadere dalla realtà. Per il futuro, quindi, la campagna e la polemica contro la stampa a fumetti dovrà mirare anzitutto a far sì che i giovani non evadano dalla realtà; un risultato che si può ottenere anche cominciando a dar loro una speranza, mostrando che «contro questo mondo irreale, malato, contro la rassegnazione e l’individualismo i giovani democratici lottano, convinti [con le parole dell’Educazione comunista di Kalinin] che «un’esistenza ispirata ad un’idea, ad una vita piena di preoccupazioni sociali, tutta orientata verso lo scopo fissato, è la migliore, la più interessante delle esistenze che si possano concepire».[141]

[NOTE]
[125] Berlinguer Enrico, Relazione alla Conferenza Nazionale Giovanile del PCI (Roma, 22-24 maggio 1947), in Musu Marisa - Berlinguer Enrico, La lotta della gioventù per la democrazia, Roma, U.e.s.i.s.a., 1947, p. 20.
[126] Cit. da Gallozzi Gabriella, «E la Chiesa lanciò la Bibbia in rosa», in «l’Unità», 20 novembre 1996.
[127] Musu Marisa, Discutiamo sui fumetti, in «Gioventù Nuova», a. II, n. 4, aprile 1950, p. 25.
[128] Berlinguer Enrico, Conquistare i giovani alla lotta per l’indipendenza della Patria. Rapporto al Comitato Centrale della FGCI (30 ottobre 1952), in «l’Unità», 1 novembre 1952.
[129] Curzi Alessandro - Pieralli Piero, Problemi dell’organizzazione e dell’attività tra i giovani, in «Rinascita», n. 11, novembre 1955, p. 724.
[130] Lombardo Radice Lucio, Cosa leggono i lavoratori, in «Vie Nuove», 8 ottobre 1946, p. 8.
[131] Lorini Jucci, Cosa leggono le operaie?, in «Quaderno dell’attivista», n. 24, 16 dicembre 1953, p. 747. Lorini sottolinea anche come il basso costo di queste pubblicazioni faciliti una più ampia diffusione: giornali come «Annabella» o «Grand Hotel» offrono la possibilità di «evadere dalla grigia e difficile realtà di ogni giorno con poche decine di lire» (ibidem). Ad illustrazione e conferma di quanto detto, Jucci Lorini riporta anche alcuni dati raccolti in diverse fabbriche a maestranza femminile dislocate su tutto il territorio nazionale: «Alla Mazzonis di Torino, una fabbrica con 500 lavoratrici di cui 300 iscritte al Sindacato unitario, si diffondono 30 copie de l’Unità e 40 di Noi Donne, contro una diffusine di 300 copie di Grand Hotel, 200 di Bolero, 100 di Intimità, 100 di Sogno. A Salerno fra le 3000 operaie tessili, si diffondono oltre 750 copie soltanto di Grand Hotel, di fronte alla 30 copie di Noi Donne. Alla Cantoni di Castellanza, fabbrica tessile della provincia di Varese con circa 2.000 operaie, 7-8 lavoratrici su 10 leggono i giornali a fumetti, mentre l’UDI riesce a diffondere appena una ottantina di copie fra Noi Donne e Mimosa in fiore e il Sindacato 15 copie di Lavoro. Così avviene al cotonificio di Venezia dove si diffondono 35 copie di Noi Donne fra le 500 operaie che, in grande maggioranza, sono lettrici di Intimità e di Grand Hotel; alla Santagostino di Milano dove, su 850 operaie, si diffondono 60 copie di Noi Donne e 40 di Mimosa in fiore» (ibidem).
[132] In un memorandum che le ragazze comuniste presentano al Governo nel primo dopoguerra, una delle misure richieste per il benessere delle ragazze italiane e per la protezione delle nuove famiglie è quella della «lotta contro il vizio, la corruzione, il delitto e la stampa immorale» (Musu Marisa, Relazione alla Conferenza Nazionale Giovanile del PCI (Roma, 22-24 maggio 1947), in Musu Marisa - Berlinguer Enrico, La lotta della gioventù per la democrazia, Roma, U.e.s.i.s.a., 1947, p. 60).
[133] Riferendo sulle ispezioni compiute, Michele Lelli scrive che in alcune sezioni del modenese sono stati organizzati dei «Processi ai fumetti» su schema fornito dalla Federazione (Relazione sulle ispezioni compiute dal compagno Lelli Michele (24 dicembre 1951), in APC, FGCI, carpetta II Olimpiadi Culturali della Gioventù 1951-52-53).
[134] Cfr. «Gioventù Nuova», a. II, n. 4, aprile 1950, p. 25.
[135] E cioè non preordinato, irregimentato od eterodiretto.
[136] Il tema dei fumetti era comparso per la prima volta sulle colonne della rivista diretta da Berlinguer già nel settembre-ottobre del 1949 in un articolo di Luciano Gruppi. All’interno di una più generale riflessione sui temi della morale sessuale, della emancipazione della donna, dell’imperialismo e della cultura occidentale, Gruppi infatti aveva scritto che uno degli aspetti più evidenti della putrefazione del mondo capitalistico è costituito dalla morale sessuale dominante, segnalando, ad esempio, le esasperazioni erotiche nei romanzi americani, le degenerazioni dei letterati lacchè dell’imperialismo (con il compiacimento di Sartre per la pederastia e l’onanismo), la degenerazione dei film americani e americaneggianti (con la loro sadica mescolanza di erotismo, rivoltellate e brutalità dei gangsters) e, infine, «l’erotismo dei romanzi a fumetti» (Gruppi Luciano, L’emancipazione della donna e la morale sessuale, in «Gioventù Nuova», a. I, n. 2-3, settembre-ottobre 1949, p. 15).
[137] E cioè contro la morale americana dell’individualismo senza scrupoli, secondo la quale le ragazze appartenenti alle classi subalterne possono conquistarsi un avvenire solo nel caso siano fortunate, giovani e belle o, ancora, «ci sappiano fare»; mentre per tutte le altre non c’è che la rassegnazione. A questa morale - scrive ancora la responsabile della Commissione ragazze - si allinea anche la stampa di ispirazione cattolica rivolta ai giovani (cfr. Musu, Discutiamo sui fumetti, cit. pp. 25-26, 28-29). Anche la Segreteria della FGCI (alla fine del 1949) condanna risolutamente la stampa per ragazzi dell’Azione Cattolica, accusandola di propagare l’odio contro i lavoratori ed i popoli liberi, di esaltare la violenza e di «portare alle stelle il corrotto modo di vivere americano» (cfr. «Pattuglia», 10 dicembre 1949).
[138] La scelta dello «strumento fumetto» è dettata dal fatto che la borghesia, stante l’elevata percentuale di analfabetismo di cui è prima responsabile, ritiene necessario, efficace e comodo rivolgersi alle masse giovanili con l’immagine piuttosto che con la scrittura (cfr. Musu, Discutiamo sui fumetti, cit., p. 26).
[139] Ivi, 26-27.
[140] Ivi, 27.
[141] Ivi, 30.
Alessandro Sanzo, Enrico Berlinguer e l'educazione dell'uomo. Il contributo alla “formazione integrale” dei comunisti italiani (1945-1956), Tesi di laurea, Università degli Studi di Roma "La Sapienza, Anno accademico 2000-2001, qui ripresa da wwww.cultureducazione.it

[continua]

domenica 21 novembre 2021

Propongo un altro quadro BioSìArt

Giustino Caposciutti, BioSìArt, 2015 - cm. 33x33x6 tela de-tessuta, acrilico, legno, carta d'alluminio, metalli, magneti
La BioSìArt si occupa del rapporto arte/scienza ed in particolare di proporre soluzioni all'inquinamento elettromagnetico che sebbene invisibile è particolarmente pericoloso per la salute.
Il cammino iniziato insieme all'amico Giovanni circa 15 anni fa ci ha portato a sperimentare differenti soluzioni ad iniziare da installazioni di sughero colorato e di metalli nelle abitazioni fino a giungere nel 2010 al Cubo e nel 2012 al quadro BioSìArt che nelle parti nascoste alla vista ha una serie di antenne e di magneti che hanno la proprietà appunto di captare l'elettrosmog e di scaricarlo a terra.
Contemporaneamente il Quadro eleva moltissimo l'energia (sottile) degli ambienti ove è posizionato e per risonanza estende la sua efficacia anche su più stanze dello stesso appartamento.
In seguito posterò testimonianze di persone che lo stanno sperimentando ed anche vi farò partecipi delle scoperte che via via verranno fatte sia per esperienza nostra diretta sia attraverso suggerimenti di chiunque voglia far parte di questa avventura.
Giustino Caposciutti, Forum BioSìArt - l'Arte che risana... l'Arte... su Investire Oggi, 21 luglio 2016

Giustino Caposciutti, BioSìArt, 2017/2021 - Tela detessuta, acrilico, legno, metalli - cm. 33x33x6

Propongo un altro quadro BioSìArt.
Quando rileggo testimonianze come quella che segue rimango particolarmente colpito.
Sì, lo so che il quadro ha delle proprietà speciali ma non ci faccio più caso.
Ce l'ho appeso in casa, me ne porto uno dietro ovunque vada a passare qualche giorno ma ormai ci ho fatto l'abitudine.
Polpenazze (Brescia) 11/03/2020
"Ciao Giustino, a proposito del tuo quadro "salutare" BioSìArt, sai benissimo con quanta diffidenza e incredulità io l'ho appeso in casa, seguendo le tue direttive.
Ebbene, a distanza di un anno e più, devo ricredermi e riconoscerne le benefiche proprietà.
Questi gli effetti più palesi: ho smesso di russare, non ho più quel dolore tra capo e collo che mi trascinavo per tutto il giorno, avverto di meno quei dolori agli arti che sono tipici delle zone di lago.
Di. conseguenza anche mia moglie dorme più tranquilla ed è più serena.
Ho notato anche che quando cambio località (Torino, Salerno, Gatteo Mare), io riprendo puntualmente a russare, tanto che mia moglie vorrebbe che mi portassi sempre dietro il tuo quadro. Questo è quanto ci tenevo a comunicarti e spero che ti faccia molto piacere. Vai avanti con le tue ricerche in questo campo e tienimi, per favore, aggiornato. Grazie e auguri. Cordialmente. Arsenio"
Giustino CaposciuttiForum BioSìArt - l'Arte che risana... l'Arte... su Investire Oggi, 29 ottobre 2021 

Giustino Caposciutti, BioSìArt, 2017 - Tela detessuta, acrilico, legno, metalli - cm. 33x33x6

A scanso di equivoci premetto che la BioSìArt opera nel campo della magia e della pseudoscienza perchè, almeno finora il suo funzionamento non è supportato da prove scientifiche.
Tuttavia mi domando e vi domando:
"Cosa c'è dietro il miglioramento della salute allorquando viene installato in casa un quadro BioSìArt così come testimoniato da tante persone ed io stesso ho riscontrato?" (Andando indietro nel thread troverete alcune di queste testimonianze).
Anni fa ho fatto analizzare un quadro BioSìArt da un fisico, mio amico.
Alla fine mi disse che nessun strumento al quale il quadro era stato sottoposto aveva rilevato alcuna variazione del campo elettromagnetico.
Allora è forse il caso di abbandonare tutto al suo destino e dedicarsi ad altro?
Niente affatto.
Lo strumento principe c'è e ce lo abbiamo tutti, è super-sensibile ed esatto, dobbiamo solo imparare ad usarlo ed è il nostro corpo.
Qui prendo in prestito quanto diceva il Prof. Walter Kunnen, che dal momento che lo incontrai nel 2003 mi spalancò le porte all'elettromagnetismo e ad un nuovo modo di considerare la salute.
Il Prof. Kunnen diceva: "Il corpo umano è un’antenna e come ogni antenna emette e riceve frequenze". Diceva inoltre che ogni organo ha una sua frequenza o lunghezza d’onda.
Il corpo umano può quindi nutrirsi delle energie presenti nell'ambiente o subirne gli effetti nocivi.
Lo stato di benessere e di salute lo conosciamo tutti.
Però quando non stiamo bene, ci sentiamo a disagio c'è qualcosa che possiamo fare prima di ricorrere da un medico?
O anche:"Sono i medici preparati a riconoscere e curare adeguatamente, indagandone l'origine taluni disturbi "misteriosi"?
Spesso navigando su internet mi si presenta la pubblicità di strumenti per smettere di russare, per evitare le apnee, per dormire meglio...
Anche in TV nelle interviste agli esperti le risposte ai disturbi del sonno riguardano alcuni consigli sul materasso, sul buio, sull'alimentazione... e ovviamente alla somministrazione di farmaci e alla chirurgia.
Sono passato attraverso questi disturbi e se non fossero seri mi verrebbe da ridere.
Ecco un esempio di disturbi: apatia, inappetenza, pallore, pelle fredda, mancanza di energia e disturbi del sonno (russamento, apnee, risvegli, tachicardia, gambe senza riposo)...
Pseudoscientificamente il Quadro BioSìArt risolve o attenua di molto questi disturbi.
Giustino CaposciuttiForum BioSìArt - l'Arte che risana... l'Arte... su Investire Oggi, 16 novembre 2021

Hai toccato diversi argomenti per me molto sensibili.
Da quando ho iniziato con la BioSìArt alla domanda che spesso mi veniva fatta "Ma questa non è arte!?" mi è venuto chiaro che sì è vero, non lo era fino a ieri ma adesso lo è perchè l'arte opera nei territori di confine quella che felicemente chiami zona "artistica", opera fra il noto e l'ignoto, fra le certezze e le incertezze e la sua peculiarità è proprio quella di sconfinare e guai se non lo facesse.
Il magnetismo. In effetti il mio primo incontro col prof. Kunnen e che mi lasciò esterrefatto fu quando ad un certo punto mi disse che mi avrebbe fatto un intervento di pronto soccorso. Era il 24 novembre, pioveva e faceva freddo, ero paonazzo, mani, piedi, naso, orecchie gelide. Lui mi applicò un magnetino in un preciso punto del collo con il polo positivo verso la pelle. Mi disse di guardarmi le mani ed io le vidi cambiare colore e nel giro di meno di un minuto diventare rosa, riacquistare il loro colore naturale e la loro temperatura, così come anche il naso e le altre parti del corpo.
Ho imparato poi da lui ad usare i magneti e ho verificato per esempio nel caso di mal di denti che possono dimezzare il dolore.
E' vero ho fatto molte esperienze tutte quelle che citi e molte altre: è l'età.
Giustino CaposciuttiForum BioSìArt - l'Arte che risana... l'Arte... su Investire Oggi, 17 novembre 2021

 

Giustino Caposciutti, Palio della Valdichiana (Project) - 46x31cm, Acrilico, Tempera su Legno - Fonte: wwww.singulart.com

Giustino Caposciutti 

Curriculum Vitae

Premi

    1992
    Mostra più visitata in Italia a luglio - Rivista Quadri & Sculture- Vincitore- Roma, Italia
    1992
    I big di Torino Sette- Vincitore- Torino, Italia
    1974
    Premio Felice Casorati/Giacomo Grosso- Vincitore- Torino, Italia

Mostre personali

    2019
    AGORA-Esposizione e Performance d'arte partecipata / Centro Storico - Bordighera, Italia
    2017
    2017 Tisser la femme, omaggio a Giacomo Grosso- Performance Arte Partrecipata / Centro storico - Cambiano - Torino, Italia
    2017
    Detessiture / Galleria Arteregina - Torino, Italia
    2017
    2017 Arte al vento, / Giardini Monet, - Bordighera (Imperia), Italia
    2016
    essereXEssereXriunirsiXlegarsiXamarsiXrisorgereXrinascere…, / Galleria Villicana d'Annibale - Arezzo, Italia
    2016
    Tramare / Palazzo Barolo - Torino, Italia
    2014
    LiberiAMO la Pace / Centro storico/Piazza del Plebiscito - Mazara del Vallo - Trapani, Italia
    2008
    TESSERECHIERI (Arte Partecipata) / Chieri - Chieri (Torino), Italia
    2003
    Giustino Caposciutti / Centro espositivo Villa Bianca Terragni - Seveso-Milano, Italia
    2003
    HeartArt / Labo Art Gallery - Liegi, Belgio
    2002
    HeartArt / Associazione Ensemble - Livorno, Italia
    1996
    Trasparenze (Giustino Caposciutti/Riccardo Licata) / Galleria Blu Manù - Leini-Torino, Italia
    1996
    Trame di luce / Galleria Arx - Torino, Italia
    1995
    Artissima Art Fair / Lingotto TO - Torino, Italia
    1994
    FiloArX / Atelier Ducale - Mantova, Italia
    1994
    Giustino Caposciutti / Galleria contemporanea - Arezzo, Italia
    1994
    Artissima 1 - Mostra personale e FiloArX (Arte Partecipata) / Lingotto TO - Torino, Italia
    1993
    Giustino Caposciutti / Palazzo degli antichi Chiostri - Torino, Italia
    1977
    Caposciutti/Crudeli/Mondino / Galleria Arcipelago - Torino, Italia
    1975
    Giustino Caposciutti / CMC- Centro Musicale Culturale - Ivrea (Torino), Italia
    1972
    Giustino Caposciutti / Saletta Internazionale - Biella, Italia
    1969
    Prima Mostra dei Giovani / Palazzo della Regione - Aosta, Italia

Mostre collettive

    2017
    L'Abstraction- I 4 soli / Galleria Saphir - Parigi, Francia
    2016
    Visioni dall'Italia / Deakin University, Melbourne Surf Coast Culture Museum, Ballarat e Colac, Pako Festa di Geelong, - Daikin, Geelong, Ballarat, Colac, Australia
    2014
    Visioni dall'Italia / Musei - Ufa, Oktjabrsk, Birsk, Salavat, ! Sterlitamak , San Pietroburgo, Australia
    2005
    Trame d'Autore / Museo del Tessile - SanGallo, Svizzera
    1998
    Trame d'Autore - I Biennale di Fiber Art / Museo Palazzo Opesso - Chieri (Torino), Italia
    1997
    Artissima Art Fair / Lingotto TO - Galleria Arx - Torino, Italia
    1996
    Artissima Art Fair / Lingotto TO - Galleria Arx - Torino, Italia
    1996
    Così vicino così lontano / Galleria Arx - Torino, Italia
    1991
    HeartArt / Palazzo Antichi Chiostri - Torino, Italia

Collezioni permanenti

    2011
    Comune di Mazara del Vallo, Italia
    2009
    Comune di Epinal, Francia
    2004
    VSSP, Italia
    2004
    comune di Moncalieri, Italia
    1998
    Comune di Chieri, Italia
    1995
    Museo Informazione Senigallia, Italia

Fonte: wwww.singulart.com

sabato 20 novembre 2021

Sui Monuments Men in Italia

Fonte: art. il Post cit. infra

1.3 Gli Alleati e la salvaguardia del patrimonio artistico italiano
Per la ricchezza del suo patrimonio artistico e la durata della guerra combattuta sul territorio nazionale, l’Italia fu uno dei paesi coinvolti nel conflitto che subì i danni maggiori.
Lo sbarco degli Alleati in Italia fu molto importante non solo per le sorti del conflitto ma anche per quelle del patrimonio culturale italiano.
Il 23 giugno 1943 fu istituita dal presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosvelt (1882-1945) la “American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historical Monuments”, nota in seguito come Commissione Roberts.
Da parte inglese invece il 9 maggio 1944, per merito del primo ministro inglese Winston Churchill (1874 - 1965), fu fondato il Comitato britannico per la restituzione di opere d'arte, archivi ed altro materiale in mano nemica <66.
I due comitati promossero insieme l'attività della Sottocommissione monumenti, belle arti ed archivi (“Sub-Commission on Monuments, Fine Arts and Archives”) sul campo. Era composta sia da ufficiali inglesi che americani e si trattava per lo più di direttori di musei, curatori, artisti, archivisti, educatori, bibliotecari e architetti che si offrivano volontari per salvare il ricco patrimonio europeo, soprannominati in seguito “Monuments Men <67” o “Aggiustaveneri <68”.
Il loro compito consisteva nel fornire supporto durante la pianificazione delle operazioni militari, con il fine di evitare ai principali edifici storici e oggetti di valore storico e artistico danni dovuti a bombardamenti o azioni dell'artiglieria.
Appena un paese era liberato, questi funzionari e ufficiali entravano al seguito delle truppe e intervenivano in un'azione di primo soccorso dei monumenti colpiti, per impedire che venissero ulteriormente danneggiati <69 e in seguito compilavano elenchi dei danni che erano stati provocati.
Le relazioni redatte da questi ufficiali riguardavano anche le principali opere, pubbliche e private, trafugate dall'esercito tedesco <70 e sarebbero servite in tempo di pace alle forze alleate per poter procedere alla restituzione ai legittimi proprietari.
La Sottocommissione operò in Italia dal mese di ottobre del 1943 fino al gennaio del 1946 ed è possibile distinguere tre fasi nella sua azione <71.
La prima si colloca fra il luglio 1943 e il maggio 1944, dopo il bombardamento di Montecassino e alla vigilia della presa di Roma, interessando le regioni meridionali fino alla Capitale.
La seconda fase inizia con la presa di Roma nel giugno del 1944 e lo sfondamento della Linea Gotica alla fine di aprile 1945 e che quindi interessò soprattutto le regioni centrali.
Infine la terza fase che comprende il periodo tra il 25 aprile 1945 e la chiusura degli uffici della sottocommissione in Italia nel 1946, riguardò la vasta zona dell'Italia settentrionale, l'area più martoriata dai bombardamenti.
[NOTE]
66 Coccoli 2011, pag. 175.
67 Edsel 2014.
68 Dagnini Brey 2010.
69 Rassegna dell'attività del governo militare alleato e della commissione alleata in Italia 1950, pag. 84.
70 Mignemi 2007, pag. 80.
71 Eadem, pag. 179.
Licia Pedrinolli, La protezione e la tutela dei beni culturali in Trentino durante la Seconda Guerra Mondiale, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2014/2015

Fonte: art. il Post cit. infra

Nell’autunno del 1943 il capitano Edward Croft-Murray sbarcò a Trapani, in Sicilia. Era un ufficiale diverso dalle altre decine di migliaia di uomini che dal 10 luglio di quell’anno erano sbarcati sulla stessa spiaggia. Le sue armi erano taccuini, matite e guide Baedeker. Aveva 36 anni, quindi era abbastanza anziano per gli standard dell’esercito. Nella vita civile, che aveva lasciato pochi anni prima, era un curatore della sala delle stampe del British Museum, oltre che un collezionista di strumenti musicali antichi. Croft-Murray, con i suoi taccuini, era il primo ufficiale del “Monuments, Fine Arts, and Archives Program” (MFAA) a sbarcare in Italia. Il suo compito, insieme a quello di altri 26 ufficiali che sarebbero arrivati in Italia prima della fine della guerra, era proteggere, ristrutturare e recuperare il patrimonio artistico italiano in zona di guerra.
[...] Mano a mano che nuovi territori venivano liberati, sarebbe stato possibile intervenire per preservare i monumenti danneggiati e mettersi a caccia del patrimonio artistico rubato. Così, nell’autunno del 1943, alle truppe che combattevano al suolo vennero affiancati gli uomini del MFAA. Erano architetti, bibliotecari, archeologi e storici dell’arte, americani e inglesi in parti uguali. Il loro compito era effettuare gli interventi di “primo soccorso” nei confronti delle opere storiche danneggiate e, contemporaneamente, sensibilizzare le truppe sull’importante di tutelare il patrimonio artistico. In breve divennero noti come Monuments Men, gli uomini dei monumenti.
Nella pratica le cose furono molto più difficili di come sembravano sulla carta e molte delle difficoltà arrivarono dagli stessi eserciti alleati. I Monuments Men facevano parte della AMGOT, cioè quella branca delle forze alleate che si doveva occupare di gestire il governo civile nei territori occupati. Gli AMGOT, ovviamente, non erano molto amati dagli altri soldati: non dovevano combattere sul fronte, non dovevano marciare nel fango o restare nelle trincee al freddo. Arrivavano solo dopo la fine della battaglia, occupavano i palazzi più belli della città e cominciavano a riorganizzare la vita civile (da qui il modo ironico con cui veniva interpretata la sigla: Aged Military Gentlemen on Tour, “anziani gentiluomini militari in vacanza”). Tra gli AMGOT, i Monuments Men erano considerati ancora più alieni dai soldati di prima linea, anche perché in prima linea li vedevano spesso: a bordo di vecchie automobili, mentre raggiungevano colonnelli e generali e ordinavano loro di non bombardare questo o quest’altro monumento storico.
Le prime operazioni che i Monuments Men fecero in Sicilia furono una specie di paradigma per tutto il resto della guerra. La campagna di Sicilia era stata particolarmente dura. Molte città, soprattutto sulla costa, erano state pesantemente danneggiate dai combattimenti e decine di tetti di chiese e di palazzi storici erano stati distrutti dall’artiglieria. C’erano due ordini di problemi da affrontare. Il primo era evitare altri danni. Il sole dell’estate e poi le piogge dell’autunno rischiavano di dare il colpo di grazia ai mosaici, alle statue e alle opere d’arte contenute nei palazzi scoperchiati. Il secondo problema era che per permettere la ricostruzione era fondamentale raccogliere i cocci, in senso letterale: bisognava mettere insieme i pezzi degli affreschi crollati, delle colonne e dei mosaici, catalogarli e ordinarli in attesa del restauro futuro.
I Monuments Men dovettero affrontare questi compiti tra un numero incredibile di difficoltà. La più grossa, naturalmente, era che c’era una guerra in corso. La priorità degli alti comandi era fornire risorse alle truppe di prima linea e questo significava che c’erano pochi veicoli e benzina da risparmiare per i Monuments e le loro attività. Ad esempio, per buona parte della campagna di Sicilia il capitano Mason Hammond, professore di latino ad Harvard, fu costretto a girare su una vecchissima automobile Balilla italiana. Nonostante queste difficoltà, i Monuments, con l’aiuto dei soprintendenti alle belle arti e di gruppi di operai italiani, riuscirono a mettere in sicurezza decine di siti e a iniziare la ricostruzioni di monumenti importantissimi che sembravano ormai perduti, come la Cattedrale di Palermo.
[...] Il lavoro dei Monuments non era tutto adrenalina, schivare pallottole e salvare dipinti perduti. Gran parte dei loro compiti furono lunghi ed estremamente noiosi, come ad esempio raccogliere frammenti di un soffitto crollato o compilare lunghe liste di opere d’arte smarrite e ritrovate. In circa due anni di guerra, i Monuments, insieme ai soprintendenti e agli operai italiani, cominciarono i lavori di conservazione e di restauro in più di 700 siti diversi. Inoltre rintracciarono e riportarono nei musei migliaia di opere d’arte. Oggi la loro memoria viene tutelata da una fondazione che ha un sito internet ricco di documenti.
Finita la guerra, tutti i Monuments abbandonarono la carriera militare e ritornarono alla loro vita civile, a volte raggiungendo anche posizioni importanti nel mondo accademico e museale dei loro paesi. Come scrive lo Smithsonian, le loro memorie e le loro relazioni si tingono di malinconia quando arrivano a raccontare il momento del loro addio all’Italia. Ma non tutti se ne andarono per sempre. Il tenente Frederick Hartt, storico dell’arte che insegnava a Yale e aveva studiato con il grande Erwin Panofsky, ritornò a Firenze nel 1966 per aiutare i suoi amici conosciuti in tempo di guerra a salvare libri e opere d’arte dall’alluvione. Come molti altri Monuments, alla sua morte Hartt venne seppellito a Firenze, nel cimitero di Porte Sante, nell’abbazia di San Miniato.
Redazione, I Monuments Men in Italia, il Post, 22 dicembre 2013 

Deane Keller accanto alla Primavera di Botticelli riportata a Firenze nel 1945 dal deposito nel castello di Montegufoni - Fonte: art. Pde cit. infra

[...] La missione si faceva più dura in Italia, dove era come “combattere in un museo”.
In Italia il lavoro era più difficile, perché il patrimonio artistico era molto di più. Ma ciò non impedì ai Monuments Men, sbarcati dapprima in Sicilia, di ricostruire importanti monumenti, come la Cattedrale di Palermo. Il primo ufficiale a sbarcare in Italia fu Edward Croft Murray, il più apprezzato perché “rideva e gesticolava come un italiano”.
L’operazione in Sicilia rappresentò un paradigma che si estese al resto d’Italia, composto da due momenti essenziali: evitare altri danni e raccogliere i cocci. La risalita dell’Italia continentale fu lunga e difficile, poiché i  tedeschi avevano fortificato la città di Montecassino - in una posizione strategica per raggiungere Roma - e le montagne circostanti. A Montecassino c’era una delle più importanti biblioteche dell’Occidente, fondata da Benedetto da Norcia nel VI secolo, e un’importante collezione di opere d’arte, ma i soldati anglo-americani non riuscirono a evitare la distruzione del Museo.
Anche in Toscana c’era molto lavoro da fare: vennero ritrovate diverse statue di Michelangelo impacchettate nel garage della Villa di Torre a Cona, poco lontano da Firenze, e dipinti degli Uffizi e della Galleria di Palazzo Pitti ritrovati nel castello di Montegufoni. [...]
admin, Chi erano i Monuments Men, i soldati che salvarono l’arte dalla guerra, Ultima voce, 30 settembre 2020

Rodolfo Siviero davanti alla Danae di Tiziano, trafugata da Cassino nell’ottobre 1943, recuperata da Siviero nel 1947 - Fonte: Francesca Bottari, art. cit. infra

Rodolfo Siviero (Guardistallo-Pisa, 24 dicembre 1911 - Firenze, 26 ottobre 1983) è stato il più esperto cacciatore di opere d’arte e beni culturali. Un monument man italiano di straordinaria abilità, cui si deve il recupero di centinaia di capolavori depredati dai nazisti in Italia dal 1938 al 1945 e dispersi o trafugati dal dopoguerra alla sua morte, nel 1983. Ma pochi conoscono la storia di Siviero, malgrado abbia poi ricoperto la carica di ministro plenipotenziario e sia stato protagonista di rocamboleschi recuperi, puntualmente riportati dalle cronache italiane. La sua figura sembra, infatti, aver subito uno strano offuscamento post mortem, anche a causa di un’esistenza condotta all’insegna della segretezza e della doppiezza, oltre che di una pervicace ostilità verso ogni appartenenza politica, aspetto che gli ha procurato scarse simpatie trasversali.
Non a caso Rodolfo Siviero nasce come spia. Dal 1937 alla fine del ’38 il giovane toscano, allora intenzionato a fare il giornalista e sostenuto da diverse personalità del Regime fascista, è inviato dal SIM in missione segreta in Germania. A far cosa? Tuttora appare impossibile ricostruirne con precisione l’incarico; la sua stessa testimonianza, raccolta in alcuni diari e poi tramandata nella scarsa bibliografia, appare vaga e contraddittoria. Forse anche in ragione del fatto che, una volta tornato in Italia, la sua adesione giovanile al Fascismo si esaurisce, fino a condurlo sul fronte opposto, quello per il quale Siviero passa alla storia.
In tempo di guerra, a Firenze, egli infatti organizza e dirige un nucleo clandestino che in collaborazione con gli alleati e i partigiani svolge una rischiosa attività spionistica, grazie alla quale, subito dopo la liberazione, buona parte del patrimonio esportato ha fatto ritorno in Italia. Un’enorme quantità di opere d’arte e oggetti vari di alto valore storico - oltre che archivi, biblioteche, preziosi documenti - giacevano ancora, dopo la guerra, nei nascondigli o nelle raccolte private del Reich. Per quasi trent’anni il detective, poi divenuto funzionario dello Stato italiano con un incarico speciale, ha perseverato con successo nella sua ricerca. [...]
Francesca Bottari, Rodolfo Siviero, il monument man italiano, Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, 22 luglio 2016 

Il Camposanto di Pisa in macerie - Fonte: art. Artonauti cit. infra

Nel luglio 1944 la Piazza dei Miracoli di Pisa - che ospita la famosa torre pendente - si trasformò in un campo di battaglia e rischiò di essere distrutta per sempre.
La causa dello scontro fu la presenza di una postazione di avvistamento tedesca asserragliata sulla torre pendente per sfruttarne l’altezza. Per fortuna la torre di Pisa non crollò mentre Duomo e battistero riportarono solo lievi danni. Al vicino Camposanto toccò invece una sorte diversa: il frammento di un ordigno fece scoppiare un incendo che devastò il tetto.
Lo storico cimitero di Pisa custodiva più di 1500 metri quadrati di affreschi di maestri del Trecento e del Quattrocento: una superficie superiore anche a quella della Cappella Sistina. Il tetto di piombo di sciolse, colando sugli affreschi: seccò l’intonaco facendoli cadere a terra, frantumati in milioni di pezzi. Come se non bastasse la distruzione del tetto espose le pareti affrescate agli agenti atmosferici per 5 settimane prima della liberazione della città.
Se gli affreschi non sono andati completamente perduti è merito di un lungo lavoro di conservazione e restauro durato fino ai giorni nostri e iniziato con Deane Keller. Questo Monuments Man capì fin da subito l’importanza di agire tempestivamente per salvare il Camposanto: per restituire ai pisani un pezzo della loro storia collettiva e per evitare agli alleati l’accusa di aver abbandonato questo tesoro alla distruzione. Keller lavorò per installare un tetto provvisorio che proteggesse il Camposanto e diede inizio al recupero dei singoli milioni di frammenti di affresco caduti dalle pareti.
La città di Pisa non ha dimenticato gli sforzi di Deane Keller, che oggi riposa nello stesso cimitero che ha contribuito a salvare. La sua lapide riporta la scritta Amicissimus ad amicos: “L’amico migliore è presso i suoi amici”.
Redazione, Deane Keller: il migliore amico del Camposanto di Pisa, Artonauti


[...] La Storia, si sa, è fatta di storie. Alcune di queste sono spesso sommerse, in attesa di essere riscoperte. Identity Men, volume appena pubblicato da Skira, nasce proprio per riportare alla luce le storie dimenticate di tutte le persone che hanno difeso il patrimonio culturale italiano, anche rischiando la propria vita, durante la seconda guerra mondiale.
Donne e uomini che hanno contribuito a salvare e recuperare migliaia di opere d’arte in Italia, ma anche in altre nazioni europee occupate dalle armate naziste.
[...] I Monuments Men seguirono quindi l’avanzata delle truppe angloamericane lungo la Penisola e nel corso della loro missione entrarono in contatto con italiane e italiani, per la maggior parte funzionari pubblici, che condividevano lo stesso obiettivo.
Identity Men parte quindi dal racconto di questa vicenda, seguendo una sorta di itinerario storico alla scoperta di tutte le personalità che hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra identità culturale. Dai Monuments Men agli Identity Men italiani, da Sir Leonard Woolley a Ettore Modigliani, da Fernanda Wittgens a Gian Alberto Dell’Acqua.
«Colpisce che a tutela del patrimonio identitario si siano impegnate in quegli anni persone che ricoprivano ruoli e responsabilità diversi» scrivono i curatori. «Funzionari dello stato fascista che temevano le conseguenze dell’avanzata in Italia degli Alleati e dell’arrivo della guerra; impiegati che opponendosi al regime cercavano di ostacolare le razzie spudorate degli occupanti tedeschi e anche dei fascisti; studiosi anglosassoni spinti dall’amore per la storia dell’arte italiana; militari alleati, americani in primis, che vedevano il loro impegno in Italia anche e soprattutto come una missione in difesa di una civiltà libera che promuoveva lo sviluppo dell’arte; alti prelati della Santa Sede che consideravano i monumenti, anche quelli non religiosi, come segno della “civiltà cristiana”; e infine tante donne, ausiliarie delle forze armate angloamericane o funzionarie delle soprintendenze e dell’amministrazione pubblica italiane, che a lungo sono state ignorate dalla storiografia ufficiale».
Identity Men è dunque un libro fatto di nomi, volti, voci ed esperienze. Di storie, dicevamo in apertura - umane, professionali e personali, spesso avventurose - che si intrecciarono con la grande Storia fino a sovrapporsi. Una lettura che ci spinge a riflettere sul concetto di un’identità portatrice di inclusione e collaborazione.
Redazione, Coloro che salvarono l’arte dalla guerra, Pde, 20 maggio 2021 
 
Accanto agli Stati, anche gruppi civili intrapresero iniziative per proteggere i monumenti culturali europei nelle aree che si trovavano sotto l’occupazione delle forze dell’Asse. Nel 1942, il Presidente dell’Archeological Institute of America, il presidente della College Art Association e i direttori del Metropolitan Museum of Art di New York e della National Gallery of Art di Washington si rivolsero ad Harlan F. Stone, Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti, con la proposta di istituire una commissione governativa per proteggere e salvare i monumenti storici e artistici europei; ebbero premura di contattare anche il Capo della Divisione per gli affari civili del Dipartimento della guerra, nonché il servizio dell’Intelligence aerea dell’esercito, per ottenere il loro supporto.
Durante la guerra, la Commissione avrebbe collaborato con l’esercito per proteggere le opere di valore culturale presenti nelle aree occupate dagli alleati e per compilare elenchi delle proprietà di cui si erano appropriate le Potenze dell’Asse. Dopo la guerra, la Commissione avrebbe dovuto sollecitare la restituzione in natura da parte delle Potenze dell’Asse per le opere che avrebbero potuto essere distrutte, compilare un elenco di opere equivalenti nei Paesi dell’Asse che potevano essere utilizzate come compensazione e sollecitare affinché le proprietà illecitamente sottratte fosse restituite.
Il Presidente Roosevelt approvò l’iniziativa e istituì la Commissione il 23 giugno 1943. A seguito delle richieste del Dipartimento della Marina alla Commissione di preparare mappe ed elenchi dei monumenti storici e culturali anche per le aeree in Estremo Oriente, la Commissione cambiò ufficialmente il suo nome in “The American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas” (cosiddetta “Commissione Roberts”) <366.
366 Nel corso della guerra, la Commissione ha fornito alle forze armate oltre settecento mappe dei più importanti centri culturali situati nelle regioni sotto l’occupazione dei Paesi alleati e di quelli sotto le Potenze dell’Asse, sia in Europa che in Estremo Oriente, descritti negli appositi elenchi di accompagnamento. La Commissione ha inoltre preparato e distribuito elenchi e manuali ai funzionari del MFAA (Monuments, Fine Arts and Archives) sul campo, per aiutarli a preparare una lista ufficiale dei siti e monumenti da proteggere.
Angela Zavan, Il caso degli Internati Militari Italiani. Una «storia delle esperienze» tra arte, memoria e diritti negati, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari di Venezia, Anno Accademico 2019/2020

venerdì 19 novembre 2021

Su alcuni tentativi di aiutare gli ebrei tedeschi in fuga dall'Italia

Prima facciata del bollettino distribuito dalla Gildemeester, con raffigurata una croce intrecciata col simbolo dell’Organizzazione Sionistica Mondiale ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani - Fonte: Stefano Nicola Sinicropi, Op. cit. infra

Seconda facciata del bollettino distribuito dalla Gildemeester, con informazioni sull’Organizzazione e i suoi scopi ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani - Fonte: Stefano Nicola Sinicropi, Op. cit. infra

Fino alla promulgazione delle leggi razziali italiane sono rarissimi i contatti tra ebrei emigrati e istituzioni cattoliche. Per lungo tempo, in Italia, l’attività di assistenza su questo fronte è del tutto marginale e limitata alla disponibilità dei singoli. Non esiste, infatti, un comitato di assistenza cattolico, anche perché l’emigrazione cattolica è inizialmente limitata, e si temono soprattutto ripercussioni sulla Chiesa nei Paesi sotto il dominio nazista, o da parte del regime fascista in Italia. <136
Nel momento in cui, però, diversi alti prelati prendono le distanze dalla legislazione razziale italiana, molti ebrei vedono nella Chiesa un riparo contro le persecuzioni. Non a caso è elevato il numero di conversioni, e non coinvolge solo gli ebrei italiani, ma anche gli emigranti e i profughi. <137
In particolare, tra le congregazioni tedesche presenti in Italia, quella che più si espone nell’attività di assistenza è sicuramente la Congregazione dei Pallottini. E ben presto sia i Pallottini che il segretario dell’Opera S. Raffaele (St. Raphaels Verein) di Amburgo, Max Grösser, che si occupa dell’emigrazione dei cattolici “non ariani”, si convincono della necessità di istituire anche in Italia un comitato di assistenza. Convinzione che, però, non trova alcuna sponda in Vaticano, dove si discute della questione senza giungere ad alcuna decisione in merito. <138
Solo successivamente il Vaticano interviene con un aiuto finanziario diretto e con il cosiddetto “Progetto Brasile” che, nato da un’iniziativa dei vescovi tedeschi, si pone l’obiettivo di facilitare l’immigrazione dei cattolici non ariani nel Paese sudamericano.
Obiettivo che, però, si scontra ben presto con numerosi ostacoli, non da ultimo l’entrata in guerra dell’Italia. <139
L’ebreo ungherese Ladislao Munster, storico della medicina laureatosi all’Università di Bologna e internato nel campo di Campagna (SA) dopo l’entrata in guerra dell’Italia, scrive alla sorella Bianca a Budapest, il 4 agosto del 1942: “[…] Tutto ciò che riguarda il mio presente e il mio avvenire è assolutamente instabile e soprattutto indipendente dalla mia volontà. […] Ho scritto un’altra volta alle Legazioni di quelli Stati Sud e Centro americani con cui stiamo in buoni rapporti, per sentire se eventualmente prendessero in considerazione delle prenotazioni per le emigrazioni nel dopo-guerra, ma tutti hanno risposto negativamente. Da me c’è anche la complicazione gravissima che sono apolide per ciò nemmeno presentabile. Ho però forti speranze, che una volta ristabilita la pace io possa trovare una sistemazione per mezzo del S. Raphael Verein a Roma, del quale vi ho parlato varie volte. Questi religiosi si occupano esclusivamente della sistemazione di persone nella mia situazione e so che non si tratta di chiacchiere, ho visto in numerosi casi (che però non essendo apolidi avevano un passaporto) a Campagna. Più di 15 sono riusciti ad emigrare nell’America del Sud da Campagna ed essi non solo hanno procurato i visti, ma pagato anche il viaggio. Certo è però che dopo alcuni mesi anche questi Stati hanno chiuso le porte, in modo che quando io venni a sapere della loro esistenza e mi misi in corrispondenza con loro, non vi era più niente da fare. Ma per me non ci sarebbe stato nemmeno prima, non avendo alcun passaporto. Se non fosse venuta la guerra, quei Padri me ne avrebbero procurato uno, ma dal momento che è scoppiata la guerra, hanno cessato di rilasciare passaporti del genere. Il rapporto con questi religiosi semplifica molte cose, soprattutto perché essi sono informatissimi e tengono in evidenza precisa (sono tedeschi, quindi esatti e scrupolosi) tutte le possibilità di emigrazione nelle varie parti del mondo. Scrivendo alle singole ambasciate o legazioni, molte volte non ti rispondono, o se ti rispondono, ti scrivono due righe. Questi invece prendono veramente sul cuore la tua causa, essendo questa la loro vocazione e l’unico scopo della loro vita religiosa. Nell’ultima lettera che mi hanno scritto dicono che per ora non si può fare nulla, bisogna attendere fino alla fine della guerra”. <140
Dopo l’8 settembre del ’43, in molte località il clero cattolico supporta i collaboratori clandestini della Delasem, assumendosi il compito di trasmettere e distribuire i sussidi alle persone che vivono in clandestinità, o aiutando chi voglia fuggire in Svizzera. E in generale, il soccorso agli ebrei da parte del mondo cattolico, inteso come l’insieme costituito dal clero secolare, dal clero regolare, dagli uomini dell’Azione Cattolica e di altre opere, è vasto e articolato. Senza di esso, molte vite non avrebbero potuto salvarsi. <141
Nel maggio del 1940, invece, il Governo italiano concede alla Congregazione protestante dei Quaccheri <142 l’autorizzazione all’apertura di un ufficio in Italia, per coordinare l’attività di assistenza ai tanti esuli presenti nel Paese. Ciò porta in pratica a una suddivisione dei compiti, con la Delasem che trasmette al nuovo ufficio tutte le pratiche relative ai casi di assistenza ai non ebrei. Così, l’organizzazione dei Quaccheri, accanto a quelle ebraiche, diventa ben presto una delle colonne portanti dell’attività assistenziale. <143
C’è, infine, un ultimo caso, molto controverso, di cui si trova traccia nella bibliografia e negli archivi, e che merita di essere citato. È il caso della Gildemeester Auswanderungs-Hilfsaktion (Azione Gildemeester di assistenza per gli emigranti), costituitasi a Vienna dopo l’annessione dell’Austria. Fondatore e Presidente onorario è l’olandese Frank van Gheel Gildemeester (“ariano e di religione evangelica” <144), che fin dall’inizio elabora progetti per colonie e insediamenti ebraici, da finanziare soprattutto sbloccando i beni sottratti agli emigranti dalle autorità naziste. <145
Alla fine del 1938, l’attenzione della Gildemeester si sposta sull’Etiopia, e in particolare sulla zona intorno al Lago di Tana. L’organizzazione entra quindi in contatto con il Governo italiano, ottenendo dal Ministero per l’Africa Orientale l’autorizzazione a inviare in Etiopia una commissione di esperti per valutare la fattibilità del trasferimento di alcuni ebrei nella zona. Viene poi aperto un ufficio a Roma, viene distribuito un bollettino stampato in tre lingue - italiano, tedesco e inglese - con le informazioni sull’organizzazione stessa e i suoi scopi, e si iniziano a raccogliere adesioni per l’emigrazione in Etiopia. <146
Ma ben presto, le contraddizioni e le incongruenze emerse, le perplessità dell’UCII e della Delasem, <147 dovute anche ai legami di van Gheel Gildemeester con le Autorità naziste, e i timori del Ministero dell’Interno, preoccupato che l’iniziativa della Gildemeester possa distogliere i profughi dai loro sforzi per lasciare il Paese, <148 fanno sì che Mussolini, alla fine del 1939, ordini allo stesso Presidente onorario la sospensione di ogni attività. D’altronde, il progetto di un insediamento ebraico in Abissinia era già tramontato, e persino l’idea di inviare in Africa una commissione di studio viene tralasciata. <149
Non va invece dimenticato il fondamentale aiuto fornito a tanti perseguitati, soprattutto dopo l’8 settembre del 1943, da parte delle popolazioni locali (aiuto di cui è difficile valutarne l’estensione), delle associazioni valdesi, della Croce Rossa, degli antifascisti e dei rappresentanti diplomatici dei Paesi neutrali. <150 Un soccorso prezioso che consente a molti di mettere in salvo, nella fuga e nella clandestinità, la propria vita.
[NOTE]
136 KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 398-400.
137 RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 334; RENATO MORO, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, il Mulino, Bologna 2002, pp. 85-123.
138 FRANCA TAGLIACOZZO, Gli ebrei romani raccontano la “propria” Shoah, Giuntina, Firenze 2011, p. 187; KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 401-403.
139 KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 404-405.
140 ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A4 bis, busta 254, fasc. Munster Ladislao. Ladislao Munster si è laureato il 30 ottobre del 1925, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Bologna, con una tesi su L’importanza di Semmelweiss nella storia della febbre puerperale; ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA - ARCHIVIO STORICO (d’ora in poi, ASUnibo), Facoltà di Medicina e Chirurgia, fasc. 7081, Ladislao Munster.
141 Per un approfondimento sul soccorso prestato dal mondo cattolico si veda: LILIANA PICCIOTTO, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah (1943-1945), cit., pp. 164-219.
142 Congregazione attiva già in diverse località d’Europa, con centri di assistenza in alcune delle principali città del Continente. L’obiettivo che si pone è quello di mettere in pratica il Cristianesimo attuando in concreto l’amore per il prossimo.
143 KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 406-410.
144 In una nota del 26 ottobre 1939, inviata dalla Regia Prefettura di Genova al Ministero dell’Interno, si legge: “Il Gildemeester sarebbe un cittadino olandese di razza ariana da parecchi anni domiciliato a Vienna, il quale, all’epoca del movimento nazista, valendosi di alte relazioni e di ingenti disponibilità finanziarie si sarebbe occupato della sorte di cittadini austriaci iscritti al Partito Nazista e sottoposti a provvedimenti di polizia ottenendo di poterli far trasferire a sue spese in Germania. Dopo la unione dell’Austria al Reich ed allorché vennero in vigore i provvedimenti contro gli ebrei, il Governo Tedesco, per riconoscenza all’opera già esplicitata dal Gildemeester in favore del Nazismo, gli avrebbe consentito di occuparsi degli ebrei ed in tal modo egli avrebbe potuto provvedere alla loro emigrazione in altre nazioni togliendoli dai campi di concentramento e costituendo a Vienna un Ufficio sotto la denominazione “Comitato di Azione pro Emigranti””. Dalla documentazione d’archivio non è però chiaro se sia “un vero filantropo o uno speculatore”. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
145 ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani; KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 410-416.
146 ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
147 In una relazione dell’UCII indirizzata alla Direzione Generale Demografia e Razza presso il Ministero dell’Interno, nel dicembre del 1939, si legge: “Il Delegato dell’Unione ha avuto occasione di incontrarsi con componenti della così detta “Organizzazione Gildemeester” nella speranza di trovare un valido ausilio per gli scopi che si vogliono raggiungere. Questa Unione deve dichiarare che non può condividere i programmi di detta Organizzazione, e che desidera nettamente separare il proprio operato da quello della Gildemeester, di cui non è riuscita a comprendere le finalità”. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
148 “Specialmente il fatto delle pretese iscrizioni di ebrei stranieri in liste di emigrazione per l’Africa Italiana crea indubbiamente un turbamento nella situazione degli ebrei stessi i quali adagiandosi in tale speranza non credono di occuparsi altrimenti per lasciare il territorio del Regno”. È quanto si legge nella lettera che, il 25 novembre del 1939, la Regia Questura di Genova invia al Questore di Roma e al Ministero dell’Interno. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
149 Già all’inizio del 1939, il rabbino Maurice Perlzweig, membro del comitato esecutivo del Congresso Mondiale Ebraico, si è dichiarato contrario a qualsiasi iniziativa relativa all’immigrazione in massa di ebrei in Abissinia. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
150 LILIANA PICCIOTTO, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah (1943-1945), cit., pp. 70-263.
Stefano Nicola Sinicropi, L'esilio tedesco a Ferramonti di Tarsia. Storie di ebrei in fuga dalla Germania, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2020
 
I “campi di concentramento” italiani per gli stranieri non avevano in comune con quelli tedeschi molto più che le denominazione. Per realizzare gli internamenti fu costruito all'inizio un unico campo di baracche a Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi, caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che potessero contenere fino a 200 persone. Solo il campo di Ferramonti-Tarsia nei mesi immediatamente precedenti la liberazione giunse a contenere oltre 2000 internati, di cui circa 1500 ebrei. In tutto il periodo dell’internamento, fino al settembre 1943, si può provare l'esistenza di circa quaranta campi, nei quali venivano tenuti “ebrei stranieri”. Ad eccezione di due casi, tutti i campi erano situati  nell'Italia centrale e meridionale, soprattutto nelle province molto fredde d'inverno - di Campobasso, Chieti, Macerata e Teramo.
I campi più meridionali si trovavano a Campagna in provincia di Salerno, ad Alberobello in provincia di Bari e a Ferramonti­Tarsia in provincia di Cosenza. Solo in dodici campi gli ebrei erano separati dagli altri stranieri. In tutto c'erano sette campi femminili. I campi promiscui erano tre. A Ferramonti-Tarsia alla fine del 1940 furono edificate delle baracche per famiglie, che non bastarono tuttavia a riunire tutte le famiglie che l'internamento aveva separato. A partire dal 1941 a Ferramonti-Tarsia fu data la possibilità, su istanza degli internati, di passare al regime di “libero internamento". Molti speravano di trovarvi condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell'Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la provincia preferita per il soggiorno. Cosi molti profughi e immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati, dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e furono deportati.
Nel decreto del 4 settembre 1940 riguardante l'internamento viene detto espressamente: “Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza” In effetti questo principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie. L'internamento in un campo significava peraltro una considerevole limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate alle loro famiglie, elle loro case, al loro ambiente e ammassate a secondo delle possibilità di ricezione dei campi. I campi erano sorvegliati, anche se, tranne a Ferramonti-Tarsia, non c'era il filo spinato. Solo in casi eccezionali come ad esempio qualora si rendesse necessario un intervento medico d'urgenza, veniva concesso un permesso di uscita. La resistenza nei confronti dell'ordinamento del campo poteva essere punita con il trasferimento in un campo ancora più severo, ad esempio situato sulle isole prospicienti la costa italiana.
Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire,che era calcolata sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte elevata a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente per mangiare e difficilmente poteva bastare .per la sostituzione degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei campi, gli internati patirono la fame. Anche le condizioni di igiene erano pietose, il riscaldamento nei mesi invernali era insufficiente. Nel campo di Feramonti-Tarsia furono riscontrati oltre 800 casi di malaria. Fortunatamente non si trattava di una forma mortale, e non si ebbero vittime.
Nei campi più grandi la direzione consentiva agli internati una forma di amministrazione autonoma. A Ferramonti-Tarsia era state creata - in pieno fascismo - un'assemblea dei rappresentanti delle baracche, che elesse il portavoce del campo e creò numerose commissioni, come quella sanitaria, quella educativa e quella culturale, una farmacia, un pronto soccorso, tre sinagoghe, una cappella cattolica e una greco-ortodossa. Analogamente a quanto avveniva in alcuni campi d'internamento francesi, nei campi italiani si sviluppò una vita culturale molto vivace con rappresentazioni teatrali e manifestazioni musicali. In questo modo nella monotonia della vita dei campi e nella loro chiusura nei confronti del mondo esterno - che erano sentite dagli internati come particolarmente oppressive e paralizzanti - si inseriva qualche momento di svago.
Klaus Voigt, Il rifugio precario (Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945), Vol. II, La Nuova Italia, 1999 in www.annapizzuti.it 

lunedì 15 novembre 2021

Dopo le dimissioni di Fanfani, la Spes ripristina la consueta prassi


Quando il nuovo corso della Dc fanfaniana prende avvio alla guida della Spes c'è Rumor, a cui succedono Forlani, Magrì e Malfatti: tutti aderenti alla corrente di Iniziativa democratica. Proprio in questo periodo esce la serie dei Cinegiornali Spes, il cui primo numero, non a caso, si apre con un intervento di Fanfani che espone i punti salienti del congresso napoletano del 1954, mentre nell'ultimo, interamente dedicato all'assemblea nazionale del 1955, il segretario viene mostrato intento a salutare e stringere le mani dei convenuti dopo aver pronunciato il suo discorso. La breve stagione del “protagonismo” fanfaniano ha inizio nel 1958, con un manifesto elettorale <142 a sfondo azzurro nel quale il leader aretino avanza a figura intera su una strada bianca, con un braccio proteso davanti a sé e l'altro appoggiato a un fianco, nella postura tipica di chi intenda rivolgersi agli interlocutori in maniera informale. In alto, a destra, si profila il ritaglio del volto di De Gasperi che osserva il cammino del suo successore: ovviamente, con questo espediente grafico la Spes vuole indicare una perfetta continuità di orientamenti nella guida del partito e del paese, tuttavia l'immagine suggerisce (per quanto involontariamente) anche una palese antinomia fra il contegno austero dell'uno e l'atteggiamento confidenziale dell'altro. E uno spazio notevole Fanfani occupa anche nel citato Progresso senza avventure, dal momento che tutto il montato del documentario fa da contrappunto al fluviale discorso elettorale pronunciato dal candidato.
All'indomani delle elezioni, la Spes prosegue in questa direzione di netta personalizzazione con Buon lavoro, Italia! <143 (1959), documentario realizzato allo scopo di riepilogare l'operato dei primi mesi di attività del governo presieduto da Fanfani che costituisce un autentico monumento del decisionismo del segretario aretino. All'inizio, viene rievocato il successo elettorale del 18 aprile 1948 e quello, più recente, del 25 maggio 1958, instaurando nuovamente un parallelismo fra De Gasperi e Fanfani, che ne raccoglie il lascito nel segno della continuità del “buongoverno” democristiano. La cerimonia d'insediamento al Quirinale sancisce poi l'ufficialità dell'investitura popolare ricevuta da Fanfani, l'eroe di un'ennesima epopea nazionale. Allo sfarzo istituzionale delle immagini del giuramento alla presenza di Gronchi, subito si contrappone la tensione di quelle relative alla situazione internazionale contrassegnata dalla crisi irachena e dalla perenne minaccia sovietica. Fanfani, che è anche titolare del dicastero della Farnesina, dà prova di grande acume diplomatico adoperandosi per la difesa degli interessi strategici dell'Italia nel Mediterraneo e, allo stesso tempo, per una risoluzione pacifica delle ostilità. La sua ferma condotta gli guadagna in breve tempo la stima di tutti i più importanti Capi di Stato occidentali, incontrati in rapida successione, a dimostrazione del ruolo internazionale di primo piano finalmente ricoperto dall'Italia (e malgrado la campagna stampa strumentalmente denigratoria portata avanti da «L'Unità»). Dalla lotta alla disoccupazione al miglioramento dello stato sociale e al piano decennale per la pubblica istruzione, la gestione della politica interna appare non meno promettente. Nel corso del cortometraggio, l'ininterrotto commento dello speaker assume quasi il tono di una “chanson de geste” mentre Fanfani appare sempre in campo medio o lungo, inserito in un più ampio contesto internazionale nel quale si muove con la disinvoltura corporea di un primus inter pares. Solo nel finale, assiso alla sua scrivania e un poco inclinato in avanti quasi a volersi proiettare oltre lo schermo, Fanfani prende direttamente la parola per ricapitolare con orgoglio, nel suo eloquio fluente e ritmato, il bilancio di un semestre di governo. La visione trionfalista proposta da Buon lavoro, Italia! elude, scontatamente, i dissidi interni alla compagine democristiana e governativa. Probabilmente, il principale intento propagandistico del documentario è proprio quello di minimizzare la portata di questa conflittualità endogena, anteponendo ad essa i risultati conseguiti dal nuovo interprete della volontà nazionale, ma viene accidentalmente diffuso proprio allorquando Fanfani si vede costretto a rassegnare le dimissioni (gennaio 1959), risultando quindi inservibile al fine prestabilito.
Come detto, nei confronti della fisicità del leader e della sua rappresentazione, in questo cortometraggio si segna uno scarto rispetto alla consuetudine: laddove, nel caso di De Gasperi, il risalto dato all'eccezionalità biografica serve anche a rimediare alla freddezza della sua gestualità e alla limitatezza del suo registro espressivo, qui è possibile indugiare a fini persuasivi sul carisma che promana dalle azioni e dalle parole di Fanfani.
Quest'opera di personalizzazione, però, rimane squisitamente politica e non giunge mai a coinvolgere la dimensione biografica (quel che, peraltro, non sarebbe privo di problematicità se si pensa ai suoi trascorsi vicini agli ambienti culturali fascisti).
Si tratta in ogni caso di una deviazione momentanea e, dopo le dimissioni di Fanfani, la Spes ripristina la consueta prassi, che persiste invariata anche nel momento in cui il politico aretino ritorna alla guida dell'esecutivo e per ben tre anni (1960-1963).
Per tutti gli anni sessanta e settanta, mentre il ricordo di De Gasperi continua a essere ravvivato e il suo mito alimentato, nessun'altra personalità democristiana assurge ad avere un peso simbolico paragonabile nell'economia della Spes. La lunga commemorazione in cui si traduce il cordoglio per la morte dello statista trentino rimane, infatti, un unicum, nemmeno il lutto riservato a Don Sturzo - che di De Gasperi può essere considerato il precursore - è oggetto di tanta costanza da parte della Spes.
Quando viene a mancare nell'agosto del 1959, la Spes prende commiato dal fondatore del Partito popolare e dell'organo ufficiale democristiano attraverso la diffusione di un sobrio manifesto, nel quale ne ricorda compostamente la «vita spesa per l'affermazione dell'ideale cristiano nella società» <144, e di un opuscolo contenente la traccia di un discorso da pronunciare nelle sezioni alla presenza delle autorità locali, in attesa di dedicare al defunto un più solenne tributo in autunno al Teatro Eliseo di Roma <145.
Naturalmente, se si tiene presente la difficile congiuntura che attraversa il partito di governo nell'estate del 1959, questo basso profilo appare tutto sommato comprensibile.
Anche in seguito, comunque, a livello iconico Sturzo non ritorna con una frequenza significativa nella propaganda della Spes, e nelle rare occasioni in cui accade è sempre affiancato a De Gasperi.
Non che ciò significhi un disconoscimento dell'importanza avuta dal sacerdote siciliano nella storia del movimento cattolico, semplicemente dalla sua memoria non originano narrazioni identitarie <146 e il suo lascito rimane esclusivo appannaggio di una più ristretta riflessione culturale e politologica.
Se nel lutto osservato per Sturzo la dimensione biografica è comunque percepibile, per quanto in misura indubbiamente contenuta, è invece del tutto assente in quello per Segni. Nel manifesto diffuso alla sua morte, nel 1972, un particolare effetto nel ritaglio del profilo fotografico conferisce, infatti, all'ex Presidente della Repubblica un'involontaria aurea fantasmatica, acuita dal bianco e nero, mentre il messaggio di accompagnamento non va oltre un tono genericamente sommesso <147 che replica quello del manifesto diffuso nel 1964, al tempo delle sue dimissioni dovute al peggioramento irreversibile di una grave trombosi cerebrale che lo aveva colpito qualche mese prima <148.
III.2 Immagini del partito cattolico
Come ricordato, durante la riorganizzazione strutturale della prima segreteria Fanfani la Spes realizza la serie dei Cinegiornali Spes che ha, tra i suoi specifici fini, anche quello di popolarizzare la struttura della Democrazia cristiana nelle sue varie articolazioni. Per questo motivo non si sofferma solo sui dirigenti nazionali, ma si propone di dare una certa visibilità anche ai responsabili provinciali e ai militanti di base. In particolare, nel terzo numero si vedono le immagini, dapprima, di una riunione pisana dei segretari periferici e, in seguito, di attivisti siciliani intenti a distribuire materiale informativo in piazza: a intervallare queste riprese sono puntualmente inserite quelle relative agli evidenti benefici recati nelle varie regioni italiane dall'accorta amministrazione democristiana, la cui azione è perfettamente sinergica fra centro e periferia.
Nel Cinegiornale Spes n. 4 viene invece attribuita speciale importanza ad un aspetto, ritenuto meno noto agli spettatori, della vita interna del partito: la redazione del quotidiano «Il Popolo». Si seguono le varie fasi della composizione di un singolo numero del giornale, che vengono illustrate passo per passo: dalle riunioni di redazione alla corrispondenza con gli inviati all'estero, dalla scrittura degli articoli all'assemblaggio del foglio in tipografia fino alla consegna nelle edicole. Il cortometraggio non fornisce esclusivamente nozioni di carattere tecnico, ma si apre con una rapida cronistoria del quotidiano (dalle sue origini come organo del Partito popolare alla censura e soppressione ad opera del fascismo fino alla sua rinascita come voce della Democrazia cristiana) che intende far capire come esso sia uno strumento imprescindibile nel dialogo fra il partito e i suoi elettori. Quest'ultimo punto rimane più un'aspirazione che un dato di fatto, e se è verosimile che fra le intenzioni del cortometraggio vi sia anche quella di stimolare un incremento nella vendita delle copie de «Il Popolo», qui è interessante osservare come la Spes si serva del quotidiano per condurre la sua opera di costruzione identitaria.
Nei Cinegiornali Spes l'esposizione delle dinamiche e dei rituali di partito rimane tutto sommato frammentaria, rimanendo ben distante dalla compattezza con la quale il Pci viene rappresentato nei filmati comunisti <149.
Questo deficit di rappresentazione visuale dipende dagli assetti di un partito sprovvisto sia di un'ideologia definita che di una forte adesione militante, per cui gli sforzi dalla Spes nei Cinegiornali sono tutti tesi a indicare una meta ideale prefissata ma ancora da raggiungere.
Questa prospettiva, che è in linea con i postulati della centralizzazione fanfaniana, viene meno con l'inizio della segreteria Moro, durante la quale la Spes ritorna a presentare la Dc in termini più sfumati e a privilegiare il suo ruolo di esecutrice della volontà generale degli italiani.
È anche per questi motivi, se la più importante (e problematica) operazione che la Spes conduce sull'immagine del partito, nel 1963, rimane su un piano prettamente simbolico.
Sul finire degli anni sessanta, un cortometraggio rimette al centro la struttura partitica democristiana. Nel venticinquesimo anniversario della fondazione della Dc, Per il nostro domani <150 (1968) tenta di offrire un'immagine aggiornata del partico cattolico, ponendo l'accento sulla sua efficienza organizzativa e il suo radicamento territoriale. Una ripresa aerea del quartiere EUR plana sulla sede centrale (Palazzo Sturzo) della DC, inaugurata nel 1962, mentre lo speaker ne loda la modernità architettonica e la funzionalità. La cinepresa mostra quindi gli interni dell'edificio, dove i funzionari di partito attraversano ampi corridoi illuminati ed entrano in uffici dotati di tecnologia
innovativa per le comunicazioni. A fare da contraltare all'imponenza della sede centrale, le più modeste sedi periferiche e provinciali, grazie alle quali, però, il partito ha la possibilità di dialogare con i cittadini e recepire i loro bisogni più urgenti.
Come detto in precedenza, nel 1968 i giovani e le donne sono i due target cui la Spes si rivolge con inedita attenzione durante la campagna elettorale, e anche qui dedica a queste categorie uno spazio mostrando le immagini di un convegno del Movimento giovanile e di un congresso del Movimento femminile, recuperando lo stesso frasario retorico già impiegato negli altri due documentari di quell'anno.
Dopo questa parentesi, il focus si sposta sul vertice del partito, mostrando nello specifico una riunione della direzione centrale presso la sede democristiana di Via della Camilluccia. È questo il luogo dove prende forma il processo decisionale che guida il paese, processo reso visivamente dal fitto scambio orale fra Rumor e Moro a margine di una sessione. Seguendo una progressione circolare, Per il nostro domani si conclude facendo ritorno alla sede centrale all'EUR, dove le attività fervono sotto la vigile sorveglianza dei vicesegretari Piccoli e Forlani e le principali direttive vengono rese note ai cittadini dalla Spes di Gian Aldo Arnaud.
[NOTE]
141 G. Mammarella, Op. cit., pp. 235-236.
142 ASILS, Fondo Manifesti, Per conservare libertà all’Italia e garantirle nuovi progressi senza avventure, 1958.
143 ASILS, Fondo Audiovisivi, Buon lavoro, Italia, Spes, 1959, 15', b/n, 16 mm.
144 ASILS, Fondo Manifesti, Morte di Luigi Sturzo, 1959.
145 ASILS, Fondo Segreteria Politica, Circolare n. 1613 – 59 (6 SPES), 12 agosto 1959, sc. 102, f. 3.
146 Solo nel 1981, la Rai realizza uno sceneggiato ispirato alla biografia del sacerdote e politico. Don Luigi Sturzo, diretto da Giovanni Fago e interpretato da Flavio Bucci, è un prodotto illustrativo che non ha lasciato un particolare segno nella memoria televisiva.
147 ASILS, Fondo Manifesti, Morte di Antonio Segni, 1972.
148 Per una minuziosa ricostruzione della biografia politica e istituzionale del quarto Presidente della Repubblica si rimanda a: S. Mura, Antoni Segni. La politica e le istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2017.
149 M. Palmieri, op, cit., p. 154.
150 ASILS, Fondo Audiovisivi, Per il nostro domani, Spes, 1968, 24’40’’, b/n-col., 16 mm.
Eddy Olmo Denegri, Il paese ideale. La propaganda politica della Spes e la comunicazione istituzionale del Servizio Informazioni (1945-1975), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno accademico 2019/2020