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venerdì 19 novembre 2021

Su alcuni tentativi di aiutare gli ebrei tedeschi in fuga dall'Italia

Prima facciata del bollettino distribuito dalla Gildemeester, con raffigurata una croce intrecciata col simbolo dell’Organizzazione Sionistica Mondiale ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani - Fonte: Stefano Nicola Sinicropi, Op. cit. infra

Seconda facciata del bollettino distribuito dalla Gildemeester, con informazioni sull’Organizzazione e i suoi scopi ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani - Fonte: Stefano Nicola Sinicropi, Op. cit. infra

Fino alla promulgazione delle leggi razziali italiane sono rarissimi i contatti tra ebrei emigrati e istituzioni cattoliche. Per lungo tempo, in Italia, l’attività di assistenza su questo fronte è del tutto marginale e limitata alla disponibilità dei singoli. Non esiste, infatti, un comitato di assistenza cattolico, anche perché l’emigrazione cattolica è inizialmente limitata, e si temono soprattutto ripercussioni sulla Chiesa nei Paesi sotto il dominio nazista, o da parte del regime fascista in Italia. <136
Nel momento in cui, però, diversi alti prelati prendono le distanze dalla legislazione razziale italiana, molti ebrei vedono nella Chiesa un riparo contro le persecuzioni. Non a caso è elevato il numero di conversioni, e non coinvolge solo gli ebrei italiani, ma anche gli emigranti e i profughi. <137
In particolare, tra le congregazioni tedesche presenti in Italia, quella che più si espone nell’attività di assistenza è sicuramente la Congregazione dei Pallottini. E ben presto sia i Pallottini che il segretario dell’Opera S. Raffaele (St. Raphaels Verein) di Amburgo, Max Grösser, che si occupa dell’emigrazione dei cattolici “non ariani”, si convincono della necessità di istituire anche in Italia un comitato di assistenza. Convinzione che, però, non trova alcuna sponda in Vaticano, dove si discute della questione senza giungere ad alcuna decisione in merito. <138
Solo successivamente il Vaticano interviene con un aiuto finanziario diretto e con il cosiddetto “Progetto Brasile” che, nato da un’iniziativa dei vescovi tedeschi, si pone l’obiettivo di facilitare l’immigrazione dei cattolici non ariani nel Paese sudamericano.
Obiettivo che, però, si scontra ben presto con numerosi ostacoli, non da ultimo l’entrata in guerra dell’Italia. <139
L’ebreo ungherese Ladislao Munster, storico della medicina laureatosi all’Università di Bologna e internato nel campo di Campagna (SA) dopo l’entrata in guerra dell’Italia, scrive alla sorella Bianca a Budapest, il 4 agosto del 1942: “[…] Tutto ciò che riguarda il mio presente e il mio avvenire è assolutamente instabile e soprattutto indipendente dalla mia volontà. […] Ho scritto un’altra volta alle Legazioni di quelli Stati Sud e Centro americani con cui stiamo in buoni rapporti, per sentire se eventualmente prendessero in considerazione delle prenotazioni per le emigrazioni nel dopo-guerra, ma tutti hanno risposto negativamente. Da me c’è anche la complicazione gravissima che sono apolide per ciò nemmeno presentabile. Ho però forti speranze, che una volta ristabilita la pace io possa trovare una sistemazione per mezzo del S. Raphael Verein a Roma, del quale vi ho parlato varie volte. Questi religiosi si occupano esclusivamente della sistemazione di persone nella mia situazione e so che non si tratta di chiacchiere, ho visto in numerosi casi (che però non essendo apolidi avevano un passaporto) a Campagna. Più di 15 sono riusciti ad emigrare nell’America del Sud da Campagna ed essi non solo hanno procurato i visti, ma pagato anche il viaggio. Certo è però che dopo alcuni mesi anche questi Stati hanno chiuso le porte, in modo che quando io venni a sapere della loro esistenza e mi misi in corrispondenza con loro, non vi era più niente da fare. Ma per me non ci sarebbe stato nemmeno prima, non avendo alcun passaporto. Se non fosse venuta la guerra, quei Padri me ne avrebbero procurato uno, ma dal momento che è scoppiata la guerra, hanno cessato di rilasciare passaporti del genere. Il rapporto con questi religiosi semplifica molte cose, soprattutto perché essi sono informatissimi e tengono in evidenza precisa (sono tedeschi, quindi esatti e scrupolosi) tutte le possibilità di emigrazione nelle varie parti del mondo. Scrivendo alle singole ambasciate o legazioni, molte volte non ti rispondono, o se ti rispondono, ti scrivono due righe. Questi invece prendono veramente sul cuore la tua causa, essendo questa la loro vocazione e l’unico scopo della loro vita religiosa. Nell’ultima lettera che mi hanno scritto dicono che per ora non si può fare nulla, bisogna attendere fino alla fine della guerra”. <140
Dopo l’8 settembre del ’43, in molte località il clero cattolico supporta i collaboratori clandestini della Delasem, assumendosi il compito di trasmettere e distribuire i sussidi alle persone che vivono in clandestinità, o aiutando chi voglia fuggire in Svizzera. E in generale, il soccorso agli ebrei da parte del mondo cattolico, inteso come l’insieme costituito dal clero secolare, dal clero regolare, dagli uomini dell’Azione Cattolica e di altre opere, è vasto e articolato. Senza di esso, molte vite non avrebbero potuto salvarsi. <141
Nel maggio del 1940, invece, il Governo italiano concede alla Congregazione protestante dei Quaccheri <142 l’autorizzazione all’apertura di un ufficio in Italia, per coordinare l’attività di assistenza ai tanti esuli presenti nel Paese. Ciò porta in pratica a una suddivisione dei compiti, con la Delasem che trasmette al nuovo ufficio tutte le pratiche relative ai casi di assistenza ai non ebrei. Così, l’organizzazione dei Quaccheri, accanto a quelle ebraiche, diventa ben presto una delle colonne portanti dell’attività assistenziale. <143
C’è, infine, un ultimo caso, molto controverso, di cui si trova traccia nella bibliografia e negli archivi, e che merita di essere citato. È il caso della Gildemeester Auswanderungs-Hilfsaktion (Azione Gildemeester di assistenza per gli emigranti), costituitasi a Vienna dopo l’annessione dell’Austria. Fondatore e Presidente onorario è l’olandese Frank van Gheel Gildemeester (“ariano e di religione evangelica” <144), che fin dall’inizio elabora progetti per colonie e insediamenti ebraici, da finanziare soprattutto sbloccando i beni sottratti agli emigranti dalle autorità naziste. <145
Alla fine del 1938, l’attenzione della Gildemeester si sposta sull’Etiopia, e in particolare sulla zona intorno al Lago di Tana. L’organizzazione entra quindi in contatto con il Governo italiano, ottenendo dal Ministero per l’Africa Orientale l’autorizzazione a inviare in Etiopia una commissione di esperti per valutare la fattibilità del trasferimento di alcuni ebrei nella zona. Viene poi aperto un ufficio a Roma, viene distribuito un bollettino stampato in tre lingue - italiano, tedesco e inglese - con le informazioni sull’organizzazione stessa e i suoi scopi, e si iniziano a raccogliere adesioni per l’emigrazione in Etiopia. <146
Ma ben presto, le contraddizioni e le incongruenze emerse, le perplessità dell’UCII e della Delasem, <147 dovute anche ai legami di van Gheel Gildemeester con le Autorità naziste, e i timori del Ministero dell’Interno, preoccupato che l’iniziativa della Gildemeester possa distogliere i profughi dai loro sforzi per lasciare il Paese, <148 fanno sì che Mussolini, alla fine del 1939, ordini allo stesso Presidente onorario la sospensione di ogni attività. D’altronde, il progetto di un insediamento ebraico in Abissinia era già tramontato, e persino l’idea di inviare in Africa una commissione di studio viene tralasciata. <149
Non va invece dimenticato il fondamentale aiuto fornito a tanti perseguitati, soprattutto dopo l’8 settembre del 1943, da parte delle popolazioni locali (aiuto di cui è difficile valutarne l’estensione), delle associazioni valdesi, della Croce Rossa, degli antifascisti e dei rappresentanti diplomatici dei Paesi neutrali. <150 Un soccorso prezioso che consente a molti di mettere in salvo, nella fuga e nella clandestinità, la propria vita.
[NOTE]
136 KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 398-400.
137 RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 334; RENATO MORO, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, il Mulino, Bologna 2002, pp. 85-123.
138 FRANCA TAGLIACOZZO, Gli ebrei romani raccontano la “propria” Shoah, Giuntina, Firenze 2011, p. 187; KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 401-403.
139 KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 404-405.
140 ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A4 bis, busta 254, fasc. Munster Ladislao. Ladislao Munster si è laureato il 30 ottobre del 1925, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Bologna, con una tesi su L’importanza di Semmelweiss nella storia della febbre puerperale; ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA - ARCHIVIO STORICO (d’ora in poi, ASUnibo), Facoltà di Medicina e Chirurgia, fasc. 7081, Ladislao Munster.
141 Per un approfondimento sul soccorso prestato dal mondo cattolico si veda: LILIANA PICCIOTTO, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah (1943-1945), cit., pp. 164-219.
142 Congregazione attiva già in diverse località d’Europa, con centri di assistenza in alcune delle principali città del Continente. L’obiettivo che si pone è quello di mettere in pratica il Cristianesimo attuando in concreto l’amore per il prossimo.
143 KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 406-410.
144 In una nota del 26 ottobre 1939, inviata dalla Regia Prefettura di Genova al Ministero dell’Interno, si legge: “Il Gildemeester sarebbe un cittadino olandese di razza ariana da parecchi anni domiciliato a Vienna, il quale, all’epoca del movimento nazista, valendosi di alte relazioni e di ingenti disponibilità finanziarie si sarebbe occupato della sorte di cittadini austriaci iscritti al Partito Nazista e sottoposti a provvedimenti di polizia ottenendo di poterli far trasferire a sue spese in Germania. Dopo la unione dell’Austria al Reich ed allorché vennero in vigore i provvedimenti contro gli ebrei, il Governo Tedesco, per riconoscenza all’opera già esplicitata dal Gildemeester in favore del Nazismo, gli avrebbe consentito di occuparsi degli ebrei ed in tal modo egli avrebbe potuto provvedere alla loro emigrazione in altre nazioni togliendoli dai campi di concentramento e costituendo a Vienna un Ufficio sotto la denominazione “Comitato di Azione pro Emigranti””. Dalla documentazione d’archivio non è però chiaro se sia “un vero filantropo o uno speculatore”. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
145 ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani; KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, cit., pp. 410-416.
146 ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
147 In una relazione dell’UCII indirizzata alla Direzione Generale Demografia e Razza presso il Ministero dell’Interno, nel dicembre del 1939, si legge: “Il Delegato dell’Unione ha avuto occasione di incontrarsi con componenti della così detta “Organizzazione Gildemeester” nella speranza di trovare un valido ausilio per gli scopi che si vogliono raggiungere. Questa Unione deve dichiarare che non può condividere i programmi di detta Organizzazione, e che desidera nettamente separare il proprio operato da quello della Gildemeester, di cui non è riuscita a comprendere le finalità”. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
148 “Specialmente il fatto delle pretese iscrizioni di ebrei stranieri in liste di emigrazione per l’Africa Italiana crea indubbiamente un turbamento nella situazione degli ebrei stessi i quali adagiandosi in tale speranza non credono di occuparsi altrimenti per lasciare il territorio del Regno”. È quanto si legge nella lettera che, il 25 novembre del 1939, la Regia Questura di Genova invia al Questore di Roma e al Ministero dell’Interno. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
149 Già all’inizio del 1939, il rabbino Maurice Perlzweig, membro del comitato esecutivo del Congresso Mondiale Ebraico, si è dichiarato contrario a qualsiasi iniziativa relativa all’immigrazione in massa di ebrei in Abissinia. ACSROMA, MI, Dgps, Dagr, A16, busta 2, fasc. A6, s. fasc. 2 Emigrazione in Etiopia dei tedeschi non ariani.
150 LILIANA PICCIOTTO, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah (1943-1945), cit., pp. 70-263.
Stefano Nicola Sinicropi, L'esilio tedesco a Ferramonti di Tarsia. Storie di ebrei in fuga dalla Germania, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2020
 
I “campi di concentramento” italiani per gli stranieri non avevano in comune con quelli tedeschi molto più che le denominazione. Per realizzare gli internamenti fu costruito all'inizio un unico campo di baracche a Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi, caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che potessero contenere fino a 200 persone. Solo il campo di Ferramonti-Tarsia nei mesi immediatamente precedenti la liberazione giunse a contenere oltre 2000 internati, di cui circa 1500 ebrei. In tutto il periodo dell’internamento, fino al settembre 1943, si può provare l'esistenza di circa quaranta campi, nei quali venivano tenuti “ebrei stranieri”. Ad eccezione di due casi, tutti i campi erano situati  nell'Italia centrale e meridionale, soprattutto nelle province molto fredde d'inverno - di Campobasso, Chieti, Macerata e Teramo.
I campi più meridionali si trovavano a Campagna in provincia di Salerno, ad Alberobello in provincia di Bari e a Ferramonti­Tarsia in provincia di Cosenza. Solo in dodici campi gli ebrei erano separati dagli altri stranieri. In tutto c'erano sette campi femminili. I campi promiscui erano tre. A Ferramonti-Tarsia alla fine del 1940 furono edificate delle baracche per famiglie, che non bastarono tuttavia a riunire tutte le famiglie che l'internamento aveva separato. A partire dal 1941 a Ferramonti-Tarsia fu data la possibilità, su istanza degli internati, di passare al regime di “libero internamento". Molti speravano di trovarvi condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell'Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la provincia preferita per il soggiorno. Cosi molti profughi e immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati, dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e furono deportati.
Nel decreto del 4 settembre 1940 riguardante l'internamento viene detto espressamente: “Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza” In effetti questo principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie. L'internamento in un campo significava peraltro una considerevole limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate alle loro famiglie, elle loro case, al loro ambiente e ammassate a secondo delle possibilità di ricezione dei campi. I campi erano sorvegliati, anche se, tranne a Ferramonti-Tarsia, non c'era il filo spinato. Solo in casi eccezionali come ad esempio qualora si rendesse necessario un intervento medico d'urgenza, veniva concesso un permesso di uscita. La resistenza nei confronti dell'ordinamento del campo poteva essere punita con il trasferimento in un campo ancora più severo, ad esempio situato sulle isole prospicienti la costa italiana.
Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire,che era calcolata sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte elevata a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente per mangiare e difficilmente poteva bastare .per la sostituzione degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei campi, gli internati patirono la fame. Anche le condizioni di igiene erano pietose, il riscaldamento nei mesi invernali era insufficiente. Nel campo di Feramonti-Tarsia furono riscontrati oltre 800 casi di malaria. Fortunatamente non si trattava di una forma mortale, e non si ebbero vittime.
Nei campi più grandi la direzione consentiva agli internati una forma di amministrazione autonoma. A Ferramonti-Tarsia era state creata - in pieno fascismo - un'assemblea dei rappresentanti delle baracche, che elesse il portavoce del campo e creò numerose commissioni, come quella sanitaria, quella educativa e quella culturale, una farmacia, un pronto soccorso, tre sinagoghe, una cappella cattolica e una greco-ortodossa. Analogamente a quanto avveniva in alcuni campi d'internamento francesi, nei campi italiani si sviluppò una vita culturale molto vivace con rappresentazioni teatrali e manifestazioni musicali. In questo modo nella monotonia della vita dei campi e nella loro chiusura nei confronti del mondo esterno - che erano sentite dagli internati come particolarmente oppressive e paralizzanti - si inseriva qualche momento di svago.
Klaus Voigt, Il rifugio precario (Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945), Vol. II, La Nuova Italia, 1999 in www.annapizzuti.it