La prima pagina del «Mondo» del 23 agosto 1924 - Fonte: Wikipedia |
Sotto il profilo schiettamente politico, il ruolo che la massoneria di Palazzo Giustiniani esercitò, attraverso l’iniziativa dei suoi affiliati, seguì diverse direttrici. La manifestazione più macroscopica ne fu forse l’Unione Nazionale fondata da Giovanni Amendola, che era tornato ad essere parte attiva della massoneria proprio confidando che essa potesse contribuire ad affrancare il Paese dalla tutela fascista. In quel partito figuravano, per citare soltanto alcuni nomi, Ivanoe Bonomi, Meuccio Ruini, Carlo Sforza e Giulio Alessio, tutti nomi non sconosciuti presso il Grande Oriente d’Italia. I limiti di questa iniziativa politica, che a lungo seguì la logica moralmente rigorosa ma strategicamente miope della intransigenza aventiniana, non devono tuttavia oscurare il ruolo di mobilitazione dell’opinione pubblica che, anche attraverso il «Mondo» e altri giornali, essa seppe esercitare, e che avrebbe senz’altro avuto maggiore impatto se non fossero intervenute a più riprese la censura e le incursioni delle squadre del regime.
È comunque certo che la discesa dall’Aventino fosse entrata nel novero delle opzioni plausibili con la formazione dell’opposizione parlamentare giolittiana, che nel novembre e dicembre 1924 riuscì, con un manipolo di deputati, a infiammare il dibattito in aula e a portare alla luce - talora anche in modo - le debolezze dell’eterogenea maggioranza di governo, la quale, pur ancora imponente nei numeri, pareva potersi da un momento all’altro disfare e ricomporre a sostegno di un ministero diverso <35.
Era a molti evidente che la saldatura fra aventiniani e oppositori nell’aula avrebbe potuto essere un elemento di accelerazione della crisi politica già in corso; e i segnali di questo possibile riallineamento si fecero sempre più frequenti, nell’ultima parte dell’anno.
[...] Non era tuttavia Turati l’uomo in grado di riunire in Parlamento l’intero arco delle opposizioni, mancando egli non tanto di intuito politico - fin dall’inizio aveva infatti definito l’Aventino «una vera Bisanzio» <37 - quanto piuttosto della conseguente fermezza nelle decisioni: basti pensare a quanto scriveva ancora nel giugno del 1925: "La tesi della discesa [dall’Aventino], che io difesi con tutto il calore, mi pare definitivamente perduta. Nota che dipenderebbe da me di farla trionfare: se io insisto, gli unitari mi seguono, e, se gli unitari sono decisi alla discesa, anche gli altri gruppi non osano disertare".
Tuttavia, egli concludeva, «non si chiamano al fuoco soldati che non vogliono combattere: una discesa in queste condizioni sarebbe il disastro peggiore» <38.
Che il ritorno alla Camera divenisse per gli aventiniani, di giorno in giorno, «il problema principale e in pari tempo insolubile» <39, era cosa del tutto evidente, così come era chiaro che avrebbe finito per divenire un ostacolo
insormontabile, a meno che non si fossero adottate precise iniziative politiche.
Come è noto, la discesa in aula dei secessionisti non vi fu mai - se non da parte della piccola componente comunista - e ciò portò alla dichiarazione della loro decadenza dal mandato parlamentare. Tuttavia, progetti e manovre per un ricompattamento delle opposizioni vi furono, e non cessarono anche dopo il 3 gennaio.
Piani, questi, in cui la massoneria di Palazzo Giustiniani esercitò un ruolo di primo piano.
A tal proposito, le già citate carte di Mussolini contengono più di un’indicazione in materia. Dal loro esame, si può desumere l’esistenza di progetti di accordo fra oppositori in Parlamento e aventiniani basati su un piano di massima articolato in tre tempi: innanzitutto la discesa in aula dei secessionisti, con il conseguente “aumento della temperatura” nei dibattiti in assemblea e l’auspicato verificarsi di un «incidente» in grado di certificare l’insostenibilità della situazione politica; raggiunta tale condizione, doveva avvenire l’abbandono della Camera da parte dell’intera opposizione, auspicabilmente rafforzata dalle vaste aree di dissenso nel frattempo apertesi a destra, anche all’interno dello stesso contingente parlamentare fascista.
A questo punto andava compiuto il passo conclusivo: per citare le parole attribuite dagli informatori di Mussolini allo stesso Giolitti, si sarebbe dovuto «scatenare l’inferno nel Paese» <40.
Tale progetto, che avrebbe dovuto mettere il Re con le spalle al muro, inducendolo di fatto a dare il benservito al Duce, si alimentava fra l’altro delle «irresistibili arti di […] Amendola [e] Chiesa…» <41, con il primo dei due che, a dispetto dell’asserito, sdegnoso “distacco” morale aventiniano, si materializzava «negli ambulacri… ed ambienti reconditi di Palazzo Madama» ove svolgeva «in persona» una «assidua e invereconda propaganda» coadiuvato da giolittiani e «barbe giudaico-massoniche» <42.
Altrettanto centrale appare, nelle dette carte, l’impegno di elementi di Palazzo Giustiniani nel fare da raccordo fra diverse forze politiche, ed anche economiche, tanto sullo scacchiere italiano che su quello internazionale.
Le informative giunte a Mussolini parlano di forze «social-massoniche» e «nitto-bancarie», oltre che dell’intervento di «agenti stranieri», assegnando un ruolo centrale alla «solita Associazione bencivenghiana della stampa… disfattista massonica», amplificatore del «lavorìo […] di “aizzamento” degli elementi massonici tutti, specialmente degli alti gradi delle gerarchie» <43.
Un ruolo forse ancor più decisivo fu esercitato da Palazzo Giustiniani nel passaggio di Salandra all’opposizione, avvenuto alla fine del 1924. È certo, infatti, che fu il massone Ludovico Fulci a intervenire in modo decisivo nei confronti dell’ex presidente del Consiglio, prospettandogli, fra l’altro, un ministero Salandra-Giolitti-Orlando come miglior soluzione possibile per uscire da una crisi politica che minacciava di condurre al collasso l’intero assetto delle istituzioni del Regno <44.
Un fatto, questo, che non sfuggì a un Mussolini concentrato nella preparazione del suo noto intervento alla Camera del 3 gennaio 1925, che inaugurò la fase dittatoriale del regime fascista.
[NOTE]
35 A tal proposito rimando a D. Chiapello, Marcia e contromarcia su Roma, cit., p. 129 e ss.
37 Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, Roma, 7 ottobre 1924, in F. Turati e A. Kuliscioff, Carteggio, Torino, Einaudi, 1977, Vol. VI, Il delitto Matteotti e l’Aventino, p. 684.
38 Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, Roma, 11 giugno 1925, ivi, p. 684.
39 Si veda, a tal proposito, A. Giovannini, Il rifiuto dell'Aventino: l'opposizione al fascismo in Parlamento nelle memorie di un deputato liberale, Bologna, Il Mulino, 1966, p. 312.
40 Archivio Centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce (1922-1945), Carte della valigia di Benito Mussolini (1922-1945), scatola 1, fascicolo 2.21.
41 Ivi, fascicolo 2.24.
42 Ivi, fascicolo 2.30.
43 Ivi, fascicolo 2.32.
44 A. A. Mola, op. cit., p. 468.
Duccio Chiapello, L’autunno di Giovanni Giolitti (1919-1928), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2014
Duccio Chiapello, Il ritorno del “vero re”. L’ultima rentrée di Giovanni Giolitti, Roma, Aracne, 207 pp., € 14,00
La fine del regime liberale e l’avvento del fascismo sono fra gli argomenti più studiati nella storia d’Italia del XX secolo. Molti aspetti particolari restano tuttavia inesplorati. Ad alcuni di questi aspetti si dedica Duccio Chiapello, che nell’arco di poco tempo ha pubblicato su tali temi due volumi: il primo dedicato, come si intuisce dal titolo, all’ultima esperienza di governo di Giolitti; il secondo, Marcia e contromarcia su Roma. Marcello Soleri e la resa dello Stato liberale (Roma, Aracne, 2012), sulla fase immediatamente successiva, e sugli ultimi tentativi di difesa di un sistema ormai al crollo. Dati gli argomenti trattati e la rapida successione cronologica in cui sono collocati, appare abbastanza chiaro che si tratta di un unico percorso di ricerca, articolato in due libri che, pur nella loro specificità, poggiano su un terreno comune.
Questo volume su Giolitti, che si avvale di fonti in gran parte edite, presenta un profilo di storia politica piuttosto tradizionale, incentrato com’è nell’analisi delle dinamiche di vertice. Un suo pregio sta senza dubbio nello stile di scrittura, davvero molto scorrevole e spesso brillante. Interessante risulta l’ipotesi interpretativa alla base del libro: uno dei punti cruciali della crisi del primo dopoguerra risiede infatti, secondo l’a., nell’irrisolto problema dell’equilibrio dei poteri stabilito nello Statuto Albertino. Sin dall’inizio - argomenta Chiapello - era «stato tutto un sottostimare la figura del sovrano come decisore ultimo delle sorti dei suoi ministri e sovrastimare la indispensabilità del Presidente del Consiglio - una figura, va ricordato, extrastatuaria - nell’assetto istituzionale dello Stato» (p. 72).
Col sistema liberale messo in crescente difficoltà dal definitivo avvento della società di massa, Giolitti sembrava deciso anche a sciogliere questo nodo irrisolto. Ma la sua strategia presentava un limite: non coglieva le altre implicazioni della politica di massa, come la presenza organizzativa di un partito sul territorio e la necessità di ampliare la propria azione rispetto all’ambito strettamente parlamentare.
Nel complesso, se ne trae l’ulteriore conferma dell’inadeguatezza dell’intera classe dirigente liberale, incapace di affrontare le sfide del dopoguerra.
In tal senso risultano particolarmente efficaci ed evocative le parole poste a chiusura del volume: i dirigenti liberali «circoscrivevano il mare della contesa politica a un bicchiere d’acqua in cui avrebbero potuto giocare senza intrusioni esterne la propria naumachia in scala ridotta», tuttavia «i rischi connessi al giocarsi la naumachia per il potere in quel ristretto bicchiere d’acqua sarebbero emersi in tutta la loro chiarezza soltanto all’arrivo di colui che si bevve quel bicchiere, lasciando all’asciutto i vecchi galeoni dello Stato Liberale» (pp. 186-187).
Paolo Mattera, Duccio Chiapello, Il ritorno del "vero re". L'ultima rentrée di Giovanni Giolitti, Roma: Aracne, 2012, in: Il Mestiere di Storico, 2013, 2, p. 193