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giovedì 28 settembre 2023

La percentuale di professionisti della politica o di eletti con esperienze di partito o di governo locali ha raggiunto i valori più bassi di sempre


In questo capitolo è stata presentata la letteratura politologica sul parlamento italiano. La presentazione dei dati sulla produzione legislativa ha permesso di descrivere il cambio di funzione dell’organo, che è passato da quella di tipo legislativo (1948-1992), a quella di controllo (1992-oggi).
Nel terzo paragrafo, per evidenziare la prima funzione, si è descritto il fenomeno delle “leggine” o della riforma dei regolamenti del 1971, mentre, per evidenziare quella di controllo, nel quarto, si è illustrato come l’intervento legislativo, nella Seconda Repubblica, fosse promosso dai governi, con i Parlamentari che potevano solo controllare ex post i decreti-legge ed eventualmente modificarli.
Quest’ultima attività, anche nei periodi di maggiore crisi della classe politica, come Tangentopoli, è stata una costante, con il parlamento che è sempre stato in grado di rallentare e controllare l’iniziativa dei governi. A questa iniziativa - si ricorda - hanno partecipato sia i Deputati di maggioranza, che di opposizione ed è continuata anche nel periodo dal 2013 al 2020.
Il passaggio dalla funzione legislativa a quella di controllo è comune a tutti i parlamenti (Pasquino & Pelizzo, 2006); tuttavia, è bene prestare attenzione alle condizioni in cui questa avviene e si sviluppa nel tempo. A riguardo, la letteratura giuridica ha evidenziato come la nascita di alcune prassi governative stiano sempre di più ledendo la funzione di controllo del parlamento, per cui è necessario monitorare anche in futuro come avvengano questi cambiamenti (Lippolis, 2019; Lupo, 2019b.; 2019c).
Oltre a questi aspetti, si è evidenziato come la trasformazione del parlamento ha comportato anche un’evoluzione delle attività parlamentari. In risposta all’impossibilità di vedersi approvate le leggi presentate - come osservato nel quinto paragrafo - si è sviluppato un gruppo di Deputati specialisti, il cui ruolo è stato quello di intervenire nel law making per conto del partito. Allo stesso tempo, altre ricerche hanno messo in evidenza come un numero crescente di Onorevoli ha impiegato i propri atti di sindacato ispettivo, principalmente per segnalare al governo le problematiche del proprio collegio di elezione (Marangoni & Tronconi, 2011; Russo, 2021b).
In merito ai Parlamentari, poi, nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica e prima e dopo le elezioni Politiche del 2013 e del 2018, si sono presentati i percorsi di carriera e le caratteristiche dei rappresentanti. Riprendendo la teoria delle élites, si è affermato come, nel primo periodo, quelle parlamentari erano autonome da quelle economiche, a causa della maturazione di un percorso interno di carriera politica (Cotta, 1979), mentre, nella Seconda Repubblica, a causa della crisi dei partiti politici, queste lo fossero di meno, per via di candidati scelti progressivamente nella società civile (De Micheli & Verzichelli, 2004).
Questi cambiamenti - come descritto nel paragrafo quinto - hanno subito un’accelerazione nelle ultime due legislature (2013-oggi), dove, per via dell’affermazione del M5s (2013; 2018) e di SC (2013), la percentuale di professionisti della politica o di eletti con esperienze di partito o di governo locali ha raggiunto i valori più bassi di sempre (Tronconi & Verzichelli, 2014; 2019).
La caratteristica complessiva della letteratura sul parlamento è stata quella di basarsi sull’analisi del sistema partitico, portando avanti la chiave di lettura introdotta da Sartori (1963a), per cui l’analisi dell’organo deve partire da quella delle forze politiche.
Per questo motivo, raramente, ci si è soffermati sulle attività dei singoli Parlamentari, con le fonti sulla produzione legislative e quelle di sociologia parlamentare, che hanno considerato solo i risultati prodotti dall’intera istituzione. In altri termini, di fronte all’illustrazione di determinati fenomeni, come l’approvazione di leggi in commissione all’unanimità tra Deputati di maggioranza e opposizione, non si è svolto alcun tipo di distinguo tra coloro che partecipavano o meno a queste pratiche.
La conseguenza è stata così quella di ritenere che le attività descritte fossero comuni a tutti i Deputati, quando, invece, è più realistico pensare che certe azioni, come quella della presentazione di atti localistici o l’intervento legislativo in commissione, possano riguardare solo un gruppo ristretto di eletti, interno a ciascun partito.
Guardare all’azione dei Parlamentari, come afferma Zucchini (1997), consentirebbe di capire quanto effettivamente siano cogenti le regole e le prassi delle istituzioni, nonché di determinare gli sviluppi dell’istituzione all’interno del sistema politico. Come si svilupperà nel capitolo successivo, la divisione dei Parlamentari in gruppi contraddistinti da una determinata caratteristica (i cd “ruoli”) faciliterà il raggiungimento di questo scopo.
Paolo Gambacciani, I Deputati italiani delle tre legislature dal 2008 al 2022: un’analisi empirica dei ruoli, Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano, Anno Accademico 2022-2023

mercoledì 20 settembre 2023

Nel dicembre del 1943 gli effettivi americani acquartierati in Inghilterra aumentano regolarmente


«Il 24 dicembre, di prima mattina, mi svegliarono per consegnarmi un messaggio del Ministero della Guerra, nel quale mi si comunicava che dovevo rientrare in Inghilterra per sostituire il Generale Paget al comando del XXI Gruppo d’Armate, che si preparava ad aprire un “secondo fronte” al di là della Manica. Sebbene mi dispiacesse dover lasciare l’8° Armata, fui naturalmente felice di essere stato prescelto per quel gran compito.[…]» <333
Il primo piano d’invasione fu battezzato con il nome di Round Up, e il suo progetto era stato messo in agenda fin dall’ingresso in guerra degli Stati Uniti. La prima data fissata per questo sbarco sarebbe stata la primavera del 1943, sia Stalin che l’opinione pubblica americana l’esigevano. I russi non erano però, all’epoca, riusciti a contenere l’avanzata tedesca e perciò l’apertura di un Secondo fronte avrebbe considerevolmente alleggerito la pressione della Wehrmacht sulle forze sovietiche. Inoltre, più lo sbarco fosse stato ritardato e più i tedeschi sarebbero stati pronti a difendersi. Le discussioni sull’argomento si svolgevano in clima tempestoso, tanto più che gli Stati Maggiori inglese e americano calcolavano già di rinviare l’invasione alla primavera del 1944, per dare priorità alle operazioni in Nord-Africa, cosa che i russi giudicavano già in ritardo se fosse avvenuto nella primavera dell’anno precedente. <334
I Capi di Stato Alleati nominarono quale capo di Stato Maggiore il Generale Morgan, che avrebbe dovuto essere a disposizione del Comandante Supremo, in attesa che colui che avrebbe avuto il comando venisse definitivamente designato. L’organizzazione che venne a formarsi prese il nome di COSSAC (Chief of Staff to the Supreme Allied Commander), e una volta costituiti i membri di essa, scelti fra ufficiali americani e inglesi, si incominciarono i lavori riguardanti la creazione del piano d’attacco alla fortezza europea.
Nel mese di luglio del 1943 il progetto generale inerente al complesso di operazioni, che va sotto il nome di Overlord, è pronto per essere sottoposto al varo dei Capi di Stato Maggiore Riuniti. <335 La data inizialmente prevista per lo sbarco sarebbe stata il 1 maggio del 1944: lo spostamento dei mezzi da sbarco per le forze d’assalto sarebbe dovuto essere limitato alle unità sufficienti per trasportare cinque divisioni. Un totale di ventinove divisioni sarebbero dovute essere disponibili per l’offensiva e tutto ciò sarebbe stato preparato seduta stante. Inoltre, due divisioni aviotrasportate sarebbero dovute essere impiegate nelle retrovie nelle ore precedenti allo sbarco, assieme ad altre due di fanterie che avrebbero, invece, dovuto giungere sul posto non appena fosse stato possibile. Sarebbero state dunque impiegate nove divisioni nei primi due giorni per consolidare la testa di ponte, mentre le restanti venti sarebbero intervenute nei giorni seguenti per iniziare la fase di penetrazione nell’entroterra. <336
Un fattore basilare di scelta del luogo di sbarco consiste nella necessità che la zona di sistemazione potesse contare su numerose ed efficienti vie di trasporto e di rifornimento. Si tratta infatti di un contingente di almeno trenta divisioni nei primi giorni, fino a crescere di un numero di circa cinque ogni mese. Per questi fattori, la regione che si presta di più a questo compito è quella del Passo di Calais, che presenta il notevole vantaggio di essere molto vicina alla costa inglese, facilitando l’appoggio aereo e lo spostamento di mezzi. D’altro canto quelle spiagge, purché favorevoli allo sbarco dal punto di vista logistico, mancano di facili e veloci sbocchi verso l’entroterra. Inoltre, fattore ancora più discriminante è il fatto che quella zona, data la sua vicinanza con l’Inghilterra, è la più fortificata e con il maggior numero di truppe nemiche di tutta la costa francese. <337
Un’altra zona d’interesse notevole è quella costituita dalla penisola del Cotentin. Quest’ultima ha a proprio vantaggio la presenza di due porti importanti come quello di Le Havre e Cherbourg, è inoltre a poche ore di macchina da Parigi e ha infine una percentuale di fortificazioni sensibilmente minore rispetto a Pas de Calais. A discapito di quest’area, però, vi sono la maggior distanza dalla Gran Bretagna e quindi una maggiore distanza sia per le navi sia per gli aerei, ma anche la sua conformazione geografica che avrebbe potuto creare nella peggiore delle ipotesi una vera e propria trappola per le truppe Alleate, nel caso l’esercito tedesco fosse riuscito a sfondare le prime fila e dunque ad accerchiare l’avversario. Infine, sempre a svantaggio delle coste normanne vi è il fattore meteorologico, queste zone sono soggette, poiché affacciate all’imbocco del canale della Manica e sull’oceano Atlantico a forti correnti e a periodiche mareggiate e temporali. <338
Alla fine dei giochi viene scelto che l’invasione sarebbe partita dalla Normandia; tenendo conto dei fattori sopra elencati, si preferisce attuare un’operazione logisticamente molto più complessa ma che, almeno sulla carta, all’occhio del nemico risulta da escludere. È un primo chiaro segno della prima fase delle successive operazione di deception intraprese dagli Alleati. L’attacco, come stabilito dal COSSAC, sarebbe stato lanciato unitamente a un bombardamento aereo e navale delle difese costiere, dopo di che, tre divisioni sarebbero dovute sbarcare sulle spiagge di Caen, seguite successivamente da due brigate corazzate. Allo stesso tempo, truppe aviotrasportate avrebbero dovuto conquistare la città di Caen, e nel mentre, truppe “speciali” avrebbero attuato operazioni di sabotaggio lungo le difese costiere e lungo i ponti sui fiumi. In base a questo piano iniziale, le forze Alleate avrebbero poi di seguito attuato una spinta verso sud-ovest nel tentativo di prendere il porto di Cherbourg e di conquistare zone adatte per la costruzione di aeroporti. <339
Entro due settimane dall’attacco iniziale sarebbe stato possibile far sbarcare diciotto divisioni e contare sull’uso di circa quattordici aeroporti dai quali avrebbero potuto operare almeno trenta squadriglie di caccia. Le operazioni successive basate su questo piano sarebbero state necessariamente soggette all’entità della reazione nemica. Se le forze tedesche si fossero dimostrate deboli, si sarebbe potuto tentare un’avanzata immediata verso Rouen. Appena sistemate le linee di comunicazione e riorganizzato le truppe, si sarebbe potuto dare il via alle operazioni contro Parigi. Questo in linea generale è il piano d’invasione proposto per l’assalto decisivo contro l’Europa occupata. <340
«Apparentemente non c’erano idee chiare circa il modo di sviluppare le operazioni, dopo che le armate fossero state sbarcate in Normandia. Ci si proponeva di aprire un nuovo teatro di guerra sul continente europeo. La campagna investiva l’intero problema della condotta delle operazioni offensive sul territorio dell’Europa occidentale, con l’obiettivo finale di distruggere la Germania.[…] Per quanto era a nostra conoscenza a quell’epoca, in Francia erano dislocate più di cinquanta divisioni tedesche, alcune delle quali corazzate. La sera del giorno X ci saremmo trovati duramente impegnati contro almeno sei di queste divisioni. Non potevamo correre rischi, se avessimo fallito in Normandia, la guerra si sarebbe trascinata ancora per anni.» < 341
Nel dicembre del 1943 gli effettivi americani acquartierati in Inghilterra aumentano regolarmente. Lo Strategic Air Command americano e la RAF si avviano verso l’incontrastato dominio dei cieli, nel mentre i sommergibili tedeschi hanno perduto la battaglia nell’Atlantico, consentendo così agli Alleati di avere un quasi totale controllo anche dei mari.
Il piano d’invasione conta già diverse teste, ma fra di loro manca ancora la più importante, quella che avrebbe guidato il tutto. All’epoca in cui si sperava di effettuare lo sbarco nella primavera del 1943, la logica avrebbe voluto che il Comandante Supremo sarebbe stato un inglese. In effetti, alla fine del 1942, le truppe americane nell’isola britannica erano appena, si fa per dire, 250 mila; ma quando lo sbarco viene previsto per il maggio del 1944 le cose mutano, nel periodo successivo le truppe statunitensi sarebbero aumentate a 1 milione e 500 mila, con 750 mila tonnellate di materiale americano al mese, cifra destinata di volta involta ad aumentare.
Appare sempre più evidente che gli americani sarebbero stati in grado di sostenere, così come in ogni resto del mondo, uno sforzo maggiore rispetto agli inglesi. Tenuto conto del contributo rispettivo delle due nazioni, la massima carica sarebbe spettata a un americano, una rivendicazione che Washington è disposta ad avanzare onde evitare ritrattazioni da parte di Londra.
«Benché abbiano approvato controvoglia l’operazione, manca il cuore: ci vorrebbero più fede, più vigore e indipendenza di quelli che si possa sperare di trovare in un comandante britannico per superare le difficoltà di un’operazione nata in un clima ufficiale come quello. Penso perciò che sia giunto il momento, per voi, di decidere che sia il vostro governo ad assicurare la responsabilità della direzione di questa grande e ultima fase della guerra europea che ci attende
[…] Quasi due anni fa i britannici ci hanno offerto il comando. Penso che adesso sia nostro dovere accettarlo e persino insistere per ottenerlo.» <342
Siccome il comando sarebbe stato affidato a un americano, i tre posti di comando a lui subordinati sarebbero stati occupati da tre ufficiali britannici. Tutte le forze terresti sono in un primo tempo messe alle dipendenze del 21° Gruppo d’Armate, alla cui direzione era inizialmente nominato il Generale Paget, un abile preparatore di truppa che non aveva però sufficiente esperienza di guerra e viene dunque sostituito dal Generale, già vittorioso a El-Alamein, Bernard Montgomery il 25 dicembre 1943. Durante la conferenza di Québec, il Comando Supremo nomina il Maresciallo dell’aria Leigh-Mallory alla testa dell’aviazione e l’Ammiraglio Little come comandante della marina, quest’ultimo sarà poi sostituito nell’ottobre dello stesso anno dall’Ammiraglio Ramsey.
Per ciò che concerne gli americani: il Generale Bradley ottiene il comando della 1° Armata americana e del futuro 1° Gruppo d’Armate, l’Ammiraglio Kirk viene chiamato a dirigere le forze navali americane, il Generale Lee avrebbe continuato a coordinare le questioni d’intendenza e infine il Generale Patton avrebbe assunto il comando della 3° Armata americana nelle settimane successive allo sbarco. <343
Alla conferenza del Cairo e di Teheran, Churchill aveva dato il suo accordo in tal senso, la decisione ormai dipende solo da Roosevelt, che esita fra la nomina del Generale Marshall e quella del Generale Eisenhower. Se Marshall lasciasse il Comando Centrale Supremo, quell’istituzione perderebbe il miglior sostenitore di Overlord, un lusso che gli Stati Uniti non si possono permettere, se invece continuasse a mantenere il suo ruolo, assumendo insieme la carica di Comandante Supremo in Europa e dunque dello sbarco, renderebbe conto delle sue azioni solo a se stesso. Se infine Eisenhower sostituisse, tanto al CCS quanto alla direzione dello Stato Maggiore delle forze armate, Marshall si troverebbe agli ordini di un suo vecchio sottoposto. <344
Per questo motivo gli americani risolvono la cosa nel modo più semplice, fanno una stima delle capacità basta su quattro categorie principali e con una votazione da 1 al 20.

Fonte: Alessandro Berti, Op. cit. infra

L’analisi dà una parità del punteggio. Con quale criterio scegliere allora? Come ogni sistema decisionale americano, si decide di utilizzare il criterio del premiare il più giovane. Viene scelto Eisenhower che all’epoca ha 53 anni, dieci in meno del suo corrispettivo. <345
«In early December, i had received word the President would return to the United States throught aour area. I went to Tunis to meet him. A few hours before his arrival i received a somewhat garbled rediogram from General Marshall that discussed some administrative details incident to my forthcoming change in assignment. When he wrote the message General Marshall apparently assumed that i had already received specific information concerning the new assignment throught staff channels. But, lacking such information, i was enable to deduce his meaning with certainty. The President arrived in midafternoon and was scarcely seated in the automobile when he cleared up the matter with one short sentence. He said: «Well Ike, you are going to command Overlord.»» <346
Il 7 dicembre 1943 il Generale Dwight Eisenhower è nominato comandante del Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force (SHAEF), ossia il Comando Supremo della Forza di Spedizione Alleata, prendendo così il controllo globale delle truppe Alleate in Europa, come suo comandante di Stato Maggiore viene confermato il Generale americano Bedell-Smith, e come suo vice-comandante sceglie il Maresciallo dell’aria inglese Tedder.
«I was happy to secure Air Chief Marshal Tedder as my deputy for Overlord. In the Mediterranean he had won the respect and admiration of all his associates not only as a briliant airman but as staunch supporter of the allied principle as practiced in that command. Authority was also granted to take along my chief of staff, General Smith, without whose services it would have been difficult to organize a staff for the conduct of a great allied operation.» <347
Se per la maggior parte delle alte cariche militari non ci sono grosse problematiche, alcuni ufficiali di comando sono invece un’inesauribile fonte di problemi, uno su tutti George Patton. Tra gli scandali che Patton suscita vi è lo schiaffo dato a un soldato, con l’accusa di essere un fannullone, mentre questo era in visita a un ospedale durante la campagna di Sicilia <348; un altro scandalo è quando il 25 aprile, il “Generale d’acciaio” commette un’altra gaffe. Invitato a pronunciare un discorso per l’inaugurazione di un centro di accoglienza per anziani, afferma che: «l’incontestabile destino degli inglesi e degli americani, appena finita la guerra, sarebbe stato quello di dirigere il mondo.» <349, come facile immaginare quell’affermazione non piacque né agli Stati Alleati né tanto meno ai sovietici.
Quando Eisenhower e il suo Stato Maggiore giungono a Londra il 15 gennaio 1944 per subentrare al COSSAC, studiano il piano del Generale Morgan e ne accettano la logica, eccettuata la consistenza degli effettivi coinvolti: gli alti comandi responsabili, sia britannici che statunitensi, si trovano d’accordo nell’affermare che è imperativo ampliare il fronte d’invasione con un attacco portato da cinque divisioni, perciò chiedono e ottengono l’assegnazione di numerosi altri mezzi da sbarco. Al contrario di Morgan, che per mancanza di risorse aveva bocciato una possibile estensione del fronte verso ovest, scartando la penisola del Cotentin a causa dei vasti territori allagati nell’entroterra, Eisenhower opta per impiegare in quest’area truppe aviotrasportate, incaricate di occupare gli argini delle zone allagate e facilitare l’avanzata delle truppe provenienti dalla spiaggia.
Il 21 gennaio, il Generale Montgomery perfeziona il piano di attacco precedentemente abbozzato dal COSSAC e delinea la nuova impostazione del piano che, nelle settimane successive, sarebbe stato trasformato in ordini operativi per le armate Alleate. Sulla destra, gli statunitensi avrebbero dovuto puntare su Cherbourg, Brest e i porti della Loira; sulla sinistra, i britannici e i canadesi avrebbero impegnato il grosso del nemico sopravveniente da est e da sud-est. <350
[NOTE]
333 Montgomery, Memorie, Cit. p. 247.
334 Bertin, La vera storia dello sbarco in Normandia, p. 50.
335 Eisenhower, Diario di guerra, p. 17.
336 Ibidem.
337 Ivi, p. 18.
338 Ambrose, D-Day. Storia dello sbarco in Normandia, p. 72.
339 Eisenhower, Diario di guerra, p. 19.
340 Ivi, pp. 20-21.
341 Montgomery, Memorie, Cit. p. 267.
342 H. L. Stimson, capo del War Deparment, in riferimento a una sua lettera a Roosevelt prima della conferenza di Québec. Wieviorka, Lo sbarco in Normandia, Cit. p. 70.
343 Ivi, pp. 70-71.
344 Ibidem.
345 Bertin, La vera storia dello sbarco in Normandia, p. 68.
346 Eisenhower, Crusade in Europe, Cit. pp. 234-235.
347 Ivi, Cit. p. 239.
348 Brown, Una cortina di bugie, p. 560.
349 Patton sulle sorti politiche mondiali post guerra. Wieviorka, Lo sbarco in Normandia, Cit. p. 77.
350 Eisenhower, Diario di guerra, pp. 26-27.
Alessandro Berti, Dalla poesia di Verlaine alla rete di Garbo: l’importanza delle operazioni di deception per la riuscita dello sbarco in Normandia, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2016-2017

mercoledì 13 settembre 2023

Trieste costituiva in quel momento «anche una via di fuga rispetto alle incertezze del presente»


È significativo che al termine dei due interventi di inaugurazione della Consulta Nazionale il deputato democratico cristiano genovese Paolo Cappa, attirandosi in tal modo la prima alzata in piedi di tutta l'Assemblea e la generalità degli applausi e delle grida di approvazione, sommasse alle invocazioni per il trionfo dell'Italia repubblicana un «Viva Trieste italiana!» <137. L'accorato appello, così come la commossa e scomposta reazione che ne conseguì, riportata nel verbale della seduta in forma di commento, costituiscono la prima testimonianza del ritorno del motivo di Trieste nel Governo dell'Italia postfascista.
Il 28 settembre Giuseppe Bettiol, deputato democristiano e docente universitario originario di Cervignano del Friuli, teneva un intervento paradigmatico e introduttivo di molti dei contenuti di quello che sarebbe stato il discorso pubblico italiano, e in particolare democratico cristiano, su Trieste. Un «giuliano che vive le sue ormai lunghe ore di passione», così si presentava all'uditorio della Camera, che ha il «glorioso e doloroso privilegio proprio delle genti di confine di trovarsi ogni 25 anni di fronte alla dura necessità di ricostruirsi un'esistenza per fatti e avvenimenti che incidono sulla sua terra. Ed è questo destino che deve essere finalmente spezzato» <138.
Bettiol riconosceva la necessità di ammettere le «terribili colpe» del fascismo per la politica snazionalizzatrice condotta nei confronti degli slavi e indicava altresì la completa controtendenza della linea direttiva della politica estera democristiana, volta all'accordo democratico con la Jugoslavia, alla concordia e al recupero della tradizionale amicizia tra popoli italiani e slavi delle zone di confine. Sul fronte opposto però, segnalava facendo malcelato riferimento alle posizioni comuniste, vi erano «certi gruppi dell'interno» responsabili di aver indotto i giuliani di origine italiana verso una frattura con lo Stato, incoraggiandoli «ad accogliere come liberatrici le truppe del Maresciallo d'oltre Adriatico. E i triestini le accolsero realmente come liberatrici, salvo cambiare opinione». Bettiol faceva riferimento all'appello ai lavoratori di Trieste inviato da Togliatti il 1° maggio 1945, al tempo dell'ingresso dell'esercito titino a Trieste cui sarebbero seguiti i noti quaranta giorni di occupazione jugoslava della città.
Dalle pagine de «L'Unità» il segretario del Partito Comunista aveva di fatto esortato i «fratelli dell'Italia settentrionale» ad accogliere i soldati di Tito come liberatori, a collaborare con essi nel riscatto della città da tedeschi e fascisti e a evitare ogni atto provocatorio che potesse «seminare discordia tra il popolo italiano e la Jugoslavia democratica» <139. L'appello ebbe larga eco nella stampa di quel maggio '45, e rimase a lungo nella memoria dei detrattori della linea politica comunista su Trieste, esempio fra i tanti del conflitto ideologico che andava condizionando la politica italiana del pluripartitismo e in modo particolare la politica estera, interessata dalle interferenze delle diplomazie internazionali.
«Non si deve dimenticare quanto i socialisti, i liberali, gli azionisti e i democratici cristiani hanno operato per far sì che quella regione, la quale sotto le sue bianche pietraie custodisce le ossa dei morti della prima guerra mondiale, sia italiana e rimanga italiana», ricordava Bettiol richiamando, a sostegno del suo ragionamento, quella memoria nazionale che legava a doppio filo Trieste con lo spartiacque rappresentato dalla Grande guerra, "quarta guerra d'indipendenza" del Risorgimento italiano e compimento dell'istanza irredentista per la Venezia Giulia.
La città adriatica, "redenta" e ricondotta nel grembo della madre patria, era infatti assurta a emblema di quella partecipazione collettiva alla guerra europea che fu la prima esperienza nazionale e patriottica di massa per milioni di italiani e «l'ultimo atto compiuto della classe dirigente liberale per completare l'edificio dello Stato unitario» <140.
Al costo di 600.000 morti, dalla Grande guerra era scaturita una "religione della patria" tra le più aggreganti della storia del paese, che si sarebbe celebrata attraverso il ricordo del sacrificio dei suoi figli presso tutti i cimiteri militari di cui era disseminata la linea del fronte <141. In occasione della tumulazione del Milite Ignoto all'interno del Vittoriano a Roma nel 1921, maggiore cerimonia nazionale della storia italiana, fu chiamata una madre triestina a scegliere le spoglie anonime di un soldato caduto in combattimento, Maria Bergamas. Il figlio Antonio, attivista del movimento mazziniano e volontario irredentista, disertore dell'esercito austro-ungarico per unirsi a quello italiano, era perito in combattimento sull'Altopiano di Asiago nel 1916. Il suo corpo non fu mai ritrovato <142.
Ed ecco che l'aspetto morale, sentimentale, passionale di questo importante tassello del mito della nazione veniva recuperato nel secondo dopoguerra nel nome di Trieste, dei suoi "martiri", dei suoi eroi. Eretta in questo modo a «capitale morale della nuova Italia» <143 e ricollocata al centro di un sistema di sentimenti, credenze, simboli, retoriche e narrazioni politiche garanti della continuità con il passato, Trieste costituiva in quel momento «anche una via di fuga rispetto alle incertezze del presente, un modo per restare ancorati a un nucleo di valori e a un deposito di memorie che avevano scandito la trasmissione dell'esperienza generazionale» <144.
4. Quale nazione per la nuova Italia
Naturale fu il passaggio al richiamo del principio di nazionalità, o meglio a una vera e propria «apologia della nazione» <145, fatta prima di tutto di tradizione storica e culturale e di passato comuni: "E non è, o signori, in nome di un falso nazionalismo che vi richiediamo la salvaguardia dei nostri essenziali diritti etnici nella regione Giulia" - continuava l'onorevole Bettiol - "C'è un nazionalismo, signori, al quale non si può rinunciare se non si vuole annientare sé medesimi e nessuno tra gli altri popoli europei vi ha oggi rinunciato: meno di tutti il valoroso popolo guidato dal maresciallo Tito. Ma il nostro è un nazionalismo ancorato ad una coscienza morale: è la espressione di quella concezione etica della vita e di quei valori per i quali ogni benché minimo esorbitare dai limiti della più stretta giustizia è delitto che il popolo prima o dopo sarà chiamato a pagare. Esso è l'espressione di un convincimento che è in noi e per il quale noi consideriamo Patria ogni lembo di terra ove lingua, tradizioni, costumi, religione si uniscono a coloro che furono e legano noi alle generazioni venture. Sotto questo profilo rinunciare a Trieste e alle città italiane della Venezia Giulia è come abbandonare una parte di noi stessi a un destino di morte, è come fare a brandelli la nostra anima per la quale tanti generosi fecero un tempo l'Isonzo colorato in rosso! E se qualcuno ci vuole strappare ciò che per diritto etnico e culturale ci appartiene come il figlio appartiene alla madre [Vivissimi applausi] ci sia almeno concesso di levare la voce di protesta verso chi questo vuol fare in nome di diritti politici ed economici che non reggono la nostra voce disgustata verso coloro che, pur essendo a noi legati da vincoli etnici e culturali, dimenticano la Patria" <146.
L'estratto contiene una serie di motivi retorici e di formule di pedagogia patriottica eredi di una particolare lettura della storia nazionale e di quella del confine orientale, destinati a ritornare senza soluzione di continuità nei primi anni del Governo repubblicano, peraltro accomunando le diverse posizioni partitiche di massa socialiste, liberali, popolar-democratiche e anche comuniste che ancora - e ancora per poco - muovevano in un clima di collaborazione antifascista <147.
Sottolinea Emilio Gentile come in questa fase fosse comune a buona parte del Parlamento l'intento di riscattare l'idea di nazione dalle derive violente e bellicistiche fasciste e nazionaliste, circoscritte fra due parentesi di comodo e dure a morire, per riproporla al Paese come un ideale collettivo, un «valore tuttora vivo e attuale, di cui non ci si poteva disfare senza perdere la propria identità e la propria individualità» <148.
Il nazionalismo cui faceva riferimento il consultore democristiano derivava pertanto dall'esigenza condivisa di riempire il vuoto identitario seguito ai danni provocati dal ventennio e, al contempo, dalla presa in carico della difesa del problema della nazione da parte della Chiesa cattolica e del partito della Democrazia Cristiana più che di qualunque altro settore della cultura e della politica italiane di quel primo dopoguerra <149.
«La DC intendeva assumere su di sé con forza l'eredità della patria e della nazione» <150, come vedremo in seguito approfondendo il tema specifico della declinazione democristiana dell'identità nazionale italiana.
Pur tra le profonde differenze delle culture politiche e dei propositi di riorganizzazione dello Stato, Trieste tornava alla Consulta come archetipo del patrimonio morale nazionale da preservare. A nome del Partito d'Azione, che nella sua aspirazione si sentiva più d'altri epigone dei motivi spirituali nazionali e democratici del Risorgimento <151, il deputato e segretario della componente azionista Oronzo Reale avrebbe confermata l'antifona democristiana rispetto al problema nazionale e a quello di Trieste: "C'è una questione di frontiera orientale che tiene turbati gli animi del Popolo italiano. Noi del Partito d'Azione siamo contrari non solo ad ogni nazionalismo, ma anche alla esasperazione di ogni questione nazionale. Noi sappiamo che oggi non si fanno le guerre per una città. Noi sappiamo, tuttavia, che in questo totale sconvolgimento della civiltà europea ci sono questioni nazionali di immensa portata morale, delle quali non può essere negata l'importanza: si parla di Trieste che fu la vittoriosa conquista della guerra di liberazione della generazione che ci ha preceduti, Trieste che è italiana non soltanto per motivi etnici ed economici e geografici, ma anche per motivi tradizionali che sono presenti tutti nel nostro spirito" <152.
Occorre segnalare che tra l'11 settembre e il 2 ottobre 1945 si era svolta a Londra la prima conferenza del Consiglio dei ministri degli Esteri. In quell'occasione tanto il capo della delegazione jugoslava Edvard Kardelj quanto il ministro degli Esteri italiano Alcide De Gasperi avevano presentato i propri memorandum sulla Venezia Giulia. Alle rivendicazioni estensive jugoslave - gran parte della Venezia Giulia compresa Trieste, «isola straniera in terra croata e slovena», reclamata però per ragioni economiche <153 - De Gasperi opponeva l'indiscussa italianità di Trieste e ne proponeva l'unione all'Italia, chiedendo di spostare il confine alla linea Wilson <154, già prospettata alla fine della prima guerra mondiale. Il problema fu trasferito nelle mani di una commissione di esperti nominati da ciascuna delle grandi potenze che avrebbero effettuato una visita presso il territorio conteso, al fine di stabilire le effettive «condizioni etniche ed economiche locali, e proporre un confine che lasciasse il minor numero possibile di jugoslavi in Italia e di italiani in Jugoslavia» <155. I verbali della Consulta fino al marzo del 1946, quando si sarebbe svolto il sopraluogo della commissione quadripartita nella Venezia Giulia, danno conto dell'unità di intenti della coalizione di Governo in merito alla difesa dei confini della nazione, mentre i quotidiani nazionali e di partito montavano il palcoscenico della propria retorica pro-italianità di Trieste su questo appuntamento e le piazze della città e d'Italia andavano riempiendosi di manifestanti.
L'intervento di Ivanoe Bonomi del 14 gennaio è infatti significativo tanto alla luce dei rivolgimenti di natura diplomatica del 1946, quanto rispetto al trait d'union che caratterizzava la ripresa del tema e del linguaggio nazionale e patriottico fin qui introdotti. «Le questioni territoriali, le questioni dei confini, sono quelle che più incidono sulla fantasia e sui sentimenti dei popoli e che determinano il loro atteggiamento futuro», spiegava Bonomi facendo esplicito riferimento ai confini orientali del Paese. «Qui è il punto dolente e dove la parola deve resistere agli impulsi del cuore». L'ex presidente dell'esecutivo Bonomi continuava descrivendo la «situazione veramente dolorosa» connessa alla scelta del governo militare alleato di occupare le città di Gorizia, Trieste e Pola lasciando in mano jugoslava Fiume e l'Istria: "Dirò, non grido di dolore dei fratelli colpiti, ma strazio del nostro animo per questa
offesa al sentimento nazionale, che non è nazionalismo aggressore, ma è la solidarietà di tutti gli uomini che parlano una stessa lingua, che sono nati in una stessa terra, che sono cresciuti al calore di una stessa cultura".
A questo punto del discorso i consultori di ogni parte dell'aula si sarebbero lasciati andare alle oramai consuete grida di «Viva Trieste! Viva l'Italia!». E mettendo in allerta il Governo sulla snazionalizzazione in corso ad opera degli jugoslavi tesa ad occultare alla commissione interalleata la reale composizione etnica della regione, Bonomi concludeva: "Ebbene, bisogna che il Governo, con un'opera assidua e costante, illumini l'opinione pubblica mondiale. Bisogna che gli esperti che gli alleati manderanno a documentarsi nella Venezia Giulia non siano ingannati da fallaci apparenze. Avverta fin da ora il nostro Ministro degli esteri che i connotati etnici non si cancellano deportando gli elementi più audaci e spaurendo i più timidi. Le impronte nazionali di una regione non si desumono soltanto dalla presenza dei vivi, ma si ravvisano nelle pietre dei monumenti, nello stile delle case, nei costumi delle famiglie, nelle stesse iscrizioni tombali, perché, come ha detto un grande spirito, l'umanità e fatta di morti e di viventi. […] Quando qualche episodio tocca il sentimento nazionale, noi vediamo in tutti gli spiriti, dai più umili ai più alti, sorgere questa solidarietà di stirpe che è superiore alla solidarietà di classe e di partito, perché è il gradino necessario - come diceva Giuseppe Mazzini - per quell'amore della Patria nell'amore di tutte le patrie donde si sale a quella solidarietà internazionale che sarà la legge intrasgressibile di domani" <156.
È possibile scorgere in questi primi contributi una serie di aspetti tra di loro interconnessi, a partire dal diffondersi di una riflessione comune a proposito dei concetti di "patria" e di "nazione", di "patriottismo" e di  "nazionalismo". Ciò che si riscontra fin dai primi interventi parlamentari, pur secondo il variegato sentire degli onorevoli, è infatti come l'affermazione del significato, del radicamento e dell'autorevolezza dei concetti di "patria" e di "nazione" fosse percepito, in quel momento, come un compito imprescindibile, quasi un'urgenza, dei rappresentanti del paese, tanto più di fronte alle imminenti decisioni da prendere ai confini orientali d'Italia in discussione al tavolo della pace di Parigi.
«Come la storia ha spesso dimostrato, quando una nazione attraversa una seria crisi morale e politica è verosimile che o il linguaggio del patriottismo o quello del nazionalismo conquistino l'egemonia intellettuale. L'uno e l'altro possiedono una forza unificante e una capacità di mobilitazione che altri linguaggi, soprattutto il linguaggio dei diritti, non hanno» <157, commenta a proposito della rinascita del linguaggio patriottico nell'Italia dell'immediato dopoguerra Maurizio Viroli: una rinascita «tanto più sorprendente se si tiene presente che in Italia il linguaggio del patriottismo era stato trasfigurato prima dalla retorica monarchica, poi da quella fascista» <158. Ed è proprio la presa di distanza dalle contaminazioni fasciste che accomunerà i partiti nel "compito" di «dare un mito politico al risorto Stato italiano» <159.
Dalla guerra era uscito screditato il nazionalismo, e con esso il mito nazionale e il sentimento di nazione <160. Una volta "abbattuto l'idolo", però, alla rifondazione democratica dello Stato italiano occorreva recuperare il significato conciliatorio del sentimento di unità nazionale, che dalla mistificazione mussoliniana tornava ora alla sua matrice originaria di pianta risorgimentale. In definitiva, ciò che si fece nel proporre agli italiani un volto nuovo e ripulito del mito della nazione, fu richiamare in maniera perfino ridondante i vecchi termini della tradizione: la lingua, le tradizioni, i costumi famigliari, la religione, il diritto etnico, la solidarietà di stirpe, i motivi geografici, i confini naturali, la cultura latina, la Grande guerra, i morti per la Patria.
A questa proposta si allineò anche il liberale Giovanni Mazzotti, rivolgendosi in principio ai «colleghi comunisti» ed estendendo poi l'invito a tutte le parti, in particolare «a voi dell'estrema sinistra e a voi dell'estrema destra», a trovare un «termine di accordo completo» sulla questione di Trieste «che tocca così da vicino l'anima italiana»: "Non bastano le parole eloquenti dei vostri Ministri, ma qualche cosa occorre che sia l'espressione del vostro sentimento collettivo, affinché sappiamo che in questa lotta, in cui si tratta di difendere i confini che la natura ci ha dato e che sono stati acquistati mercé i dolori, la morte e i sacrifici di tante migliaia di uomini attraverso l'altra guerra di liberazione, noi potremmo trovare un punto di congiunzione […] per poter precisare di fronte a tutti, e particolarmente ai nemici di oggi, che sono i nemici di ieri, che l'Italia su questi termini non si tocca" <161.
[NOTE]
137 CN, intervento di Paolo Cappa (DC), seduta del 25 settembre 1945, p. 3.
138 CN, intervento di Giuseppe Bettiol (DC), seduta del 28 settembre 1945, p. 49.
139 P. Togliatti, Il Partito Comunista Italiano ai lavoratori di Trieste, «L'Unità», 1 maggio 1945. Cfr. anche M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., pp. 286-287 e A. Agosti, Togliatti, Utet, Torino, 1996, p. 306.
140 E. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 84-85.
141 Sulla sacralizzazione della politica si citano come testi generali di riferimento G. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari, 1990 e E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari, 2007. Sulla celebrazione dei caduti cfr. O. Janz, L. Klinkhammer (a cura di), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma, 2008.
142 Cfr. F. Todero, Morire per la patria. I volontari del "Litorale austriaco" nella Grande Guerra, Gaspari, Udine, 2005.
143 E. Di Nolfo, M. Serra, La gabbia infranta. Gli Alleati e l'Italia dal 1943 al 1945, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 248.
144 M. Baioni, Trieste 1954, cit., p. 122.
145 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 322.
146 CN, intervento di Giuseppe Bettiol (DC), seduta del 28 settembre 1945, pp. 50-51.
147 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 124.
148 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 322.
149 Ivi, p. 327.
150 G. Formigoni, L'Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Collana di Storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1998.
151 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 94. A proposito del PdA cfr. G. De Luna, Storia del Partito d'Azione, Feltrinelli, Milano, 1982.
152 CN, intervento di Oronzo Reale (PdA), seduta del 2 ottobre 1945, p. 141.
153 B. C. Novak, Trieste 1941-1954, cit., pp. 233-234. De Gasperi riporta i contenuti del memorandum nella seduta di Consulta Nazionale del 29 settembre 1945, p. 96 e ss.
154 Frontiera tra Italia e Jugoslavia (al tempo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni) proposta dal presidente degli Stati Uniti Wilson nel 1918. Tracciata secondo la linea etnica, nel rispetto del principio di nazionalità e dell'autodeterminazione dei popoli, comprendeva il Goriziano, quasi tutta l'Istria con Pola e Albona, parte dell'isola di Cherso e Fiume costituita in Stato libero. L'Italia non accettò e si giunse a una mediazione con il trattato di Rapallo del 1920, che prevedeva il confine al Monte Nevoso originario del Patto di Londra, tutto il Goriziano, tutta l'Istria, le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta.
155 B. C. Novak, Trieste 1941-1954, cit., p. 234.
156 CN, intervento di Ivanoe Bonomi (PSDI), seduta del 14 gennaio 1946, pp. 251-253.
157 M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 18
158 Ivi, pp. 164-165.
159 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 339.
160 Ivi, p. 271.
161 CN, intervento di Giovanni Mazzotti (PLI), seduta del 14 gennaio 1946, p. 257.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2018-2019

giovedì 7 settembre 2023

Entrate le truppe in Toscana alla metà di giugno, il 15 le troviamo a Grosseto, il 25 a Piombino


Pochi mesi più tardi, crollato dopo l'11 maggio [1944] il fronte di Cassino, lo schieramento della Wehrmacht si sposta e si avvicina alla Toscana. Ma poiché da tempo all'allestimento delle fortificazioni si era dedicata intensa attenzione, la regione si era andata dividendo ulteriormente proprio rispetto alla definizione della linee di resistenza previste dai Tedeschi: la fascia a nord dell'Arno e le valli che conducono ai valichi transappenninici erano presidiate fortemente. In particolare, dalla primavera, nelle zone periferiche dell'alto Casentino e del Pratese dove si erano potute rafforzare e rendere temibili le organizzazioni armate della Resistenza, i rastrellamenti antipartigiani si erano andati infittendo, e con essi le misure drastiche contro i civili, delle quali i Tedeschi assumevano la diretta responsabilità, dichiarando, il 20 aprile, che l'azione intrapresa "contro le bande" a nord-ovest di Firenze si era conclusa con 289 morti e 115 prigionieri, pretesi "nemici", e con perdite trascurabili <31.
Con dati più vicini alla realtà ne prendevano atto le pur ipocrite ed elusive relazioni della GNR dell'aprile. "Il 10 corrente la divisione germanica "Goering", si portò nella zona di Cecina [sic per Cercina] e Sommaia <32, nell'intento di disperdere le bande ribelli […] o […] convogliarle entro i limiti territoriali previsti per il compimento della manovra aggirante […]. Nella fase preliminare dell'azione furono fermate circa 300 persone sospette, parte delle quali […] rilasciate, mentre le rimanenti furono trasportate a Firenze <33." E più tardi: "A tutto il 16 corrente, il reparto misto della G.N.R. e dell'esercito germanico, operante nella zona compresa fra Monte Griffone, Corniolo, Piserno, Strabatenza, S. Paolo in Alpe e Monte Falterona, ha inflitto ai ribelli le seguenti perdite: morti 500, prigionieri 200. Sono stati, inoltre, catturati 61 renitenti alla leva. Nessuna perdita da parte nostra." <34 La verità, faticosamente diffusa attraverso la stampa clandestina, era che "nel Mugello e nel Casentino" si erano combattuti non "i patrioti, ma la popolazione rurale. In Casentino, oltre 400 vittime, in Mugello 300 circa. Sevizie, violenze a donne, incendi di case abitate, furto in massa […] la repressione ha operato soprattutto sui centri abitati, non sulla montagna. È un terrorismo che ci farà molto male, in ordine all'appoggio che i contadini potranno dare ulteriormente alle bande. <35"
A nord-est, in Lucchesia, nel luglio e nell'agosto si fortificano gli accessi all'alta Valle del Serchio (Garfagnana) e a quella della Lima (che conduce al colle dell'Abetone) intervenendo a Borgo a Mozzano, alla confluenza dei due fiumi; mentre sul litorale lucchese e su quello di Massa la distruzione delle case sulla linea del torrente Cinquale, nella seconda settimana di luglio, comincia a prefigurare la trasformazione di quel territorio in un campo di battaglia, che sarà devastato fino al 1945. Nel Pistoiese, la sequenza delle misure che colpiscono il paese di Cireglio può essere ritenuta esemplare. Da questo centro della montagna che sovrasta immediatamente la pianura e dà accesso alla valle del Po attraverso il bacino del Reno, il 14 luglio si fanno sfollare tutti gli abitanti all'infuori dei maschi abili al lavoro; poi, nella prima settimana di agosto, giunti ormai gli Alleati sull'Arno, lo sgombero dei civili si fa totale; infine, la settimana seguente, si procede a distruggere duecento case e le chiese, si rende l'area inabitabile con la distruzione dell'acquedotto, e si fanno saltare i ponti, mentre si ultimano le installazioni per i cannoni della Linea Gotica. Dietro le linee, insomma, le vie di transito anche secondarie che varcano giogaie maggiori e minori dell'Appennino sono oggetto di sorveglianza intensa, in particolare nella Garfagnana. Questa lunga valle parallela alla costa, fortemente protetta rispetto alle offese dal mare, dotata di strade dirette a nord-ovest e percorsa dalla ferrovia Lucca-Aulla <36, vede addensarsi su tutti i villaggi, specialmente quelli a ridosso delle Apuane, operazioni contro i partigiani e contro la popolazione che mirano a rendere gli spazi totalmente agibili per le forze dell'Asse. Sulle montagne che delimitano la valle a ovest, al di qua e al di là del crinale, si trovano ad esempio Vinca, nel bacino interno del torrente Lucido, e Sant'Anna di Stazzema sul versante tirrenico. In questi due centri, fra il 12 e il 25 agosto, si compiono due stragi di civili, punti estremi di operazioni di rastrellamento che devastano tutta l'area dalla Versilia fino a Fivizzano, cioè agli accessi alla Lunigiana e ai valichi che conducono all'Emilia.
La mescolanza di "guerra ai civili" e operazioni strategiche emerge vistosamente dalle indicazioni in apparenza confuse, ma nell'insieme impressionanti, circa la "situazione delle bande", nei rapporti tedeschi, che hanno carattere generale ma riguardano in effetti soprattutto l'Appennino tosco-emiliano. Il 16 agosto si dice che in Italia i partigiani hanno perso, tra l'11 e il 15 agosto, cento prigionieri e ben 884 morti. Nello stesso periodo sono arrestati novemila "sospetti" (verdächtige) e solo 55 renitenti al servizio del lavoro. Il 21 agosto poi si aggiunge non solo che le bande hanno perso, tra il 16 e il 20, altri 705 morti e 126 prigionieri, ma si registrano, per il periodo dal 1° agosto al 15, 621 morti e 100 prigionieri, oltre all'arresto di 531 renitenti al lavoro, che evidentemente devono essere aggiunti ai precedenti <37. Cifre tutte che rivelano, come è già stato ben visto dagli studiosi analizzando altre fonti tedesche, sia la ferocia di azioni che producono un'assurda sproporzione tra i moltissimi morti e i pochi prigionieri (circa uno su sette), sia l'obiettivo reale del rastrellamento di civili, dichiarati a priori sospetti e quindi deportabili, sicché i due o trecento prigionieri e i meno che seicento "renitenti" sono, nell'insieme, quantità trascurabile rispetto ai novemila civili arrestati, dieci volte più numerosi.
[...] Altri motivi d'incertezza si aggiungevano, e in primo luogo stava l'incertezza già ricordata circa il comportamento alleato in direzione delle aree ligure e tirrenica <38. Basta ricapitolare la prima fase dell'avanzata angloamericana per vederlo. Entrate le truppe in Toscana alla metà di giugno, il 15 le troviamo a Grosseto, il 25 a Piombino. Il fatto che forze sotto comando francese venute dalla Corsica, pochi giorni prima, avessero occupato l'isola d'Elba con l'operazione ‘Brassard', concorre a spiegare il rapido ripiegamento tedesco, anche se la resistenza sull'isola era stata ostinata ed aveva trasformato lo sbarco in un massacro: quattrocento morti e seicento feriti solo nella 9ª Divisione coloniale francese <39. Sulla costa la 36ª Divisione americana giunge a Campiglia Marittima lo stesso giorno che a Piombino; qui la 34ª le dà il cambio, ed arriva oltre il fiume e la città di Cecina il 2 luglio. A oriente operano due colonne della 1ª Divisione corazzata del Sesto Corpo US: una supera il Cecina a ovest di Volterra ai primi di luglio, la seconda, a est della città etrusca, che comanda l'accesso alla valle dell'Era, giunge a Càsole, al margine occidentale dell'alta Val d'Elsa <40.
Questa cronologia sommaria indica certo una debolezza tedesca, ma anche la disposizione dei difensori a non impegnarsi a oltranza su un'area considerata persa, perché esposta all'attacco di forze soverchianti da terra e dal mare. Comunque, dopo giugno, visto che la puntata francese nel Tirreno resta un episodio isolato, l'attenzione della Wehrmacht si sposta definitivamente, come abbiamo visto, verso i valichi appenninici che conducono alla Padania centrale e occidentale, vie di transito per i rifornimenti ma anche passaggi vitali per una possibile ritirata, anche perché restano particolarmente vivi, fino almeno agli sbarchi in Provenza del 15 agosto, i timori di un attacco all'area circumgenovese, al punto che nell'estate apparve manifesta la disponibilità della Wehrmacht ad abbandonare perfino il Piemonte, lasciando solo pendente la minaccia di una ritirata sul modello praticato sulle coste francesi atlantiche, cioè con forti presidi abbandonati a difendere i porti per interdirne l'uso agli avversari.
L'incertezza degli occupanti era comprensibile, perché in realtà, nello stesso periodo, neppure gli Alleati avevano ben chiara quale sarebbe stata la loro linea di attacco. Di certo essi dovevano ridefinire l'impiego offensivo di risorse molto ridotte. Stabilita definitivamente la priorità dello sbarco in Provenza, dovettero infatti partire dalla Toscana in luglio, per riposare e riorganizzarsi in vista del nuovo impegno, tre delle divisioni americane e tutte le quattro sotto comando francese. Un drenaggio di forze che si compie rapidamente, e che si conclude entro la fine del mese, quando la 5ª Armata statunitense e l'8ª britannica allargano i loro schieramenti per coprire i vuoti lasciati sia dal Corpo di spedizione francese, che parte subito dopo aver operato molto attivamente nell'area senese, sia dalle divisioni USA che hanno concorso, come si è detto, a liberare la costa. Proprio in quel momento si sta svolgendo la manovra che porterà all'occupazione dell'Oltrarno a Firenze, alla quale concorrono anche i Neozelandesi, costretti a tornare al fronte prima del previsto, dopo gli estenuanti combattimenti da Cassino alla valle del Liri.
Verso la fine degli anni ottanta del ventesimo secolo, la congiuntura strategica toscana dell'estate 1944 ha attirato l'attenzione degli autori della storia ufficiale britannica della campagna d'Italia, i quali hanno individuato in quel momento la svolta decisiva della guerra nel teatro di operazioni mediterraneo. Fino alla prima settimana d'agosto, infatti, Inglesi e Americani concordano nel progetto di raggiungere la Valle Padana principalmente seguendo la via da Firenze a Bologna. Dopo di allora, invece, con una decisione presa il giorno 4, la principale linea di attacco dell'8ª Armata si sposta verso l'Adriatico, nella cui area vengono accumulate scorte per tre divisioni corazzate e otto di fanteria, mentre solo sei (tre corazzate e tre di fanteria) mantengono depositi e linee di comunicazione a occidente del crinale appenninico <41.
Il piano primitivo aveva previsto come conseguenze, per gli Alleati, d'impiegare il massimo di energie e di risorse per liberare in primo luogo tutta la Toscana, e in seguito sollecitare al massimo la ricostruzione di quelle strutture che si rendessero necessarie per alimentare l'offensiva finale già nell'autunno. Il piano modificato ebbe invece due esiti diversi: in primo luogo, il processo di liberazione del territorio toscano occupato dai Tedeschi rallentò molto, tanto che il settore di nord-ovest fu, di fatto, abbandonato a sé stesso fino alla conclusione della guerra in Italia; e in secondo luogo ci fu un cambiamento profondo nelle funzioni delle forze occupanti alleate e nella gestione di quell'economia della guerra che, come accenneremo, ebbe nella parte liberata della regione un'influenza poco minore di quella che esercitò nell'area napoletana, e alla quale non sempre gli storici dedicano adeguata attenzione.
[NOTE]
31  "Das nordostw. [ärds] Florenz durchgeführte Unternehmen gegen Banden wurde abgeschlossen. Gesamtverluste des Feindes: 289 Tote und 115 Gefangene. Die eigenen Verluste sind nur gering." Cfr Die Geheimen Tagesberichte, cit., Band 10, 1. März 1944 - 31. August 1944, cit., TAGESMELDUNGEN VOM 20. APRIL 1944, p. 144, col. 1.
32  Cercina e Sommaia sono toponimi della zona di Calenzano, a nord di Firenze.
33  Notiziario GNR del 21 aprile 1944, p. 29.
34  Notiziario GNR del 24 aprile 1944, p. 33.
35  Cfr. Una lotta nel suo corso, Lettere e documenti politici e militari della resistenza e della liberazione, cit., p. 143.
36  Da sempre la linea è stata considerata strategica per rifornire di proiettili di grosso calibro la squadra navale della Spezia.
37  Cfr. Die Geheimen Tagesberichte der Deutschen Wehrmachtführung im Zweiten Weltkrieg, 1939 – 1945, herausgegeben [...] von Kurt MEHNER, Band 10, 1. März 1944 - 31. August 1944, cit., TAGESMELDUNGEN VOM 16. AUGUST 1944, "In der Zeit vom 11. - 15.8. […] verloren die Banden 884 Tote und 100 Gefangene. Außerdem wurde 9000 verdächtige Personen und 55 Arbeitverweigerer festgenommen." (p. 448, col. 1). Ibidem, TAGESMELDUNGEN VOM 21. AUGUST 1944, "In der Zeit vom 16. - 20.8. verloren die Banden 705 Tote und 127 Gefangene. [...] in der Zeit vom 1. - 15.8. verloren die Banden 621 Tote, 100 Gefangene und 531 Arbeitsverweigerer wurden festgenommen." (p. 463, col. 2)
38  Già il 13 maggio 1944 la GNR registrava voci secondo cui tra la popolazione e i partigiani della Lucchesia circolavano "voci di eventuali ipotetici sbarchi che dovrebbero effettuarsi a Livorno, Viareggio, Pietrasanta e località viciniori." (p. 15). V. anche sopra, nota 16 e testo relativo.
39  La durezza dell'impegno fu, anche all'Elba, usata poi a pretesto dai nuovi occupanti per giustificare abusi e violenze contro la popolazione.
40  Per questa ricostruzione seguo soprattutto William JACKSON, with T. P. GLEAVE, The Mediterranean and Middle East, vol. VI, Victory in the Mediterranean, Part II, June to October 1944, London, Her Majesty's Stationery Office, 1987, soprattutto pp. 3-49 e la carta geografica tra le pagine 12 e 13.
41  L'entità delle conseguenze logistiche del cambio di strategia è precisata in C. J. C. MOLONY, with F. C. FLYNN, H. L. DAVIES, T. P. GLEAVE, revised by William JACKSON, The Mediterranean and Middle East, vol. VI, Victory in the Mediterranean, Part II, cit., pp. 126 - 134.
Gianni Perona, La Toscana nella guerra e la Resistenza: una prospettiva generale, in "Storia della Resistenza in Toscana", a cura di Marco Palla, Volume secondo, Carocci editore - Regione Toscana, Consiglio Regionale, Roma-Firenze, 2009 

La presenza delle unità della Wehrmacht nell'area regionale toscana fu in linea di massima inferiore alla durata di un anno; nella maggior parte delle sue province essa durò da nove (in quella di Grosseto, la prima a essere liberata) a dodici mesi (come nel caso di Pistoia, Pisa e Lucca), con l'unica eccezione di Apuania (come allora si denominava l'aggregazione in un capoluogo di provincia unico di Massa e Carrara), che subì la sorte dell'arresto del fronte alleato a ridosso della Linea Gotica sui contrafforti delle Apuane, rimanendo con la parte settentrionale della Garfagnana di fatto sulle prime linee dello schieramento tedesco sino alla fase finale dell'offensiva alleata, nell'aprile 1945 (Massa e Carrara furono infatti liberate il 16 aprile 1945, dopo venti mesi di dominazione tedesca).
Fu soprattutto nei mesi dell'estate e autunno del 1944 che le province toscane furono soggette al passaggio della guerra guerreggiata, destinata a lasciare tracce cruente della presenza delle forze d'occupazione in particolare nella fase della ritirata, come vedremo meglio più avanti, e cumuli di macerie nei centri urbani bersagliati dall'aviazione alleata e dalle artiglierie dei due schieramenti che si fronteggiavano. Mentre la presa di possesso da parte delle unità militari e di polizia tedesche nel settembre 1943 era avvenuta senza scontri di rilievo, se si eccettuano primi episodi di resistenza lungo l'area costiera, in particolare a Piombino e all'altezza e nell'isola d'Elba, in un contesto in cui il fronte meridionale delle difese tedesche si assestava tra Napoli e Roma alcune centinaia di chilometri più a sud, la ritirata della Wehrmacht si verificò in condizioni che coinvolsero profondamente il territorio regionale, attraversato dal confronto ravvicinato tra le formazioni tedesche che cercavano di raggiungere posizioni sempre più a nord e le unità alleate che unitamente alle formazioni partigiane le incalzavano da sud <1.
Questa doppia dinamica avanzata-ritirata, il martellamento dell'aviazione alleata, l'incognita di una popolazione tendenzialmente ostile e la presenza di una nutrita guerriglia partigiana diffusa sul territorio, con particolare riferimento alle aree montuose e collinari, e di un'altrettanto diffusa rete di attentati e di sabotaggi nelle aree urbane, costituiscono la cornice all'interno della quale operarono le forze tedesche in ritirata. Ma questo, se si fa astrazione dallo spostamento del fronte nell'estate-autunno 1944, fu anche il quadro di riferimento della fase di “normalità” dell'occupazione, nel cui ambito ogni priorità riguardava la sicurezza delle forze d'occupazione e non già la salvaguardia della popolazione civile, messa a dura prova non soltanto dalle abituali privazioni del tempo di guerra - l'insufficienza dell'alimentazione (soprattutto nelle aree urbane, molto meno per ovvie ragioni in quelle rurali), la deficienza generalizzata di beni di consumo (in particolare per l'abbigliamento), l'insufficienza e spesso la totale inefficienza dei servizi pubblici (difficoltà nei trasporti, erogazione limitata o addirittura sospesa di acqua, gas e luce) - ma anche da vessazioni suppletive come la requisizione di case e di alloggi, l'obbligo di consegnare autovetture, la sottrazione di automezzi da trasporto che spesso erano strumenti di lavoro, l'obbligo di consegna di scorte o materiali che servivano all'esercizio di piccoli commerci o addirittura all'uso domestico, al di là di ogni altra incognita derivante dallo stato di guerra (i danni dei bombardamenti aerei, di scontri armati nelle campagne e via dicendo).
Il fatto in particolare che le unità della Wehrmacht dovevano, in linea di massima, approvvigionarsi sul posto finiva per legittimare ogni onere imposto a carico della popolazione, legittimava ogni gesto di prepotenza non di comandi ma anche di ogni singolo appartenente alle unità militari o di polizia della forza d'occupazione; contro questi atti di prepotenza non vi era alcuna possibilità di ricorso o atto di riparazione che non derivasse dalla buona volontà individuale di un superiore o di un comandante locale. Le cronache private e le memorie locali sono piene di episodi di questa natura.
Tra i fattori che già prima dell'arrivo dei tedeschi avevano profondamente inciso sullo stato d'animo e sulle abitudini della popolazione vanno annoverati i processi di sfollamento soprattutto nell'area costiera, derivanti non soltanto
dall'effetto dei bombardamenti ma anche da provvedimenti delle autorità militari per esigenze di difesa contro l'eventualità di sbarchi nemici. Alla metà di novembre 1943, dopo che il comando militare di Livorno aveva ordinato lo sgombero della città, poco più di un decimo della popolazione era presente nella città, secondo quanto comunicava il 18 novembre il comando militare di Livorno <2. E analoga constatazione le autorità tedesche facevano a proposito della situazione di Pisa: «Anche Pisa perciò - notava lo stesso rapporto appena citato - dà l'impressione di una città morta».
Nel quadro della situazione regionale un elemento caratteristico, che influenzò sicuramente sia il comportamento delle forze d'occupazione che quello delle autorità italiane e della popolazione, fu il frequente e rapido avvicendamento delle unità militari della Wehrmacht le quali, al di là del modesto organico, come del resto dappertutto nel resto d'Italia, della Militärverwaltung e delle poche guarnigioni stanziali, finivano per determinare la linea di condotta dell'esercito d'occupazione. Secondo la ricostruzione di Carlo Gentile non furono meno di ventisei le unità delle forze armate tedesche appartenenti alla 10a e alla 14a Armata che si avvicendarono nell'area regionale tra l'8 settembre e il momento dell'assestamento del fronte dopo la liberazione di Firenze e di Prato sul versante centrale della Toscana e di Pistoia, Lucca e Pisa lungo l'arco centro-settentrionale della regione <3. È chiaro che almeno una parte degli episodi di diffusa violenza che accompagnarono la quotidianità della forzata convivenza tra popolazione locale e occupanti furono dovuti al fatto che la transitorietà della presenza delle unità d'occupazione impediva che si creasse qualsiasi consuetudine e convenienza di buon vicinato e contribuiva ad abbattere i freni inibitori di unità e di singoli militari.
È da sottolineare ancora che la vita delle popolazioni fu fortemente influenzata dal martellamento dell'aviazione alleata, forse molto più di quanto non appaia da qualche cronaca locale; soprattutto nell'area costiera e lungo le grandi vie di comunicazione l'intervento dell'aviazione alleata fu ininterrotto, sia che desse luogo ad azioni offensive di bombardamento o di mitragliamento, sia che provocasse semplicemente allarmi aerei, la cui frequenza scardinava totalmente il ritmo della vita quotidiana ma soprattutto ingenerava nella popolazione, e probabilmente negli stessi militari, la sensazione paralizzante di essere totalmente in balia dell'aviazione alleata e privi di qualsivoglia protezione.
Nei carteggi interni delle autorità della RSI (carte di questura e di prefettura) <4 la certificazione puntigliosa degli attacchi aerei sembra rappresentare l'incombere di una minaccia pari almeno alla denuncia delle incursioni dei «ribelli».
[NOTE]
1 Per il contesto della situazione regionale nel periodo considerato vanno tenute presenti alcune opere generali alla cui bibliografia si rinvia per ogni altro approfondimento: Storia d'Italia. Le regioni dall'unità a oggi, La Toscana, a cura di G. Mori, Einaudi, Torino 1986; G. Verni, La Resistenza in Toscana, in “Ricerche storiche”, gennaio-aprile 1987, pp. 61-204; I. Tognarini (a cura di), 1943-1945, la liberazione in Toscana. La storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994.
2 Cfr. Istituto storico della Resistenza in Toscana, Toscana occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, 1943-1944, Introduzione di M. Palla, traduzione di R. Mauri-Mori, Olschki, Firenze 1997, p. 215.
3 C. Gentile (a cura di), Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45, vol. IV, Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci, Roma 2005; Id., Politische Soldaten: Die 16. SS-Panzer-Grenadier-Division “Reichsführer SS” in Italien 1944, in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, LXXXI, 2001, pp. 529-61.
4 Consultabili in fotocopia presso l'Archivio dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana (d'ora in avanti AISRT).

Enzo Collotti, L'occupazione tedesca in Toscana in (a cura di) Marco Palla, Storia della Resistenza in Toscana, Volume primo, Carocci editore - Regione Toscana, Consiglio Regionale, 2006

domenica 3 settembre 2023

Il partito della Democrazia cristiana e la Chiesa in questi anni creano un modello che i mezzi di informazione, posti sotto il loro controllo, si incaricano di conservare e sviluppare


Dopo lo sbarco in Sicilia, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), fu incluso nel sistema di propaganda alleato, ovviamente relativamente agli impianti tecnici e agli uffici dislocati nell’Italia meridionale.
Gli alleati intendevano utilizzare il mezzo radio per un duplice scopo: diffondere capillarmente la propaganda di guerra ma anche educare la popolazione italiana ai valori democratici, in base all’esperienza che gli USA avevano fatto proprio per mezzo della radio negli anni della presidenza Roosevelt, attraverso una informazione caratterizzata da quel pluralismo di opinioni che il fascismo aveva cancellato. Le necessità della guerra, limitarono tuttavia l’impostazione iniziale degli alleati, finendo per fare della radio quasi esclusivamente uno strumento per la diffusione della propaganda. La stessa partecipazione di elementi italiani alla programmazione fu fortemente limitata, riducendo quindi quello slancio pedagogico-democratico inizialmente previsto dagli alleati.
Guido Ferrini, La stampa italiana dal dopoguerra alla seconda Repubblica. Dalle concentrazioni editoriali alla finanziarizzazione dell’editoria, Tesi di laurea, Università di Pisa, Anno accademico 2014-2015

In seguito alla creazione di uno schema di decreto relativo alla riorganizzazione della radiodiffusione, nasce nell’ottobre del 1944 la società Radio Audizioni Italia (Rai), che nasce come “organo consultivo per il coordinamento ed il controllo dei programmi radiofonici, presso il sottosegretariato per la stampa e l’informazione”.
Rusca mantenne il suo ruolo fino all’aprile del ’45 quando venne costituito il primo vero e proprio consiglio di amministrazione della Rai e Armando Rossini divenne il nuovo direttore generale. Cinque giorni dopo tutte le stazioni radiofoniche attive nel settentrione ripreso a funzionare regolarmente sotto il controllo del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). La divisione che vede il servizio radiofonico al nord controllato dal CLNAI e del centro-meridione controllato dalla Rai continuò ancora per molti mesi.
Il discorso della comunicazione e dell’informazione ha sempre avuto una forte componente politica e nel nostro paese non è stato diversamente. Alle elezioni del 18 aprile 1948 la stragrande maggioranza degli italiani votò per il partito della Democrazia cristiana: questo infatti rispecchiava nel migliore dei modi il modello ideologico-sociale del nostro paese, un modello retorico-nazionalistico alimentato nell’orizzonte della famiglia piccolo-borghese. Parte fondante di questa vittoria si può riconoscere nell’alleanza con la Chiesa e nella comune gestione dei mezzi d’informazione.
Proprio la Chiesa, infatti, ha sempre giocato un ruolo fondamentale nei processi di informazione, grazie anche alla lungimiranza che essa dimostrò nel cercare di sfruttare la risorsa radiotelevisiva, insieme al cinema, per allargare la base sociale di intervento religioso, culturale e politico. La chiesa riesce ad arrivare a quello strato di popolazione dove invece il fascismo aveva fallito, creando spesso più del regime stesso veri e propri caratteri di massa.
Quindi, anche grazie all’aiuto della Chiesa, il partito democristiano vince le elezioni del 18 aprile 1948, legando il gruppo dirigente della Rai al partito cattolico.
Ci troviamo negli anni della guerra fredda, all’interno della quale la Chiesa dimostra una chiara opposizione al bolscevismo e in Italia ciò si traduce in una accanita ostilità verso le sinistre, più precisamente contro comunisti e socialisti. Questi anni saranno caratterizzati da una radio italiana molto di parte, anche se ridimensionato stiamo parlando dello stesso modello che il fascismo adottava durante gli anni della propaganda. Il partito della Democrazia cristiana e la Chiesa in questi anni creano un modello che i mezzi di informazione, posti sotto il loro controllo, si incaricano di conservare e sviluppare.
Dalle sinistre arrivano continui reclami e mozioni che condannano la faziosità della Rai e del suo giornale radio. Una faziosità innegabile, nel giornale radio del 2 giugno 1950 era stata praticamente ignorata la ricorrenza della nascita della Repubblica, il 10 giugno la radio aveva passato in silenzio  la ricorrenza della morte di Matteotti, il 17 giugno l’appello dell’URSS contro la bomba atomica era stato totalmente ignorato. Venivano inventate notizie, inoltre campionando varie edizioni del giornale radio si era potuto constatare come in un periodo di tempo di due settimane “fossero state passate “126 righe” di trasmissione alla riunione della CISL e nemmeno una riga dell’attività della
CIGL” <7 .
Ciò che veniva richiesto dalle sinistre alla Rai era di attenersi alla rappresentanza proporzionale delle forze parlamentari. La sinistra, specialmente il comunismo, trovò nelle radio estere e soprattutto in Radio Praga una valida alleata, in questo modo tentava di proseguire nel suo intento, ovvero nell’informazione clandestina. A modo suo, la sinistra si preparava a possibili svolte ribelli, sovversive. Il partito comunista e più in generale la sinistra, si rifiutava di approcciarsi ai nuovi media, alla televisione in primis, considerandoli mezzi frivoli. La politica culturale del Pci infatti negli anni ’50 riteneva “che […] la Rai lungi dallo svolgere, attraverso il nuovo mezzo tecnico, una funzione tendente all’elevamento culturale del popolo, allo sviluppo delle sue capacità critiche, all’affinamento della sua sensibilità estetica, cerca all’opposto di estraniare le masse dai problemi concreti della vita nazionale, di ottundere ogni capacità di giudizio, di degradare il gusto, di propagandare, in maniera più o meno velata, l’ideologia della classe dominante.” <8
Intanto era diventato presidente della Rai Cristiano Ridomi, che condusse in gran segreto il rinnovo della convenzione del 1952. La convenzione aveva un’importanza cruciale, dal punto di vista politico rappresentava un incremento dei vantaggi per la concessionaria, ovvero aumento dei fondi di finanziamento, il monopolio, il controllo solitario veniva rafforzato e in più i controlli sull’attività dell’azienda venivano ridotti di gran lunga.
Questi non saranno gli unici problemi. Sempre nel 1952 venne costituita l’ARA, ovvero l’Associazione radioabbonati e ascoltatori, per difendere i diritti del pubblico. Le sinistre continuarono nella loro campagna di attacchi al gruppo dirigente Rai, chiedendo delucidazioni sulla concessione dei servizi televisivi, chiedendo di abolire il regime del doppio finanziamento (pubblicità e canone), per non dimenticare le spinte autonome provenienti dalle sedi di Torino, Firenze e Napoli.
Queste richieste da parte delle sedi sopracitate nascono soprattutto dalla volontà di trasferire, o meglio accentrare, la direzione di tutti i programmi a Roma.
A livello di ascolti, nonostante una notevole ripresa rispetto alle perdite avute luogo durante la guerra, l’Italia rimaneva agli ultimi posti in Europa, era necessario un intenso lavoro di espansione della radiofonia in tutta la penisola.
Gli “anni d’oro” dell’espansione radiofonica possono essere considerati quelli che vanno dal 1948 al 1952, con incrementi maggiori del 200% di abbonati, il consolidamento finanziario della Rai, l’aumento del canone (che nel 1954 arrivò a 15 mila lire annue). Tutto ciò fu reso possibile da un’attenta politica di contenimento spese, dall’incremento del gettito pubblicitario gestito dalla SIPRA, che entrò insieme alla Rai a far parte del gruppo IRI, diventando così uno dei fiori all’occhiello dell’economia italiana.
Per quanto riguarda invece la programmazione è importante dire che essa rimane distinta, per il Nord e per il Sud, fino al dicembre del 1946, quando si decide di istituire due programmi in onde medie: la rete rossa e la rete azzurra (le odierne Rai Radio 1 e Rai Radio 2). Questa rimane la suddivisione in programmi fino al 1951, quando venne attuata la distinzione in programma nazionale (ex rete rossa), secondo programma (ex rete azzurra) e terzo programma, istituito l’anno precedente. Questa suddivisione viene messa in atto per assecondare le esigenze del pubblico; infatti, i tre programmi risponderanno a esigenze di ascolto del pubblico differenti: il programma nazionale si rivolgerà a un pubblico medio con notizie italiane ed estere, avvenimenti politici e quant’altro, il secondo programma avrà una caratura più ludica, ricreativa, mentre il terzo sarà improntato sulla cultura.
La dirigenza Rai si impegnò al massimo per cercare di comprendere le sfaccettature e i gradimenti del pubblico, in modo da offrire un servizio ampio e variegato, e funzionò: dal 1946 in poi gli abbonamenti salirono al ritmo di mezzo milione l’anno fino ad arrivare tra il 1950 e il 1953 quando il numero di abbonamenti si stabilizzò verso i 4 milioni e mezzo. <9
Volgendo lo sguardo alla programmazione vera e propria notiamo come le preferenze per la musica leggera sfociarono nel Festival di Sanremo, istituito per la prima volta nel 1951 e vinto da Nilla Pizzi con “Grazie dei fior”. Ciò che appare davvero evidente però è l’attenzione verso il pubblico giovanile, con programmi ludici ma anche altri più formativi, da qui il progetto “La radio per le scuole” istituito nel 1947 e volto a colmare le lacune culturali e le curiosità di chi non poteva permettersi nemmeno di acquistare i libri scolastici. Menzione d’onore in questo caso merita il programma “Motoperpetuo”.
Numerosi programmi di successo si ebbero anche nello spettacolo leggero come “Cico e Pallina” scritto da Federico Fellini, che consisteva in una serie di radioscene, altro programma che divenne apprezzatissimo, nonostante inizialmente fosse uno sconosciuto, fu “Vi parla Alberto Sordi”.
Per ampliare maggiormente il pubblico si realizzò una nuova rubrica “Voci dal mondo”, con l’inconfondibile speaker Guido Notari, e trattava temi come politica, sport, costume.
Se è vero che il terzo programma rispondeva alle esigenze di un pubblico più di nicchia, è anche vero che l’obiettivo di fare della Rai una vera e propria fonte di cultura e insegnamento viene perseguito anche dai primi due programmi, con appunti quali “L’Accademia della radio” e “Al caffè si discute” con ospiti del calibro di Paolo Stoppa, Vittorio De Sica, Alberto Moravia e tanti altri.
Col passare del tempo si notò sempre più la preparazione e l’efficienza della scuola di giornalismo radiofonico nata negli anni Trenta, ciò ebbe riscontro durante l’alluvione del Polesine nel novembre del 1951, quando attraverso inappuntabili servizi e collegamenti la Rai assicurò una copertura continua dell’evento.
Si potrebbero citare altri mille programmi come “Il motivo in maschera” condotto dal mitico Mike Bongiorno, “Il microfono è vostro” che fece diventare famoso lo slogan “Miei cari amici vicini e lontani, buonasera; buonasera ovunque voi siate!” <10, il nuovo giornale orario del secondo programma che prese il nome di Radiosera <11, “La palla è rotonda”, “Rosso e Nero”, il più famoso programma leggero del dopoguerra, e tantissimi altri, ma ciò che conta è capire che finalmente la radio italiana stava iniziando ad occupare il posto che meritava e aveva ormai creato una solida base di pubblico, con un’ampia scelta di programmi e di generi differenti.
Era tutto pronto per l’inizio di un’epoca nuova, un’epoca fatta di immagini, non più solo di suoni. Un’epoca che stava per rivoluzionare la vita di milioni di italiani e non solo, un’epoca che stava per dare alla luce la Radiotelevisione Italiana.
[NOTE]
7 Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, 238.
8 Giandomenico Crapis, Il frigorifero del cervello, 25.
9 Franco Monteleone, 250
10 Ivi, 262
11 Storia della radio. La storia della radio dal 1949 al 1960. storiadellaradio.rai.it, 12 marzo 2012 http://www.storiadellaradio.rai.it/dl/portali/site/articolo/ContentItem-117dd806-169c-49ce-958c-39efa84bf6af.html?refresh_ce.

Alessandro Pipolo, Evoluzione della comunicazione in Italia: la RAI nel corso degli anni, Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2021-2022


Intanto, alla fine del ’45 venne ricostituita l’unità dell’azienda RAI: il 20 dicembre fu eletto un nuovo consiglio d’amministrazione, presieduto dalle storico cattolico liberale Carlo Arturo Jemolo. Il compito del nuovo consiglio fu tutt’altro che agevole, non soltanto per le difficoltà connesse con la difficile situazione post-bellica - le perdite di esercizio del ’44 ammontarono a oltre 24 milioni, lievitate ad oltre 300 milioni nel ’46, anche per colpa dell’inflazione galoppante - ma anche per le crescenti pressioni esercitate sull’azienda dalla Democrazia Cristiana. Superato il periodo del governo Parri, il primo governo di De Gasperi operò in modo da normalizzare la RAI, eliminando le ultime vestigia di quella condizione di coabitazione fra vecchio e nuovo che si era realizzata nell’anno precedente. Tale operazione fu resa possibile anche dal fatto che la RAI, società concessionaria del servizio pubblico, era titolare del medesimo rapporto giuridico che aveva precedentemente legato l’EIAR allo Stato, e doveva ottemperare agli obblighi previsti dalla convenzione del 1927, la cui scadenza era prevista per il 1952, e che non era stata abolita. Il personale tecnico e amministrativo della vecchia struttura fu confermato, così come, al di là di una blanda epurazione, gli elementi di vertice. Un momento decisivo nel riorientamento in senso conservatore della RAI si ebbe nell’agosto del ’46, in seguito alle elezioni del 2 giugno, quando venne nominato presidente della RAI Giuseppe Spataro, esponente di spicco della DC, al posto di Carlo Arturo Jemolo, che aveva cercato di garantire un maggiore pluralismo nell’azienda, e venne insediato un nuovo consiglio d’amministrazione nel quale vennero reintegrati i rappresentanti della SIP, la società che deteneva la maggioranza delle azioni della vecchia società che controllava l’EIAR ed ora la RAI. La riorganizzazione dell’azienda avvenne quindi all’insegna del recupero dei quadri della vecchia burocrazia, necessari per garantire una continuità nella linea politica conservatrice impressa all’azienda ed una sicura fedeltà al governo democristiano. Un ulteriore passo in questa direzione avvenne nell’ottobre del ’46, quando venne nominato alla vice presidenza della RAI Marcello Bernardi, ex segretario generale dell’EIAR, nomina che confermava la saldatura ormai avvenuta fra i quadri dirigenziali del periodo fascista e la nuova dirigenza politica democristiana.
Analoga piega presero le vicende relative all’informazione radiofonica. All’indomani della liberazione era stato varato il programma La voce dei partiti, che andava in onda tutti i giorni e ospitava esclusivamente i commentatori dei partiti politici del CLN. L’esperienza si era dimostrata però fallimentare, per l’incapacità dei commentatori di utilizzare il mezzo radiofonico - ogni esponente di partito si rivolgeva esclusivamente ai propri sostenitori e non alla generalità del pubblico - e per l’impossibilità di garantire a tutte le forze politiche un’equa partecipazione alla trasmissione. La trasmissione fu quindi sospesa due mesi prima della campagna referendaria del giugno ’46, e successivamente fu sostituita con il programma Opinioni, in cui sei ospiti fissi, ma di diverso orientamento politico, si alternavano nel commento dei principali fatti politici. L’accesso all’informazione politica era tuttavia determinato dalle percentuali elettorali, cosicché rimasero esclusi molti partiti o formazioni politiche che, pur presenti del dibattito politico, non avevano ottenuto successo alle elezioni. Da qui il montare della protesta da parte di numerose formazioni minori, che fu possibile disinnescare solo grazie ad un accordo fra la direzione generale della RAI e la Presidenza del Consiglio. Anche questo caso aveva dimostrato il crescente ruolo giocato dal governo, e più ancora dal suo partito di maggioranza.
Un ulteriore passo nella direzione di un rafforzamento dell’ingerenza governativa fu compiuto nella primavera del ’47, quando la Costituente istituì, con D.L. 3 aprile 1947, n. 428, una Commissione parlamentare di vigilanza e un Comitato per le direttive di massima culturali, artistiche ed educative, quest’ultimo organismo presieduto da Silvio D’Amico: ma mentre il primo di tali organi aveva compiti meramente consultivi, e comunque non pienamente definiti <50, il secondo aveva compiti deliberativi sui piani radiofonici trimestrali approntati dalla RAI circa la programmazione, ed era posto alle dipendenze del ministero delle Poste, in quel momento retto da Mario Scelba <51. Il decreto del ’47, inoltre, prevedeva esplicitamente che il governo potesse intervenire sulla RAI nel caso in cui fossero trasmesse programmi e notiziari considerati “pregiudizievoli”, scavalcando quindi i poteri della Commissione parlamentare di vigilanza. In questo modo veniva reintrodotto il controllo politico dell’esecutivo sulla maggiore azienda culturale del paese, così come era accaduto in periodo fascista. La DC, attraverso la RAI e la gestione dei mezzi di comunicazione di massa, poté mettere in essere un progetto egemonico per la realizzazione di un vasto consenso sociale alle proprie politiche, ed è da sottolineare che, almeno nei primi dieci anni, furono piuttosto i gruppi cattolici legati alle direttive del Vaticano, e non genericamente democristiani, a portare avanti tale strategia.
La vittoria alle elezioni del 18 aprile del ’48, consolidò il controllo sulla RAI da parte della DC, che utilizzò tale azienda per porre le basi di quel regime conservatore di massa la cui realizzazione era iniziata fin dai primi mesi del ’46 e che avrebbe portato a compimento nei decenni successivi.
[NOTE]
50 R. ZACCARIA, Radiotelevisione e Costituzione, Milano 1977, p. 35.
51 F. MONTELEONE, Storia della radio e della televisione in Italia, cit., pp. 213-216.

Guido Ferrini, Op. cit.