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mercoledì 13 settembre 2023

Trieste costituiva in quel momento «anche una via di fuga rispetto alle incertezze del presente»


È significativo che al termine dei due interventi di inaugurazione della Consulta Nazionale il deputato democratico cristiano genovese Paolo Cappa, attirandosi in tal modo la prima alzata in piedi di tutta l'Assemblea e la generalità degli applausi e delle grida di approvazione, sommasse alle invocazioni per il trionfo dell'Italia repubblicana un «Viva Trieste italiana!» <137. L'accorato appello, così come la commossa e scomposta reazione che ne conseguì, riportata nel verbale della seduta in forma di commento, costituiscono la prima testimonianza del ritorno del motivo di Trieste nel Governo dell'Italia postfascista.
Il 28 settembre Giuseppe Bettiol, deputato democristiano e docente universitario originario di Cervignano del Friuli, teneva un intervento paradigmatico e introduttivo di molti dei contenuti di quello che sarebbe stato il discorso pubblico italiano, e in particolare democratico cristiano, su Trieste. Un «giuliano che vive le sue ormai lunghe ore di passione», così si presentava all'uditorio della Camera, che ha il «glorioso e doloroso privilegio proprio delle genti di confine di trovarsi ogni 25 anni di fronte alla dura necessità di ricostruirsi un'esistenza per fatti e avvenimenti che incidono sulla sua terra. Ed è questo destino che deve essere finalmente spezzato» <138.
Bettiol riconosceva la necessità di ammettere le «terribili colpe» del fascismo per la politica snazionalizzatrice condotta nei confronti degli slavi e indicava altresì la completa controtendenza della linea direttiva della politica estera democristiana, volta all'accordo democratico con la Jugoslavia, alla concordia e al recupero della tradizionale amicizia tra popoli italiani e slavi delle zone di confine. Sul fronte opposto però, segnalava facendo malcelato riferimento alle posizioni comuniste, vi erano «certi gruppi dell'interno» responsabili di aver indotto i giuliani di origine italiana verso una frattura con lo Stato, incoraggiandoli «ad accogliere come liberatrici le truppe del Maresciallo d'oltre Adriatico. E i triestini le accolsero realmente come liberatrici, salvo cambiare opinione». Bettiol faceva riferimento all'appello ai lavoratori di Trieste inviato da Togliatti il 1° maggio 1945, al tempo dell'ingresso dell'esercito titino a Trieste cui sarebbero seguiti i noti quaranta giorni di occupazione jugoslava della città.
Dalle pagine de «L'Unità» il segretario del Partito Comunista aveva di fatto esortato i «fratelli dell'Italia settentrionale» ad accogliere i soldati di Tito come liberatori, a collaborare con essi nel riscatto della città da tedeschi e fascisti e a evitare ogni atto provocatorio che potesse «seminare discordia tra il popolo italiano e la Jugoslavia democratica» <139. L'appello ebbe larga eco nella stampa di quel maggio '45, e rimase a lungo nella memoria dei detrattori della linea politica comunista su Trieste, esempio fra i tanti del conflitto ideologico che andava condizionando la politica italiana del pluripartitismo e in modo particolare la politica estera, interessata dalle interferenze delle diplomazie internazionali.
«Non si deve dimenticare quanto i socialisti, i liberali, gli azionisti e i democratici cristiani hanno operato per far sì che quella regione, la quale sotto le sue bianche pietraie custodisce le ossa dei morti della prima guerra mondiale, sia italiana e rimanga italiana», ricordava Bettiol richiamando, a sostegno del suo ragionamento, quella memoria nazionale che legava a doppio filo Trieste con lo spartiacque rappresentato dalla Grande guerra, "quarta guerra d'indipendenza" del Risorgimento italiano e compimento dell'istanza irredentista per la Venezia Giulia.
La città adriatica, "redenta" e ricondotta nel grembo della madre patria, era infatti assurta a emblema di quella partecipazione collettiva alla guerra europea che fu la prima esperienza nazionale e patriottica di massa per milioni di italiani e «l'ultimo atto compiuto della classe dirigente liberale per completare l'edificio dello Stato unitario» <140.
Al costo di 600.000 morti, dalla Grande guerra era scaturita una "religione della patria" tra le più aggreganti della storia del paese, che si sarebbe celebrata attraverso il ricordo del sacrificio dei suoi figli presso tutti i cimiteri militari di cui era disseminata la linea del fronte <141. In occasione della tumulazione del Milite Ignoto all'interno del Vittoriano a Roma nel 1921, maggiore cerimonia nazionale della storia italiana, fu chiamata una madre triestina a scegliere le spoglie anonime di un soldato caduto in combattimento, Maria Bergamas. Il figlio Antonio, attivista del movimento mazziniano e volontario irredentista, disertore dell'esercito austro-ungarico per unirsi a quello italiano, era perito in combattimento sull'Altopiano di Asiago nel 1916. Il suo corpo non fu mai ritrovato <142.
Ed ecco che l'aspetto morale, sentimentale, passionale di questo importante tassello del mito della nazione veniva recuperato nel secondo dopoguerra nel nome di Trieste, dei suoi "martiri", dei suoi eroi. Eretta in questo modo a «capitale morale della nuova Italia» <143 e ricollocata al centro di un sistema di sentimenti, credenze, simboli, retoriche e narrazioni politiche garanti della continuità con il passato, Trieste costituiva in quel momento «anche una via di fuga rispetto alle incertezze del presente, un modo per restare ancorati a un nucleo di valori e a un deposito di memorie che avevano scandito la trasmissione dell'esperienza generazionale» <144.
4. Quale nazione per la nuova Italia
Naturale fu il passaggio al richiamo del principio di nazionalità, o meglio a una vera e propria «apologia della nazione» <145, fatta prima di tutto di tradizione storica e culturale e di passato comuni: "E non è, o signori, in nome di un falso nazionalismo che vi richiediamo la salvaguardia dei nostri essenziali diritti etnici nella regione Giulia" - continuava l'onorevole Bettiol - "C'è un nazionalismo, signori, al quale non si può rinunciare se non si vuole annientare sé medesimi e nessuno tra gli altri popoli europei vi ha oggi rinunciato: meno di tutti il valoroso popolo guidato dal maresciallo Tito. Ma il nostro è un nazionalismo ancorato ad una coscienza morale: è la espressione di quella concezione etica della vita e di quei valori per i quali ogni benché minimo esorbitare dai limiti della più stretta giustizia è delitto che il popolo prima o dopo sarà chiamato a pagare. Esso è l'espressione di un convincimento che è in noi e per il quale noi consideriamo Patria ogni lembo di terra ove lingua, tradizioni, costumi, religione si uniscono a coloro che furono e legano noi alle generazioni venture. Sotto questo profilo rinunciare a Trieste e alle città italiane della Venezia Giulia è come abbandonare una parte di noi stessi a un destino di morte, è come fare a brandelli la nostra anima per la quale tanti generosi fecero un tempo l'Isonzo colorato in rosso! E se qualcuno ci vuole strappare ciò che per diritto etnico e culturale ci appartiene come il figlio appartiene alla madre [Vivissimi applausi] ci sia almeno concesso di levare la voce di protesta verso chi questo vuol fare in nome di diritti politici ed economici che non reggono la nostra voce disgustata verso coloro che, pur essendo a noi legati da vincoli etnici e culturali, dimenticano la Patria" <146.
L'estratto contiene una serie di motivi retorici e di formule di pedagogia patriottica eredi di una particolare lettura della storia nazionale e di quella del confine orientale, destinati a ritornare senza soluzione di continuità nei primi anni del Governo repubblicano, peraltro accomunando le diverse posizioni partitiche di massa socialiste, liberali, popolar-democratiche e anche comuniste che ancora - e ancora per poco - muovevano in un clima di collaborazione antifascista <147.
Sottolinea Emilio Gentile come in questa fase fosse comune a buona parte del Parlamento l'intento di riscattare l'idea di nazione dalle derive violente e bellicistiche fasciste e nazionaliste, circoscritte fra due parentesi di comodo e dure a morire, per riproporla al Paese come un ideale collettivo, un «valore tuttora vivo e attuale, di cui non ci si poteva disfare senza perdere la propria identità e la propria individualità» <148.
Il nazionalismo cui faceva riferimento il consultore democristiano derivava pertanto dall'esigenza condivisa di riempire il vuoto identitario seguito ai danni provocati dal ventennio e, al contempo, dalla presa in carico della difesa del problema della nazione da parte della Chiesa cattolica e del partito della Democrazia Cristiana più che di qualunque altro settore della cultura e della politica italiane di quel primo dopoguerra <149.
«La DC intendeva assumere su di sé con forza l'eredità della patria e della nazione» <150, come vedremo in seguito approfondendo il tema specifico della declinazione democristiana dell'identità nazionale italiana.
Pur tra le profonde differenze delle culture politiche e dei propositi di riorganizzazione dello Stato, Trieste tornava alla Consulta come archetipo del patrimonio morale nazionale da preservare. A nome del Partito d'Azione, che nella sua aspirazione si sentiva più d'altri epigone dei motivi spirituali nazionali e democratici del Risorgimento <151, il deputato e segretario della componente azionista Oronzo Reale avrebbe confermata l'antifona democristiana rispetto al problema nazionale e a quello di Trieste: "C'è una questione di frontiera orientale che tiene turbati gli animi del Popolo italiano. Noi del Partito d'Azione siamo contrari non solo ad ogni nazionalismo, ma anche alla esasperazione di ogni questione nazionale. Noi sappiamo che oggi non si fanno le guerre per una città. Noi sappiamo, tuttavia, che in questo totale sconvolgimento della civiltà europea ci sono questioni nazionali di immensa portata morale, delle quali non può essere negata l'importanza: si parla di Trieste che fu la vittoriosa conquista della guerra di liberazione della generazione che ci ha preceduti, Trieste che è italiana non soltanto per motivi etnici ed economici e geografici, ma anche per motivi tradizionali che sono presenti tutti nel nostro spirito" <152.
Occorre segnalare che tra l'11 settembre e il 2 ottobre 1945 si era svolta a Londra la prima conferenza del Consiglio dei ministri degli Esteri. In quell'occasione tanto il capo della delegazione jugoslava Edvard Kardelj quanto il ministro degli Esteri italiano Alcide De Gasperi avevano presentato i propri memorandum sulla Venezia Giulia. Alle rivendicazioni estensive jugoslave - gran parte della Venezia Giulia compresa Trieste, «isola straniera in terra croata e slovena», reclamata però per ragioni economiche <153 - De Gasperi opponeva l'indiscussa italianità di Trieste e ne proponeva l'unione all'Italia, chiedendo di spostare il confine alla linea Wilson <154, già prospettata alla fine della prima guerra mondiale. Il problema fu trasferito nelle mani di una commissione di esperti nominati da ciascuna delle grandi potenze che avrebbero effettuato una visita presso il territorio conteso, al fine di stabilire le effettive «condizioni etniche ed economiche locali, e proporre un confine che lasciasse il minor numero possibile di jugoslavi in Italia e di italiani in Jugoslavia» <155. I verbali della Consulta fino al marzo del 1946, quando si sarebbe svolto il sopraluogo della commissione quadripartita nella Venezia Giulia, danno conto dell'unità di intenti della coalizione di Governo in merito alla difesa dei confini della nazione, mentre i quotidiani nazionali e di partito montavano il palcoscenico della propria retorica pro-italianità di Trieste su questo appuntamento e le piazze della città e d'Italia andavano riempiendosi di manifestanti.
L'intervento di Ivanoe Bonomi del 14 gennaio è infatti significativo tanto alla luce dei rivolgimenti di natura diplomatica del 1946, quanto rispetto al trait d'union che caratterizzava la ripresa del tema e del linguaggio nazionale e patriottico fin qui introdotti. «Le questioni territoriali, le questioni dei confini, sono quelle che più incidono sulla fantasia e sui sentimenti dei popoli e che determinano il loro atteggiamento futuro», spiegava Bonomi facendo esplicito riferimento ai confini orientali del Paese. «Qui è il punto dolente e dove la parola deve resistere agli impulsi del cuore». L'ex presidente dell'esecutivo Bonomi continuava descrivendo la «situazione veramente dolorosa» connessa alla scelta del governo militare alleato di occupare le città di Gorizia, Trieste e Pola lasciando in mano jugoslava Fiume e l'Istria: "Dirò, non grido di dolore dei fratelli colpiti, ma strazio del nostro animo per questa
offesa al sentimento nazionale, che non è nazionalismo aggressore, ma è la solidarietà di tutti gli uomini che parlano una stessa lingua, che sono nati in una stessa terra, che sono cresciuti al calore di una stessa cultura".
A questo punto del discorso i consultori di ogni parte dell'aula si sarebbero lasciati andare alle oramai consuete grida di «Viva Trieste! Viva l'Italia!». E mettendo in allerta il Governo sulla snazionalizzazione in corso ad opera degli jugoslavi tesa ad occultare alla commissione interalleata la reale composizione etnica della regione, Bonomi concludeva: "Ebbene, bisogna che il Governo, con un'opera assidua e costante, illumini l'opinione pubblica mondiale. Bisogna che gli esperti che gli alleati manderanno a documentarsi nella Venezia Giulia non siano ingannati da fallaci apparenze. Avverta fin da ora il nostro Ministro degli esteri che i connotati etnici non si cancellano deportando gli elementi più audaci e spaurendo i più timidi. Le impronte nazionali di una regione non si desumono soltanto dalla presenza dei vivi, ma si ravvisano nelle pietre dei monumenti, nello stile delle case, nei costumi delle famiglie, nelle stesse iscrizioni tombali, perché, come ha detto un grande spirito, l'umanità e fatta di morti e di viventi. […] Quando qualche episodio tocca il sentimento nazionale, noi vediamo in tutti gli spiriti, dai più umili ai più alti, sorgere questa solidarietà di stirpe che è superiore alla solidarietà di classe e di partito, perché è il gradino necessario - come diceva Giuseppe Mazzini - per quell'amore della Patria nell'amore di tutte le patrie donde si sale a quella solidarietà internazionale che sarà la legge intrasgressibile di domani" <156.
È possibile scorgere in questi primi contributi una serie di aspetti tra di loro interconnessi, a partire dal diffondersi di una riflessione comune a proposito dei concetti di "patria" e di "nazione", di "patriottismo" e di  "nazionalismo". Ciò che si riscontra fin dai primi interventi parlamentari, pur secondo il variegato sentire degli onorevoli, è infatti come l'affermazione del significato, del radicamento e dell'autorevolezza dei concetti di "patria" e di "nazione" fosse percepito, in quel momento, come un compito imprescindibile, quasi un'urgenza, dei rappresentanti del paese, tanto più di fronte alle imminenti decisioni da prendere ai confini orientali d'Italia in discussione al tavolo della pace di Parigi.
«Come la storia ha spesso dimostrato, quando una nazione attraversa una seria crisi morale e politica è verosimile che o il linguaggio del patriottismo o quello del nazionalismo conquistino l'egemonia intellettuale. L'uno e l'altro possiedono una forza unificante e una capacità di mobilitazione che altri linguaggi, soprattutto il linguaggio dei diritti, non hanno» <157, commenta a proposito della rinascita del linguaggio patriottico nell'Italia dell'immediato dopoguerra Maurizio Viroli: una rinascita «tanto più sorprendente se si tiene presente che in Italia il linguaggio del patriottismo era stato trasfigurato prima dalla retorica monarchica, poi da quella fascista» <158. Ed è proprio la presa di distanza dalle contaminazioni fasciste che accomunerà i partiti nel "compito" di «dare un mito politico al risorto Stato italiano» <159.
Dalla guerra era uscito screditato il nazionalismo, e con esso il mito nazionale e il sentimento di nazione <160. Una volta "abbattuto l'idolo", però, alla rifondazione democratica dello Stato italiano occorreva recuperare il significato conciliatorio del sentimento di unità nazionale, che dalla mistificazione mussoliniana tornava ora alla sua matrice originaria di pianta risorgimentale. In definitiva, ciò che si fece nel proporre agli italiani un volto nuovo e ripulito del mito della nazione, fu richiamare in maniera perfino ridondante i vecchi termini della tradizione: la lingua, le tradizioni, i costumi famigliari, la religione, il diritto etnico, la solidarietà di stirpe, i motivi geografici, i confini naturali, la cultura latina, la Grande guerra, i morti per la Patria.
A questa proposta si allineò anche il liberale Giovanni Mazzotti, rivolgendosi in principio ai «colleghi comunisti» ed estendendo poi l'invito a tutte le parti, in particolare «a voi dell'estrema sinistra e a voi dell'estrema destra», a trovare un «termine di accordo completo» sulla questione di Trieste «che tocca così da vicino l'anima italiana»: "Non bastano le parole eloquenti dei vostri Ministri, ma qualche cosa occorre che sia l'espressione del vostro sentimento collettivo, affinché sappiamo che in questa lotta, in cui si tratta di difendere i confini che la natura ci ha dato e che sono stati acquistati mercé i dolori, la morte e i sacrifici di tante migliaia di uomini attraverso l'altra guerra di liberazione, noi potremmo trovare un punto di congiunzione […] per poter precisare di fronte a tutti, e particolarmente ai nemici di oggi, che sono i nemici di ieri, che l'Italia su questi termini non si tocca" <161.
[NOTE]
137 CN, intervento di Paolo Cappa (DC), seduta del 25 settembre 1945, p. 3.
138 CN, intervento di Giuseppe Bettiol (DC), seduta del 28 settembre 1945, p. 49.
139 P. Togliatti, Il Partito Comunista Italiano ai lavoratori di Trieste, «L'Unità», 1 maggio 1945. Cfr. anche M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., pp. 286-287 e A. Agosti, Togliatti, Utet, Torino, 1996, p. 306.
140 E. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 84-85.
141 Sulla sacralizzazione della politica si citano come testi generali di riferimento G. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari, 1990 e E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari, 2007. Sulla celebrazione dei caduti cfr. O. Janz, L. Klinkhammer (a cura di), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma, 2008.
142 Cfr. F. Todero, Morire per la patria. I volontari del "Litorale austriaco" nella Grande Guerra, Gaspari, Udine, 2005.
143 E. Di Nolfo, M. Serra, La gabbia infranta. Gli Alleati e l'Italia dal 1943 al 1945, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 248.
144 M. Baioni, Trieste 1954, cit., p. 122.
145 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 322.
146 CN, intervento di Giuseppe Bettiol (DC), seduta del 28 settembre 1945, pp. 50-51.
147 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 124.
148 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 322.
149 Ivi, p. 327.
150 G. Formigoni, L'Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Collana di Storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1998.
151 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 94. A proposito del PdA cfr. G. De Luna, Storia del Partito d'Azione, Feltrinelli, Milano, 1982.
152 CN, intervento di Oronzo Reale (PdA), seduta del 2 ottobre 1945, p. 141.
153 B. C. Novak, Trieste 1941-1954, cit., pp. 233-234. De Gasperi riporta i contenuti del memorandum nella seduta di Consulta Nazionale del 29 settembre 1945, p. 96 e ss.
154 Frontiera tra Italia e Jugoslavia (al tempo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni) proposta dal presidente degli Stati Uniti Wilson nel 1918. Tracciata secondo la linea etnica, nel rispetto del principio di nazionalità e dell'autodeterminazione dei popoli, comprendeva il Goriziano, quasi tutta l'Istria con Pola e Albona, parte dell'isola di Cherso e Fiume costituita in Stato libero. L'Italia non accettò e si giunse a una mediazione con il trattato di Rapallo del 1920, che prevedeva il confine al Monte Nevoso originario del Patto di Londra, tutto il Goriziano, tutta l'Istria, le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta.
155 B. C. Novak, Trieste 1941-1954, cit., p. 234.
156 CN, intervento di Ivanoe Bonomi (PSDI), seduta del 14 gennaio 1946, pp. 251-253.
157 M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 18
158 Ivi, pp. 164-165.
159 E. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 339.
160 Ivi, p. 271.
161 CN, intervento di Giovanni Mazzotti (PLI), seduta del 14 gennaio 1946, p. 257.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2018-2019