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giovedì 27 ottobre 2022

In clandestinità si discuteva anche del destino del Corriere della Sera


Tra il 1942 e la prima metà del ’43, con l’aggravamento della crisi militare, politica ed economica culminata nel crollo del Regime, insieme alla notevole ripresa dell’azione dei partiti antifascisti, vi fu un notevole incremento delle discussioni sull’ordinamento da dare all’Italia dopo la caduta del fascismo <737. La prospettiva della fine della dittatura, infatti, lasciava intravvedere la possibilità di una rinascita politica e culturale incrementando la circolazione delle idee sui provvedimenti e le iniziative ritenute più urgenti per il prossimo ripristino democratico.
Intrecciandosi strettamente non solo con le tematiche della libertà di espressione, ma anche con la visione sul futuro assetto economico da dare al Paese, le discussioni sulla stampa, a Milano, furono molto vive e sentite. L’oggetto principale dei confronti fu inevitabilmente il Corriere della Sera, considerato più che il maggiore giornale d’Italia, come un punto di riferimento per definizione di una città da sempre “monogiornalistica” <738. Per quanto la tradizione ne esaltasse il prestigio, la storia recente lo rendeva l’esempio tangibile del collaborazionismo con i nazisti, nonché un caso emblematico del coagulo di potere politico-finanziario, che aveva sostenuto il Regime fin dalla sua affermazione: il Corriere insomma, data la sua storia, e a maggior ragione rispetto a quella, era preso a simbolo dell’adesione al fascismo di molti intellettuali e dell’asservimento dei grandi imprenditori coinvolti nel sistema di potere del governo mussoliniano. Pertanto la sua proprietà e la sua direzione furono oggetto di grande animosità, non priva di risentimento, in un momento in cui la voglia di riscatto Nazionale si univa ad un senso di rivalsa verso quanti apparivano responsabili per la dittatura e soprattutto per la guerra.
Nella stampa clandestina si erano avuti molti dibattiti riguardo la proprietà delle grandi aziende tipografiche considerate gli snodi principali per la ricostruzione dell’assetto della futura stampa libera. Uno dei più illustri personaggi che presero parte alla discussione - con un significativo articolo poco ricordato dalla storiografia <739 - fu Luigi Einaudi. Il futuro Presidente della Repubblica, analizzando la recente storia italiana, prendeva atto delle debolezze della stampa, evidenziatesi gravemente nel ’14 e nel ’22, e le imputava alle indebite ingerenze dei proprietari sulle testate. Il problema si era posto - a suo parere - da quando i giornali italiani erano entrati in possesso di privati, titolari anche di altre imprese industriali, i quali, avendo appunto grandi interessi economici (cotonieri, zuccherieri, idroelettrici ecc) da difendere, avevano imposto la loro linea sulle scelte editoriali affinché le testate che detenevano sostenessero posizioni utili ai propri fini particolaristici, non coincidenti con l’interesse generale, e talvolta con questo apertamente contrastanti. Nasceva da questa circostanza il pericolo che l’opinione del giornale fosse distolta dall’unica voce che doveva rispecchiare, ovvero quella del direttore e dei suoi collaboratori, che erano gli unici legittimati a difendere un’idea, una corrente di opinione, un interesse qualsiasi, perché lo facevano apertamente ed in modo dichiarato. <740 Per raggiungere la separazione auspicabile tra direzione e proprietà, Luigi Einaudi si richiamava alla tradizione del giornalismo d’opinione del primo Novecento e proponeva di reintrodurre le formule societarie allora in uso, quando la figura dominante era quella del direttore, che era anche gerente a tempo fisso e socio della società in accomandita proprietaria del giornale, nella quale il capitalista puro rimaneva in ombra, ridotto a svolgere il ruolo di controllo sulle finanze, il solo di sua competenza: “Bisogna ridar il giornale a chi unicamente ha il diritto di amministrarlo e di redigerlo - scriveva - al direttore, che sia un uomo e ne sia nuovamente l’assoluto padrone. E bisogna togliere ai gruppi proprietari che non siano esclusivamente giornalistici ogni possibilità di influenzare l’indirizzo politico ed economico del giornale. Qui è il Delenda Carthago del giornalismo italiano di oggi. […] Il problema sta tutto nella scelta del direttore e nelle garanzie della sua assoluta indipendenza. […] Parrebbe urgente che i proprietari privati attuali di grandi giornali italiani si persuadessero della necessità e dell’assoluta convenienza di ricostituire l’antica direzione delle cose […per cui] la nomina di un direttore contrattualmente indipendente non basta. Il direttore deve essere anche il gerente fornito di tutti i poteri che dal codice sono riconosciuti all’unico socio accomandatario di una società in accomandita semplice. Chi amministra e paga, comanda. Il gruppo proprietario conserverebbe l’amministrazione del giornale [e per ulteriore garanzia] dovrebbe sottoporre saltuariamente il nome del gerente al gradimento di un numero limitato di persone autorevoli […] queste persone non avrebbero alcun diritto di nomina, ma dovrebbero a maggioranza dare il proprio gradimento sul direttore-gerente scelto dai proprietari” <741.
Su posizioni diametralmente opposte si trovava Gaetano Baldacci, un medico messinese, collaboratore a Milano di diverse riviste ed aderente al Partito d’azione, che sotto lo pseudonimo di Sicanus aveva pubblicato sulle colonne di “Lo Stato Moderno”, rivista diretta da Mario Paggi, una dura requisitoria contro le proprietà dei mezzi di informazione. Baldacci sosteneva che il quotidiano era un’impresa troppo complessa per non essere a rischio di ricadere nelle mani apparentemente indifferenti, ma in realtà interessate ad influire sulla politica, dei capitalisti, perciò riteneva fosse necessario l’esproprio dei grandi complessi editoriali e, per evitare ogni futuro controllo sulla stampa, auspicava che gli impianti si statalizzassero e le pubblicazioni fossero sottoposte ad una rigida legislazione, che ammettesse la sola pubblicazione dei giornali di opinione, ovvero dei giornali di partito, il cui intento politico era sempre esplicito: “Editori e tipografi - scriveva - dopo aver allattato abbondantemente al capace mammellone della Cultura Popolare, in questo momento stanno dandosi d’attorno a Roma per procacciarsi “l’onere” di editare gli organi magni della democrazia popolare. Nessuno crediamo ci cascherà: ad ogni modo il conto non si chiudono a Roma, ma a Milano, a Torino, a Genova. Se non vi fossero sufficienti motivi morali per defenestrare una volta per sempre tutta questa brava gente, ve ne sono tanti altri di una così viva e pregnante attualità da non ammettere equivoci. I partiti di sinistra lottano contro l’appropriazione capitalistica delle posizioni-chiave che controllano la vita del Paese: è il primo passo della rivoluzione che questa volta non dovrà sfuggirci di mano. Di queste posizioni-chiave, tra le più ambite ci sono le aziende giornalistiche. I rimedi che ci si offrono contro [l’usurpazione della stampa da parte dei clan tecnico–finanziari] solo la statizzazione ed una legislazione drastica. […] Si dovrà restituire il giornale al carattere di schietta politicità che dovrebbe essergli propria. Ne deriva, come primo provvedimento da prendere, sia quello che eviti ad uno solo dei quotidiani italiani di sfuggire al controllo dei partiti che controllano ormai tutta l’intera opinione pubblica italiana. […] non c’è scelta: bisognerà espropriare i grandi complessi tipografici per ridistribuirli ai partiti congiunti del C.l.n.” <742
Come si accennava, emergono evidenti in questo intervento il forte sdegno per gli accadimenti del recente passato e la volontà di risolvere il nodo dell’informazione in chiave statalista, all’interno di una diversa economia, ristrutturata dalle fondamenta. Si volevano spazzare via le vecchie testate per rinnovare completamente il giornalismo italiano agendo sotto la spinta rivoluzionaria nata dal dramma del presente. Per scongiurare una simile impostazione, nel numero successivo della rivista, intervenne Mario Borsa, con un articolo in cui, pur difendendo i giornali di informazione, non si sottraeva dal proporre soluzioni alternative per un controllo più democratico delle testate. Egli riteneva che non si potessero pubblicare solo giornali di partito, perché concedere la pubblicazione ai soli organi politici riconosciuti avrebbe voluto dire escludere ogni altro orientamento dalla possibilità di esprimersi, vale a dire agire secondo un principio esclusivista ed illiberale: “Perché soltanto i socialisti, i democristiani, i liberali ecc?” - si chiedeva - ammettendo solo i giornali di opinione si sarebbe ricaduti in una concezione totalitaria.
Sgombrato quindi il campo da tale possibilità, Borsa introduceva i motivi a favore dei giornali di informazione: “il grande numero di cittadini che possono simpatizzare con le idee di queste o quel partito, ma non sono iscritti ad alcuno, volendo pensare con la propria testa, dove avrebbero dovuto rivolgersi?”. I casi di grandi testate europee mostravano che in un regime di libertà era possibile l’esistenza di giornali indipendenti, di fogli di riferimento per la gran massa dei lettori non orientati. Quindi, una volta postulata l’ineliminabilità dei giornali di informazione perché “libertà è o non è: non bisogna[va] averne paura”, passava ad analizzare i problemi che secondo lui ponevano i fogli sì fatti, che si riducevano a tre: la direzione, la proprietà e la testata: "Mantenerlo dunque in vita come organo di informazione; ma qui sorgono tre questioni della direzione e della redazione, della proprietà e della testata. La prima questione ci sembra di facile soluzione. Direzione e redazione dovrebbero essere immediatamente epurate, prima ancora che entrino in vigore in Alta Italia i decreti governativi già emanati sulla materia. L’epurazione naturalmente dovrebbe essere radicale, attuata cioè non solo in conformità della procedura e dei criteri indicati già dal C.l.n. Alta Italia per tutte le aziende in generale, ma con particolare riguardo al carattere che riveste, sotto l’aspetto politico e morale, una grande azienda editoriale. Il giornale dovrebbe essere affidato a uomini di sicura e provata fede antifascista, non imposti s’intende da alcun partito, ma capaci di combattere lealmente con essi la grande battaglia che ci attende all’indomani della liberazione. […] Per la questione della proprietà si possono proporre varie soluzioni in tema di regolamento particolare di regime sulla stampa: forme cooperative, investimenti finanziari da parte di enti morali, obbligatorietà di frazionamento del capitale e controllo del trasferimento delle azioni ecc.; ma sembra a noi che la vera soluzione del problema dell’affrancamento della stampa dalle influenze capitalistiche debba automaticamente scaturire, più che da speciali regolamenti, dalla vasta riforma politica e sociale che, nel regime democratico di domani, renderà impossibile al capitalismo ogni ingerenza corruttrice nella vita politica ed economica del Paese e quindi di far servire un grande organo di stampa ad interessi particolari. Resta la questione della testata che a noi sembra questione di lana caprina". <743
Ponendosi nella posizione interlocutoria di chi, pur avendo una concezione profondamente liberale della stampa <744 riconosceva le esigenze di un drastico mutamento ed aveva fiducia che questo potesse realizzarsi concretamente, Borsa, nel suo usuale atteggiamento razionale, molto distante dalla polemica irruente di Baldacci - da cui lo dividevano peraltro anche molti anni di differenza - affermava di approvare tanto l’opportunità di operare una vasta epurazione, quanto la necessità di affrancare la stampa dalle influenze capitalistiche, per cui proponeva soluzioni normative utili ad un futuro inquadramento legislativo delle proprietà dei mezzi di informazione; dichiarava però di non poter accettare le proposta di affidare la pubblicazione dei quotidiani ai soli partiti, perché riteneva fondamentalmente illiberale un simile principio. I giornali di informazione avevano ragione di esistere proprio perché rivolti alla generalità di lettori che non riconoscendosi in un partito volevano trovare chiarificazioni nei fogli non schierati. Aggiungeva anzi, che non solo i giornali di informazione dovevano a suo avviso essere mantenuti, ma potevano essere, in un momento di difficile cambiamento qual’era quello vissuto dall’Italia, uno strumento utile al servizio della causa del rinnovamento. Il Corriere della Sera andava dunque tenuto in vita di modo che tutti gli Italiani disorientati potessero rivolgersi ad un grande giornale indipendente per trovare una guida sicura, che per i primi tempi poteva essere utile all’antifascismo: "[un giornale sì fatto] potrebbe essere un impareggiabile strumento di bene per la causa di quella vera libertà che sta ugualmente a cuore a tutti quanti. […] Questione reale e di capitale importanza potrà essere per l’antifascismo il trovarsi lì pronto, al momento della Liberazione (quando cioè sarà inevitabile il disorientamento sociale, civile e morale) un giornale già piantato e così saldamente piantato, il quale ritrovata la sua popolarità e sfruttando la popolarità della sua testata potrà farne giungere subito la parola in mezzo a quel pubblico straordinariamente largo e curiosamente eterogeneo qual è sempre stato il pubblico del Corriere" <745.
La polemica tra Borsa e Baldacci si chiudeva sostanzialmente su posizioni inalterate riflettenti le visioni di un giornalista la cui professione di fede era chiaramente liberal-democratica e quella di un giovane ispirato da istanze massimaliste e rivoluzionarie. <746
[NOTE]
737 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. X La seconda guerra mondiale, il crollo del fascismo e la Resistenza, Milano, Feltrinelli 1986, p.133.
738 Proprio la vita di Borsa da modo di vedere come l’Italia e Milano fossero passate nell’arco di un cinquantennio ad avere come principale giornale di informazione il Secolo a fine ottocento, Il Corriere ad inizio Novecento ed ancora il Corriere sotto il fascismo, quando sebbene ispirato dall’alto, rimaneva il miglior prodotto editoriale su piazza, dato che l’unica alternativa era “Il Popolo d’Italia”.
739 Il dibattito è stato affrontato soprattutto in Angelo Del Boca, Giornali in crisi: indagine sulla stampa quotidiana in Italia e nel mondo, Torino, Aeda, 1968, pp.45 sgg e Paolo Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra, cit., pp.55
sgg.
740 Corsivo dell’autore.
741 Il Saggio, pubblicato anonimo a Roma nella Collana clandestina del Movimento liberale italiano (28 settembre 1943) è apparso edito col titolo Giornali e giornalisti, Firenze, Sansoni, 1974. In particolar si veda il paragrafo III Il problema della stampa quotidiana, pp.15-29.
742 Sicanus, (Gaetano Baldacci), Stampa e democrazia, in «Lo Stato Moderno» a.1 n.2, agosto 1944, pp.12-16. Per gli indici della rivista: Elena Savino, Lo Stato Moderno 1944-1949, Milano, Franco Angeli, 2005. Su Gaetano Baldacci si veda Luciano Simonelli, Dieci giornalisti ed un editore, Milano, Simonelli, 1997, pp.13-41. Il libro che contiene brevi biografie di giornalisti protagonisti del Novecento, oltre alla figura di Baldacci presenta le vicende biografiche di Luigi Barzini, Mario Missiroli, Filippo Sacchi ed altri. Baldacci era assistente del Professor Cesa Bianchi all’Istituto della clinica medica della Regia Università di Milano, ma aveva un netta vocazione per il giornalismo ereditata dal padre, corrispondente del Giornale d’Italia. Dalla prima esperienza per un grande quotidiano avuta la notte del 25 aprile 1945 con Borsa, sarebbe passato tra varie testate fino ad arrivare alla fondare nel 1956 “Il Giorno”, foglio ricordato per la fattura originale ed innovativa. Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, cit., pp.192 sgg. 743 Un gruppo di giornalisti antifascisti, (Mario Borsa), Il problema della stampa. Una difesa dei giornali d’informazione, in «Lo Stato Moderno» II, 3-4, 1-16 febbraio 1945, pp.31/37.
744 È interessante notare come nel ’47 Borsa si richiami in una articolo proprio alle soluzioni avanzate da Einaudi scrivendo: “Tre anni fa, nella grande rivista americana del Foreig Affairs Luigi Einaudi scriveva: «Il direttore dovrebbe essere il solo responsabile della politica economomica e finanziaria di un giornale, una volta nominato egli non dovrebbe essere licenziato, né subire restrizioni di sorta, senza il benestare di un apposito comitato […] composto da uomini eminenti, da tutti rispettati, col compito e col diritto di dare o meno la sua approvazione alla nomina dei direttori, come pure al trapasso di azioni, assicurando così l’indipendenza del giornale». Non dovrebbe esser difficile adottare in Italia qualcosa di simile per i grandi organi. È un’idea, perché non provare?”. Mario Borsa, Del nostro giornalismo, in «Lo Stato Moderno» a.5, n.10-11, 20 maggio-15 giugno 1948, pp.242-244.
745 Un gruppo di giornalisti antifascisti, (Borsa Mario), Il problema della stampa. Una difesa dei giornali d’informazione, cit.
746 Ci saranno altri scambi tra i due nella rivista che tuttavia, non cambieranno sostanzialmente i termini entro cui si erano rispettivamente attestati. Baldacci rispose chiarendo che non intendeva sostenere che non dovessero più esistere giornali che non fossero di partito ed ammettendo di essersi lasciato andare alla formulazione di rimedi estremi: “lo ammetto. Ma al fondo di questa intransigenza di questa ricerca spietata che può sfociare e sfocia talvolta in conclusioni… autolesionistiche, c’è una forte passione morale […] si riteneva opportuno nel quadro di una eventuale riforma istituzionale contemplante il riconoscimento giuridico dei partiti che, almeno nella prima fase del riassetto ai partiti fosse affidata in modo esclusivo la possibilità di pubblicare giornali quotidiani”. Sicanus (Gaetano Baldacci), La stampa e la responsabilità dei partiti, in «Lo Stato Moderno» a.1 n.2 agosto 1944. La polemica termina qui. Borsa sarà chiamato a scrivere di nuovo sul “Lo Stato Moderno” per commentare la situazione della stampa nel ‘48 occasione i cui lamenterà il decadimento sensazionalistico della stampa per la perpetua ricerca dell’effetto a scapito della dignità e della serietà dei giornalisti. In pratica si opporrà nuovamente alla “moda gialla messa in circolazione da americani ed inglesi” rinnovando le stesse critiche mosse alla stampa gialla londinese ai tempi della sua permanenza in Inghilterra, vale a dire l’eccesso di commercialismo e la mancanza di responsabilità professionale di alcuni giornali. Mario Borsa, Del nostro giornalismo, cit.
Alessandra De Nicola, Mario Borsa: biografia di un giornalista, Tesi di dottorato, Università degli studi della Tuscia - Viterbo, 2012

mercoledì 26 ottobre 2022

A Forlì si deve affrontare seriamente il problema della lotta partigiana in montagna

Primi giorni di novembre 1944. Meldola. Il Comandante Ilario Tabarri al centro. Fonte: Friuli Occidentale cit. infra

Di mio padre Ilario Tabarri so che, nei primi giorni del dicembre ’43, partecipa, a Forlì, a un incontro alla presenza di Dario (Ilio Barontini) responsabile del Comando regionale dei partigiani. Vengono prese delle decisioni pratiche: il Comando militare romagnolo diventa il Comando dei partigiani romagnoli con Orsi (Antonio Carini) comandante; un partigiano di Ravenna (Angelo Guerra) commissario politico; e che lui stesso, con il nome di battaglia Pietro Mauri, assume la funzione di organizzatore delle formazioni militari.
Dario fa applicare le direttive del Comando Generale delle formazioni partigiane, sulla base del programma del Comitato di Liberazione Nazionale, già riunitosi a Milano sotto la direzione di Luigi Longo. Direttive che danno le linee per organizzare i gruppi sorti spontaneamente in più parti d’Italia. I criteri sono rigidi e da rispettare: si rifanno alla guerriglia secondo la tradizione dei garibaldini del Risorgimento e delle Brigate Garibaldi in Spagna. Tra le prerogative di questi gruppi c’è che devono essere aperti a tutti i patrioti senza tener conto della loro fede politica o religiosa; la garanzia richiesta è quella di un provato antifascismo.
Le direttive dicono che i distaccamenti non devono avere più di 40 o 50 elementi articolati in 4 o 5 squadre di 2 nuclei di 5 uomini ciascuno. Devono estendersi su un vasto territorio, spostarsi continuamente, rendersi presenti dappertutto e rendersi inafferrabili perché principio essenziale è quello della mobilità, della sorpresa e dell’audacia. Devono giocare d’astuzia, cercare il nemico e tendergli agguati senza mai dare tregua. Devono attaccare solo in condizioni di vantaggio e sfuggire il combattimento se le forze nemiche sono superiori. Le direttive dicono anche che all’interno dei distaccamenti la disciplina deve avere il più ampio consenso, così come gli obiettivi della lotta, e questo richiede un’educazione politica adeguata, priva di settarismo e nel rispetto degli interessi della gente del posto e degli altri combattenti.
Accanto al Comandante del distaccamento ci deve essere il Commissario Politico che è colui che si occupa delle questioni politiche, umane e sociali. Più di altri a lui spetta curare e mantenere buoni rapporti con la popolazione, convincerla alla lotta comune, curare l’aspetto politico dei partigiani, spiegare cos’è il nazifascismo e che si sta combattendo per costruire una nuova società; è vietato compiere atti che possano danneggiare i civili, si devono evitare le requisizioni e al contadino va pagato tutto ciò che si compera.
Bruna Tabarri, Il comandante Pietro Mauri e l’8ª Brigata Garibaldi in Romagna, Friuli Occidentale. La storia, le storie

In maggio [1944], dopo i rastrellamenti, si riorganizza lʼ8.a Brigata Garibaldi romagnola. Ilario Tabarri (“Pietro”), comandante, e il riminese Guglielmo Marconi (“Paolo”), vice comandante, ricostituiscono la formazione selezionando gli uomini e ristrutturando tutto lʼapparato militare. Anche nella nostra zona si procede ad una forzata riorganizzazione delle varie formazioni partigiane, necessaria dopo gli arresti che da febbraio hanno scompaginato una parte dellʼattività patriottica. Celestino Giuliani uscirà dal carcere solo il 6 giugno (con la corruzione dei carcerieri da parte dei familiari, come lui stesso ricorderà); Innocenzo Monti ed un intero gruppo di patrioti riccionesi rimangono in carcere sino ai primi di luglio; uno dei più attivi gappisti, Silvio Cenci, cade in uno scontro a fuoco il 10 maggio; a fine maggio-inizio giugno è arrestato anche Decio Mercanti. Questi eventi hanno una ripercussione anche sullʼattività di alcuni gruppi antifascisti; ad esempio lʼincarcerazione di Giuseppe Babbi e di Rino Molari interrompe una delle principali centrali dellʼattività cattolica, unʼattività quasi solamente propagandista perdurando lʼastensione dalla resistenza attiva (e le riserve morali) da parte delle organizzazioni cattoliche. Giuliani e Arpesella, arrestati il 2 febbraio, i principali esponenti del partito dʼazione, in questo momento sono entrambi inattivi; Arpesella è stato liberato ai primi di aprile ma da allora si mantiene prudentemente in disparte. Alcuni repubblicani e socialisti continuano ad impegnarsi ma quasi a titolo personale non esistendo ancora in queste aree politiche delle vere strutture partitiche organizzate. Quello comunista è lʼunico partito veramente operante e solido nella sua struttura clandestina tanto da resistere a colpi come lʼarresto di Decio Mercanti, segretario della federazione. Malgrado questi disagi i mesi di maggio e giugno segnano lʼavvio di una fase importante per la Resistenza e lʼantifascismo romagnolo e riminese: si comincia a concretizzare un rapporto a lungo cercato con le masse contadine e con gli operai; riprendono le azioni sindacali e gli scioperi nelle fabbriche e nei cantieri; si moltiplicano le azioni militari, tanto che in questi due mesi nella provincia si registrano ben 61 azioni armate effettuate dai GAP, con un bilancio di 4 tedeschi e 4 fascisti uccisi, 4 aerei bruciati allʼaeroporto di Forlì, 14 autocarri danneggiati o distrutti, decine di linee telefoniche ed elettriche demolite e decine di interruzioni ferroviarie tra Cesena e Rimini con deragli di vagoni.
Maurizio Casadei, La Resistenza nel Riminese. Una cronologia ragionata, Istituto per la Storia della Resistenza e dell'Italia contemporanea della Provincia di Rimini, 2005

I confinati hanno saputo organizzare anche un efficiente organizzazione per la ricezione di notizie e per l’eventuale trasmissione di messaggi al di fuori dell’isola. La notizia della caduta di Mussolini quindi, il 25 luglio 1943, arriva anche a Ventotene <42 e viene festeggiata con gioia. A partire da quella data i prigionieri sono liberi, ma il 26 luglio il piccolo postale che collega l’isola alla terraferma è affondato da quattro aereosiluranti inglesi e ci vorranno ancora alcune settimane per andarsene.
Ilario è rilasciato il 10 di agosto 1943 e in base alle disposizioni ricevute, si dirige verso Cesena. Arriva a fine del mese e si mette subito a disposizione del Partito Comunista, che lo associa al comitato comunale  <43 e fa in modo di farlo assumere al lavoro presso l’Arrigoni, la fabbrica più importante della città, dove diviene membro del comitato di fabbrica. Dell’organizzazione locale del partito ha una cattiva impressione <44 e di lì a poco, ne ha conferma quando, alla notizia dell’armistizio <45, ci si trova impreparati al recupero delle armi abbandonate dai militari e necessarie ad un eventuale proseguimento della lotta. La Federazione provinciale del PCI non emana nessun ordine in proposito e le direzioni locali del partito non se la sentono di prendere un’iniziativa così importante senza ordini superiori. È così che Ilario, insieme ad altri compagni (fra cui Berto Alberti (Battaglia) anche lui ex volontario in Spagna), incomincia ad insistere con il comitato di Zona perché si esca velocemente da questo impasse e si incominci a prendere sul serio la situazione, soprattutto riguardo al problema della lotta armata.
A testimonianza della sua convinzione, il 10 settembre Ilario, in qualità di delegato del Partito Comunista all’interno del comitato di Fronte nazionale cesenate (FN) <46, propone di forzare la mano al comandante del presidio <47, per impegnarlo nella difesa armata della città. I rappresentanti degli altri partiti, dell’ULI <48 in particolare, affermano di averlo già contattato e di essere già stati rassicurati in proposito. In realtà, il comandante è in attesa di ordini e si limita a prendere tempo e al momento dell’ingresso dei tedeschi in città, i suoi uomini si daranno alla fuga.
Sfumata questa possibilità Ilario continua comunque il suo lavoro all’interno del FN, senza però smettere di sollecitare il Federale del partito sul problema lotta armata e sulla necessità di creare un organismo, interno al partito stesso, che se ne possa occupare adeguatamente. Dichiara anche apertamente, sia all’interno del FN, che al partito, i propri dubbi sull’efficacia del lavoro svolto dal FN, dove, secondo lui, si dà troppo credito agli ex militari <49 che vi prendono parte, i quali non hanno un’idea chiara del tipo di guerra che si dovrà combattere in montagna, né del tipo di organizzazione che questa comporti, per non parlare degli obiettivi.
A Cesena il FN cessa di funzionare già il 12 settembre, perché l’ULI, rifiutando di partecipare alla lotta armata, se ne tira fuori <50. Lo stesso, più o meno, accade anche nella altre località <51 della Romagna.
Il 13 settembre Ilario è nominato, dal Federale, responsabile militare per la zona di Cesena e di lì a poco è delegato dal comitato di Zona di Cesena per cercare, in montagna, una località adatta per creare una base partigiana. Un’altra base era già stata individuata per Forlì, nella zona di Monte Guffone, dove erano già stati inviati anche alcuni uomini e un’altra, ancora da trovare, era prevista per la zona di Rimini. Dal 30 settembre all’8 di ottobre, Ilario si reca in montagna per avere un quadro preciso della situazione e al suo ritorno, si decide per la costituzione di una base nella zona di Pieve di Rivoschio, dove viene distaccato il compagno Salvatore Auria (Giulio) <52, per prendere i primi contatti con la popolazione e preparare il luogo dove accogliere gli uomini. Al 20 ottobre alla base di Pieve di Rivoschio sono presenti venti partigiani, provenienti da Forlì, da Cesena e da Ravenna e alcuni inglesi e jugoslavi.
Ilario continua ad insistere presso la Federazione, che senza buoni quadri militari e soprattutto politici, è inutile pensare di organizzare una formazione partigiana e chiede che vengano inviate presso la base le persone giuste <53. Nel frattempo diviene membro della Federazione provinciale del PCI, dove riesce meglio a far sentire la propria voce. Alla fine di ottobre le cose sembrano cambiare con la venuta in Romagna di Antonio Carini (Orsi) <54, inviato da quello che, di lì a breve sarà noto come Comando generale delle Brigate Garibaldi <55, con lo scopo di creare un comitato militare indipendente dalla altre forze politiche <56 e che risulterà composto da: Antonio Carini (Orsi), Ilario Tabarri (Pietro Mauri), Luigi Fuschini (Savio) e Oddino Montanari (Lino) come commissario politico. Ilario è chiamato a farne parte come responsabile <57 e per lui, da questo momento, si tratterà di organizzare la resistenza in tutta la Romagna.
Tutto sembra ancora da fare: a Ravenna l’organizzazione militare che si è creata, a suo parere, non è adatta ad operare in quel territorio e per quanto possibile, va trasformata in Gap; a Forlì si deve affrontare seriamente il problema della lotta partigiana in montagna ed i Gap restano ancora da organizzare; a Rimini non è stato fatto ancora nulla.
In quegli stessi giorni i sedici uomini della base di Monte Guffone, organizzata dal PCI forlivese, sono attaccati di sorpresa e fortunatamente, pur dovendo abbandonare la gran parte del materiale, riescono a ritrarsi senza subire perdite. Quella di Pieve di Rivoschio resta l’unica base disponibile e assieme a quelli di Monte Guffone che non si sono sbandati, ora conta trenta uomini ed altri ne stanno per arrivare dalla pianura. Il problema urgente è quello di trovare un comandante affidabile, ma, a suo parere, non ci sono gli uomini adatti e i tentativi fatti nel frattempo per trovarne uno,  non hanno dato buoni risultati. Il 16 novembre anche Pieve di Rivoschio è attaccata dai tedeschi, che non vi trovano quasi nessuno <58 ed anche i pochi che sono rimasti riescono a sfuggire all’accerchiamento. Al comando resta Giulio, che non è in grado di coprire efficacemente un ruolo militare e ne è consapevole. Gli uomini, anche perché è siciliano, di lui non si fidano completamente. A questo si aggiungono le difficoltà con gli slavi, che non riescono a legare con gli altri e ad un certo punto, vengono allontanati dal gruppo. La situazione sta degenerando e se non si riesce ad individuare qualcuno capace di tenere in mano il gruppo, è destinata a peggiorare. A fine novembre Ilario si incontra a Forlì con Riccardo Fedel (Libero Riccardi) <59, che gli viene presentato come un ex capitano dell’esercito che ha combattuto in Jugoslavia e con esperienza di guerra partigiana, per aver combattuto con i partigiani jugoslavi e contro i tedeschi, in Veneto. Arrigo Boldrini (Bulow) <60, che lo ha conosciuto nell’esercito, sembra garantirne la serietà. Di lui si dice che è un compagno e che ha capacità militari e coraggio. Potrebbe essere la persona giusta. Ilario gli spiega chiaramente la situazione e le difficoltà che si troverà ad affrontare in montagna. Soprattutto la mancanza di quadri e la necessità di doverne formare immediatamente sul posto. Gli parla della presenza di Giulio, con cui dovrà collaborare e gli spiega chiaramente come si intende che vengano organizzati gli uomini e come si vuole che agiscano. Libero sembra comprendere i problemi che si dovrà trovare ad affrontare e l’impressione che Ilario ne ricava, dal punto di vista militare, è abbastanza buona. Politicamente però, per quanto l’altro affermi il contrario, si rende conto di non avere di fronte un vero “compagno”. In ogni caso, se affiancato da un commissario politico capace di tenergli testa, che non può essere Giulio, Libero potrebbe essere l’uomo giusto. Ilario espone queste sue considerazioni, alla presenza di Orsi, ad una riunione del Federale. La persona da mettere a fianco di Libero non si trova e il problema rimarrà insoluto ancora per diverso tempo. Il 1° dicembre Libero prende ufficialmente il comando dei partigiani romagnoli, a Pian del Grado. Alla stessa data il Comitato militare ha un incontro con Ilio Barontini (Dario) <61, funzionario inviato dal Comando generale delle Brigate Garibaldi, per metterlo al corrente della situazione della resistenza in Romagna. In quell’incontro il Comitato militare viene trasformato in Comando militare. Comando che viene affidato ad Orsi, che dal quel momento è l’effettivo comandante di tutte le forze partigiane presenti in Romagna. Ad Ilario viene assegnata la direzione dei Gap. La collaborazione tra Ilario ed Orsi resta comunque strettissima, perché il lavoro da svolgere in pianura in favore della nascente brigata partigiana: l’invio di uomini, armi e rifornimenti, è tutto svolto dai Gap.
[NOTE]
42  «Dopo l’occupazione tedesca della Francia, negli anni 1940-41 ed ancora nel 1942, giunsero a gruppi a Ventotene numerosi garibaldini di Spagna. Tra essi ricordiamo […] Ilario Tabarri […]. Essi diedero un efficace e concreto contributo alla nostra scuola militare» (PIETRO SECCHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943–1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Feltrinelli, Milano, 1973, p. 47).
43  Il comitato di Zona.
44  «Non si poteva avere una guida per giudicare l’entità dell’organizzazione dal numero dei suoi iscritti, tanto è vero che ad una riunione dei capi gruppo di un settore di Cesena campagna (ovest) uno che doveva essere capogruppo (erano cinque in tutto) non era membro del Partito e un altro disse che più che organizzazione di partito il gruppo che lui toccava si chiamava tale perché i suoi membri davano qualche cosa ogni tanto per le vittime politiche [...] Ciò dimostra una mancanza quasi assoluta di vita politica in cellule che avrebbero dovuto essere vivissime. A Cesena città non esistevano, ancora all’8 settembre, più di quattro o cinque gruppi di compagni» (Rapporto generale del comandante dell’8a brigata Romagna, Pietro Mauri, sull’attività militare in Romagna fino al 15 maggio 1944. In: Istituto storico provinciale della resistenza, Forlì, L’8a brigata Garibaldi nella Resistenza. Vol. 1, Milano, La Pietra, 1981, pp. 35-36).
45  8 settembre 1943.
46  Subito dopo l’8 settembre a Forlì, a Cesena e a Ravenna, si organizzarono dei Comitati di Fronte Nazionale (FN), di cui facevano parte principalmente esponenti del Partito comunista e dell’Unione dei lavoratori italiani (ULI), che, a quella data, erano le uniche forze organizzate. Con loro operarono, a livello personale, anche alcuni vecchi esponenti dei partiti locali, democratici, repubblicani e liberali. A livello interprovinciale (Forlì-Ravenna) la prima riunione di coordinamento del FN fu a Milano Marittima, il 13 settembre 1943.
47  Il colonnello del 27° fanteria Rolando Giacomo in quei giorni di estrema incertezza era in attesa di ordini e aspettandosi una proposta del genere, quando fu contattato da alcuni esponenti dell’ULI, li rassicurò affermando che, se fosse stato possibile, avrebbe provveduto lui stesso ad organizzare la difesa della città e altrimenti, avrebbe provveduto ad organizzare i suoi soldati per la resistenza in montagna. Sicuramente la prima di queste affermazioni non era vera, perché, forse conoscendo i tedeschi molto meglio dei rappresentanti del Fronte Nazionale di Cesena, era in grado di rendersi conto dell’assurdità della proposta che, se messa in atto, tenendo conto della rappresaglia tedesca, si sarebbe trasformata in una tragedia. Quindi, al contrario di quanto affermato, dispose per far allontanare i propri soldati al più presto, inviandoli, per quanto possibile, in località distanti dalla città. Se poi avesse voluto veramente organizzare una qualche forma di resistenza in montagna, non possiamo saperlo. Probabilmente no. La fuga in massa di tutti i suoi soldati nel giro di pochi giorni, lo tolse comunque dall’imbarazzo.
48  Vedi nota 46.
49  Fra cui il maggiore Giusto Tolloy.
50  «Il Fronte Nazionale ebbe vita breve. Un primo contrasto sorse quando all’interno del PCI vene a prevalere l’idea della guerriglia, che si poneva in contraddizione con l’impostazione proposta dall’Esecutivo [militare] e sostenuta dall’ULI. Apertamente ostile alla monarchia, l’ULI rifiutava la lotta armata in quanto allineamento sulla posizione degli Alleati che sostenevano la monarchia». (M. BALESTRA, [voce] Unione dei Lavoratori Italiani. In: Enciclopedia dell’antifascismo e della resistenza. Vol. VI (T-Z) e appendice, La Pietra; Walk Over, Milano, 1989, p. 215-216.)
51  «Di Forlì si sapeva [che alla fine di ottobre] tiravano avanti il sempre più defunto esecutivo militare del FN perdendosi in molte chiacchiere e credendo che fosse una vittoria (per diversi compagni dello stesso federale) il solo fatto di averlo mantenuto in vita anche quando bisognava dargli una spinta perché morisse prima» (Rapporto generale del comandante dell’8a brigata Romagna, Pietro Mauri, cit., p. 45).
52  Salvatore Auria, di Benedetto e di Nunzia Ribellino, nato a Sommatino (CL), il 18 ottobre 1916, residente a Sommatino, celibe, seconda classe elementare, falegname, comunista. Arrestato il 15 settembre 1936 perché accusato di aver creato una cellula comunista, i cui aderenti si riunivano nell’osteria gestita dal padre e nella sua bottega. Scoperta, la cellula di Sommatino i suoi aderenti, vengono arrestati il 6 settembre 1936. Salvatore si dà alla fuga ma è preso dopo pochi giorni e  arrestato. Il 29 dicembre 1936 è condannato a cinque anni di confino da scontare sull’Isola di San Nicola, nelle Tremiti. Dove è nuovamente condannato a due anni e quattro mesi di reclusione e a dieci mesi di arresto, per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, istigazione a delinquere e violazione degli obblighi di confino. È liberato il 22 agosto 1943 in seguito alla caduta del fascismo e non riuscendo a ritornare in Sicilia, raggiunge la Romagna insieme ad alcuni compagni di prigionia, fra cui Adamo Zanelli. Partigiano e commissario politico di quella che poi diverrà l’8a Brigata Garibaldi, con il nome di battaglia di Giulio, muore in combattimento il 21 aprile 1944, durante il grande rastrellamento tedesco che portò alla pressoché totale distruzione della Brigata.
53  «Almeno, dicevo, bisogna creare la testa e questa penserà anche a formare nuovi quadri sul posto. Era fin dall’inizio una questione senza risolvere la quale non si poteva avere in mente di organizzare saldi gruppi partigiani» (Rapporto generale del comandante dell’8a brigata Romagna, Pietro Mauri, cit., p. 44).
54  Antonio Carini nasce a San Nazzaro D'Ongina, in provincia di Piacenza. Di professione barcaiolo sul Po, sin da giovane aderisce al neonato Partito comunista. Nel 1924, dopo il servizio militare, emigra in Argentina, ove risulta inserito nella lista della polizia delle persone da sorvegliare quale sovversivo e comunista. Nel novembre 1936 si imbarca per partecipare come volontario alla guerra di Spagna. Tra il giugno 1937 e l'agosto1938, è ferito tre volte in combattimento. All'interno della Brigata Garibaldi assume incarichi di sempre maggiore rilievo, sino a diventare Commissario politico addetto all'intendenza dell'intera brigata, in occasione della difesa di Barcellona nel gennaio del 1939. Con lo scioglimento delle Brigate internazionali, nel mese di febbraio del 1939, è internato in Francia fino al 9 aprile 1941, quando su sua richiesta viene tradotto in Italia dove è condannato al confino politico, da scontare a Ventotene. Nell’agosto del 1943 Carini è già a Piacenza, per riorganizzarvi il Partito comunista. Dopo l’8 settembre entra nella resistenza con incarichi di alta rilevanza politica, diventando con Luigi Longo, Pietro Secchia, Gian Carlo Pajetta e Giorgio Amendola, uno dei cinque membri del Comando generale delle Brigate Garibaldi. Assunto il nome di Orsi viene designato, ad occuparsi dell’organizzazione delle formazioni partigiane (con il ruolo di ispettore) ed inviato nel gennaio 1944 in Romagna, con lo scopo di coordinare l’organizzazione della resistenza nelle province di Ravenna, Forlì e Rimini. Giunto in Romagna, su sua proposta, viene costituito un Comitato militare con la partecipazione sua, di Ilario Tabarri (Pietro Mauri), Luigi Fuschini (Savio) e Oddino Montanari (Lino). Nei primi due mesi del 1944 si reca in due occasioni in ispezione presso la brigata partigiana operante nell’Appennino romagnolo, comandata di Riccardo Fedel (Libero). Durante il viaggio di ritorno da quest'ultima missione, il 9 marzo 1944, è catturato da militi della Repubblica Sociale Italiana nei pressi di Teodorano e rinchiuso nella Rocca delle Caminate dove, per quattro giorni, è sottoposto ad atroci torture. Tradotto a Meldola, viene finito a pugnalate e sfigurato a colpi di pietra, per poi essere gettato nel fiume Bidente.
55  La prima struttura organizzativa unificata, relativa alla lotta armata, facente capo al Partito comunista è il Comando generale delle Brigate Garibaldi, che si costituirà ufficialmente a Milano nel novembre 1943, con Luigi Longo come responsabile militare e Pietro Secchia come commissario politico. Con loro i componenti iniziali del comando furono Antonio Roasio, Francesco Scotti, Umberto Massola, Antonio Cicalini e Antonio Carini.
56  Comitato militare romagnolo.
57  Resterà tale sino al marzo 1944, mentre «Orsi, rimase in Romagna fino ai primi di dicembre come funzionario al di sopra del Comitato militare» (Rapporto generale del comandante dell’8a brigata Romagna, Pietro Mauri, cit., p. 46).
58  Gli uomini, una quarantina, divisi in quattro squadre, erano stati inviati in azione in zone abbastanza distanti dalla base: il Passo del Carnaio e la strada nazionale Cesena-Casentino.
59  Riccardo Giovanni Battista Fedel (Libero Riccardi), nasce a Gorizia il 23 agosto 1906, da una famiglia di origini alto-borghesi. Alla fine del 1920, ancora tredicenne, si iscrive ai Fasci italiani di combattimento di Mestre cui resta iscritto fino al 1923 quando, a 17 anni, cambia idee politiche diventando comunista. Lo stesso anno si arruola volontario nel Regio Esercito e frequenta la scuola allievi sottufficiali a Modena diventando sergente. Scoperto il suo tentativo di sottrarre armi dalla caserma di Ravenna in cui presta servizio, è congedato nel dicembre 1925. Tornato a Mestre, come sospetto sovversivo e "pericoloso comunista", è arrestato dalla polizia politica veneziana con l'accusa di porto abusivo d’arma e condannato a 6 mesi di carcere. Nel frattempo, denunciato per complicità nel primo attentato a Mussolini (4 novembre 1925) è poi prosciolto e liberato. Arrestato nuovamente nell’ottobre del 1926, perché considerato elemento capace di organizzare attentati contro il duce, è condannato a 3 anni di confino. Che sconta prima a Pantelleria dal 22 novembre 1926 al 16 marzo 1927 e poi a Ustica, dove, da alcuni prigionieri, è descritto come una spia. Il 9 ottobre 1927 è rilasciato: per le sue precarie condizioni di salute e in cambio di una falsa testimonianza ad un processo, in cui sono implicati Amedeo Bordiga e altri confinati, accusati di aver tentato di organizzare una rivolta. Tornato in Veneto, in attesa di testimoniare al suddetto processo è "assunto" come confidente della Milizia per la sicurezza nazionale (MVSN) e inviato in servizio a Gorizia. Dimostrandosi non collaborativo viene licenziato dalla MVSN ma a Mestre continua a spacciarsi per agente della Milizia e sotto questa copertura riesce a stampare e a distribuire, a Pordenone, dei manifesti che inneggiano allo sciopero degli operai tessili ed al Partito comunista. Azione che scatena una dura reazione fascista. Considerato un agente comunista che tenta di infiltrarsi nella MVSN, è nuovamente condannato al confino, come "comunista pericolosissimo", per altri tre anni. Inviato a Potenza, fugge, dopo sei mesi, per raggiungere la moglie, che ha dato alla luce il suo primo figlio. Catturato a Sala Consilina è condannato ad altri 14 mesi di carcere da scontare ad Avellino, quindi è trasferito alle isole Tremiti, ove rimane sino al 30 settembre 1931. Tornato in Veneto come sorvegliato, sconta altri sei mesi a Brescia, per contraffazione di documenti. Nel 1940, con l'entrata in guerra dell'Italia, torna nuovamente all’attività politica, come animatore di un gruppo di propaganda antifascista che opera nelle fabbriche e nelle caserme, tra Mestre, Padova e Treviso. Nel 1941 è richiamato alle armi e nel 1942 parte per il Montenegro destinato al 120° Rgt. fanteria della Divisione Emilia. Ad Herceg Novi, alle Bocche di Cattaro, conosce il tenente Arrigo Boldrini (Bulow). Dopo l’8 settembre è segnalato a Ravenna dove prende contatto con Boldrini, già attivo nell’organizzazione della resistenza e viene presentato al Comitato militare del PCI romagnolo, come possibile comandante della costituenda brigata partigiana.
60  Boldrini conobbe Fedel alle Bocche di Cattaro, dove, insieme, prestavano servizio nel 120° Reggimento di fanteria della Divisione Emilia, dove Boldrini, come tenente di complemento, comandava la compagnia reggimentale.
61  Ilio Barontini (Dario) diverrà poi il comandante del CUMER (Comando Unificato Militare dell’Emilia-Romagna), braccio militare del CLN Alta Italia e comando di tutte le formazioni partigiane della Regione, che si costituirà ufficialmente il 9 giugno 1944, con centro operativo a Bologna.

Maurizio Balestra, Ilario Tabarri (Pietro Mauri). Comandante dell'8a Brigata Garibaldi "Romagna", Academia.edu

giovedì 20 ottobre 2022

Il controllo del ricostituito SIM fu, per la massima parte, in mano inglese


L'OSS nacque nell'estate del '42 dalla "preveggenza" del colonnello e poi generale William J. Donovan, suo creatore e direttore, al quale Roosevelt affidò l'incarico di colmare la grave falla nei servizi americani d'intelligence emersa all'indomani del disastro di Pearl Harbour del 7 dicembre 1941. A differenza del britannico Special Operations Executive (d'ora in poi SOE), che era incardinato nel Minister of Economic War (MEW), l'OSS era strutturato come un superdipartimento di Stato attrezzato per la guerra, ma, a differenza del suo predecessore il Coordinator of Information (COI), non costituì mai un vero e proprio corpo separato e autonomo rispetto al potere governativo, avendo l'obbligo di referto allo Joint Chiefs of Staff (JCS), l'organo supremo di controllo militare e, pertanto, essendo sottoposto a supervisori militari. L'OSS, a differenza dell'omologo SOE, che aveva eminentemente funzioni di operazioni speciali, era suddiviso in varie branches con funzioni differenti delle quali, in questa sede, si rammentano alcune tra le più importanti: Secret Intelligence Branch (SI), con funzioni di raccolta di informazioni segrete; Morale Operations Branch (MO), con compiti di propaganda e cioè "creare confusione e divisione tra i nemici e influenzare il loro morale"; Special Operations Branch (SO), incaricata di operazioni di sabotaggio, collegamento con gruppi clandestini all'estero, finanziamento e assistenza dei movimenti eversivi e/o politici funzionali agli obiettivi della politica americana; X-2 Branch, con funzioni di controspionaggio e infiltrazione nelle organizzazioni dei servizi segreti nemici. All'interno dei servizi segreti statunitensi, operava, altresì, una divisione composta di militari addestrati allo scopo di instaurare collegamenti con i gruppi di partigiani resistenti nell'Italia occupata dal nemico: gli Operational Groups (OG).
[...] La costituzione della Sezione italiana e albanese del SI dell'OSS, nel luglio 1942, fu affidata a Earl Brennan, il quale si avvalse, all'uopo, della collaborazione degli italo-americani di origine siciliana, avvocato Vincent Scamporino e maggiore Max Corvo, i quali, mentre si stava preparando l'operazione Torch, cioè l'invasione congiunta dell'Africa settentrionale da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti dell'8 novembre 1942, posero in atto una vasta rete di reclutamenti, attingendo tra riconosciuti esponenti dell'antifascismo italiano in America, in vista dell'organizzazione ed esecuzione di un piano d'infiltrazione in Sicilia che avrebbe segnato l'avvio della "campagna d'Italia".
Come sarà reso evidente nei capitoli successivi e, in particolare, nel terzo, la politica dei reclutamenti dell'OSS costituì un profilo di notevole criticità in quanto, mentre i dirigenti furono, in generale, reclutati nei più alti ranghi della società americana, al contrario, gli agenti operativi e gli ufficiali di collegamento con la Resistenza, furono spesso scelti in ossequio al principio della necessità militare e secondo criteri che non avevano in alcuna considerazione il possesso di competenze specifiche, la fede politica ovvero la conoscenza del territorio e, talora, della lingua locale, mentre si privilegiarono altri requisiti quali la brillante sagacia, la spericolatezza, l'audacia, il coraggio dell'azione aggressiva. Il SOE fu, invece, più oculato nella selezione del personale che, in generale, fu dotato di maggiore professionalità: gli italiani furono relativamente pochi; suoi numerosi membri furono esperti conoscitori della realtà italiana ed ebbero collegamenti che si rivelarono utili. Inoltre, vari esponenti dell'antifascismo e, in particolare, del CLNAI, ebbero con essi e, talora, con lo stesso SOE rapporti personali: tipico fu l'esempio di Leo Valiani, esponente azionista di spicco <9.
Collegata all'OSS in Italia, fu l'Organizzazione per la Resistenza Italiana (ORI), costituita al Sud nel novembre 1943, in area azionista, che stabilì contatti al Nord, soprattutto con gruppi e ambienti della Resistenza dello stesso orientamento politico <10. Al SOE fu, invece, collegata la "Franchi", organizzazione creata per iniziativa di Edgardo Sogno, nome in codice "Franchi", ufficiale dell'esercito italiano che, dopo l'8 settembre, collaborò con i servizi segreti inglesi. Quest'ultima, a differenza della prima, ebbe carattere eminentemente attivistico e di formazione militare autonoma con funzioni, oltre che di lotta attiva, di coordinamento, in un sistema centralizzato, delle stazioni radio e del personale delle varie missioni e organizzazione di aviolanci e sabotaggio <11. Controverso fu, invece, il rapporto dell'OSS con il ricostituito Servizio Informazioni Militari (d'ora in poi SIM) del Regno d'Italia, il cui ruolo, come rilevò De Felice, è stato sino a oggi, se non ignorato, di certo troppo sottovalutato. Ottenuta l'autorizzazione degli Alleati nell'ottobre '43, il Governo Badoglio e il Comando Supremo, una volta insediatisi a Brindisi, ricostituirono il SIM, la cui prima sezione, diretta dal colonnello Pompeo Agrifoglio, fu investita della funzione di collegamento con il nascente Movimento partigiano. La collaborazione con i servizi segreti alleati, soprattutto inglesi, fu limitata, tuttavia, ad alcuni specifici settori e, in particolare, a quelli della raccolta d'informazioni oltre la linea del fronte nemico e del trattamento dei partigiani nelle zone via via liberate.
Quanto alle attività di rifornimento alle formazioni partigiane, invece, il SOE fece ben presto sapere non solo di non disporre di "un'organizzazione adatta che potesse far fronte alle necessità derivanti dai bisogni di una presunta (…) guerriglia (…) ma [di non avere] intenzione, né interesse di armare in Italia un esercito"e, al più, si proclamò disponibile a effettuare qualche operazione di "aviorifornimento di materiale (…) soprattutto per qualcuno dei nuclei più decisi e operanti nei settori che maggiormente potevano interessare la loro specifica attività <12. Entro questi limiti, dunque, il SIM, soprattutto in collaborazione con il SOE, dall'ottobre 1943 all'aprile 1945, poté inviare, oltre le linee nemiche, missioni speciali, alcune italiane e altre miste, e, dal gennaio 1944 all'aprile 1945, tonnellate di rifornimenti.
I rapporti con l'OSS, invece, come si evidenzierà in particolare nel capitolo quinto, non furono sempre cristallini e, soprattutto, agevolmente definibili, a causa dell'eterogeneità degli orientamenti politici intestini all'OSS. Infatti, mentre alcuni agenti dell'OSS, quali il capitano André Bourgoin, arruolato da Donald Downes a Tangeri per il distaccamento dell'OSS presso la V Armata, privilegiarono l'azione coordinata con i servizi segreti italiani, altri ufficiali, quali l'agente del SI, Peter Tompkins, strinsero rapporti preferibilmente con l'area della Resistenza di fede comunista e socialista, mantenendo le distanze rispetto all'antifascismo di chiara fede monarchica e nutrendo dubbi sulla stessa utilità di qualsivoglia collegamento dei servizi segreti americani con quelli italiani. Ciò ovviamente, alimentò contrasti all'interno dello stesso OSS, che si ripercossero anche sul buon esito delle missioni lanciate nell'Italia occupata e, in definitiva, sulla stessa congruenza dei rapporti stilati dai suoi agenti sul campo. In ogni caso, a prescindere dalle divergenze di giudizi intestine all'OSS, è un fatto, riconosciuto anche dal SI, che il controllo del ricostituito SIM fu, per la massima parte, in mano inglese <13.
[NOTE]
9 Sulla natura dei rapporti tra Leo Valiani e i servizi segreti inglesi, a tutt'oggi non chiara, si confronti il recente lavoro di Mauro Canali, Leo Valiani e Max Salvadori, I servizi segreti inglesi e la Resistenza, in "Nuova Storia Contemporanea", n. 3 del 2010.
10 Raimondo Craveri, La campagna d'Italia e i servizi segreti. La storia dell'ORI. (1943-1945), La Pietra, Milano 1980.
11 Si cfr., a tal proposito, E. Sogno, L'organizzazione Franchi, il Mulino, Bologna, 1997.
12 Relazione del SIM al Comando Supremo in data 25 luglio 1944 sull'attività svolta dal 1° ottobre 1943 al 30 giugno 1944 "per organizzare il movimento di resistenza nell'Italia occupata" citata in R. De Felice, Mussolini l'Alleato, II, La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997, nt. 2, pp. 204 e 205.
13 A tal fine, è illuminante un lucido memorandum inviato dal responsabile della sezione italiana del SI, Vincent Scamporino, al suo diretto superiore Earl Brennan, sul significato dei rapporti con il SIM, per la cui trattazione si rinvia al capitolo quinto del presente lavoro.
14 Già Renzo De Felice segnalava l'assenza di uno studio scientifico sull'attività sia dell'OSS sia del SOE in Italia in Mussolini l'Alleato, II, La guerra civile 1943-1945 cit., nt. 2, p. 208. Informazioni utili e testimonianze dei protagonisti sono reperibili in varie opere, tra le quali si possono ricordare: M. Corvo, La campagna d'Italia dei Servizi Segreti Americani (1942-1945), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2006; A. Dulles, La resa segreta, Garzanti, Milano 1967; M. Fini e R. Faenza, Gli Americani in Italia, Feltrinelli, Milano 1976; A. Icardi, American Master Spy, University Books, New York 1956; J. Jakub, Spies and saboteurs, Anglo American collaboration and Rivalry in human intelligence collection and special operations, 1943-1945, Macmillan-St Martin's Press, London-New York 1996; H. Macmillan, War Diaries. Politics and war in the Mediterranean 1943-1945, Macmillan, London 1984; trad. it. Diari di Guerra. Il Mediterraneo 1943-1945, il Mulino, Bologna 1987; L. Mercuri (a cura di), Intelligence, Propaganda missioni e operazioni speciali degli Alleati in Italia, S.I., Roma 1980; G. Petracchi, "Intelligence" americana e partigiani sulla linea gotica. I documenti segreti dell'OSS, II Ed. Bastogi, Foggia, 1992;
E. Sogno, Guerra senza bandiera, il Mulino, Bologna 1995; P. Tompkins, L'altra Resistenza, Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, il Saggiatore, Milano 2005
Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012 

venerdì 14 ottobre 2022

Per alcune donne l’integrazione in Belgio si rivela quasi impossibile


Studiare le origini e lo sviluppo della comunità italiana in Belgio permette di guardare a fondo, con curiosità, ad un fenomeno migratorio dalle caratteristiche peculiari, il cui percorso, nella sua particolarità, si presta a utili comparazioni con le migrazioni operaie europee del secondo dopoguerra. <1
L’emigrazione italiana in Belgio s’inserisce in un contesto storico più ampio, quello della ripresa economica europea dopo la seconda guerra mondiale, e permette di approfondire i meccanismi della ripresa economica italiana, che caratterizzarono il periodo tra il 1945 e il 1970. Sono gli anni del rilancio economico del Belgio e delle strategie migratorie attuate in collaborazione tra i due Paesi, preoccupati di guidare la risalita delle economie nazionali. La firma degli accordi bilaterali (giugno del 1946) rappresenta quindi il punto d’origine di un movimento migratorio che ha permesso agli italiani di compiere un lungo percorso, con strategie proprie di sopravvivenza e integrazione, che hanno favorito la creazione di comunità con caratteristiche culturali proprie. L’evoluzione di queste comunità, che avviene contemporaneamente alla ripresa belga e al boom economico italiano, si confronta con questi cambiamenti macroeconomici ma non ne è totalmente dipendente, anzi mantiene negli anni una propria identità, come accade nelle ricostruzioni storiografiche dei percorsi migratori.
[...] Per alcune donne l’integrazione si rivela quasi impossibile. L’impatto negativo avuto con la cultura e le abitudini belghe, creano in alcune di loro dei pregiudizi che condizionano l’interno periodo migratorio e la loro capacità di ricrearsi una propria vita e un’identità serena:
"Penso che mio papà era molto più facile ad integrarsi che mia mamma aveva più delle aperture della società belga di mia mamma, mia mamma ha lavorato in una ditta di vetro, mi ricordo che mi parlava di una sola amica belga. Penso che ha smesso quando io avevo tre anni, quando siamo venuti a Bruxelles, poi sempre la casalinga. È vero che mia mamma non è che era refrattaria contro i belgi, ma lei ha vissuto, il viaggio da l'Italia a qui, mi raccontava anche in maniera buffa che quando era arrivata qui i belgi no erano tutti mescolati erano tutti tirati con la brillantina, tutti bianchi è lei disse vedendoli che non si sarebbe mai sposata qui". <126
La stabilizzazione delle famiglie attiva e velocizza le catene migratorie. Le strutture familiari degli italiani emigrati rispondono a logiche tipiche dei gruppi emigranti: si tratta di famiglie numerose, dall’organizzazione complessa, in quanto interi paesi con il tempo si trasferiscono da una nazione all’altra e quindi, per facilitare l’arrivo dei compaesani, molteplici gruppi familiari si fondono tra di loro e convivono nella stessa abitazione, per diminuire le spese e garantire maggiore velocità di inserimento:
"I primi tempi mia moglie si trovava male ma poi ci è stato che avevano bisogno tanto di manodopera e il console di Mons mi ha fatto una carta che avevo bisogno di un alloggio. Oggi di case vuote ce ne è tante ma prima… allora con questa carta che mi ha fatto, mia moglie ha fatto venire due fratelli, poi il terzo, poi la madre e il padre che sono morti qui vent’anni fa, erano anziani". <127
Le difficoltà a integrarsi sono comuni a uomini e donne, ma spesso quest’ultime non possono contare sull’aiuto e sulla solidarietà dei mariti. La solitudine, causata da una difficoltà coniugale e dalla distanza dei familiari, è spesso alla base delle crisi delle nuove coppie che in diversi casi porta le donne emigrate a vivere periodi di depressione. Per questo motivo, nei racconti femminili la narrazione della loro esperienza migratoria mette in luce la capacità dimostrata di superare le difficoltà emotive grazie alla propria realizzazione economica, che permette loro di mostrare alla famiglia di appartenenza la validità della loro scelta, e la conseguente realizzazione lavorativa dei propri figli.
"Io sono stata anche male, dopo undici anni ho avuto una grande depressione. Lui non ne voleva sapere di rientrare e voleva che andassi io. Ma io gli ho detto: «se ora mi mandi in Italia non torno più». Allora lui «fai un po’ come vuoi». Ma non voleva che me ne andavo. Io sono stata male tanti anni, ma poi, poco alla volta, è passato. […] E allora non mi son rimessa bene, con due figli come facevo? La famiglia è lontana e stavo male. Ma anche la tristezza. Sai gli uomini era un po’ più aiutati perché lavoravano in miniera quindi uscivano si vedevano con gli altri, parlavano. Noi donne invece a casa. Ogni tanto c’era qualche amica ma non c’era la famiglia. Poi noi eravamo cinque figli, quattro femmine e un maschio, ci piaceva andare a trovare i genitori. Ringrazio che mio marito guadagnava benino e potevamo tornare tutti gli anni". <128
Le donne hanno anche il compito di gestire gli spazi, amministrare la casa, permettere il mantenimento delle catene migratorie. L’apertura della propria casa ai parenti è conveniente perché aumenta il numero di membri della famiglia portatori di reddito, ma spesso è anche una scelta obbligata, pena l’esclusione dalle nuove comunità. Di conseguenza, diversi italiani vivono in condizioni precarie per moltissimi anni, proprio in virtù di quella rete di solidarietà impossibile da recidere:
"Nove anni dopo che sono arrivato è voluto venire mio fratello, che era più giovane di me, che era fidanzato con la sorella di mia moglie. Ha fatto come me, il matrimonio. Quando sono andato a prenderli in macchina (io avevo la macchina in Belgio dal 1958) mi ha detto «posso stare con te una settimana o due, fintanto che non ho trovato un buchetto?». E ci è stato diciassette anni". <129
Il lavoro extradomestico è piuttosto comune tra le donne emigrate. La scelta di andare a lavorare risponde a diverse necessità, principalmente di natura economica: un secondo reddito permette alle famiglie di guadagnare più velocemente la cifra che permetterebbe loro di rientrare in Italia. Molte donne quindi, in accordo con il marito, decidono di andare a lavorare anche per velocizzare l’integrazione e per imparare più velocemente la lingua:
"Il mio primo ricordo del Belgio è un po’ triste. Triste il Belgio, triste io perché avevo lasciato tutto: amici, famiglia a tutto. E poi anche come accoglienza, che la gente è più fredda. Il lavoro l’ho trovato leggendo nei giornali. L’ho voluto perché stando sola a casa diventavo pazza. Non conoscendo la lingua. Cucivo. Facevo la sarta. Sono stata in una fabbrica di amici e ho lavorato là. Non avevo amici in Belgio perché siccome mio marito andava e tornava da Mons non aveva tanti amici a Bruxelles. Dunque gli amici me li sono fatti dopo, piano piano. Ho imparato il francese parlando con gli altri e con la televisione. Scuola niente". <130
Non tutte le donne però possono contare su mariti di mentalità aperta, in grado di riconoscere l’utilità di un doppio reddito. Alcune di loro quindi devono iniziare a lavorare di nascosto, per migliorare le condizioni economiche della famiglia senza turbare l’equilibrio di coppia:
"Abbiamo testimonianze di donne che andavano a lavorare di nascosto dal marito. Appena il marito andava a lavorare otto ore in miniera loro andavano a lavorare quattro ore, e facevano tutti i servizi di fretta per non fare vedere che erano state a lavorare. C’erano mariti che prima di partire gettavano farina nell’alloggio per vedere se le donne erano state in casa a pulire". <131
Questo atteggiamento maschile è dovuto a diversi fattori, primo tra tutti un background culturale per il quale il lavoro femminile esporrebbe le donne ad ambienti promiscui, minando la loro integrità. Nelle interviste raccolte, diversi minatori abbinano la crisi economica all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Per loro la partecipazione femminile all’economia avrebbe sconvolto il sistema economico e culturale che ha permesso loro di riscattarsi socialmente:
"Ai tempi miei la donna non lavorava, e sono qui lo stesso. Era così, la donna non lavorava. Io aveva un figlio quando sono venuto qui, e adesso ce ne ho tre! Uno stipendio bastava. Ora la donna lavora e due stipendi non bastano proprio". <132
Tra gli italiani emigrati è diffusa la convinzione che fare collaborare la donna alla creazione del reddito sia sentore di un fallimento del capofamiglia, incapace da solo di tenere conto di tutte le necessità familiari, per cui un attentato alla sua virilità:
"Il marito non ha voluto mandarmi a lavorare, perché mi dice «io ho preso una donna per servirmi». Che fatica! Poi lavavo le robe di mio marito due volte alla settimana al massimo, mi sono ritrovata da sola con sei figli e lui lavorava sempre. Mio marito non c’era mai. A casa dormiva, anzi lavorava la notte ed io ero sempre da sola". <133
La necessità di fare collaborare le donne all’economia domestica aumenta in proporzione all’aumento di casi d’invalidità tra gli ex- minatori. L’altissimo numero di italiani che contrae la silicosi ed è quindi costretto ad abbandonare il lavoro fa sì che in molte famiglie il reddito femminile diventi quello principale, causando in alcuni casi il capovolgimento dei ruoli all’interno delle famiglie:
"Dopo il quarto figlio, che ci ha portato fortuna, mi sono messa a lavorare io. Andai come femme d’ourage [donna delle pulizie] al Palais des beaux arts a Charleroi. Dovevo lavare per terra, i vetri, tutto. Cominciai dopo tre mesi che era nato il bambino e ci rimasi tre anni. Mio marito era uscito dal sanatorio e guardava i bambini che erano malaticci, mentre io andavo a lavorare". <134
Il Belgio ha un sistema assistenziale che prevede che la mutua paghi una percentuale di invalidità, ma la trafila per il riconoscimento di quest’ultima è complessa e le società carbonifere tendono, quando possono, a minimizzare le piccole invalidità che ricadono su di loro. Si aggiunga il fatto che la silicosi, causa della maggior parte delle invalidità, verrà riconosciuta solo nel 1974, quando ormai le miniere sono quasi tutte dismesse:
"Tutte le donne italiane conoscono Binche. Ma per un altro motivo. Ci sono molte fabbriche di confections masculines [vestiti per uomo]. Anche mia madre ci andava. Incominciò quando io avevo già 15 anni e mio papà era andato in pensione, perché, come tutti i minatori aveva preso la silicosi. Un minimo per fortuna. Lei si alzava molto presto la mattina, alle cinque, per trovarsi sul lavoro alle sette. Il treno lo aveva alle sei meno un quarto. Tornava a casa verso le cinque e mezza. Prendeva cinque o seicento franchi, le paghe di anni e anni addietro. Ma non si lamentava mai". <135
Oltre che nei casi di invalidità di un componente della famiglia, la scelta delle donne di lavorare è ben accetta soprattutto quando a lavorare è una donna ancora nubile, che rappresenta per la famiglia di accoglienza un peso economico completamente a loro carico:
"Dopo due giorni mi sono messa a lavorare. Guadagnavo quattordici franchi all’ora (oggi ci compri solo una pagnotta di pane!). Era una smacchierai dove portavano tutti i robi a lavare. Guadagnavo 500 franchi la settimana e ce ne davo duecento a mia sorella per mangiare. Per mi comprare il primo capotto ho lavorato otto settimane. Parlavo con li gesti delle mani, prima; ma tre mesi che ero qua, sapevo già parlare". <136
La maggior parte delle donne cerca lavori part-time, che permettono di conciliare la cura domestica con gli impegni lavorativi. Questo numero sempre maggiore di donne lavoratrici fa sì che i figli degli emigrati facciano presto i conti con la propria indipendenza. Già a otto, nove anni, i bambini sono considerati adulti e in grado di badare a se stessi. Per alcuni di loro, episodi dell’infanzia rimangono impressi nella memoria proprio per il loro carattere di “responsabilità”:
"La mia prima casa in Belgio non era una bella casa, i sanitari erano fuori, erano in comune, mi ricordo benissimo. C’era una scala di legno bruttissima, dormivamo con mio fratello insieme in una stanza piccolina. C’era una stufa a legna per riscaldarci. Quando tornavamo da scuola bisognava accenderla, perché mio papà lavorava e all’ultimo anche mia mamma e a casa non c’era nessuno. Erano sacrifici perché eravamo piccoli, io ero più grande ma sempre una ragazzina diciamo. Poi mi ricordo che per lavare, la lavatrice a mano. Si faceva in una specie di cosa che giravi e poi si sciacquava a mano, l’acqua la dovevi buttare tu. Era triste, non c’erano comodità". <137
Con l’aumentare degli italiani emigrati le possibilità di lavoro per le donne si moltiplicano. E sono proprio le donne per prime a inserirsi nei commerci, anticipando gli uomini. Molti italiani presenti in Belgio da prima della guerra, approfittano della loro conoscenza degli usi italiani per fornire alloggi a basso costo concorrenziali a quelli belgi. All’interno dei siti minerari, la gestione delle cantine e degli alloggi per i minatori soli è quasi esclusivamente femminile: «facevano da mangiare per quindici minatori, cambiavano le lenzuola, lavavano i panni. Erano loro a fare questi lavori. Ed erano lavori che rendevano uno stipendio». <138
[NOTE]
1 Si fa riferimento alle analisi presentate nel volume Partenze curato da Pietro Bevilacqua, che attribuisce alla migrazione italiana in Belgio la peculiarità di avere creato una comunità stanziale, realtà differente dalle altre migrazioni europee. In Romero F., L’emigrazione operaia in Europa (1948-1973) in: Bevilacqua P. [et. al.], Partenze, Donzelli, Roma 1999.
126 Daniela Aprioretti, Bruxelles, 2012.
127 Giuseppe Di Trapani, Bois du Luc, 2010.
128 Maria Ciacci, Bois du Cazier, 2012.
129 Urbano Ciacci, Bois du Cazier, 2012.
130 Giuseppa Falzone, «Mémoires d’Europe», Liegi.
131 Anna Morelli, Bruxelles, 2010.
132 Antonio Riso, Morlanwelz, 2012.
133 Cleonide, Houden Gigny, 2012.
134 Schiavo M, Le italiane raccontano, cit., p. 140.
135 Ibidem, p. 187.
136 Schiavo M., Le italiane raccontano, p. 183.
137 Giuseppina Alba, «Mémoires d’Europe» Liegi 2002.
138 Anna Morelli, Bruxelles, 2010.
Chiara Milazzo, "Io il Belgio lo bacio due volte". Memorie di minatori emigrati (1946-1984), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Catania, Anno Accademico 2012/2013

martedì 11 ottobre 2022

Più consistenti furono i contatti del Soe col Partito d’Azione a ridosso del 25 luglio


In piena guerra venne creata, dalla fusione di tre preesistenti organismi che si occupavano della sicurezza nazionale, una branca di intelligence britannico, denominata Special operations executive (SOE), cui venne affidato il compito di gestire le covert operations e dirigere i movimenti di resistenza armata nei territori occupati dai tedeschi.
Anche all’Italia questo organismo riservò una grande attenzione e cercò di stabilire contatti con quasi tutti i settori dell’opposizione al regime, dall’antifascismo azionista sino alla fronda istituzionale.
Il ruolo svolto dai servizi segreti inglesi per la destabilizzazione del regime fascista e i rapporti stabiliti con ambienti della Resistenza in Italia sono stati oggetto, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, in coincidenza con l’apertura degli archivi inglesi, di numerosi e rigorosi studi, ma anche, purtroppo, di servizi giornalistici semplicistici, fondati sull’utilizzazione acritica di documenti spesso di seconda mano. Ai lavori di Massimo De Leonardis su La Gran Bretagna e la Resistenza Partigiana in Italia (Elsevier, 1988), di Tommaso Piffer su Gli Alleati e la Resistenza italiana (Il Mulino, 2010), di Mauro Canali su Leo Valiani e Max Salvadori. I servizi segreti inglesi e la Resistenza (Nuova Storia Contemporanea, 2010) si aggiunge ora un importante volume di Mireno Berrettini, dal titolo La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano. Diplomazia clandestina, intelligence, operazioni speciali (Le Lettere) in libreria a fine mese. Si tratta della prima parte di una meticolosa ricerca sulla politica della Gran Bretagna nei confronti della resistenza partigiana in Italia fino al 1945, effettuata da uno studioso che ha setacciato gli archivi inglesi e quelli italiani con un rigore metodologico e una intelligenza critica che gli hanno consentito di evitare il rischio di semplificazioni e generalizzazioni.
Uno dei risultati più significativi del lavoro sta nell’aver colto l’esistenza di una pluralità di linee politiche e di approcci strategici nei confronti dell’antifascismo italiano all’interno dei vari organismi di intelligence e di altri settori dell’amministrazione britannica. Le posizioni, per esempio, di Baker Street (cioè dello Special operations executive) e quelle del Foreign office erano spesso divergenti e alcune iniziative, studiate o sponsorizzate all’interno dell’una o dell’altra struttura, erano addirittura ascrivibili all’attivismo individuale e circoscritto di alcuni funzionari.
Vi era, poi, in linea generale, una valutazione profondamente diversa da parte di Baker Street e del Foreign office nei confronti dell’atteggiamento da riservare all’Italia. Lo Special Operation Service, in realtà, aveva cominciato a interessarsi in maniera davvero concreta dell’Italia (anche se erano state coltivate da tempo, senza grandi successi, relazioni con il fuoruscitismo negli Stati Uniti), più o meno, a partire dal marzo 1943, quando cioè l’ormai prevedibile vittoria in Africa settentrionale rendeva non solo plausibile ma addirittura prioritaria la prospettiva di uno sbarco nelle isole italiane e di una avanzata lungo la penisola che avrebbe dovuto concludersi con la capitolazione di Roma. L’attivismo del Soe, per la verità, veniva guardato con perplessità dal Foreign office, dal War Cabinet e da altri ambienti istituzionali per più motivi. In primo luogo, perché le operazioni iniziali messe in piedi dal Soe, dai tentativi di «reclutamenti» fra i prigionieri alle attività sovversive imbastite durante il primo triennio di guerra, non avevano dato risultati soddisfacenti. In secondo luogo, perché certe «simpatie» italiane all’interno del Soe confliggevano con l’indirizzo politico, sostanzialmente «punitivo», adottato dal Foreign office e fatto proprio dall’intero War Cabinet nei confronti dell’Italia. Al Soe, in sostanza, si lasciava mano libera solo per avviare cauti sondaggi operativi con quanti si dimostravano disponibili a collaborare con gli inglesi.
Ambiguità e incertezza, insomma, caratterizzarono, per molto tempo, i contatti segreti con l’antifascismo. Dalla seconda metà del 1942 e all’inizio del 1943 crebbero fortemente le quotazioni del maresciallo Badoglio. Il Foreign office nutriva scarsa considerazione per il conte Sforza, leader naturale dell’emigrazione antifascista ma senza seguito nella penisola, e aveva, invece, un «occhio di riguardo» per Badoglio, visto come personalità «critica» nei confronti del regime e, certo, più forte. Si prestò attenzione - e ve n’è traccia in rapporti informativi - a voci di una possibile assunzione del potere da parte del Principe di Piemonte assistito da un triumvirato composto da  Badoglio, Bottai e Grandi, al punto che si decise di provare a stabilire un collegamento con Badoglio, destinato poi a fallire.
Più consistenti furono i contatti del Soe col Partito d’Azione a ridosso del 25 luglio e, poi, tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Essi si concretizzarono nelle «missioni», ricostruite in dettaglio da Berrettini, del console di Lugano, Filippo Caracciolo duca di Melito, e di Ugo La Malfa a Londra. Sempre nell’estate del 1943, il Soe, grazie all’interessamento di Dulles, aprì un contatto con l’industriale Adriano Olivetti, ritenuto particolarmente adatto per la sua ascendenza ebraica e per le sue assicurazioni di antifascismo, testimoniate, malgrado l’affiliazione al Pnf nel 1933, da una serie di attività contrarie al regime e dalla sua contiguità con gli ambienti di Giustizia e Libertà. Olivetti fornì agli inglesi un quadro prezioso della «fronda» moderata che andava da Badoglio a Ivanoe Bonomi, dalla Principessa di Piemonte al maresciallo d’Italia Enrico Caviglia fino al generale Cadorna, tuttavia considerato troppo legato a Umberto. La collaborazione fra il Soe e l’industriale non portò grandi frutti perché gli interlocutori avevano visioni diverse: Olivetti pensava a una soluzione politica - giunse persino a giocare la carta del «coinvolgimento» della Santa Sede come possibile intermediario di colloqui tra la Famiglia Reale italiana e il governo britannico - laddove, invece, il Soe si era convinto che si dovesse ormai puntare sulle azioni sovversive e su una «non opposizione» all’invasione. Dalla ricostruzione, effettuata con puntigliosa cura da Berrettini, di covert operations, «diplomazie clandestine» (Emilio Lussu e Pietro Badoglio), «missioni» (Caracciolo, La Malfa, Olivetti) e via dicendo emerge un quadro pieno di chiaroscuri centrato sull’immagine di un antifascismo, in particolare il fuoruscitismo, spesso velleitario e di una Gran Bretagna prigioniera di pregiudizi e stereotipi sugli italiani. Ma emerge anche il fatto che, alla lunga, nel dopoguerra, le relazioni privilegiate con gli inglesi, stabilite in quel periodo, avrebbero dato i loro frutti.
(Rassegna ANRP, 1-3 Gennaio-Marzo 2011)
Massimo Coltrinari, Servizi segreti inglesi, antifascismo e Resistenza, Stori@..., venerdì 15 aprile 2011

Sul finire del 1943, ignari della sua scarcerazione, a Roma i ministeri, la polizia e i carabinieri iniziarono a scambiarsi missive alla ricerca di Adriano Olivetti. Il 18 gennaio 1944 l’interessato venne a sapere che le forze di polizia lo cercavano e si rifugiò presso degli amici a Milano, dove concluse “Struttura e funzionamento delle Commissioni di fabbrica in America”, uno studio tra organizzazione d’impresa, sociologia del lavoro e scienze politiche, discipline in Italia assolutamente sconosciute in quegli anni. L’8 febbraio 1944 il ministero degli Interni della Repubblica Sociale d’Italia ordinò ai questori di Aosta, Piacenza, Roma l’arresto di Adriano Olivetti e Wanda Soavi per «comprovata intelligenza con il nemico a proposito di attività sovvertitrici dell’ordine interno», e dispose di trasferirli al carcere di Mantova per esseremessi a disposizione della Direzione generale della polizia. Olivetti non aveva più alcuna scelta e l’8 febbraio espatriò clandestinamente in Svizzera passando da Stabbio <762. Riuscì ad evitare la quarantena e poté riposarsi qualche tempo in ospedale <763, prima di recarsi alla Casa degli italiani di Bellinzona. Ricevuto il denaro necessario da parte di Schnyder, rappresentante in Svizzera della Olivetti, dal 3 marzo 1944 fino al 15 maggio 1945 avrebbe soggiornato con la segretaria Wanda Soavi all’hotel Chesa Guardalej di Campfer, nei pressi di Saint Moritz.
[NOTE]
762 Cf. Giornale ingressi rifugiati di Lugano, in CH-BAR, E6357A#1995/393#2, dove risulta che «è stato arrestato il 30.7.43 a Roma ed incarcerato per aver fatto propaganda allo scopo di creare un [sic] Stato federativo cristiano sociale. È stato liberato il 23.9.43». V. la fotografia presa al momento dell’ingresso in Svizzera, appendice n° 2. Si noti che in “Rifugiati civili italiani via Chiasso, n. 55”, in CH-BAR, E4264#1985-196#32114#4, Adriano risultava essere entrato in Svizzera per motivi politici e il fratello razziali, mentre in “Rifugiati civili italiani via Chiasso, n. 72” entrambi risultavano rifugiati per cause razziali. Nel “Questionario”, in CH-BAR, Olivetti scrisse che grazie ad una guida italiana era entrato illegalmente in Svizzera, senza passaporto, e che era «ricercato dall’arma dei carabinieri per motivi politici» e che si riteneva perseguitato per motivi politici. Nello stesso questionario affermava di possedere «1.000.000 circa azioni società Olivetti - una casa a Fiesole - terreni a Ivrea [… ] un conto presso il credito svizzero a Zurigo di circa 5000 Fr.sv. e da ritenersi bloccato perché in U.S.A. $ […] partecipazioni e crediti presso Hispano Olivetti Barcellona e Olivetti Brasileira S. Paulo Brasile». Nel verbale d’interrogatorio si legge «Im Januar 1943 hatte ich ein Memorandum hauptsächlichsten Parteiführer verteilt, weiches das Projekt eines Föderativ-Staates auf
christlich-sozialer Basis enthielt. Ich wurde deshalb am 29.7.43 in Rom durch die Polizei Badoglio's verhaftet und am 23.9.43, zwei Tage bevor die Gefängnisse dem Deutschen übergeben wurden, freigelassen. In der Hoffnung auf, ein baldiges Eintreffen der Alliierten, blieb ich bis zum 6.12.4-3 in Rom. Dann begab ich mich nach Ivrea, wo ich mich versteckt hielt (mein Vater war am 4.12.43 gestorben). Sofort nach meiner Rückkehr erkundigten sich die Carabinieri nach meinem Aufenthalt und nach demselben von meiner Angestellten, die damals mit mir verhaftet worden war. Die Neo-Fascisten suchten nämlich alle diejenigen, die schon einmal arretiert und wieder freigelassen waren. Da ich sehr bekannt bin, wurde die Situation immer gefährlicher. Ich reiste nach Mailand hat Freunden und beschloss, von dort in die Schweiz zu flüchten. Am 7.2.44 fuhr ich mit Frl. Soavi nach Bisuschio. Am selben Abend machten wir uns mit einem Führer auf de n Weg durch die Wälder und übernachteten in einer Hütte. Am nächsten Morgen erreichten wir das Drahtgitterbei S.Pietro und meldeten uns freiwillig um 7.30 beim Posten von Stabio. Man begleitete uns nach Ligornetto zur ärztlichen Untersuchung und sodann über Mendrisio nach Bellinzona».
763 «Per spiegare un’attività quanto più efficace possibile, [Egidio] Reale e Canevascini si suddivisero i compiti nel modo seguente: sfruttando la fitta rete di conoscenze tra gli antifascisti, Reale fornì al socialista ticinese le liste con i nominativi dei rifugiati in arrivo e i dati sul loro status - di perseguitati politici, militari; prigionieri di guerra evasi o ebrei - facilitando e garantendo in tal modo la rapidità delle formalità d’ingresso in Svizzera […] ad aver beneficiato della “procedura agevolata” furono, tra gli altri, l’intellettuale e industriale Adriano Olivetti, scampato al periodo di quarantena e messo a riposo all’Ospedale italiano di Lugano», CASTRO, Sonia, Egidio Reale tra Italia, Svizzera ed Europa, Milano, Franco Angeli, 2011, p. 234. Ovviamente, il fatto che Olivetti fosse un «famoso industriale» facilitò molto la sua permanenza in Svizzera e la sua libertà di movimento: «Wir glauben, dass ein gewisses Entgegenkommen Olivetti gegen-über in Anbetracht seiner Stellung in der italienischen Industrie und der damit verbundenen Exportmöglichkeiten nach dem Kriege gerechtfertigt Ware», che traduco approssimativamente «Crediamo che alcune concessioni rispetto Olivetti sarebbero giustificati in considerazione della sua posizione nel settore italiano e le relative opportunità di esportazione dopo la guerra», lettera del capo della Polizia di Berna, Tschäppät, alla polizia cantonale di Zurigo, 5 marzo 1944, in CH-BAR, E4264#1985-196#32114#4. V. anche la lettera di Tschäppät a responsabile Olivetti a Zurigo, Schneyder, 3 marzo 1945, dove si comunica la libertà per Olivetti di muoversi nel territorio Svizzero per acquistare macchinari ed altri prodotti da avviare poi all’esportazione.

Marco Maffioletti, L’impresa ideale tra fabbrica e comunità. Una biografia intellettuale di Adriano Olivetti, Tesi di dottorato, Université de Grenoble in cotutela con Università degli Studi di Torino, 2013 

Conviene qui spendere qualche parola sul passaggio al SOE  di Leo Valiani, il quale non ha ritenuto di farne cenno nelle sue memorie. Il che costituisce senza dubbio un’omissione gravissima, perché ci ha impedito, per molti decenni, di formarci un’idea della capacità di infiltrazione, ai vertici supremi della Resistenza, da parte degli inglesi. Un conto, infatti, è stabilire che quel tal personaggio avesse rapporti più o meno stretti con i britannici, tutt’altra cosa risulta invece accertare che un membro degli organi centrali del movimento di Liberazione nazionale, diciamo uno dei dieci-dodici personaggi chiave della direzione politico-strategica della Resistenza, nella sua accezione di forza militarmente organizzata, fosse uomo disciplinarmente inquadrato nella linea di comando operativa degli apparati informativi di una potenza, cobelligerante sì, ma in ogni caso straniera. Cito ancora una volta a tale proposito Canali: «Valiani cercò sempre di nascondere i suoi legami con i servizi segreti inglesi, spiegandoli come un semplice aiuto per consentirgli di attraversare le linee nemiche, e quindi facendo implicitamente intendere, nelle sue testimonianze, che i loro rapporti erano cessati più o meno nell’ottobre del 1943, quando, attraversata la linea Gustav, egli aveva raggiunto, a piedi, Roma occupata, prendendo contatto con il gruppo dirigente clandestino del Partito d’azione. Ma a smentire questa versione dei suoi rapporti con il SOE , ci sono, le testimonianze dei documenti inglesi, riassunte infine in una nota “Riservata” del SOE  al Consolato generale inglese a Roma, in data 24 agosto 1945, relativamente a Leo Valiani, in cui si può leggere: “Il menzionato italiano ha fornito preziosi servizi in collegamento con il SOE  nel territorio occupato dal nemico ed è divenuto uno dei leader del movimento di Resistenza italiano”».
Inoltre, lo stesso Valiani, alla fine della guerra, compilava una dichiarazione del seguente tenore: «Io, Leo Valiani, qui dichiaro e certifico che dal 25 luglio 1945 la mia associazione con N.1 Special Force è ufficialmente cessata e che io non ho richieste finanziarie o di altra natura da sollevare nei confronti di N.1 Special Force in Italia o altrove. 26 luglio 1945. Firmato Leo Valiani». Ricostruiamo ora i passi dell’attività di Valiani, nel suo triplice ruolo di esponente di spicco del Partito d’azione, di agente del SOE , nonché di membro del cosiddetto Comitato insurrezionale, il triumvirato che accentrò i poteri relativi all’insorgenza del 25 aprile che si concluse con la fucilazione di Mussolini. […] Alla luce dell’accertata appartenenza di Valiani al SOE , vanno lette sotto una diversa luce le sue partecipazioni ai vertici con gli inglesi, svoltisi in Svizzera e in Francia
[...] Max Salvadori nel dopoguerra fu decorato dagli inglesi con la Military Cross e il Distinguished Services Order. Dal 1945 al 1973, insegnò Storia e Politica, allo Smith College, a Northampton (Massachusetts, Usa), con alcune interruzioni per incarichi all’Unesco, a Parigi, e alla Nato. Scomparve a Northampton, il 6 agosto 1992. Quanto a Leo Valiani, tra le firme più prestigiose del «Corriere della Sera», fu nominato senatore a vita dal presidente Sandro Pertini, nel gennaio del 1980 [...]
(Per gentile concessione di Macchione Editore)
Redazione, Dongo 1945, piste inglesi: la longa manus dell’agente Valiani, Storia in Rete, 5 marzo 2022

lunedì 3 ottobre 2022

Francisco Franco si autocita nel testo come un essere distante e mitico, un dio occulto la cui autorità e il cui prestigio sono imprescindibili


La disamina dei testi filmici di esplicita esaltazione patriottica mira a sondare la diffusione dell’immagine idealizzata delle origini e dei fondamenti del pensiero ideologico del regime proprio attraverso le pellicole considerate più emblematiche. Tra queste figura senza ombra di dubbio 'Raza', il progetto propagandistico forse più ambizioso nell’ambito della cultura ufficiale del primo franchismo, analizzato nel terzo capitolo a partire dall’opera letteraria che lo ispirò, scritta dallo stesso Caudillo [n.d.r.: con pseudonimo di Jaime de Andrade], oltre che nella duplice versione cinematografica e, soprattutto, alla luce delle sue implicazioni di natura politica sia interna che estera [...] Anche 'Raza' (per la cui analisi si rimanda al capitolo successivo) e 'Escuadrilla' di Antonio Román, furono girate nel 1941. Al di là della datazione, le due pellicole non condividevano solo il contesto storico, le finalità di esaltazione patriottica o il legame con il recentissimo passato della Guerra Civile di cui si occupavano [...] Nell’opinione della critica, due film in particolare, pur diversissimi tra di loro, rispecchiano all’inizio degli anni Quaranta quella che è stata definita «l’ortodossia del regime»: si tratta di 'Raza' (José Luis Sáenz de Heredia, 1941) e di quel 'Rojo y negro' di Carlos Arévalo, evocazione dei colori della bandiera falangista, la cui complicata vicenda distributiva è stata interpretata - come già accennato - alla luce dei contrasti interni alla Falange stessa [...] 'Raza' costituisce, infatti, una sorta di tappa obbligata per esperti e appassionati del cinema iberico e per tutti coloro che intendono approfondire, più in generale, le caratteristiche della produzione di propaganda in un’ottica non esclusivamente nazionale, il rapporto tra cinema e potere politico, in particolare in quegli anni in cui le dittature imperversavano in Europa, nonché la rappresentazione di quella Guerra Civile anticamera del secondo conflitto mondiale e prima guerra del Novecento raccontata in tempo quasi reale dai mezzi di comunicazione di massa [...] Com’è stato più volte sottolineato dagli studiosi, 'Raza' è un libro che si caratterizza per la sua assoluta trasparenza ideologica: l’autore non si preoccupa di velare le sue teorie rivestendole con sovrastrutture estetiche o psicologiche, bensì le espone «en toda su brutal desnudez» <302, spesso attraverso i dialoghi e le affermazioni dei suoi personaggi tra i quali compare egli stesso. Non solo, infatti, Franco si proietta nel protagonista José Churruca, ma si autocita nel testo come un essere distante e mitico, un dio occulto la cui autorità e il cui prestigio sono imprescindibili <303: le truppe in Marocco si sono sollevate «a las ordenes del general Franco», che con la sua presenza riesce a trasmettere fiducia e tranquillità ai suoi soldati che, a loro volta, lo celebreranno nel giorno del trionfo quando «los pájaros de acero dibujan en el cielo el nombre del Caudillo de España» <304.
Secondo lo storico Paul Preston l’opera servì al suo ideatore per contornare di un’aurea provvidenziale la sua figura: «Il romanzo apre uno squarcio rivelatore sul desiderio narcisistico di grandezza che animava Franco. Egli non si limita ad attribuirsi natali, un’infanzia e origini sociali più nobili attraverso il protagonista, José Churruca, ma si autocelebra anche come Caudillo cui nulla sfugge» <305.
A parte questa non trascurabile peculiarità, il sistema dei personaggi di 'Raza' è schematizzabile nella classica suddivisione tra personaggi primari e secondari che dal punto di vista sociale possono essere catalogati in tre gruppi principali: militari, civili e religiosi [...] In quanto tessera che contribuisce a formare il controverso mosaico biografico di uno dei protagonisti del XX secolo 'Raza' è, inoltre, un documento certo non trascurabile, anche se variamente interpretato, tanto per gli ispanisti che per gli agiografi del dittatore: si pensi, a puro titolo esemplificativo, al celebre lavoro di Paul Preston 'Franco: a biografy' che vi fa riferimento, o alla strenua difesa di Ricardo de la Cierva, autore dell’introduzione alla più recente edizione della novela. Non trascurabile anche solo perché è piuttosto insolito che un capo di stato o di governo nel pieno esercizio delle sue funzioni utilizzi in prima persona, al fine di giustificare una vittoria, una finzione letteraria/cinematografica in cui egli stesso risulta rappresentato.
A tale già considerevole complesso di motivi d’interesse, va, infine, aggiunta la consapevolezza che lo studio dell’opera e, più in generale, del “fenomeno” 'Raza', non si può ancora considerare concluso: proprio per le sue molteplici implicazioni, infatti, si profila aperto a continui aggiornamenti, come ha dimostrato la recente disamina di documenti inediti ritrovati negli archivi di Salamanca e di Madrid relativi tanto alle sessioni cinematografiche organizzate due sere a settimana nella residenza del Caudillo (che rivelano un’intensità prima insospettata della sua cinefilia), tanto ai dati sulla distribuzione della pellicola oltre che in Spagna anche nei Paesi latino-americani e nelle nazioni europee alleate. Proprio questa prospettiva di ricerca sembra connotarsi come una delle più prolifiche: se, infatti, da un lato Raza sembra aver ottenuto il beneplacito persino di Papa Pio XII che - come viene riportato in un resoconto diplomatico - visionò parte della pellicola in un’anteprima esclusiva in Vaticano, ancora in gran misura inesplorato è il versante della ricezione del film negli Stati esteri nei quali circolò nel breve arco temporale intercorso tra la sua uscita e il rapido precipitare delle sorti dei due governi nazi-fascisti travolti dagli esiti bellici. In quest’ottica, si è ritenuto utile tentare una prima ricostruzione dell’impatto che la proiezione del film ebbe nel panorama culturale dell’Italia di Mussolini, rintracciandone le vestigia negli Archivi della Biennale di Venezia e della Direzione Generale Cinema di Roma..
[...] Dopo la vittoria del fronte nazionalista, d’altronde, la condizione femminile era stata totalmente rivoluzionata: in epoca repubblicana le donne erano state incluse nell’elettorato sia attivo che passivo, avevano ottenuto pari opportunità lavorative all’interno della funzione pubblica ed eguaglianza dei diritti nel matrimonio, che poteva essere sciolto per volere di entrambi i coniugi. Tutte queste conquiste, sancite dalla Costituzione del 1931, furono annullate dalla legislazione successiva che delineò una nuova società assolutamente patriarcale e maschilista. Il divorzio (anche con azione retroattiva) e l’aborto furono semplicemente cancellati: le mogli persero il diritto ad amministrare i propri beni, a ereditare e a lavorare. Tutte le azioni svolte contro il volere o senza l’assenso del marito erano considerate giuridicamente nulle <309.
Naturalmente, alla cinematografia fu affidato il compito di elaborare e diffondere il nuovo modello di femminilità <310, basato sulla rigida separazione dei ruoli che relegava la donna a una condizione secondaria e sottomessa. E 'Raza', testo emblematico dell’azione propagandistica del primo franchismo, non poteva che riproporre questo modello <311 sin dallo scritto letterario. Come sottolinea Nancy Berthier, a questo proposito l’originalità dell’opera come strumento di esaltazione patriottica risiede nel fatto che la maternità, sebbene secondaria poiché non sopravanza il ruolo strutturale che ha la paternità nella costruzione della razza per fondare le basi del paradigma familiare, è essa stessa un oggetto di rappresentazione: essa è parte integrante di un modello familiare più vasto che rinvia, in ultima istanza, a un modello di società <312 e a una retorica patriottica ben precisa.
[...] Come già accennato, la trasposizione in immagini della vicenda narrata da Francisco Franco risulta alquanto rispettosa della linea contenutistica tracciata nel testo letterario, nonostante gli interventi operati da regista e sceneggiatori: alcune scene sono state, infatti, trasferite di pari passo nel film mentre altre sono state modificate o soppresse. Queste trasformazioni - evidenzia Ferrán Alberich - pertengono soprattutto alla costruzione dello sfondo sociale e politico della storia: quello che cambia è la definizione dei nemici della nazione. Nel libro, la Spagna deve essere salvata da se stessa, da tutta la società, e solo i militari hanno la coscienza vigile e il coraggio per intraprendere questa impresa. Mentre, infatti, don Pedro Churruca muore a Cuba lottando contro gli Stati Uniti, la maggioranza dei suoi connazionali resta assolutamente distante e indifferente: questa indifferenza si concretizza nella difficoltà che le mogli dei soldati riscontrano nel reperire informazioni sull’andamento delle operazioni belliche. Dopo il clamore causato dallo scoppio del conflitto, i giornali di Madrid, infatti, non riportano notizie sulla battaglia in corso e le uniche fonti sono quelle militari. Questa sequenza viene soppressa nel film, sostituita da un’immagine quasi equivalente ma più sottile costituita da un montaggio alternato tra i preparativi dei soldati allo scontro e le riprese di un ballo in una festa popolare; stessa sorte tocca al richiamo agli orientamenti pacifisti sostenuti dal giovane Pedro, studente di Diritto, nel colloquio con l’Ammiraglio Pardo nel giorno del dodicesimo anniversario della morte del padre e che, nel corso di una conferenza all’Università con riferimento alla guerra in Marocco, avevano ottenuto l’acclamazione generale <313.
Del contesto repubblicano viene messa in risalto la vocazione anticlericale con assalti e saccheggi ai danni delle chiese: a un episodio simile si oppone la matriarca Isabel che, al contrario, si rifugia nella religione, mal sopportando le delusioni procuratele dal figlio e il turbamento causato dal coevo clima politico <314.
Insieme alle valutazioni sul problema della docenza, vengono meno nella pellicola anche i riferimenti alla storia della città di Toledo con tutti i suoi contributi alla cultura nazionale, mentre la digressione storica iniziale e la presentazione della famiglia sono riproposte in maniera identica. La seconda parte del libro viene, invece, efficacemente sintetizzata attraverso alcuni fotogrammi di transizione che collegano la preghiera per il marito scomparso, pronunciata da Isabel a tavola con i figli, con la cerimonia nuziale di Isabelita e Luis, per presentare, infine, le scene della morte della vedova e della professione religiosa di Jaime: a questo punto compaiono in sovrimpressione titoli di periodici che riassumono gli eventi fino alla Guerra Civile. Di qui in avanti la narrazione procede di nuovo parallelamente ma l’inserimento di alcune sequenze che hanno per protagonisti i politici risultano funzionali alla definizione più precisa del nemico: responsabile dello smarrimento morale e della decadenza della nazione, della sua perdita di influenza sulla scena internazionale è proprio la classe politica, che in occasione della crisi di Cuba non ha voluto sostenere con ulteriori finanziamenti le spese belliche perché «¡la guerra no es polular!». È quanto dichiara un deputato in una seduta parlamentare convulsa che precede nel film il nuovo incarico dato al capitano di marina Churruca) e che ora deve pagare il fio della sua codardia e della sua obbedienza alla massoneria e ai poteri stranieri che ne hanno influenzato le decisioni <315. Anche alcuni personaggi minori non presenti nel libro compaiono, invece, nella pellicola: tra i più significativi, i due repubblicani che smascherano il tradimento e arrestano Pedro Churruca nel finale del film. Si tratta di un militare, dignitoso e composto, e di un dirigente di estrazione popolare, probabilmente ispirato alla figura di El Campesino che, invece, appare fanatico ed esaltato. In un’intervista rilasciata allo studioso Jordi Sebastian, il regista Sáenz de Heredia chiarisce che l’attribuzione di un’identità reale precisa a questi due personaggi è plausibile quanto arbitraria poiché nel film non se ne esplicitano i nomi. La differente condotta tenuta dai due sarebbe, piuttosto, funzionale a rendere manifesta la composizione variegata delle forze repubblicane, sottolineando la compostezza della reazione di un militare di professione che sente tutti gli obblighi della divisa e, di contro, l’impulsività di un civile, soldato improvvisato <316.
Sul fronte opposto - sottolinea, infine, Alberich - la presenza dei falangisti aggiunge alla stirpe di eroi che i militari rappresentano nel libro, un altro gruppo di eroi equiparato al primo; per lo studioso, senza contraddire il testo scritto, la pellicola sfuma la rigidità della separazione tra buoni e cattivi secondo l’appartenenza o meno all’apparato marziale:
«La película define a los diputatos, sin matiz partidista alguno, como los enemigos de España, lo que convierte a la democrazia parlamentaria en la causa contra la que luchan los militares alcistas junto con los falangistas. Militares que aceptan la calificación de fascistas y parecen comportarse como tales» <317.
Oltre alla demonizzazione della politica e della democrazia parlamentare, un altro aspetto che si rinforza nel film è la caratterizzazione in senso simbolico e positivo dei personaggi anche grazie al carisma degli attori scelti - in primis Alfredo Mayo - emblemi a loro volta di una Spagna forte e virile. Tra gli effetti di questa tendenza a privilegiare il modello positivo a scapito di quello negativo, contrappunto necessario sì ma pur tuttavia secondario, si può annoverare uno dei motivi di massima divergenza tra il testo di Jaime de Andrade e l’opera cinematografica <318: il destino di un personaggio secondario come Luis Echevarría, compagno d’armi di José e marito della giovane Isabel. Caratterizzato sin dalla passeggiata a Toledo quale uomo privo delle doti e del travolgente trasporto ideologico dell’amico, nel racconto letterario Luis finisce per perdersi nell’oscurità materiale e spirituale della diserzione. Le sue scelte infami di allontanarsi dal campo, di passare il fronte e di unirsi al nemico pur di riabbracciare i suoi familiari, trattenuti in una zona controllata ancora dai rossi, maturano nel cuore della notte: respinto dalla moglie illuminata da un raggio di luce che proviene dal Cristo, è ancora una volta avvolto dalle tenebre dell’oscurità che lo ammantano facendone perdere definitivamente le tracce <319.
L’oscurità, dunque, diviene metaforicamente simbolo di perdizione e di morte: per peccati simili, e soprattutto per la vigliaccheria di un militare, non può esserci nessuna forma di riscatto e di perdono; solo la morte può avvolgere nell’oblio un tale disonore salvando la rispettabilità della famiglia. Tutto questo nel film resta solo una tentazione: l’arrivo inaspettato del cognato dissuade Luis dal nefasto proposito, sotto l’ombra incombente del Generalissimo, testimone silenzioso della vicenda nella sua posa fiera in piano americano e braccia conserte della foto fissata sulla porta del rifugio militare. Intervistato dalla studiosa transalpina Nancy Berthier, il regista ha addotto come motivazione per questo cambio il fatto che a suo parere per lo spettatore sarebbe stato meglio veder rappresentato sullo schermo un angelo tutelare che un diavolo, un intervento provvidenziale, cioè, che impedisce a un uomo attanagliato da un bisogno di commettere un’empietà:
«Yo lo quité porque me parecía que era mejor para el espectator que hubiese una intencionalidad como puede pasar en la vida con la persona que va a robar porque necesita para comer pero algo le quita la cosa de hacerlo, se lo impide y me parece que es mejor poner al ángel tutelar que al demonio» <320.

Il bacio sulla fronte di Josè, ormai guarito, alla fidanzata Marisol nel momento di ricongiungersi alle truppe nazionaliste: un saluto casto, insolito per una giovane coppia, ma in linea con l’ossessione moralista del franchismo (Raza, 1942). Fonte: Immacolata Del Gaudio, Op. cit. infra

[NOTE]
302 Román Gubern, “Raza”: un ensueño del general Franco, cit., p. 13.
303 Ibidem.
304 J. de Andrade, Raza. Anecdotario para el guión de una película, cit., pp. 110, 172-173 e 239.
305 P. Preston, Francisco Franco. La lunga vita del Caudillo, cit., pp. 417-418.
309 Carme Molinero, Mujer, franquismo, fascismo. La clausura forzada en un "mundo pequeño", «Historia Social», n. 30, 1998, pp. 97-117, consultabile on line al link http://www.jstor.org/stable/40340520, 08/04/2019).
310 Fátima Gil Gascón, Españolas en un país de ficción: la mujer en el cine franquista (1939-1963), Comunicación Social, Sevilla-Zamora-Salamanca 2011.
311 Eduard Huelin, La imagen de la mujer en la película Raza, «Film-Historia», n. 1, 1997, pp. 51-62.
312 N. Berthier, Le franquisme et son image. Cinéma et propagande, cit., p. 64.
313 F. Alberich, Raza. Cine y propaganda en la inmediata posguerra, «Archivos de la Filmoteca» cit., pp. 56-57.
314 L’importanza della componente anticlericale nel nazionalismo spagnolo di tradizione repubblicana affondava le sue radici nel clima culturale del finale del XIX secolo e, in particolare, nella crisi seguita alla disfatta del 1898 quando l’anticlericalismo si intensificò con l’accusa rivolta alla Chiesa e agli ordini religiosi di essere la causa della decadenza spagnola. Da quel momento in poi tali argomenti contribuirono a formare parte della visione politica della fazione repubblicana, rinforzati dai paragoni con l’immagine idealizzata di una Francia laica e repubblicana, libera da ingerenze del Vaticano (María Pilar Salomón Chéliz, El discurso anticlerical en la construcción de una identidad nacional española republicana (1898-1936), «Hispania Sacra», n. 110, 2002, pp. 485-498 disponibile on line: http://hispaniasacra.revistas.csic.es/index.php/hispaniasacra/article/view/179/177, 30/03/2017).
315 F. Alberich, Raza. Cine y propaganda en la inmediata posguerra, «Archivos de la Filmoteca» cit., pp. 57-58.
316 L’intervista è parzialmente riportata in Magí Crusells, La Guerra Civil española: cine y propaganda, cit., p. 209.
317 F. Alberich, Raza. Cine y propaganda en la inmediata posguerra, «Archivos de la Filmoteca», cit., p. 58.
318 N. Berthier, Le franquisme et son image. Cinéma et propagande, cit., pp. 63-64.
319 Nel testo letterario si rintraccia spesso un parallelo tra lo stato d’animo dei personaggi e lo sfondo paesaggistico e naturalistico: per esempio, la partenza del marinaio Churruca per la missione senza ritorno che lo attende è accompagnata dalla pioggia e dai venti del Nord che agitano il mare plumbeo; lo stesso vento freddo batte gli alberi del giardino quando Isabel è costretta dalla morte del marito ad abbandonare la tenuta galiziana con i figli. La relazione tra gli elementi temporali e la moralità delle persone è talvolta stabilita soprattutto in relazione alla notte che, dominata dai pericoli, non è il momento adatto alle azioni degli uomini retti e lavoratori (R. Utrera Macías, Raza, novela de Jaime de Andrade, pseudónimo de Francisco Franco, «Anales de Literatura Española», cit., pp. 229-230).
320 N. Berthier, Le franquisme et son image. Cinéma et propagande, cit., p. 223.
 

Scena dell’arresto di Pedro Churruca con i due personaggi repubblicani, il militare e il volontario identificabile con El Campesino, non presenti nel testo letterario originale (Raza, 1942). Fonte: Immacolata Del Gaudio, Op. cit. infra


La copertina della prima edizione di Raza. Anecdotario para el guión de una película. Fonte: Immacolata Del Gaudio, Op. cit. infra

Immacolata Del Gaudio, Il cinema arma di propaganda nel primo franchismo (1936-1945). Un confronto con il "modello" italiano, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2018/2019