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venerdì 14 ottobre 2022

Per alcune donne l’integrazione in Belgio si rivela quasi impossibile


Studiare le origini e lo sviluppo della comunità italiana in Belgio permette di guardare a fondo, con curiosità, ad un fenomeno migratorio dalle caratteristiche peculiari, il cui percorso, nella sua particolarità, si presta a utili comparazioni con le migrazioni operaie europee del secondo dopoguerra. <1
L’emigrazione italiana in Belgio s’inserisce in un contesto storico più ampio, quello della ripresa economica europea dopo la seconda guerra mondiale, e permette di approfondire i meccanismi della ripresa economica italiana, che caratterizzarono il periodo tra il 1945 e il 1970. Sono gli anni del rilancio economico del Belgio e delle strategie migratorie attuate in collaborazione tra i due Paesi, preoccupati di guidare la risalita delle economie nazionali. La firma degli accordi bilaterali (giugno del 1946) rappresenta quindi il punto d’origine di un movimento migratorio che ha permesso agli italiani di compiere un lungo percorso, con strategie proprie di sopravvivenza e integrazione, che hanno favorito la creazione di comunità con caratteristiche culturali proprie. L’evoluzione di queste comunità, che avviene contemporaneamente alla ripresa belga e al boom economico italiano, si confronta con questi cambiamenti macroeconomici ma non ne è totalmente dipendente, anzi mantiene negli anni una propria identità, come accade nelle ricostruzioni storiografiche dei percorsi migratori.
[...] Per alcune donne l’integrazione si rivela quasi impossibile. L’impatto negativo avuto con la cultura e le abitudini belghe, creano in alcune di loro dei pregiudizi che condizionano l’interno periodo migratorio e la loro capacità di ricrearsi una propria vita e un’identità serena:
"Penso che mio papà era molto più facile ad integrarsi che mia mamma aveva più delle aperture della società belga di mia mamma, mia mamma ha lavorato in una ditta di vetro, mi ricordo che mi parlava di una sola amica belga. Penso che ha smesso quando io avevo tre anni, quando siamo venuti a Bruxelles, poi sempre la casalinga. È vero che mia mamma non è che era refrattaria contro i belgi, ma lei ha vissuto, il viaggio da l'Italia a qui, mi raccontava anche in maniera buffa che quando era arrivata qui i belgi no erano tutti mescolati erano tutti tirati con la brillantina, tutti bianchi è lei disse vedendoli che non si sarebbe mai sposata qui". <126
La stabilizzazione delle famiglie attiva e velocizza le catene migratorie. Le strutture familiari degli italiani emigrati rispondono a logiche tipiche dei gruppi emigranti: si tratta di famiglie numerose, dall’organizzazione complessa, in quanto interi paesi con il tempo si trasferiscono da una nazione all’altra e quindi, per facilitare l’arrivo dei compaesani, molteplici gruppi familiari si fondono tra di loro e convivono nella stessa abitazione, per diminuire le spese e garantire maggiore velocità di inserimento:
"I primi tempi mia moglie si trovava male ma poi ci è stato che avevano bisogno tanto di manodopera e il console di Mons mi ha fatto una carta che avevo bisogno di un alloggio. Oggi di case vuote ce ne è tante ma prima… allora con questa carta che mi ha fatto, mia moglie ha fatto venire due fratelli, poi il terzo, poi la madre e il padre che sono morti qui vent’anni fa, erano anziani". <127
Le difficoltà a integrarsi sono comuni a uomini e donne, ma spesso quest’ultime non possono contare sull’aiuto e sulla solidarietà dei mariti. La solitudine, causata da una difficoltà coniugale e dalla distanza dei familiari, è spesso alla base delle crisi delle nuove coppie che in diversi casi porta le donne emigrate a vivere periodi di depressione. Per questo motivo, nei racconti femminili la narrazione della loro esperienza migratoria mette in luce la capacità dimostrata di superare le difficoltà emotive grazie alla propria realizzazione economica, che permette loro di mostrare alla famiglia di appartenenza la validità della loro scelta, e la conseguente realizzazione lavorativa dei propri figli.
"Io sono stata anche male, dopo undici anni ho avuto una grande depressione. Lui non ne voleva sapere di rientrare e voleva che andassi io. Ma io gli ho detto: «se ora mi mandi in Italia non torno più». Allora lui «fai un po’ come vuoi». Ma non voleva che me ne andavo. Io sono stata male tanti anni, ma poi, poco alla volta, è passato. […] E allora non mi son rimessa bene, con due figli come facevo? La famiglia è lontana e stavo male. Ma anche la tristezza. Sai gli uomini era un po’ più aiutati perché lavoravano in miniera quindi uscivano si vedevano con gli altri, parlavano. Noi donne invece a casa. Ogni tanto c’era qualche amica ma non c’era la famiglia. Poi noi eravamo cinque figli, quattro femmine e un maschio, ci piaceva andare a trovare i genitori. Ringrazio che mio marito guadagnava benino e potevamo tornare tutti gli anni". <128
Le donne hanno anche il compito di gestire gli spazi, amministrare la casa, permettere il mantenimento delle catene migratorie. L’apertura della propria casa ai parenti è conveniente perché aumenta il numero di membri della famiglia portatori di reddito, ma spesso è anche una scelta obbligata, pena l’esclusione dalle nuove comunità. Di conseguenza, diversi italiani vivono in condizioni precarie per moltissimi anni, proprio in virtù di quella rete di solidarietà impossibile da recidere:
"Nove anni dopo che sono arrivato è voluto venire mio fratello, che era più giovane di me, che era fidanzato con la sorella di mia moglie. Ha fatto come me, il matrimonio. Quando sono andato a prenderli in macchina (io avevo la macchina in Belgio dal 1958) mi ha detto «posso stare con te una settimana o due, fintanto che non ho trovato un buchetto?». E ci è stato diciassette anni". <129
Il lavoro extradomestico è piuttosto comune tra le donne emigrate. La scelta di andare a lavorare risponde a diverse necessità, principalmente di natura economica: un secondo reddito permette alle famiglie di guadagnare più velocemente la cifra che permetterebbe loro di rientrare in Italia. Molte donne quindi, in accordo con il marito, decidono di andare a lavorare anche per velocizzare l’integrazione e per imparare più velocemente la lingua:
"Il mio primo ricordo del Belgio è un po’ triste. Triste il Belgio, triste io perché avevo lasciato tutto: amici, famiglia a tutto. E poi anche come accoglienza, che la gente è più fredda. Il lavoro l’ho trovato leggendo nei giornali. L’ho voluto perché stando sola a casa diventavo pazza. Non conoscendo la lingua. Cucivo. Facevo la sarta. Sono stata in una fabbrica di amici e ho lavorato là. Non avevo amici in Belgio perché siccome mio marito andava e tornava da Mons non aveva tanti amici a Bruxelles. Dunque gli amici me li sono fatti dopo, piano piano. Ho imparato il francese parlando con gli altri e con la televisione. Scuola niente". <130
Non tutte le donne però possono contare su mariti di mentalità aperta, in grado di riconoscere l’utilità di un doppio reddito. Alcune di loro quindi devono iniziare a lavorare di nascosto, per migliorare le condizioni economiche della famiglia senza turbare l’equilibrio di coppia:
"Abbiamo testimonianze di donne che andavano a lavorare di nascosto dal marito. Appena il marito andava a lavorare otto ore in miniera loro andavano a lavorare quattro ore, e facevano tutti i servizi di fretta per non fare vedere che erano state a lavorare. C’erano mariti che prima di partire gettavano farina nell’alloggio per vedere se le donne erano state in casa a pulire". <131
Questo atteggiamento maschile è dovuto a diversi fattori, primo tra tutti un background culturale per il quale il lavoro femminile esporrebbe le donne ad ambienti promiscui, minando la loro integrità. Nelle interviste raccolte, diversi minatori abbinano la crisi economica all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Per loro la partecipazione femminile all’economia avrebbe sconvolto il sistema economico e culturale che ha permesso loro di riscattarsi socialmente:
"Ai tempi miei la donna non lavorava, e sono qui lo stesso. Era così, la donna non lavorava. Io aveva un figlio quando sono venuto qui, e adesso ce ne ho tre! Uno stipendio bastava. Ora la donna lavora e due stipendi non bastano proprio". <132
Tra gli italiani emigrati è diffusa la convinzione che fare collaborare la donna alla creazione del reddito sia sentore di un fallimento del capofamiglia, incapace da solo di tenere conto di tutte le necessità familiari, per cui un attentato alla sua virilità:
"Il marito non ha voluto mandarmi a lavorare, perché mi dice «io ho preso una donna per servirmi». Che fatica! Poi lavavo le robe di mio marito due volte alla settimana al massimo, mi sono ritrovata da sola con sei figli e lui lavorava sempre. Mio marito non c’era mai. A casa dormiva, anzi lavorava la notte ed io ero sempre da sola". <133
La necessità di fare collaborare le donne all’economia domestica aumenta in proporzione all’aumento di casi d’invalidità tra gli ex- minatori. L’altissimo numero di italiani che contrae la silicosi ed è quindi costretto ad abbandonare il lavoro fa sì che in molte famiglie il reddito femminile diventi quello principale, causando in alcuni casi il capovolgimento dei ruoli all’interno delle famiglie:
"Dopo il quarto figlio, che ci ha portato fortuna, mi sono messa a lavorare io. Andai come femme d’ourage [donna delle pulizie] al Palais des beaux arts a Charleroi. Dovevo lavare per terra, i vetri, tutto. Cominciai dopo tre mesi che era nato il bambino e ci rimasi tre anni. Mio marito era uscito dal sanatorio e guardava i bambini che erano malaticci, mentre io andavo a lavorare". <134
Il Belgio ha un sistema assistenziale che prevede che la mutua paghi una percentuale di invalidità, ma la trafila per il riconoscimento di quest’ultima è complessa e le società carbonifere tendono, quando possono, a minimizzare le piccole invalidità che ricadono su di loro. Si aggiunga il fatto che la silicosi, causa della maggior parte delle invalidità, verrà riconosciuta solo nel 1974, quando ormai le miniere sono quasi tutte dismesse:
"Tutte le donne italiane conoscono Binche. Ma per un altro motivo. Ci sono molte fabbriche di confections masculines [vestiti per uomo]. Anche mia madre ci andava. Incominciò quando io avevo già 15 anni e mio papà era andato in pensione, perché, come tutti i minatori aveva preso la silicosi. Un minimo per fortuna. Lei si alzava molto presto la mattina, alle cinque, per trovarsi sul lavoro alle sette. Il treno lo aveva alle sei meno un quarto. Tornava a casa verso le cinque e mezza. Prendeva cinque o seicento franchi, le paghe di anni e anni addietro. Ma non si lamentava mai". <135
Oltre che nei casi di invalidità di un componente della famiglia, la scelta delle donne di lavorare è ben accetta soprattutto quando a lavorare è una donna ancora nubile, che rappresenta per la famiglia di accoglienza un peso economico completamente a loro carico:
"Dopo due giorni mi sono messa a lavorare. Guadagnavo quattordici franchi all’ora (oggi ci compri solo una pagnotta di pane!). Era una smacchierai dove portavano tutti i robi a lavare. Guadagnavo 500 franchi la settimana e ce ne davo duecento a mia sorella per mangiare. Per mi comprare il primo capotto ho lavorato otto settimane. Parlavo con li gesti delle mani, prima; ma tre mesi che ero qua, sapevo già parlare". <136
La maggior parte delle donne cerca lavori part-time, che permettono di conciliare la cura domestica con gli impegni lavorativi. Questo numero sempre maggiore di donne lavoratrici fa sì che i figli degli emigrati facciano presto i conti con la propria indipendenza. Già a otto, nove anni, i bambini sono considerati adulti e in grado di badare a se stessi. Per alcuni di loro, episodi dell’infanzia rimangono impressi nella memoria proprio per il loro carattere di “responsabilità”:
"La mia prima casa in Belgio non era una bella casa, i sanitari erano fuori, erano in comune, mi ricordo benissimo. C’era una scala di legno bruttissima, dormivamo con mio fratello insieme in una stanza piccolina. C’era una stufa a legna per riscaldarci. Quando tornavamo da scuola bisognava accenderla, perché mio papà lavorava e all’ultimo anche mia mamma e a casa non c’era nessuno. Erano sacrifici perché eravamo piccoli, io ero più grande ma sempre una ragazzina diciamo. Poi mi ricordo che per lavare, la lavatrice a mano. Si faceva in una specie di cosa che giravi e poi si sciacquava a mano, l’acqua la dovevi buttare tu. Era triste, non c’erano comodità". <137
Con l’aumentare degli italiani emigrati le possibilità di lavoro per le donne si moltiplicano. E sono proprio le donne per prime a inserirsi nei commerci, anticipando gli uomini. Molti italiani presenti in Belgio da prima della guerra, approfittano della loro conoscenza degli usi italiani per fornire alloggi a basso costo concorrenziali a quelli belgi. All’interno dei siti minerari, la gestione delle cantine e degli alloggi per i minatori soli è quasi esclusivamente femminile: «facevano da mangiare per quindici minatori, cambiavano le lenzuola, lavavano i panni. Erano loro a fare questi lavori. Ed erano lavori che rendevano uno stipendio». <138
[NOTE]
1 Si fa riferimento alle analisi presentate nel volume Partenze curato da Pietro Bevilacqua, che attribuisce alla migrazione italiana in Belgio la peculiarità di avere creato una comunità stanziale, realtà differente dalle altre migrazioni europee. In Romero F., L’emigrazione operaia in Europa (1948-1973) in: Bevilacqua P. [et. al.], Partenze, Donzelli, Roma 1999.
126 Daniela Aprioretti, Bruxelles, 2012.
127 Giuseppe Di Trapani, Bois du Luc, 2010.
128 Maria Ciacci, Bois du Cazier, 2012.
129 Urbano Ciacci, Bois du Cazier, 2012.
130 Giuseppa Falzone, «Mémoires d’Europe», Liegi.
131 Anna Morelli, Bruxelles, 2010.
132 Antonio Riso, Morlanwelz, 2012.
133 Cleonide, Houden Gigny, 2012.
134 Schiavo M, Le italiane raccontano, cit., p. 140.
135 Ibidem, p. 187.
136 Schiavo M., Le italiane raccontano, p. 183.
137 Giuseppina Alba, «Mémoires d’Europe» Liegi 2002.
138 Anna Morelli, Bruxelles, 2010.
Chiara Milazzo, "Io il Belgio lo bacio due volte". Memorie di minatori emigrati (1946-1984), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Catania, Anno Accademico 2012/2013