Tra il 1942 e la prima metà del ’43, con l’aggravamento della crisi militare, politica ed economica culminata nel crollo del Regime, insieme alla notevole ripresa dell’azione dei partiti antifascisti, vi fu un notevole incremento delle discussioni sull’ordinamento da dare all’Italia dopo la caduta del fascismo <737. La prospettiva della fine della dittatura, infatti, lasciava intravvedere la possibilità di una rinascita politica e culturale incrementando la circolazione delle idee sui provvedimenti e le iniziative ritenute più urgenti per il prossimo ripristino democratico.
Intrecciandosi strettamente non solo con le tematiche della libertà di espressione, ma anche con la visione sul futuro assetto economico da dare al Paese, le discussioni sulla stampa, a Milano, furono molto vive e sentite. L’oggetto principale dei confronti fu inevitabilmente il Corriere della Sera, considerato più che il maggiore giornale d’Italia, come un punto di riferimento per definizione di una città da sempre “monogiornalistica” <738. Per quanto la tradizione ne esaltasse il prestigio, la storia recente lo rendeva l’esempio tangibile del collaborazionismo con i nazisti, nonché un caso emblematico del coagulo di potere politico-finanziario, che aveva sostenuto il Regime fin dalla sua affermazione: il Corriere insomma, data la sua storia, e a maggior ragione rispetto a quella, era preso a simbolo dell’adesione al fascismo di molti intellettuali e dell’asservimento dei grandi imprenditori coinvolti nel sistema di potere del governo mussoliniano. Pertanto la sua proprietà e la sua direzione furono oggetto di grande animosità, non priva di risentimento, in un momento in cui la voglia di riscatto Nazionale si univa ad un senso di rivalsa verso quanti apparivano responsabili per la dittatura e soprattutto per la guerra.
Nella stampa clandestina si erano avuti molti dibattiti riguardo la proprietà delle grandi aziende tipografiche considerate gli snodi principali per la ricostruzione dell’assetto della futura stampa libera. Uno dei più illustri personaggi che presero parte alla discussione - con un significativo articolo poco ricordato dalla storiografia <739 - fu Luigi Einaudi. Il futuro Presidente della Repubblica, analizzando la recente storia italiana, prendeva atto delle debolezze della stampa, evidenziatesi gravemente nel ’14 e nel ’22, e le imputava alle indebite ingerenze dei proprietari sulle testate. Il problema si era posto - a suo parere - da quando i giornali italiani erano entrati in possesso di privati, titolari anche di altre imprese industriali, i quali, avendo appunto grandi interessi economici (cotonieri, zuccherieri, idroelettrici ecc) da difendere, avevano imposto la loro linea sulle scelte editoriali affinché le testate che detenevano sostenessero posizioni utili ai propri fini particolaristici, non coincidenti con l’interesse generale, e talvolta con questo apertamente contrastanti. Nasceva da questa circostanza il pericolo che l’opinione del giornale fosse distolta dall’unica voce che doveva rispecchiare, ovvero quella del direttore e dei suoi collaboratori, che erano gli unici legittimati a difendere un’idea, una corrente di opinione, un interesse qualsiasi, perché lo facevano apertamente ed in modo dichiarato. <740 Per raggiungere la separazione auspicabile tra direzione e proprietà, Luigi Einaudi si richiamava alla tradizione del giornalismo d’opinione del primo Novecento e proponeva di reintrodurre le formule societarie allora in uso, quando la figura dominante era quella del direttore, che era anche gerente a tempo fisso e socio della società in accomandita proprietaria del giornale, nella quale il capitalista puro rimaneva in ombra, ridotto a svolgere il ruolo di controllo sulle finanze, il solo di sua competenza: “Bisogna ridar il giornale a chi unicamente ha il diritto di amministrarlo e di redigerlo - scriveva - al direttore, che sia un uomo e ne sia nuovamente l’assoluto padrone. E bisogna togliere ai gruppi proprietari che non siano esclusivamente giornalistici ogni possibilità di influenzare l’indirizzo politico ed economico del giornale. Qui è il Delenda Carthago del giornalismo italiano di oggi. […] Il problema sta tutto nella scelta del direttore e nelle garanzie della sua assoluta indipendenza. […] Parrebbe urgente che i proprietari privati attuali di grandi giornali italiani si persuadessero della necessità e dell’assoluta convenienza di ricostituire l’antica direzione delle cose […per cui] la nomina di un direttore contrattualmente indipendente non basta. Il direttore deve essere anche il gerente fornito di tutti i poteri che dal codice sono riconosciuti all’unico socio accomandatario di una società in accomandita semplice. Chi amministra e paga, comanda. Il gruppo proprietario conserverebbe l’amministrazione del giornale [e per ulteriore garanzia] dovrebbe sottoporre saltuariamente il nome del gerente al gradimento di un numero limitato di persone autorevoli […] queste persone non avrebbero alcun diritto di nomina, ma dovrebbero a maggioranza dare il proprio gradimento sul direttore-gerente scelto dai proprietari” <741.
Su posizioni diametralmente opposte si trovava Gaetano Baldacci, un medico messinese, collaboratore a Milano di diverse riviste ed aderente al Partito d’azione, che sotto lo pseudonimo di Sicanus aveva pubblicato sulle colonne di “Lo Stato Moderno”, rivista diretta da Mario Paggi, una dura requisitoria contro le proprietà dei mezzi di informazione. Baldacci sosteneva che il quotidiano era un’impresa troppo complessa per non essere a rischio di ricadere nelle mani apparentemente indifferenti, ma in realtà interessate ad influire sulla politica, dei capitalisti, perciò riteneva fosse necessario l’esproprio dei grandi complessi editoriali e, per evitare ogni futuro controllo sulla stampa, auspicava che gli impianti si statalizzassero e le pubblicazioni fossero sottoposte ad una rigida legislazione, che ammettesse la sola pubblicazione dei giornali di opinione, ovvero dei giornali di partito, il cui intento politico era sempre esplicito: “Editori e tipografi - scriveva - dopo aver allattato abbondantemente al capace mammellone della Cultura Popolare, in questo momento stanno dandosi d’attorno a Roma per procacciarsi “l’onere” di editare gli organi magni della democrazia popolare. Nessuno crediamo ci cascherà: ad ogni modo il conto non si chiudono a Roma, ma a Milano, a Torino, a Genova. Se non vi fossero sufficienti motivi morali per defenestrare una volta per sempre tutta questa brava gente, ve ne sono tanti altri di una così viva e pregnante attualità da non ammettere equivoci. I partiti di sinistra lottano contro l’appropriazione capitalistica delle posizioni-chiave che controllano la vita del Paese: è il primo passo della rivoluzione che questa volta non dovrà sfuggirci di mano. Di queste posizioni-chiave, tra le più ambite ci sono le aziende giornalistiche. I rimedi che ci si offrono contro [l’usurpazione della stampa da parte dei clan tecnico–finanziari] solo la statizzazione ed una legislazione drastica. […] Si dovrà restituire il giornale al carattere di schietta politicità che dovrebbe essergli propria. Ne deriva, come primo provvedimento da prendere, sia quello che eviti ad uno solo dei quotidiani italiani di sfuggire al controllo dei partiti che controllano ormai tutta l’intera opinione pubblica italiana. […] non c’è scelta: bisognerà espropriare i grandi complessi tipografici per ridistribuirli ai partiti congiunti del C.l.n.” <742
Come si accennava, emergono evidenti in questo intervento il forte sdegno per gli accadimenti del recente passato e la volontà di risolvere il nodo dell’informazione in chiave statalista, all’interno di una diversa economia, ristrutturata dalle fondamenta. Si volevano spazzare via le vecchie testate per rinnovare completamente il giornalismo italiano agendo sotto la spinta rivoluzionaria nata dal dramma del presente. Per scongiurare una simile impostazione, nel numero successivo della rivista, intervenne Mario Borsa, con un articolo in cui, pur difendendo i giornali di informazione, non si sottraeva dal proporre soluzioni alternative per un controllo più democratico delle testate. Egli riteneva che non si potessero pubblicare solo giornali di partito, perché concedere la pubblicazione ai soli organi politici riconosciuti avrebbe voluto dire escludere ogni altro orientamento dalla possibilità di esprimersi, vale a dire agire secondo un principio esclusivista ed illiberale: “Perché soltanto i socialisti, i democristiani, i liberali ecc?” - si chiedeva - ammettendo solo i giornali di opinione si sarebbe ricaduti in una concezione totalitaria.
Sgombrato quindi il campo da tale possibilità, Borsa introduceva i motivi a favore dei giornali di informazione: “il grande numero di cittadini che possono simpatizzare con le idee di queste o quel partito, ma non sono iscritti ad alcuno, volendo pensare con la propria testa, dove avrebbero dovuto rivolgersi?”. I casi di grandi testate europee mostravano che in un regime di libertà era possibile l’esistenza di giornali indipendenti, di fogli di riferimento per la gran massa dei lettori non orientati. Quindi, una volta postulata l’ineliminabilità dei giornali di informazione perché “libertà è o non è: non bisogna[va] averne paura”, passava ad analizzare i problemi che secondo lui ponevano i fogli sì fatti, che si riducevano a tre: la direzione, la proprietà e la testata: "Mantenerlo dunque in vita come organo di informazione; ma qui sorgono tre questioni della direzione e della redazione, della proprietà e della testata. La prima questione ci sembra di facile soluzione. Direzione e redazione dovrebbero essere immediatamente epurate, prima ancora che entrino in vigore in Alta Italia i decreti governativi già emanati sulla materia. L’epurazione naturalmente dovrebbe essere radicale, attuata cioè non solo in conformità della procedura e dei criteri indicati già dal C.l.n. Alta Italia per tutte le aziende in generale, ma con particolare riguardo al carattere che riveste, sotto l’aspetto politico e morale, una grande azienda editoriale. Il giornale dovrebbe essere affidato a uomini di sicura e provata fede antifascista, non imposti s’intende da alcun partito, ma capaci di combattere lealmente con essi la grande battaglia che ci attende all’indomani della liberazione. […] Per la questione della proprietà si possono proporre varie soluzioni in tema di regolamento particolare di regime sulla stampa: forme cooperative, investimenti finanziari da parte di enti morali, obbligatorietà di frazionamento del capitale e controllo del trasferimento delle azioni ecc.; ma sembra a noi che la vera soluzione del problema dell’affrancamento della stampa dalle influenze capitalistiche debba automaticamente scaturire, più che da speciali regolamenti, dalla vasta riforma politica e sociale che, nel regime democratico di domani, renderà impossibile al capitalismo ogni ingerenza corruttrice nella vita politica ed economica del Paese e quindi di far servire un grande organo di stampa ad interessi particolari. Resta la questione della testata che a noi sembra questione di lana caprina". <743
Ponendosi nella posizione interlocutoria di chi, pur avendo una concezione profondamente liberale della stampa <744 riconosceva le esigenze di un drastico mutamento ed aveva fiducia che questo potesse realizzarsi concretamente, Borsa, nel suo usuale atteggiamento razionale, molto distante dalla polemica irruente di Baldacci - da cui lo dividevano peraltro anche molti anni di differenza - affermava di approvare tanto l’opportunità di operare una vasta epurazione, quanto la necessità di affrancare la stampa dalle influenze capitalistiche, per cui proponeva soluzioni normative utili ad un futuro inquadramento legislativo delle proprietà dei mezzi di informazione; dichiarava però di non poter accettare le proposta di affidare la pubblicazione dei quotidiani ai soli partiti, perché riteneva fondamentalmente illiberale un simile principio. I giornali di informazione avevano ragione di esistere proprio perché rivolti alla generalità di lettori che non riconoscendosi in un partito volevano trovare chiarificazioni nei fogli non schierati. Aggiungeva anzi, che non solo i giornali di informazione dovevano a suo avviso essere mantenuti, ma potevano essere, in un momento di difficile cambiamento qual’era quello vissuto dall’Italia, uno strumento utile al servizio della causa del rinnovamento. Il Corriere della Sera andava dunque tenuto in vita di modo che tutti gli Italiani disorientati potessero rivolgersi ad un grande giornale indipendente per trovare una guida sicura, che per i primi tempi poteva essere utile all’antifascismo: "[un giornale sì fatto] potrebbe essere un impareggiabile strumento di bene per la causa di quella vera libertà che sta ugualmente a cuore a tutti quanti. […] Questione reale e di capitale importanza potrà essere per l’antifascismo il trovarsi lì pronto, al momento della Liberazione (quando cioè sarà inevitabile il disorientamento sociale, civile e morale) un giornale già piantato e così saldamente piantato, il quale ritrovata la sua popolarità e sfruttando la popolarità della sua testata potrà farne giungere subito la parola in mezzo a quel pubblico straordinariamente largo e curiosamente eterogeneo qual è sempre stato il pubblico del Corriere" <745.
La polemica tra Borsa e Baldacci si chiudeva sostanzialmente su posizioni inalterate riflettenti le visioni di un giornalista la cui professione di fede era chiaramente liberal-democratica e quella di un giovane ispirato da istanze massimaliste e rivoluzionarie. <746
[NOTE]
737 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. X La seconda guerra mondiale, il crollo del fascismo e la Resistenza, Milano, Feltrinelli 1986, p.133.
738 Proprio la vita di Borsa da modo di vedere come l’Italia e Milano fossero passate nell’arco di un cinquantennio ad avere come principale giornale di informazione il Secolo a fine ottocento, Il Corriere ad inizio Novecento ed ancora il Corriere sotto il fascismo, quando sebbene ispirato dall’alto, rimaneva il miglior prodotto editoriale su piazza, dato che l’unica alternativa era “Il Popolo d’Italia”.
739 Il dibattito è stato affrontato soprattutto in Angelo Del Boca, Giornali in crisi: indagine sulla stampa quotidiana in Italia e nel mondo, Torino, Aeda, 1968, pp.45 sgg e Paolo Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra, cit., pp.55
sgg.
740 Corsivo dell’autore.
741 Il Saggio, pubblicato anonimo a Roma nella Collana clandestina del Movimento liberale italiano (28 settembre 1943) è apparso edito col titolo Giornali e giornalisti, Firenze, Sansoni, 1974. In particolar si veda il paragrafo III Il problema della stampa quotidiana, pp.15-29.
742 Sicanus, (Gaetano Baldacci), Stampa e democrazia, in «Lo Stato Moderno» a.1 n.2, agosto 1944, pp.12-16. Per gli indici della rivista: Elena Savino, Lo Stato Moderno 1944-1949, Milano, Franco Angeli, 2005. Su Gaetano Baldacci si veda Luciano Simonelli, Dieci giornalisti ed un editore, Milano, Simonelli, 1997, pp.13-41. Il libro che contiene brevi biografie di giornalisti protagonisti del Novecento, oltre alla figura di Baldacci presenta le vicende biografiche di Luigi Barzini, Mario Missiroli, Filippo Sacchi ed altri. Baldacci era assistente del Professor Cesa Bianchi all’Istituto della clinica medica della Regia Università di Milano, ma aveva un netta vocazione per il giornalismo ereditata dal padre, corrispondente del Giornale d’Italia. Dalla prima esperienza per un grande quotidiano avuta la notte del 25 aprile 1945 con Borsa, sarebbe passato tra varie testate fino ad arrivare alla fondare nel 1956 “Il Giorno”, foglio ricordato per la fattura originale ed innovativa. Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, cit., pp.192 sgg. 743 Un gruppo di giornalisti antifascisti, (Mario Borsa), Il problema della stampa. Una difesa dei giornali d’informazione, in «Lo Stato Moderno» II, 3-4, 1-16 febbraio 1945, pp.31/37.
744 È interessante notare come nel ’47 Borsa si richiami in una articolo proprio alle soluzioni avanzate da Einaudi scrivendo: “Tre anni fa, nella grande rivista americana del Foreig Affairs Luigi Einaudi scriveva: «Il direttore dovrebbe essere il solo responsabile della politica economomica e finanziaria di un giornale, una volta nominato egli non dovrebbe essere licenziato, né subire restrizioni di sorta, senza il benestare di un apposito comitato […] composto da uomini eminenti, da tutti rispettati, col compito e col diritto di dare o meno la sua approvazione alla nomina dei direttori, come pure al trapasso di azioni, assicurando così l’indipendenza del giornale». Non dovrebbe esser difficile adottare in Italia qualcosa di simile per i grandi organi. È un’idea, perché non provare?”. Mario Borsa, Del nostro giornalismo, in «Lo Stato Moderno» a.5, n.10-11, 20 maggio-15 giugno 1948, pp.242-244.
745 Un gruppo di giornalisti antifascisti, (Borsa Mario), Il problema della stampa. Una difesa dei giornali d’informazione, cit.
746 Ci saranno altri scambi tra i due nella rivista che tuttavia, non cambieranno sostanzialmente i termini entro cui si erano rispettivamente attestati. Baldacci rispose chiarendo che non intendeva sostenere che non dovessero più esistere giornali che non fossero di partito ed ammettendo di essersi lasciato andare alla formulazione di rimedi estremi: “lo ammetto. Ma al fondo di questa intransigenza di questa ricerca spietata che può sfociare e sfocia talvolta in conclusioni… autolesionistiche, c’è una forte passione morale […] si riteneva opportuno nel quadro di una eventuale riforma istituzionale contemplante il riconoscimento giuridico dei partiti che, almeno nella prima fase del riassetto ai partiti fosse affidata in modo esclusivo la possibilità di pubblicare giornali quotidiani”. Sicanus (Gaetano Baldacci), La stampa e la responsabilità dei partiti, in «Lo Stato Moderno» a.1 n.2 agosto 1944. La polemica termina qui. Borsa sarà chiamato a scrivere di nuovo sul “Lo Stato Moderno” per commentare la situazione della stampa nel ‘48 occasione i cui lamenterà il decadimento sensazionalistico della stampa per la perpetua ricerca dell’effetto a scapito della dignità e della serietà dei giornalisti. In pratica si opporrà nuovamente alla “moda gialla messa in circolazione da americani ed inglesi” rinnovando le stesse critiche mosse alla stampa gialla londinese ai tempi della sua permanenza in Inghilterra, vale a dire l’eccesso di commercialismo e la mancanza di responsabilità professionale di alcuni giornali. Mario Borsa, Del nostro giornalismo, cit.
Alessandra De Nicola, Mario Borsa: biografia di un giornalista, Tesi di dottorato, Università degli studi della Tuscia - Viterbo, 2012
Intrecciandosi strettamente non solo con le tematiche della libertà di espressione, ma anche con la visione sul futuro assetto economico da dare al Paese, le discussioni sulla stampa, a Milano, furono molto vive e sentite. L’oggetto principale dei confronti fu inevitabilmente il Corriere della Sera, considerato più che il maggiore giornale d’Italia, come un punto di riferimento per definizione di una città da sempre “monogiornalistica” <738. Per quanto la tradizione ne esaltasse il prestigio, la storia recente lo rendeva l’esempio tangibile del collaborazionismo con i nazisti, nonché un caso emblematico del coagulo di potere politico-finanziario, che aveva sostenuto il Regime fin dalla sua affermazione: il Corriere insomma, data la sua storia, e a maggior ragione rispetto a quella, era preso a simbolo dell’adesione al fascismo di molti intellettuali e dell’asservimento dei grandi imprenditori coinvolti nel sistema di potere del governo mussoliniano. Pertanto la sua proprietà e la sua direzione furono oggetto di grande animosità, non priva di risentimento, in un momento in cui la voglia di riscatto Nazionale si univa ad un senso di rivalsa verso quanti apparivano responsabili per la dittatura e soprattutto per la guerra.
Nella stampa clandestina si erano avuti molti dibattiti riguardo la proprietà delle grandi aziende tipografiche considerate gli snodi principali per la ricostruzione dell’assetto della futura stampa libera. Uno dei più illustri personaggi che presero parte alla discussione - con un significativo articolo poco ricordato dalla storiografia <739 - fu Luigi Einaudi. Il futuro Presidente della Repubblica, analizzando la recente storia italiana, prendeva atto delle debolezze della stampa, evidenziatesi gravemente nel ’14 e nel ’22, e le imputava alle indebite ingerenze dei proprietari sulle testate. Il problema si era posto - a suo parere - da quando i giornali italiani erano entrati in possesso di privati, titolari anche di altre imprese industriali, i quali, avendo appunto grandi interessi economici (cotonieri, zuccherieri, idroelettrici ecc) da difendere, avevano imposto la loro linea sulle scelte editoriali affinché le testate che detenevano sostenessero posizioni utili ai propri fini particolaristici, non coincidenti con l’interesse generale, e talvolta con questo apertamente contrastanti. Nasceva da questa circostanza il pericolo che l’opinione del giornale fosse distolta dall’unica voce che doveva rispecchiare, ovvero quella del direttore e dei suoi collaboratori, che erano gli unici legittimati a difendere un’idea, una corrente di opinione, un interesse qualsiasi, perché lo facevano apertamente ed in modo dichiarato. <740 Per raggiungere la separazione auspicabile tra direzione e proprietà, Luigi Einaudi si richiamava alla tradizione del giornalismo d’opinione del primo Novecento e proponeva di reintrodurre le formule societarie allora in uso, quando la figura dominante era quella del direttore, che era anche gerente a tempo fisso e socio della società in accomandita proprietaria del giornale, nella quale il capitalista puro rimaneva in ombra, ridotto a svolgere il ruolo di controllo sulle finanze, il solo di sua competenza: “Bisogna ridar il giornale a chi unicamente ha il diritto di amministrarlo e di redigerlo - scriveva - al direttore, che sia un uomo e ne sia nuovamente l’assoluto padrone. E bisogna togliere ai gruppi proprietari che non siano esclusivamente giornalistici ogni possibilità di influenzare l’indirizzo politico ed economico del giornale. Qui è il Delenda Carthago del giornalismo italiano di oggi. […] Il problema sta tutto nella scelta del direttore e nelle garanzie della sua assoluta indipendenza. […] Parrebbe urgente che i proprietari privati attuali di grandi giornali italiani si persuadessero della necessità e dell’assoluta convenienza di ricostituire l’antica direzione delle cose […per cui] la nomina di un direttore contrattualmente indipendente non basta. Il direttore deve essere anche il gerente fornito di tutti i poteri che dal codice sono riconosciuti all’unico socio accomandatario di una società in accomandita semplice. Chi amministra e paga, comanda. Il gruppo proprietario conserverebbe l’amministrazione del giornale [e per ulteriore garanzia] dovrebbe sottoporre saltuariamente il nome del gerente al gradimento di un numero limitato di persone autorevoli […] queste persone non avrebbero alcun diritto di nomina, ma dovrebbero a maggioranza dare il proprio gradimento sul direttore-gerente scelto dai proprietari” <741.
Su posizioni diametralmente opposte si trovava Gaetano Baldacci, un medico messinese, collaboratore a Milano di diverse riviste ed aderente al Partito d’azione, che sotto lo pseudonimo di Sicanus aveva pubblicato sulle colonne di “Lo Stato Moderno”, rivista diretta da Mario Paggi, una dura requisitoria contro le proprietà dei mezzi di informazione. Baldacci sosteneva che il quotidiano era un’impresa troppo complessa per non essere a rischio di ricadere nelle mani apparentemente indifferenti, ma in realtà interessate ad influire sulla politica, dei capitalisti, perciò riteneva fosse necessario l’esproprio dei grandi complessi editoriali e, per evitare ogni futuro controllo sulla stampa, auspicava che gli impianti si statalizzassero e le pubblicazioni fossero sottoposte ad una rigida legislazione, che ammettesse la sola pubblicazione dei giornali di opinione, ovvero dei giornali di partito, il cui intento politico era sempre esplicito: “Editori e tipografi - scriveva - dopo aver allattato abbondantemente al capace mammellone della Cultura Popolare, in questo momento stanno dandosi d’attorno a Roma per procacciarsi “l’onere” di editare gli organi magni della democrazia popolare. Nessuno crediamo ci cascherà: ad ogni modo il conto non si chiudono a Roma, ma a Milano, a Torino, a Genova. Se non vi fossero sufficienti motivi morali per defenestrare una volta per sempre tutta questa brava gente, ve ne sono tanti altri di una così viva e pregnante attualità da non ammettere equivoci. I partiti di sinistra lottano contro l’appropriazione capitalistica delle posizioni-chiave che controllano la vita del Paese: è il primo passo della rivoluzione che questa volta non dovrà sfuggirci di mano. Di queste posizioni-chiave, tra le più ambite ci sono le aziende giornalistiche. I rimedi che ci si offrono contro [l’usurpazione della stampa da parte dei clan tecnico–finanziari] solo la statizzazione ed una legislazione drastica. […] Si dovrà restituire il giornale al carattere di schietta politicità che dovrebbe essergli propria. Ne deriva, come primo provvedimento da prendere, sia quello che eviti ad uno solo dei quotidiani italiani di sfuggire al controllo dei partiti che controllano ormai tutta l’intera opinione pubblica italiana. […] non c’è scelta: bisognerà espropriare i grandi complessi tipografici per ridistribuirli ai partiti congiunti del C.l.n.” <742
Come si accennava, emergono evidenti in questo intervento il forte sdegno per gli accadimenti del recente passato e la volontà di risolvere il nodo dell’informazione in chiave statalista, all’interno di una diversa economia, ristrutturata dalle fondamenta. Si volevano spazzare via le vecchie testate per rinnovare completamente il giornalismo italiano agendo sotto la spinta rivoluzionaria nata dal dramma del presente. Per scongiurare una simile impostazione, nel numero successivo della rivista, intervenne Mario Borsa, con un articolo in cui, pur difendendo i giornali di informazione, non si sottraeva dal proporre soluzioni alternative per un controllo più democratico delle testate. Egli riteneva che non si potessero pubblicare solo giornali di partito, perché concedere la pubblicazione ai soli organi politici riconosciuti avrebbe voluto dire escludere ogni altro orientamento dalla possibilità di esprimersi, vale a dire agire secondo un principio esclusivista ed illiberale: “Perché soltanto i socialisti, i democristiani, i liberali ecc?” - si chiedeva - ammettendo solo i giornali di opinione si sarebbe ricaduti in una concezione totalitaria.
Sgombrato quindi il campo da tale possibilità, Borsa introduceva i motivi a favore dei giornali di informazione: “il grande numero di cittadini che possono simpatizzare con le idee di queste o quel partito, ma non sono iscritti ad alcuno, volendo pensare con la propria testa, dove avrebbero dovuto rivolgersi?”. I casi di grandi testate europee mostravano che in un regime di libertà era possibile l’esistenza di giornali indipendenti, di fogli di riferimento per la gran massa dei lettori non orientati. Quindi, una volta postulata l’ineliminabilità dei giornali di informazione perché “libertà è o non è: non bisogna[va] averne paura”, passava ad analizzare i problemi che secondo lui ponevano i fogli sì fatti, che si riducevano a tre: la direzione, la proprietà e la testata: "Mantenerlo dunque in vita come organo di informazione; ma qui sorgono tre questioni della direzione e della redazione, della proprietà e della testata. La prima questione ci sembra di facile soluzione. Direzione e redazione dovrebbero essere immediatamente epurate, prima ancora che entrino in vigore in Alta Italia i decreti governativi già emanati sulla materia. L’epurazione naturalmente dovrebbe essere radicale, attuata cioè non solo in conformità della procedura e dei criteri indicati già dal C.l.n. Alta Italia per tutte le aziende in generale, ma con particolare riguardo al carattere che riveste, sotto l’aspetto politico e morale, una grande azienda editoriale. Il giornale dovrebbe essere affidato a uomini di sicura e provata fede antifascista, non imposti s’intende da alcun partito, ma capaci di combattere lealmente con essi la grande battaglia che ci attende all’indomani della liberazione. […] Per la questione della proprietà si possono proporre varie soluzioni in tema di regolamento particolare di regime sulla stampa: forme cooperative, investimenti finanziari da parte di enti morali, obbligatorietà di frazionamento del capitale e controllo del trasferimento delle azioni ecc.; ma sembra a noi che la vera soluzione del problema dell’affrancamento della stampa dalle influenze capitalistiche debba automaticamente scaturire, più che da speciali regolamenti, dalla vasta riforma politica e sociale che, nel regime democratico di domani, renderà impossibile al capitalismo ogni ingerenza corruttrice nella vita politica ed economica del Paese e quindi di far servire un grande organo di stampa ad interessi particolari. Resta la questione della testata che a noi sembra questione di lana caprina". <743
Ponendosi nella posizione interlocutoria di chi, pur avendo una concezione profondamente liberale della stampa <744 riconosceva le esigenze di un drastico mutamento ed aveva fiducia che questo potesse realizzarsi concretamente, Borsa, nel suo usuale atteggiamento razionale, molto distante dalla polemica irruente di Baldacci - da cui lo dividevano peraltro anche molti anni di differenza - affermava di approvare tanto l’opportunità di operare una vasta epurazione, quanto la necessità di affrancare la stampa dalle influenze capitalistiche, per cui proponeva soluzioni normative utili ad un futuro inquadramento legislativo delle proprietà dei mezzi di informazione; dichiarava però di non poter accettare le proposta di affidare la pubblicazione dei quotidiani ai soli partiti, perché riteneva fondamentalmente illiberale un simile principio. I giornali di informazione avevano ragione di esistere proprio perché rivolti alla generalità di lettori che non riconoscendosi in un partito volevano trovare chiarificazioni nei fogli non schierati. Aggiungeva anzi, che non solo i giornali di informazione dovevano a suo avviso essere mantenuti, ma potevano essere, in un momento di difficile cambiamento qual’era quello vissuto dall’Italia, uno strumento utile al servizio della causa del rinnovamento. Il Corriere della Sera andava dunque tenuto in vita di modo che tutti gli Italiani disorientati potessero rivolgersi ad un grande giornale indipendente per trovare una guida sicura, che per i primi tempi poteva essere utile all’antifascismo: "[un giornale sì fatto] potrebbe essere un impareggiabile strumento di bene per la causa di quella vera libertà che sta ugualmente a cuore a tutti quanti. […] Questione reale e di capitale importanza potrà essere per l’antifascismo il trovarsi lì pronto, al momento della Liberazione (quando cioè sarà inevitabile il disorientamento sociale, civile e morale) un giornale già piantato e così saldamente piantato, il quale ritrovata la sua popolarità e sfruttando la popolarità della sua testata potrà farne giungere subito la parola in mezzo a quel pubblico straordinariamente largo e curiosamente eterogeneo qual è sempre stato il pubblico del Corriere" <745.
La polemica tra Borsa e Baldacci si chiudeva sostanzialmente su posizioni inalterate riflettenti le visioni di un giornalista la cui professione di fede era chiaramente liberal-democratica e quella di un giovane ispirato da istanze massimaliste e rivoluzionarie. <746
[NOTE]
737 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. X La seconda guerra mondiale, il crollo del fascismo e la Resistenza, Milano, Feltrinelli 1986, p.133.
738 Proprio la vita di Borsa da modo di vedere come l’Italia e Milano fossero passate nell’arco di un cinquantennio ad avere come principale giornale di informazione il Secolo a fine ottocento, Il Corriere ad inizio Novecento ed ancora il Corriere sotto il fascismo, quando sebbene ispirato dall’alto, rimaneva il miglior prodotto editoriale su piazza, dato che l’unica alternativa era “Il Popolo d’Italia”.
739 Il dibattito è stato affrontato soprattutto in Angelo Del Boca, Giornali in crisi: indagine sulla stampa quotidiana in Italia e nel mondo, Torino, Aeda, 1968, pp.45 sgg e Paolo Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra, cit., pp.55
sgg.
740 Corsivo dell’autore.
741 Il Saggio, pubblicato anonimo a Roma nella Collana clandestina del Movimento liberale italiano (28 settembre 1943) è apparso edito col titolo Giornali e giornalisti, Firenze, Sansoni, 1974. In particolar si veda il paragrafo III Il problema della stampa quotidiana, pp.15-29.
742 Sicanus, (Gaetano Baldacci), Stampa e democrazia, in «Lo Stato Moderno» a.1 n.2, agosto 1944, pp.12-16. Per gli indici della rivista: Elena Savino, Lo Stato Moderno 1944-1949, Milano, Franco Angeli, 2005. Su Gaetano Baldacci si veda Luciano Simonelli, Dieci giornalisti ed un editore, Milano, Simonelli, 1997, pp.13-41. Il libro che contiene brevi biografie di giornalisti protagonisti del Novecento, oltre alla figura di Baldacci presenta le vicende biografiche di Luigi Barzini, Mario Missiroli, Filippo Sacchi ed altri. Baldacci era assistente del Professor Cesa Bianchi all’Istituto della clinica medica della Regia Università di Milano, ma aveva un netta vocazione per il giornalismo ereditata dal padre, corrispondente del Giornale d’Italia. Dalla prima esperienza per un grande quotidiano avuta la notte del 25 aprile 1945 con Borsa, sarebbe passato tra varie testate fino ad arrivare alla fondare nel 1956 “Il Giorno”, foglio ricordato per la fattura originale ed innovativa. Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, cit., pp.192 sgg. 743 Un gruppo di giornalisti antifascisti, (Mario Borsa), Il problema della stampa. Una difesa dei giornali d’informazione, in «Lo Stato Moderno» II, 3-4, 1-16 febbraio 1945, pp.31/37.
744 È interessante notare come nel ’47 Borsa si richiami in una articolo proprio alle soluzioni avanzate da Einaudi scrivendo: “Tre anni fa, nella grande rivista americana del Foreig Affairs Luigi Einaudi scriveva: «Il direttore dovrebbe essere il solo responsabile della politica economomica e finanziaria di un giornale, una volta nominato egli non dovrebbe essere licenziato, né subire restrizioni di sorta, senza il benestare di un apposito comitato […] composto da uomini eminenti, da tutti rispettati, col compito e col diritto di dare o meno la sua approvazione alla nomina dei direttori, come pure al trapasso di azioni, assicurando così l’indipendenza del giornale». Non dovrebbe esser difficile adottare in Italia qualcosa di simile per i grandi organi. È un’idea, perché non provare?”. Mario Borsa, Del nostro giornalismo, in «Lo Stato Moderno» a.5, n.10-11, 20 maggio-15 giugno 1948, pp.242-244.
745 Un gruppo di giornalisti antifascisti, (Borsa Mario), Il problema della stampa. Una difesa dei giornali d’informazione, cit.
746 Ci saranno altri scambi tra i due nella rivista che tuttavia, non cambieranno sostanzialmente i termini entro cui si erano rispettivamente attestati. Baldacci rispose chiarendo che non intendeva sostenere che non dovessero più esistere giornali che non fossero di partito ed ammettendo di essersi lasciato andare alla formulazione di rimedi estremi: “lo ammetto. Ma al fondo di questa intransigenza di questa ricerca spietata che può sfociare e sfocia talvolta in conclusioni… autolesionistiche, c’è una forte passione morale […] si riteneva opportuno nel quadro di una eventuale riforma istituzionale contemplante il riconoscimento giuridico dei partiti che, almeno nella prima fase del riassetto ai partiti fosse affidata in modo esclusivo la possibilità di pubblicare giornali quotidiani”. Sicanus (Gaetano Baldacci), La stampa e la responsabilità dei partiti, in «Lo Stato Moderno» a.1 n.2 agosto 1944. La polemica termina qui. Borsa sarà chiamato a scrivere di nuovo sul “Lo Stato Moderno” per commentare la situazione della stampa nel ‘48 occasione i cui lamenterà il decadimento sensazionalistico della stampa per la perpetua ricerca dell’effetto a scapito della dignità e della serietà dei giornalisti. In pratica si opporrà nuovamente alla “moda gialla messa in circolazione da americani ed inglesi” rinnovando le stesse critiche mosse alla stampa gialla londinese ai tempi della sua permanenza in Inghilterra, vale a dire l’eccesso di commercialismo e la mancanza di responsabilità professionale di alcuni giornali. Mario Borsa, Del nostro giornalismo, cit.
Alessandra De Nicola, Mario Borsa: biografia di un giornalista, Tesi di dottorato, Università degli studi della Tuscia - Viterbo, 2012