Powered By Blogger

giovedì 31 marzo 2022

Ma il ’56 si configura anche come momento di riflessione nel rapporto tra partito comunista e classe operaia


Ma in quegli anni - e cioè dalla metà alla fine dei Cinquanta, Rossanda si occupa principalmente - almeno in sede di politica culturale - di arte e teatro <206. E anche in questi ambiti segnalerà il “disgelo” che attraversa tutti i momenti culturali, come il dibattito sulla XXVIII Biennale d’arte <207, ospitato alla Casa della cultura di Milano, e in cui ad essere messo in accorta discussione è il caposaldo teorico-artistico del realismo (una posizione che attraverserà tutta la riflessione critica di Rossanda nel decennio successivo). Da Testori a De Micheli fino a Guttuso, con diverse intonazioni e accorgimenti, tutti hanno «preferito mettere l’accento sul processo positivo di “disgelo” che sta smuovendo tutte le posizioni irrigidite del dopoguerra. La cristallizzazione di ogni schema si va spezzando» <208.
Riguardo alle politiche dello spettacolo, Rossanda insiste, da un lato, verso il maggiore finanziamento statale, in particolare verso gli enti lirici; dall’altro, verso un loro più sostanziale decentramento, slegando la direzione di questi dalla centralizzazione statuale in funzione di una loro più effettiva autonomia. Si segnalano in tal senso gli articoli "Sottogoverno", e "Teatro lirico". Occorre restituire agli Enti autonomia di gestione e vincolare i sovvenzionamenti, pubblicati sui numeri 5 e 7 del «Contemporaneo» 1957. Di fronte a progetti di legge che rafforzano l’accentramento della direzione degli Enti, nonché l’affido senza vincoli dei sovvenzionamenti agli uffici direttivi dello Stato, per Rossanda «l’impostazione va rovesciata: occorre restituire agli Enti autonomia di gestione, ma vincolare rigidamente per legge entità e criteri di sovvenzionamento» <209. Entità e criteri delegati al «controllo democratico che è proprio soltanto di quelle istanze decentrate del potere statale che sono i Comuni. La soluzione “autonomistica” significa non “diminuzione”, ma aumento e pubblicità del controllo» <210.
Una posizione che stimolerà uno scambio di vedute con Roberto Scultetus, che in una serie di botta e risposta scriverà: «Chiuda i trattati, la Rossanda, e vada in giro per l’Italia […] e si renderà conto delle reali condizioni delle autonomie e capirà le preoccupazioni per l’autonomia degli Enti lirici» <211. La posta in gioco in riferimento alla più vasta tematica di politica culturale riguardava l’autonomia degli istituti di cultura. Per la Rossanda bisognava spingere verso una progressiva autonomizzazione degli enti culturali, mentre Scultetus metteva in guardia rispetto al ridimensionamento del finanziamento pubblico che - se avrebbe lasciato maggiore margine di scelta verso gli enti culturali, ne avrebbe però imposto una logica di autofinanziamento, minando le possibilità di produzione a basso costo o lontane dai principali centri urbani:
"Quanto agli italiani e alla musica, vogliamo lasciarli ancorati a quel gusto popolare del melodramma, di cui parlava Gramsci […] o vogliamo avviarli verso maggiori esigenze culturali […]? Nel primo caso basteranno le opere del più comune repertorio eseguite alla buona; nel secondo sorge invece quel grosso problema di educazione musicale nazionale, […] problema per cui un’opera di cultura ha oggi, da noi, in Italia, un pubblico recalcitrante; e a risolvere il quale non possono provvedere soltanto e troppo semplicemente gli Enti lirici. [...] È evidente come, per questa e per altre ragioni, il rapporto obbligato fra sovvenzioni e entrate dirette degli Enti appaia, da un punto di vista nazionale, quanto mai astratto e improprio" <212.
La risposta di Rossanda non si farà attendere, chiarendo l’obiettivo di fondo del progetto di legge pensato in Commissione culturale Pci: «occorre sottrarre il sovvenzionamento per il teatro al giudizio d’una commissione centralizzata, comunque formata essa sia, perché in questo caso esso diventa mezzo di direzione, di manovra o di ricatto governativo» <213. Il progetto comunista esposto da Rossanda puntava dunque a stabilire un vincolo percentuale tra sovvenzionamento e entrate dirette degli Enti, di modo che il primo fosse in proporzione alla capacità dei singoli Enti di autofinanziarsi in quota parte, attraverso l’approvazione del pubblico che, per mezzo del pagamento del biglietto d’ingresso, indicasse apprezzamento o meno della attività culturale del singolo teatro. Il vincolo sovvenzione-entrate dirette «è perciò uno dei pilastri del sistema che libera i Teatri dall’ingerenza dell’esecutivo» <214. Se, dunque, da parte di Scultetus si ricorda il contingente arretramento culturale della popolazione italiana, che favorirebbe un teatro “di massa” dai gusti necessariamente grossolani, per Rossanda il Teatro dovrebbe avere già direttamente una funzione pedagogica, di innalzamento complessivo delle capacità culturali della popolazione, che premierebbe quei teatri in grado di stabilire con il proprio pubblico un rapporto virtuoso, e quindi sostenibile anche finanziariamente.
Ritorna anche in questa polemica uno dei nodi di fondo dell’azione culturale del partito, tendente ad utilizzare l’apparto intellettuale gravitante attorno al partito in funzione, per l’appunto, pedagogica. Azione dai risultati ambivalenti: una funzione prevalentemente educativa - pure fondamentale - se non ben organizzata rischiava di limitare gli spazi della ricerca e dell’espressività artistica, come infatti lamentava una parte almeno degli intellettuali legati al Pci. Nondimeno, la posizione di Rossanda, e più in generale del Pci, trova comprensione nella battaglia comunista contro la censura democristiana, ancora invadente alla fine degli anni Cinquanta.
L’obiettivo era dunque sottrarre la produzione culturale - teatrale in questo caso - ad un centro ministeriale, che insieme alle possibilità di sovvenzionamento portava con sé un potere di controllo sovente sfociato nella repressione dei contenuti equivoci per la morale democristiana.
La questione del rapporto tra arte e politica ritorna nelle valutazioni date da Rossanda all’undicesima mostra d’arte Triennale di Milano <215. La critica verte sul cosmopolitismo artistico e sul suo uso maldestro:
"Della sua importanza negativa fanno fede oggi le esposizioni spagnole, rumene, jugoslave: tutte puntualmente basate sulla monotona trascrizione in termini di “internazionalismo” d’un paio di elementi di folclore, e per il resto su una produzione che riecheggia con maggiore o minore verosimiglianza certi generici canoni funzionali" <216.
La conclusione a cui giunge è il ritorno ad uno «studio permanente», che coincida con «il ritorno, o l’inizio?, d’una critica storicista, come non può non essere una estetica o una Kulturgeschichte marxista». Si ritorna dunque a battere il tasto dello storicismo, o del mancato storicismo, quale carenza centrale nelle difficoltà di un’estetica veramente conseguente alle necessità della politica e dell’acculturazione di massa. Ma c’è anche l’avvio, o per meglio dire la ripresa, di una critica alla cultura dei paesi socialisti che si riflette sull’idea di cultura propria del Pci. Anche in questi passaggi, per forza di cose ancora parziali e legati a occasioni particolari (la mostra d’arte, la recensione teatrale eccetera), si legge in controluce la sofferenza di una cultura eccessivamente piegata alle ragioni della politica, inevitabilmente resa prona alle contingenze tattiche, riducendosi a giustificarle.
L’elaborazione di un’alternativa praticabile avrà modo di svilupparsi in seguito, e sempre in forme parziali e forse contorte, ma il cuore della critica di Rossanda è già esplicito: la cultura socialista raramente presenta un valore culturale, limitandosi all’artificioso innesto di elementi ideologici su canoni artistici tradizionali. Questa mera sovrapposizione insterilisce il canone e impedisce la ricerca di linguaggi alternativi, ma per comprenderlo occorre, per Rossanda, “storicizzare se stessi” e i fenomeni culturali.
2.2 Cultura e classe operaia
Ma il ’56 si configura anche come momento di riflessione nel rapporto tra partito e classe operaia. Non solo la grave sconfitta della Fiom alle elezioni delle Commissioni interne della Fiat nel marzo 1955, ma anche le vicissitudini legate alle proteste popolari in Ungheria e Polonia contribuirono ad intaccare il rapporto di fiducia tra operai e Pci (un “distacco” comunque esagerato dal senno del poi, numericamente irrilevante <217).
Non ultimo, la questione intellettuale investiva frontalmente anche il rapporto tra cultura e classe operaia, problematica che Rossanda contribuì a decifrare in una sua analisi del dicembre ’57 <218. Le vicende ungheresi aprirono effettivamente una contraddizione nel rapporto di fabbrica:
"Andò in fabbrica per sospendere il lavoro in segno di lutto, secondo la decisione dei sindacati. Ma gli accadde qualcosa di mai visto. Al momento giusto, fu il padrone a far suonare la sirena: a mandare i direttori, le guardie nei reparti per invitare gli operai a uscire; il padrone che gli diceva “vieni fuori”, e gridava “viva l’Ungheria”. L’operaio si guardò in giro, e restò alla macchina. Non sappiamo pensare ad un’immagine storicamente più drammatica, del militante socialista che allora si rimise al lavoro - restituito dalla gazzarra padronale al suo posto di classe - il solo che, in un mondo uscito dai cardini, riportasse lo equilibrio di una coscienza storica reale, ed in questa una solidarietà più aspra e più profonda verso chi si batteva per il socialismo e la libertà" <219.
Di fronte alle delusioni provocate dagli avvenimenti in questione, troppo facilmente si giunse a concludere - secondo Rossanda - che il rapporto tra classe e partito si fosse interrotto, o quantomeno rovinato. Eppure, pochi mesi più tardi riprendevano le lotte, gli scioperi, una conflittualità inaspettata che rimetteva in movimento l’azione sindacale e politica del partito. Il “risveglio operaio” lasciava interdetti non solo “i padroni”: anche l’intellettualità comunista dimostrò di non cogliere in pieno una disponibilità alla lotta e alla militanza che non erano state offuscate dalla pur dura crisi successiva agli eventi di Budapest. E d’altronde, per Rossanda, «l’opacità della realtà operaia è […] una condizione pressoché permanente della nostra cultura» <220. Una opacità che per un verso è responsabilità del ceto intellettuale del paese; per un altro verso, da una «certa impermeabilità» della classe operaia stessa, dovuta a una fabbrica isolata dal resto della città e della società, e dove l’operaio in fabbrica «vive inserito in una società obiettivamente diversa dal resto della società civile, dalla quale è separato» <221. L’operaio fuori la fabbrica non si fonde, ma si “confonde” in un generico tessuto misto della società urbana, o rifluisce in quella campagna dalla quale proviene, rafforzando quella separatezza che si traduce in impermeabilità:
"Forse in questo è una ragione obiettiva della povertà della nostra letteratura di soggetto proletario. In realtà l’operaio vi entra solo quando è, dalla fabbrica, proiettato in una più ampia rete di rapporti sociali: come è avvenuto, ad esempio, nella Resistenza, che a suo modo ci dette Vittorini [o anche] Metello di Pratolini" <222.
In tempi più recenti, venuta meno la mitologia resistenziale, calato nelle dure condizioni di lavoro e di vita quotidiane, non rimane - per Rossanda - che una «descrittiva» della condizione operaia, nella quale o si smarrisce la classe, o si smarrisce la persona. Una difficoltà intellettuale che si traduce in crisi culturale complessiva, che relega la questione operaia ad altro da sé rispetto alle più riuscite prove artistiche, e che denota un limite della cultura nazionale, marxista e non. A mancare per Rossanda è la politica, l’operaio che si presenta immediatamente come militante, ed è per questo che «la sola letteratura operaia è quella della rivoluzione; il solo cinema operaio, quello sovietico dal ’20 al ’30. Il solo nostro documento di cultura operaia, o certo il più grande, l’Ordine Nuovo» <223.
Il discorso si fa dunque generale, e investe tutta la produzione scientifica nazionale d’ambito sociologico: cosa manca dunque a questa produzione saggistica per «cogliere le caratteristiche storiche del proletariato»? Manca, ad avviso di Rossanda, «uno schema interpretativo, generale, coerentemente rivoluzionario» <224. Al posto di una cultura “rivoluzionaria” si è imposta una cultura “integratrice”, che mira cioè ad integrare la classe operaia in “questo” Stato e in “questa” società. Per Rossanda è dunque la subalternità di tale cultura a rappresentare un deficit di comprensione, e che impedisce la saldatura tra fabbrica, società e cultura nazionale, lasciando di fatto separati i tre ambiti. C’è bisogno dunque, per la dirigente comunista, di una cultura organica, e la sua disorganicità segna viceversa il suo limite, la sua arretratezza.
[NOTE]
206 Riferiamo, per il solo periodo in esame, gli articoli pubblicati sul «Contemporaneo» aventi per oggetto rappresentazioni teatrali e rassegne d’arte: Baseggio e il Piccolo, n. 2, 1956; Il teatro epico. Per la regia de l’Opera da tre soldi al Piccolo, Strehler ha studiato la tecnica interpretativa del Berliner Ensemble, n. 5, 1956; La vita musicale, n. 8, 1956; Due atti unici di Ionesco, n. 32, 1956; Marivaux e Molière, n. 41, 1956; Disgelo e disordine, n. 42, 1956; Sottogoverno, n. 5, 1957; Teatro lirico. Occorre restituire agli enti autonomia di gestione e vincolare i sovvenzionamenti, n. 7, 1957; Teatro. L’ultima stanza, n. 9, 1957; I giacobini al “Piccolo Teatro”, Serie 2 n. 1 (maggio 1957); Maggiore età del Piccolo Teatro, n. 2, 1957; Il figlio cambiato, n. 4, 1957; Strehler alla Scala, n. 7, 1957; L’undicesima triennale di Milano. I nodi che vengono al pettine, n. 13, 1957; Un “nucleo” per la Triennale del ’60, n. 24, 1957; Una luna per i bastardi, n. 26, 1957; Goldoni senza lumi, n. 1, 1958.
207 R. Rossanda, Disgelo e disordine, «Contemporaneo», n. 42, 27 ottobre 1956, p. 11.
208 Ibid.
209 R. Rossanda, Teatro lirico. Occorre restituire agli Enti autonomia di gestione e vincolare i sovvenzionamenti, «Contemporaneo» n. 7, 16 febbraio 1957, p. 10.
210 Ibid.
211 “Lettera al direttore” di Roberto Scultetus in risposta a Rossana Rossanda, «Contemporaneo», n. 13, 31 marzo 1957, p. 4.
212 Ibid.
213 “Lettera al direttore” di Rossana Rossanda in risposta a Roberto Scultetus, «Contemporaneo», n. 15, 13 aprile 1957, p. 4.
214 Ibid.
215 R. Rossanda, L’undicesima Triennale di Milano. I nodi che vengono al pettine, «Contemporaneo», n. 13, 10 agosto 1957, p. 3.
216 Ibid.
217 Cfr. sul punto Ceses - R. Mieli (a cura di), Il Pci allo specchio. Venticinque anni di storia del comunismo italiano, Rizzoli, Milano 1983, pp. 7-173, soprattutto le tabelle in appendice pp. 152 ss.
218 R. Rossanda, Cultura e classe operaia, «Contemporaneo», n. 29, 7 dicembre 1957, pp. 1-2.
219 Ivi, p. 1.
220 Ibid.
221 Ibid.
222 Ibid.
223 Ivi, p. 2.
224 Ibid.
Alessandro Barile, Apogeo e crisi della politica culturale comunista. Rossana Rossanda e la Sezione culturale del Pci (1962-1965), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, 2022