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sabato 30 luglio 2022

Alla lunga, in certe zone del Bergamasco, tutti avevano un parente o un amico che aveva fatto una rapina


È appunto con la definizione di batteria che si descrive «la forma amicale-organizzativa tipica dei rapinatori degli anni Settanta» (Quadrelli 2003a, p. 9), impegnati prevalentemente nelle rapine ai danni di istituti bancari e nei sequestri di persona a scopo di estorsione. Anche nel caso bergamasco, appunto, la batteria - solidificata attorno a legami di compaesanità, amicali o parentali <39 - è l’unità fondante della struttura organizzativa della malavita: il racconto degli ex membri permette di configurare le batterie come formazioni snelle, composte da un numero ridotto ma stabile di elementi (4-5 persone in media), la cui rete però si espande attraverso un moltiplicatore organizzativo rappresentato dalle relazioni obbligate che si innescano nella fase di pianificazione e di espletamento delle attività criminali <40. Sotto il profilo organizzativo, va sottolineato come le rapine in banca presentino una “morfologia” propedeutica al successivo ingresso nei più redditizi sequestri di persona a scopo di estorsione: in entrambe le attività criminali, sono individuabili le fasi del sopralluogo, il contatto con i “basisti” e il procacciamento di informazioni, il procacciamento di armi, veicoli e luoghi per la fuga e la conseguente latitanza/custodia dell’ostaggio, il riciclaggio dei proventi illeciti; l’unica fase aggiuntiva, nei rapimenti, è quella della trattativa con i familiari dell’ostaggio.
Oltre alla rete amicale-parentale-territoriale, un bacino di reclutamento importante è il carcere, luogo di socializzazione criminale secondaria. All’interno dell’istituzione totale, i malavitosi di più alto lignaggio individuano nuovi possibili affiliati, soprattutto tra i più giovani detenuti; è in questo luogo che si assiste a un rito di affiliazione <41 esperito: potranno essere cooptati nelle batterie quei giovani carcerati che rifiutano ogni collaborazione con forze dell’ordine e magistratura, quei giovani che tra le mura carcerarie dimostrano una condotta conforme al codice culturale della malavita <42. Nel racconto dei protagonisti, il carcere appare così criminogeno (cfr. anche Ghelardini 2017, p. 29).
Caratterizzata da una orizzontalità sia intra-gruppo che inter-gruppo <43, la malavita bergamasca assume una fattezza unitaria attraverso il mutuo riconoscimento nella galassia di batterie <44. Il collante è rappresentato in particolare dal senso di appartenenza alla propria terra d’origine <45 e dall’adesione a uno stesso codice culturale, con norme e valori enucleati - come tipicamente accade nelle organizzazioni criminali <46 - attorno al concetto di solidarietà (cfr. anche Quadrelli 2003a), anche attraverso meccanismi di mutua assistenza, come una cassa comune <47 in cui confluisce una parte dei proventi delle rapine, i quali vengono redistribuiti anche tra i membri della batteria in carcere (cfr. Tribunale di Bergamo 1986, p. 157) al fine di saldare i legami di gruppo ed evitare la defezione. Rispetto al codice culturale, il racconto dei protagonisti criminali rimarca la centralità dell’omertà (cfr. Facchinetti 2015), la regola aurea di ogni organizzazione criminale. Introiettato profondamente come strumento di controllo degli stessi affiliati <48; il codice culturale dell’organizzazione è poi integrato da un apparato di sanzioni sociali informali finalizzate all’ostracizzazione e all’esclusione dei malavitosi “devianti” rispetto alle condotte stabilite <49.
L’insieme orizzontale delle batterie è integrato da un meccanismo informale di coordinamento tra di esse <50; a gestirlo, una serie di figure di “notabilato malavitoso”, capaci di assicurare il rispetto delle competenze territoriali, la salvaguardia dei codici di comportamento, la pacifica convivenza dei singoli gruppi.
Nella società
Nel quindicennio di attività, la malavita bergamasca risulta fortemente inserita nel tessuto sociale locale, in particolare in specifiche aree della val Seriana e della val Cavallina. Innanzitutto, è necessario rilevare come il fenomeno della malavita bergamasca abbia un impatto rilevante sulla società locale <51; pur impossibile da quantificare <52, il numero delle batterie attive e dei componenti delle batterie risulta significativo. Il già citato moltiplicatore organizzativo, espandendo le reti delle singole batterie, porta a costruire ampie reti di soggetti legati al mondo della malavita; la limitata dimensione dei comuni “roccaforte” delle batterie, dunque, crea in quelle comunità una apprezzabile densità criminale.
Il rapporto che si crea, ricostruito attraverso le interviste a testimoni privilegiati, assume i contorni di una diffusa connivenza, generata non da paura ma da tolleranza. Meritevole di citazione è la testimonianza di un magistrato in servizio presso il tribunale di Bergamo negli anni di maggiore attività della malavita locale:
"Non si sono mai registrati episodi di violenza gratuita, non ricordo di persone ad esempio travolte dalla fuga dei rapinatori o uccise senza motivo: erano “scèc de paìs” [ragazzi di paese] che avevano una loro professione, i rapinatori di banche, la rapina era un dato professionale. Credo fossero stati abbastanza coperti dal tessuto sociale loro circostante: questo non perché i banditi lo imponessero con la forza, con “metodo mafioso”, ma perché essi non smettevano di essere gente del paese: alla lunga, in certe zone del Bergamasco, tutti avevano un parente o un amico che aveva fatto una rapina" (intervista a magistrato “stagione malavita”, 28 gennaio 2016).
L’analisi del magistrato restituisce un quadro simile a quello fornito da chi in quegli anni si poneva sul piano illegale:
"Noi rapinatori di quegli anni non eravamo visti così male come può essere visto ad esempio un rapinatore oggi. Questo soprattutto perché si rubava nelle banche, e non certo nelle case, nelle ville; se si andava a fare gli uffici postali, non era certo per rubare la pensione alla vecchietta. Un colpo in banca faceva male solo alla banca o all’assicurazione; facevi un danno solo a quelli a cui rubavi la macchina per la fuga. Gli unici a essere visti male erano quelli che colpivano le gioiellerie, gli orefici, ma erano in pochi a farlo da noi. Non c’era violenza gratuita, si sparava magari in aria per intimidire" (intervista a ex malavitoso della val Seriana 1, 30 gennaio 2016).
Un fattore decisivo, dunque, è determinato dalla tipologia del business illegale prevalente e dalle vittime di questo reato. La rapina ai danni di istituti bancari, infatti, ribalta la tradizionale asimmetria del crimine organizzato (cfr. Ruggiero 2003, p. 42), o meglio ancora il tradizionale processo di costruzione dell’asimmetria del crimine: nelle estorsioni mafiose, per esempio, il criminale (soggetto agente) si pone come l’affiliato di un potente clan che taglieggia il piccolo commerciante; nelle rapine in banca, viceversa, il rapinatore appare come un singolo (o un gruppo di pochi singoli) che “attacca” la ramificazione di un potere economico, cioè la filiale di un gruppo bancario. Un’osservazione secondaria ma non per questo superflua è rappresentata dal fatto che i soldi rubati durante le rapine in banca sono appunto “di proprietà” della banca (che eventualmente stipula apposite polizze assicurative) e non più - una volta depositati - del privato cittadino; nell’estorsione, l’imprenditore è invece costretto a trasferire al malvivente delle proprie risorse, aziendali o personali.
Dunque, nel tessuto sociale di insediamento della malavita bergamasca sorge un rapporto tollerante, talvolta di condivisione, che si sostanza in omertà, silenzi, difficoltosa collaborazione con le forze dell’ordine, talvolta sostegno attivo per favorire le latitanze dei criminali.
Esaurimento
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta si assiste all’esaurimento di questo fenomeno criminale. La fine dell’esperienza si determina per fattori endogeni e fattori esogeni.
I fattori endogeni richiamano in particolare un contrasto culturale interno all’organizzazione. Dalla fine degli anni Settanta, il traffico di droga assume traiettorie globali gestite con ruoli crescenti dalle mafie italiane (Lupo 2004, pp. 285-90). L’ampiezza del mercato diventa tale da coinvolgere nella filiera, a livelli più bassi, anche organizzazioni criminali non mafiose capaci di operare su scala locale; anche la malavita bergamasca, con un gap temporale di alcuni anni (dovuto all’integrazione di altre organizzazioni nella filiera del narcotraffico e alla più lenta maturazione di una domanda bergamasca di consumo di droga <53), dall’inizio degli anni Ottanta si trova di conseguenza ad affrontare la possibilità di inserirsi nella filiera. Si apre così una frattura interna alla malavita bergamasca che vede posizioni contrapposte, argomentate da motivazioni culturali, circa l’ingresso nel nuovo business.
Spiega un ex rapinatore:
"La droga ha cambiato tutto. Tante persone si son buttate dietro alla droga, sia a usarla che a trafficarla. Sul farne uso, molti tendevano però a non farlo sapere, perché non era ben vista come cosa. Chi si è buttato sulla droga è perché vedeva tanto guadagno, ma da lì si sono persi tanti valori. In principio la droga era vista come il contrabbando, come il traffico di sigarette, un semplice commercio, qualcosa un gradino sotto rispetto alla concezione che si ha avuto in seguito. Poi, però, si son visti i veri guadagni…" (intervista a ex malavitoso della val Seriana, 30 gennaio 2016 <54
Non è infrequente che al proprio interno le organizzazioni criminale aprano dibattiti circa la “moralità” di un nuovo reato. Così era avvenuto per esempio nella ’ndrangheta con i sequestri di persona <55, mentre appare maggiormente una costruzione lo scontro interno a Cosa nostra circa l’ingresso nel traffico di droga <56: la contrarietà a un ruolo attivo nel narcotraffico, lungi dall’avere una motivazione morale, è una tesi che alcune cosche hanno avanzato più per prudenza criminale, cioè per sfuggire alla repressione crescente da parte delle forze dell’ordine su un fenomeno - il narcotraffico e il conseguente consumo di droga - dall’elevatissimo impatto sociale; le ingenti possibilità di guadagno rappresentate dal mercato della droga hanno prevalso su qualsiasi resistenza di carattere morale o prudenziale.
Sicuramente significativi sono due fattori endogeni. Il primo riguarda i risultati che forze di polizia e magistratura ottengono sul fronte della repressione a partire dalla metà degli anni Ottanta, anche grazie all’introduzione di un approccio sempre più scientifico nelle indagini: si susseguono dunque in maniera sempre più numerosa arresti <57, processi e condanne significative <58, che sgretolano quantitativamente (l’alto numero di arrestati e condannati) e soprattutto qualitativamente (in carcere entrano anche le figure più carismatiche e dotate di maggiore capitale sociale criminale) le batterie <59. Non si assiste a un turnover criminale: la mancanza di un ricambio generazionale evidenzia un fattore di debolezza strutturale nella malavita locale. Il codice culturale della malavita è perciò da considerarsi fragile o parziale, giacché non comprende una funzione latente (Parsons 1962) finalizzata alla trasmissione e alla riproduzione del modello criminale sul medio-lungo periodo. Preme poi sottolineare come la capacità imprenditorial-criminale della malavita bergamasca sia poco evoluta: pur di fronte a introiti considerevoli <60, il reinvestimento nell’economia legale appare di mera sussistenza, cioè indirizzato ad attività come ristoranti (Facchinetti 2015) o bar; senza progettualità di reimpiego, il denaro viene “bruciato” nell’adeguarsi a una visione iper-consumistica della vita (Quadrelli 2003a, p. 24).
Tra i fattori endogeni, un altro si enuclea attorno alle tecnologie sempre più raffinate di cui si dotano gli istituti bancari. Gli apparati di sicurezza delle filiali si sviluppano in maniera considerevole, tanto negli spazi pubblici dei locali (telecamere esterne oltre che nell’area in cui i clienti attendono il proprio turno; porte temporizzate all’ingresso; vetri divisori blindati a tutela del dipendente) che negli spazi inaccessibili al pubblico (casseforti con blindature più efficienti e dotate di meccanismi di temporizzazione automatizzata non controllabile dal bancario); oltre a ciò, la circolazione del denaro contante si riduce sempre più, abbattendo i ricavi che i rapinatori possono ottenere (Kaltwasser 2003).
Terzo fattore endogeno, infine, è rappresentato dalle implementazioni normative che riguardano il reato complementare alla rapina in banca, cioè il sequestro di persona a scopo di estorsione, in cui anche la malavita bergamasca è attiva: dal 1991, la norma fissa una prassi ormai consolidata a livello investigativo, cioè il “congelamento” dei beni dei familiari del sequestrato <61. “Congelando” le disponibilità economiche delle persone legate al sequestrato, per i sequestratori è molto più difficile incassare il riscatto, dunque il rapimento a scopo di estorsione, che presenta costi di organizzazione considerevoli (cfr. dalla Chiesa e Panzarasa 2012), diventa un reato antieconomico.
[NOTE]
40 Nel dettaglio. Ciascuna batteria instaura una interlocuzione prolungata con i “basisti” (cioè coloro che forniscono informazioni, spesso dall’interno, sugli obiettivi delle azioni delittuose), i criminali di piccolo cabotaggio specializzati nel furto e nel “riciclaggio” dei veicoli necessari per rapine e sequestri, i fornitori di armi, i falsari specializzati nella fabbricazione e vendita di documenti contraffatti, i soggetti che forniscono appartamenti sicuri per le latitanze (cfr. Tribunale di Bergamo 1986); dal nucleo di 4-5 elementi malavitosi operativi, dunque, si estende un network che può comprendere almeno il doppio delle persone. Dalla Chiesa e Panzarasa (2012, pp. 93-100), analizzando i sequestri di persona a scopo di estorsione praticati dalle organizzazioni mafiose nel Nord Italia, tratteggiano un «modello a stella» per descrivere come da una singola “cellula” di ’ndranghetisti si sviluppi poi un più ampio reticolo di interlocuzioni, collaborazioni e alleanze temporali.
41 Sulla centralità dei riti di iniziazione nelle organizzazioni mafiose, si vedano per esempio Ciconte (2015) e Catino (2019).
42 «Il carcere è una “palestra”: se ti comporti “bene”, secondo i criteri dei “bravi ragazzi”, poi sarai tenuto in considerazione» (intervista a ex malavitoso della val Cavallina 1, 24 ottobre 2015). «Il primo arresto era già una prova, un test d’ingresso a cui ti sottoponeva la polizia: passavi due o tre giorni di fuoco dove cercavano di farti cantare. Se cantavi, avevi dei benefici in fatto di pena e venivi escluso per sempre dal giro della malavita. Se non cantavi, venivi accettato dai vecchi “coattoni” della mala, che ti spigavano le regole. Si veniva selezionati da giovani: la prima prova era appunto la resistenza nei confronti di quelle vere e proprie torture che subivi in carcere» (intervista a ex malavitoso della Bassa bergamasca, 4 dicembre 2015).
43 Si prenda la testimonianza di Emiliano Facchinetti: «Più in generale, comunque, nelle batterie non c’era quello che comandava, c’era solo quello che proponeva. C’era quello più “adulto” e responsabile, più esperto, e gli altri membri gli si accodavano. Non c’era il classico capo come nella malavita mafiosa. Non c’era gerarchia nella mala bergamasca. Il leader si prendeva poi le responsabilità maggiori, ci metteva la faccia, era quello che entrava per primo e usciva per ultimo, e quindi subentrava il rispetto degli altri, se lo guadagnava sul campo. Ma non c’era la volontà di essere il capo, la figura nasceva da sola, dalle gesta che venivano raccontate ed esaltate nei ritrovi dei rapinatori» (intervista a Emiliano Facchinetti, fratello del rapinatore Pierluigi, 24 ottobre 2015).
44 Originale e stimolante è il parallelo tracciato da Quadrelli (2003b, p. 91): «Il modello organizzativo [delle batterie] ricorda quello dei Germani, possono avere un capo militare ma non politico. Le decisioni sono prese collettivamente e solo un rigido legame di fratellanza consente di decidere e impegnarsi anche per un altro».
45 Importante sottolineare, inoltre, che «le batterie considerano i loro quartieri come territorio amico» (Quadrelli 2003a, p. 32). Dimensione rilevante è anche l’utilizzo di uno specifico gergo comune, in cui alcune particolari espressioni rimangono sedimentate per decenni, se non per tutta la vita. Per gergo si «designano genericamente le lingue speciali parlate da specifici gruppi sociali, che non intendono farsi comprendere da altri. […] L’intento primario resta quello di sottrarsi al controllo altrui, stabilendo un tipo di comunicazione decifrabile soltanto da chi ne possegga il codice, e ponendosi così al di fuori della norma sociale» (Ferrero 1972, p. 11).
46 Il valore della solidarietà, specie nella criminalità organizzata mafiosa, appare tuttavia una costruzione: «Le configurazioni romantiche, imperniate sulle formule della mutua assistenza e della fraternità, su certi valori di civiltà, sui principi del rispetto umano, della solidarietà di fronte a un comune pericolo di sopraffazione o d’ingiustizia, dell’unione fraterna che di per se stessa crea condizioni particolarmente efficienti di tutela e di sicurezza; le configurazioni che sono state delineate con eloquenza e abilità argomentativa dai difensori, sono nettamente respinte e smentite dalla realtà» (cit. in Gratteri e Nicaso 2018, p. 245).
47 Tipica anche nelle organizzazioni mafiose, cfr. Gratteri e Nicaso (2010, p. 328), Varese (2011, p. XV).
48 Il riferimento è al campo della sociologia dell’organizzazione e in particolare a Kunda (1992).
49 «Erano regole dure, senza eccezioni. La precisione era fondamentale: per dirne una, non era ammesso presentarsi in ritardo agli appuntamenti. Avere relazioni con le donne di altri membri della malavita era assolutamente proibito, specie se gli altri erano in carcere: era una infamità grave. Rinnegavamo la prostituzione. Le rapine erano ammesse solo nei confronti di banche, uffici postali e grossi stabilimenti: non colpivamo i commercianti o i negozianti. […] Nelle batterie ci potevano essere discussioni interne alla luce dei risultati del lavoro: se non lo fai bene, vieni escluso» (intervista a ex mafioso della val Seriana 2, 4 dicembre 2015). «Le regole erano ferree. Si partiva dalle donne: non dovevi metterle al corrente delle tue azioni. Chi faceva intendere a estranei i propri “lavori”, veniva isolato dal gruppo. […] Quelli che per inaffidabilità venivano esclusi da una batteria, poi formavano altre batterie composte da esclusi dal giro. Se sbagli anche solo una volta, sei irrecuperabile.» (intervista a ex malavitoso della Bassa bergamasca, 4 dicembre 2015).
50 Nelle mafie tradizionali a strutturazione più verticale, sono presenti livelli metaorganizzativi e strutture di coordinamento, cfr. Catino (2019): ma su questo tema, così come sulla cultura come strumento di controllo, considerazioni più approfondite si proporranno nelle conclusioni, in sede di comparazione tra le tipizzazioni classiche degli studi sulle mafie e gli output della ricerca dei case studies.
51 L’analisi della stampa locale rivela un allarme sociale alto. Tra i tanti articoli: «Solo una quindicina di anni fa le rapine che in un anno venivano portate a termine su tutto il territorio della provincia non erano più di due o tre. Un dato incredibile, se lo si raffronta al bilancio dello scorso anno, quando le rapine sono state circa cento. La malavita è scatenata. I rapinatori non esitano a sparare e le loro fila sono di continuo alimentate da giovani leve, spesso da incensurati […] Di fronte al dilagare della delinquenza le forze dell’ordine hanno potenziato le misure di prevenzione e i controlli, mentre si è fatto più tempestivo l’intervento delle pattuglie non appena viene dato l’allarme» («L’Eco di Bergamo», 3 gennaio 1982).
52 Apprezzabile è la testimonianza in Facchinetti (2015, pp. 83-84): «Trescore e la Val Cavallina brulicavano all’epoca di giovani rapinatori. Si rapinava una posta la mattina per poi spendere il bottino la sera, in compagnia di belle ragazze che salivano orgogliose su macchine sportive. Le stesse che, qualche ora prima e con targhe diverse, erano magari servite per scappare da un posto di blocco. Si trattava di un fenomeno tipico degli anni Settanta, quasi una moda diffusa in tutta la valle, un pericolosissimo gioco che tanti non riuscivano a reggere fino in fondo. Erano tanti quei ragazzi, più di quanti si possa immaginare. E qualcuno ancora c’è, è vivo, non è finito in carcere e oggi lavora e ricopre anche cariche istituzionali».
53 Sulla diffusione della droga in Bergamasca, si veda Ferrari (1983).
54 Nel traffico di droga, dunque, non vi sarebbe quella componente culturale di sfida che invece è propria della rapina in banca e accomuna tutta la malavita settentrionale (Quadrelli 2003a, p. 273). Come afferma un altro ex rapinatore, infatti, «la rapina era il massimo, c’era il senso di sfida, il coraggio di metterci la faccia. Il resto è un gradino sotto» (intervista a ex malavitoso della Bassa bergamasca, 4 dicembre 2015).
55 «Il prolungamento dei sequestri e il clamore che v’era attorno ad essi provocarono una discussione e una divisione dentro le famiglie della ’ndrangheta. Alcuni capibastone non erano d’accordo e fecero conoscere il loro parere. Uomini di notevole prestigio come Antonio Macrì e Paolo De Stefano erano contrari. Il contrasto verteva attorno all’opportunità e all’utilità di sequestrare donne e bambini. Sono stati moti i bambini calabresi e non calabresi ad essere rapiti. Il timore era che ciò facesse venire meno il consenso, questione, come sappiamo, quanto mai cruciale per la sopravvivenza di una struttura mafiosa, di qualunque provenienza regionale essa fosse» (Ciconte 2011, p. 11).
56 In particolare per il caso della Cosa nostra americana, fondamentale è la ricostruzione di Lupo (2008, pp. 238-245).
57 L’analisi della stampa locale anche in questo caso è fondamentale. Il clamore delle “imprese” della malavita bergamasca assume tuttavia anche carattere nazionale: si veda per esempio «Corriere della Sera», 18 novembre 1984: Sgominata a Bergamo la cooperativa del crimine che aiutava i detenuti col bottino delle rapine. L’articolo dà conto di 34 persone in carcere per «assalti compiuti da banditi in Lombardia, nel Veneto e in Svizzera.
58 Sono diversi i malavitosi bergamaschi condannati all’ergastolo per omicidi commessi durante le rapine (tra gli ex malavitosi intervistati, due hanno riportato condanne all’ergastolo). Alcuni trascorrono periodi di carcerazione anche in penitenziari di massima sicurezza come Pianosa.
59 Va altresì segnalato l’importante numero di rapinatori morti in scontri a fuoco con la polizia. Tra questi, Pierluigi Facchinetti, di Trescore Balneario, capo di una delle batterie più importante della galassia malavitosa bergamasca. Si veda Facchinetti (2015).
60 Una ricostruzione emblematica è in Tribunale di Bergamo (1991). Tra 1985 e 1987, alla batteria di Pierluigi Facchinetti vengono contestate rapine in Svizzera per 5.179.872 franchi svizzeri, pari a 4.567.385 euro; rivalutando attraverso il portale Istat quella cifra dal 1987 al 2019, si arriva a un valore corrente di 10,4 milioni di euro; in Tribunale di Bergamo (1991) si segnala anche un sequestro di persona a scopo di estorsione messo in atto dalla batteria di Facchinetti in Olanda, dal valore di 1,4 milioni di fiorini olandesi dell’epoca, equivalenti a circa 735 mila euro.
61 Cfr. decreto legge del 15 gennaio 1991, n. 8, recante Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, in particolare all’art. 1.
Luca Bonzanni, Criminalità e comunità. Il caso delle valli bergamasche, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2018/2019